lunedì 13 dicembre 2021

Dewey e Niebuhr nella Grande Depressione. "Intelligenza e potere" di Giovanni Dessì


 

di Damiano Palano

Questa recensione è apparsa sul quotidiano "Avvenire".

Nel marzo 1932, mentre cominciava la campagna elettorale che avrebbe portato Franklin Delano Roosevelt alla Casa Bianca, la rivista «The World Tomorrow» affidò a Reinhold Niebuhr l’intervento di apertura di un dibattito sul futuro degli Stati Uniti. Dinanzi alla crisi sociale inaugurata dal crollo di Wall Street, il pastore protestante non era certo tenero nei confronti del sistema economico americano. La sua analisi, come scriveva esplicitamente, partiva dal presupposto che il capitalismo stesse per morire e dalla convinzione che quella fine fosse del tutto meritata. Niebuhr – allora sostenitore di un socialismo democratico – avrebbe in seguito modificato le sue opinioni su questo punto. Negli anni della Grande Depressione la sua posizione era invece decisamente severa. Più che delineare un modello sociale alternativo, Niebuhr si limitava però a rivolgere i propri strali polemici contro quella cultura liberale, che, a suo avviso, aveva dominato la scena intellettuale nei decenni precedenti e di cui riconosceva il principale alfiere in John Dewey. Qualche giorno dopo, il filosofo del pragmatismo e della democrazia non mancò di replicare alla critica. E quella discussione è ora al centro del libro di Giovanni Dessì, Intelligenza e potere. Dewey e Niebuhr di fronte alla Grande Crisi (Castelvecchi, pp. 146, euro 175.0), che propone anche un ritratto dei due studiosi, mostrando come le loro posizioni non fossero davvero così antitetiche. Ciò che Niebuhr rimproverava a Dewey era in fondo di sopravvalutare la capacità dell’educazione di influire sulla politica. Anche se i suoi riferimenti erano ben diversi da quelli di Machiavelli e Hobbes, anche Niebuhr si collocava infatti nella schiera dei «realisti politici» e rimproverava ai liberali sia di ignorare le dinamiche alla base del comportamento dei gruppi sociali sia di ritenere che l’educazione potesse consentire «la completa sublimazione degli impulsi sociali» propria di gruppi, classi e nazioni. Niebuhr dissentiva inoltre dalla convinzione che la crisi fosse dovuta al mancato utilizzo di un approccio scientifico all’economia e alla società. Ai suoi occhi, i conflitti sociali non potevano infatti essere risolti dalla chiarificazione delle forze in campo, così come i privilegi non potevano essere eliminati solo grazie alla discussione pubblica. Nel replicare, Dewey obiettò che l’immagine del liberalismo proposta da Niebuhr era estremamente vaga. E intravide, al fondo del ragionamento del proprio avversario polemico, una filosofia della storia che indeboliva il fronte di quanti ambivano a modificare gli assetti sociali. In seguito, il filosofo si confrontò comunque con le tesi di Niebuhr, riconoscendo come l’«intelligenza» fosse sempre influenzata dagli interessi, ma conservò la fiducia nelle potenzialità della scienza di migliorare la convivenza collettiva. A dispetto delle istanze che li avvicinavano, i due pensatori – che, in tempi diversi, incisero in profondità sul dibattito americano – vedevano però la società e la politica in modo davvero diverso. E dunque, come osserva Dessì, il loro non poteva che essere un incontro per gran parte mancato.

Damiano Palano

 

 

 

lunedì 8 novembre 2021

La sorveglianza totale nel post-orwelliano. Un libro di David Lyon


 

di Damiano Palano

 Questa recensione è apparsa sul quotidiano "Avvenire".

Quando pensiamo ai sistemi di sorveglianza che ormai circondano la nostra esistenza, quasi invariabilmente ci troviamo a evocare la sagoma del Grande fratello orwelliano. E tendiamo così ad accostare la nostra condizione a quella del povero Winston Smith, in fuga dalle spie del regime di Oceania e dallo sguardo onnipresente dei suoi apparati polizieschi. Nel suo nuovo libro La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori (Luiss University Press, pp. 229, euro 20.00), David Lyon – un’autentica autorità in materia – ci invita invece a cercare altrove e ad abbandonare le suggestioni di 1984. Il sistema di controlli in cui siamo collocati ricorda semmai una distopia contemporanea come quella allestita da Dave Eggers nel Cerchio. E la differenza è molto semplice. Nel regime orwelliano, la sorveglianza era messa in atto da un apparato mastodontico, che controllava sistematicamente le attività dei singoli. I reali regimi totalitari del Ventesimo secolo non si avvicinarono naturalmente a quel modello, ma la logica con cui operavano era la medesima, perché il controllo era esercitato ‘dall’alto’ verso il ‘basso’. L’immagine di uno «Stato di sorveglianza» oggi è invece inadeguata a cogliere la portata del fenomeno, anche se il «caso Snowden» ha portato alla luce la sorveglianza degli apparati di intelligence sulla vita dei singoli cittadini delle democrazie occidentali. La polizia e le agenzie di sicurezza traggono però oggi le loro informazioni da entità commerciali, e il mondo post-orwelliano è dunque segnato innanzitutto da una sorta di collusione tra apparati di sicurezza statali e corporation. L’esperienza che viviamo oggi è inoltre fondata sulla costante collaborazione dei sorvegliati: si tratta cioè di una sorveglianza generata dagli stessi utenti. La «cultura della sorveglianza», come la definisce Lyon, è comparsa perché sempre più individui ricorrono a strumenti di monitoraggio della vita degli altri. Ma, come ben sappiamo, sono proprio gli «altri» a mettere a disposizione informazioni relative alla loro vita (anche privata). In sostanza, ciò che Lyon punta a ricostruire non sono tanto le tecnologie con cui le vite individuali vengono monitorate, quanto la cultura che ha accompagnato il ricorso a queste tecnologie e che hanno dunque legittimato il ricorso a strumenti di sorveglianza che un tempo si sarebbero considerati inaccettabili. E indagando le trasformazioni intervenute nell’ultimo ventennio, Lyon proprio come la «cultura della sorveglianza» si sia alimentata – e continui ad alimentarsi – dell’ambizione di ridurre il rischio: un’ambizione che opera tanto a livello della macro-politica globale, quanto nella sfera della nostra quotidianità domestica. Ed è infatti proprio la necessità di tenere sotto controllo il rischio che induce a ricorrere ai self-tracking della salute, del reddito e della gestione del tempo. Ma la dipendenza da questi meccanismi di controllo non è affatto priva di enormi conseguenze sulla nostra privacy e sulla partecipazione democratica. E dovremmo quantomeno iniziare a esserne maggiormente consapevoli.

Damiano Palano

lunedì 25 ottobre 2021

La «società civile», limite del potere. Un libro di Flavio Felice sulla tradizione del "popolarismo liberale"



di Damiano Palano

Questa recensione è apparsa sul quotidiano "Avvenire"

Nell’ultimo anno le misure straordinarie adottate per fronteggiare la pandemia hanno indotto molti osservatori a chiedersi se stia avvenendo qualcosa di simile alla trasformazione che si produsse tra le due guerre mondiali. Naturalmente ciò che abbiamo davanti ha ben poco a che vedere con i totalitarismi novecenteschi. E dunque il paragone rischia di essere del tutto fuorviante. Ma senza dubbio nuove tensioni potrebbero incidere sul rapporto tra Stato e società, oltre che sulla stessa relazione tra libertà e autorità. Per decifrare le novità nelle modalità di esercizio del potere avremmo però bisogno di un diverso vocabolario teorico. Ed è anche con questo spirito che si può leggere il volume di Flavio Felice, Popolarismo liberale. Le parole e i concetti (Scholé-Morcelliana, pp. 157, euro 13.00), che torna a Luigi Sturzo – ma anche a Lord Acton, Wilhelm Röpke e Sergio Cotta – per mettere insieme una sorta di «cassetta degli attrezzi» con cui interpretare le sfide del tempo presente. Come scrive Felice nelle pagine introduttive, l’emergenza che stiamo vivendo non sta solo modificando le nostre abitudini. Con l’obiettivo di difendere energicamente la vita umana, viene infatti investita la sfera delle libertà. Ma a ben guardare non si tratta di una dinamica davvero nuova. «L’emergenza», osserva Felice, «non fa altro che accelerare o porre in evidenza processi già in atto da tempo, ponendoci di fronte al fatto che il potere è in grado di esercitare la sovranità sospendendo parti dell’ordinamento». E, dinanzi al disorientamento della società civile, sembra prendere corpo una sorta di «paternalismo liberale», che vede il sovrano presentare se stesso come il pastore in grado di guidare il popolo in nome del suo bene. Un paternalismo che sostituisce la responsabilità individuale con forme di orientamento dall’alto dei nostri stili di vita. E che in fondo materializza lo spettro evocato da Tocqueville, quando nella Democrazia in America ipotizzava che il crescente individualismo potesse spingere verso un nuovo tipo di dispotismo: «un potere immenso e tutelare» che si incarica di assicurare i beni dei cittadini e di vegliare sulla loro sorte.


È dinanzi a questo scenario che Felice torna al «popolarismo liberale» di Sturzo. Il punto chiave del ragionamento consiste soprattutto nel riconoscere le implicazioni della cesura introdotta dal cristianesimo nel rapporto tra libertà e politica. La frase di Gesù «Rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» implica infatti la desacralizzazione dell’autorità politica, ma anche l’affermazione dell’esistenza di vincoli cui l’autorità politica è sottoposta. «La personalità umana», scriveva Sturzo in un passaggio richiamato da Felice, «diveniva, in virtù di un riconoscimento religioso, il centro e il fine di ogni attività collettiva». E quel processo di desacralizzazione comportava così la sottomissione del potere politico al regno inviolabile della coscienza e il rispetto di ciascuna persona, in forza della sua dignità trascendente. Il «popolarismo liberale» trova inoltre nella società civile un concreto baluardo contro «le pretese onnivore delle autorità politiche» e contro le «mega organizzazioni economiche». In questo caso, la «società civile» deve essere però concepita – in linea non solo con contributo sturziano ma anche con l’«economia sociale di mercato» di Röpke – come l’insieme delle diverse forme del vivere sociale in cui si riflettono le esigenze della natura umana. Ed è in una simile accezione che la società civile può svolgere «il ruolo di baluardo critico contro le pretese onnivore di coloro che detengono momentaneamente il potere».

La riflessione di Sturzo era ovviamente anche il portato della lunga stagione che aveva visto nascere nuovi regimi dispotici e che aveva gettato il Vecchio continente nell’orrore della guerra e degli stermini di massa. Quella stagione è davvero lontana dal clima in cui viviamo, e ogni paragone tra le crisi di un secolo fa e quelle che stiamo vivendo sarebbe quantomeno improprio. Ciò nondimeno sarebbe davvero colpevole ritenere che le preoccupazioni del prete di Caltagirone e la sua riflessione sulle caratteristiche di una società «plurarchica» non abbiano più nulla da dirci. Anche se le insidie che ci attendono sono nuove, quegli strumenti rimangono davvero utili. E nei prossimi anni dovremo così ricorrere spesso a quella preziosa «cassetta degli attrezzi».

Damiano Palano

lunedì 11 ottobre 2021

Norberto Bobbio e la scienza del potere. Un corso degli anni Sessanta curato da Tommaso Greco



di Damiano Palano

Negli anni Sessanta Norberto Bobbio iniziò ad allontanarsi dalla teoria del diritto per avvicinarsi agli studi politici. In realtà anche in precedenza l’intellettuale torinese si era occupato di temi politici, per esempio curando opere di Hobbes e di Marx o intervenendo nella discussione pubblica. Ma alla fine degli anni Cinquanta si convinse che la stagione delle più nette contrapposizioni ideologiche fosse finita, e che dunque fosse possibile osservare la politica con maggior distacco. 

Iniziò così a confrontarsi con Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, i due pensatori che con più energia, a cavallo tra Otto e Novecento, avevano in Italia coltivato il progetto di uno studio scientifico dei fenomeni sociali e politici. Ma, per sostenere l’utilità della lezione di questi teorici, Bobbio doveva superare due ostacoli. Innanzitutto, si trovava alle prese con il compito di rendere presentabile la riflessione di pensatori tutt’altro che generosi nei confronti dell’ideale democratico. Nei Saggi sulla scienza politica in Italia, pubblicati nel 1969, sostenne così che l’esistenza delle élite – ‘scoperte’ da Mosca e Pareto – non era necessariamente incompatibile con la democrazia, anche se quest’ultima andava concepita come un assetto in cui esistono molte élite, le quali si controllano reciprocamente e si contendono il potere di governare all’interno di un perimetro di procedure. Il secondo ostacolo era invece rappresentato dalle obiezioni degli intellettuali storicisti e in particolare di Benedetto Croce, che aveva definito il Trattato di sociologia generale di Pareto come una mostruosità e che, in generale, aveva criticato (non senza fondamento) le ingenuità e le semplificazioni del positivismo di fine Ottocento. Più che alla lezione di Mosca e Pareto, Bobbio attinse in questo caso all’immagine della «scienza empirica della politica» che giungeva allora dagli Stati Uniti.

Una testimonianza di questi interessi è ora offerta dal volume di Bobbio, curato da Tommaso Greco, Il problema del potere. Introduzione al corso di scienza della politica (Giappichelli, pp. 98, euro 15.00), che riproduce un ciclo di lezioni tenute all’Università di Torino nel 1966. Il libro restituisce il corso nella sua struttura scheletrica, dal momento che si tratta di una trascrizione. Ma consente comunque di cogliere l’impostazione di fondo. Collocando il punto focale della scienza politica nello studio del potere, Bobbio si confrontava con classici come Machiavelli e Hobbes, ma anche con Max Weber, Carl Friedrich e Harold Lasswell. E giungeva anche a esaminare il rapporto tra potere e diritto, che ai suoi occhi rappresentavano le due facce di un medesimo fenomeno.

Rileggere il corso è però interessante anche per la divisione dei compiti tra filosofia politica e scienza politica che Bobbio delineava. Costruendo una «mappa» che negli anni a venire avrebbe ulteriormente precisato, individuava molte aree di intersezione tra i due campi. Ma, in ogni caso, riprendendo (criticamente) le proposte che giungevano dagli Stati Uniti, qualificava la scienza politica soprattutto come una scienza empirica, non prescrittiva e avalutativa. «Lo scienziato politico», si legge infatti nel corso, «deve proporsi il compimento della sua indagine ‘con la mente sgombra’: senza pregiudizi ideologici». Alcuni anni dopo, la contestazione studentesca mise radicalmente in discussione la pretesa delle scienze sociali di essere davvero prive di «pregiudizi ideologici». E lo stesso Bobbio riconobbe i rischi di una «politica scientifica», solo all’apparenza libera da condizionamenti ideologici. Ma non per questo rinunciò a difendere il principio dell’«avalutatività», che rimane in effetti un criterio ancora oggi cruciale, seppur tutt’altro che privo di implicazioni problematiche, per intendere correttamente lo studio «scientifico» dei fenomeni politici e sociali.

 Dalle scienze sociali ci si debbono attendere d’altronde – nel migliore dei casi – descrizioni efficaci e spiegazioni convincenti, in grado di contribuire alla discussione pubblica e alla formulazione delle decisioni. Ma sarebbe ingenuo (e forse pericoloso) sperare che possano fornire la soluzione dei problemi, o pretendere che, in nome di una conoscenza priva di ‘infiltrazioni ideologiche’, possano compiere quelle scelte politiche, talvolta persino tragiche, che richiedono non solo di fissare gli obiettivi da perseguire, o di decidere quale sia il «male minore».

 Damiano Palano

 

 


domenica 10 ottobre 2021

Il problema della democrazia sono gli elettori? "In difesa della democrazia" di Roslyn Fuller


di Damiano Palano

Questa recensione al volume  di Roslyn Fuller, In difesa della democrazia (Ariele, pp. 225, euro 18.00) è apparsa su  quotidiano "Avvenire".

Da ormai alcuni anni il disincanto nei confronti della democrazia ha iniziato a coinvolgere l’Occidente. Forse, come sostengono alcune ricerche, gli elettori si sentono meno legati che in passato ai valori democratici. Ma è dalle fila dell’élite intellettuale che si stanno levando voci davvero critiche. Emblematico di questa tendenza intellettuale è il pamphlet Contro la democrazia di Jason Brennan, ma in una direzione simile si sono mossi per esempio Bryan Caplan e Ilya Somin, che in modo diverso hanno sostenuto che gli elettori non sono affatto ‘razionali’. Contro questa letteratura si muove il libro di Roslyn Fuller, In difesa della democrazia (Ariele, pp. 225, euro 18.00), che, con passione militante, mostra le incongruenze e i limiti di alcuni degli ‘anti-democratici’ contemporanei. Imputare agli elettori le difficoltà odierne della democrazia, accusarli di essere ignoranti o di farsi sedurre dalle proposte di abili demagoghi, secondo Fuller, non è soltanto semplicistico, ma è anche scorretto. Simili argomentazioni si basano cioè su una distorsione del reale comportamento degli elettori. E le stesse ricerche che sostengono che i cittadini sono mediamente ignoranti in campo politico sarebbero in realtà inaffidabili, perché basate su domande nozionistiche, che non hanno nulla a che vedere con l’effettiva capacità delle persone di decidere su questioni politicamente rilevanti. 

Fuller non ha così grosse difficoltà a mettere in luce l’inconsistenza di alcuni ragionamenti intorno all’irrazionalità dell’elettore, che nascono in realtà da una revisione delle teorie economiche della democrazia (basate su una rappresentazione piuttosto irrealistica del comportamento di voto). Ma Fuller non si limita a una critica, perché propone un modello alternativo di democrazia, che prevede l’innesto robusto di strumenti di democrazia elettronica, la retribuzione della partecipazione alle assemblee, il ricorso al sorteggio per supervisionare i compiti esecutivi. L’attuazione di un simile modello appare naturalmente molto problematico. Ma non è solo la fiducia riposta nella democrazia diretta (seppur rivisitata) a destare più di qualche perplessità. Lo stato di salute delle democrazie occidentali non è infatti solo relativo a ‘chi’ prende le decisioni, ma dipende anche dall’ambiente esterno in cui una democrazia è collocata, dalle condizioni da cui essa trae le proprie risorse. E dunque dal contesto in cui maturano le scelte degli elettori. Dire che gli elettori non sono ‘irrazionali’, non significa dunque che – specie in momenti di crisi sociali ed economiche – non possano compiere scelte disastrose. La storia europea, sotto questo profilo, ci fornisce più di qualche ammonimento. Probabilmente non dovremmo guardare al futuro con eccessivo pessimismo, e il libro di Fuller da questo punto di vista rimane un ottimo antidoto contro previsioni eccessivamente negative. Ma non dovremmo trascurare i problemi e vincoli strutturali con cui le «tarde democrazie» si troveranno alle prese nei prossimi anni.

Damiano Palano

 

 

 

 

 

 

domenica 3 ottobre 2021

Charles Wright Mills, l’«immaginazione sociologica» di un outsider in un libro di Diego Giachetti

di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Diego Giachetti, Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills (Derive Approdi, pp. 185, euro 17.00), è apparsa sul quotidiano "Avvenire".

Nelle ricostruzioni dedicate alle origini della contestazione studentesca, spesso si è ricordato come tra le letture che alimentarono le ansie di rivolta figurassero libri – tra loro abissalmente diversi – come Lettera a una professoressa di don Milani, L’uomo a una dimensione di Marcuse e il libretto delle citazioni di Mao. Tra gli scaffali di quella libreria forse un posto non marginale era però occupato anche dai testi di Charles Wright Mills, che editori come Einaudi, Feltrinelli, Saggiatore e Jaca Book avevano ben presto reso disponibili per i lettori italiani. Per i giovani degli anni Sessanta, i libri di Mills – in particolare I colletti bianchi, l’Élite del potere, L’immaginazione sociologica – dovevano d’altra parte risultare più attraenti del tecnicismo di gran parte delle scienze sociali del tempo, ben rappresentate dal funzionalismo di Talcott Parsons. E il linguaggio chiaro con cui metteva in luce le dinamiche spersonalizzanti e le tendenze oligarchiche presenti nella società americana suonava certamente più comprensibile delle riflessioni marcusiane. Per quanto Mills fosse allora visto in Italia come uno degli esponenti di punta della sociologia statunitense, la sua posizione nel mondo accademico d’oltreoceano rimase sempre di quella di un outsider. Come mostra Diego Giachetti nella biografia, Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills (Derive Approdi, pp. 185, euro 17.00), fu in effetti uno studioso inquieto, insofferente nei confronti delle convenzioni prevalenti. Più che ad altri scienziati sociali del tempo, può essere forse accostato ai beatniks, e non è certo casuale che la foto in copertina – che lo ritrae con un giubbotto di pelle, mentre sfreccia a bordo di una motocicletta – rimandi alle atmosfere dei romanzi di Jack Kerouac.

Nato in Texas nel 1916, Mills ottenne il dottorato in sociologia nel 1942 con una tesi sul pragmatismo. Più che l’impostazione teorica, Mills riprese da John Dewey e dagli altri esponenti del pragmatismo l’idea che l’intellettuale dovesse partecipare attivamente alla discussione pubblica. Fortemente influenzato da Max Weber, si interessò a più riprese del marxismo, pur criticandone il determinismo (e conservando sempre una valutazione negativa del sistema sovietico). E proprio ai marxisti dedicò il suo ultimo libro, pubblicato nel 1962, quando fu stroncato da un attacco cardiaco all’età di quarantasei anni. Ma si ispirò anche a Tornstein Veblen, uno dei grandi pionieri della sociologia, e alla sua Teoria della classe agiata. Forse è così anche per l’insieme di tanti eterogenei riferimenti intellettuali che la sua ricerca sulle élite negli Stati Uniti – in cui sosteneva fosse in atto una concentrazione del potere economico, militare e politico nelle mani di una compatta minoranza – può essere ancora oggi letta come un piccolo classico. E come la testimonianza della capacità di guardare alla società e alle sue trasformazioni con un’ampiezza prospettica e una profondità d’analisi che le scienze sociali sembrano aver perso da molto tempo.

Damiano Palano

domenica 26 settembre 2021

Le stagioni di Francoforte. Un libro di Giorgio Fazio

di Damiano Palano

Questa recensione è apparsa sul quotidiano "Avvenire".

 L’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte venne fondato quasi un secolo fa, nel 1923, da Felix Weil, un economista di tendenza socialista rampollo di un’agiata famiglia di commercianti di grano. Il suo programma prevedeva inizialmente la promozione di ricerche sul movimento operaio e la pubblicazione delle opere complete di Marx, ed effettivamente nei primi anni le attività si volsero in questa direzione. Nel 1930, quando la direzione venne affidata a Max Horkheimer, le cose iniziarono a cambiare. Fu solo allora che, nella cornice dell’Istituto, cominciò a prendere forma la «Scuola di Francoforte», uno dei filoni di pensiero destinato a incidere in modo probabilmente più profondo sulla storia intellettuale del Novecento. A partire da quel momento, mentre la Repubblica di Weimar viveva l’ultima stagione della sua vita tormentata, attorno all’istituzione culturale vennero a raccogliersi studiosi come Friedrich Pollock, Erich Fromm, Herbert Marcuse, Theodor W. Adorno, Franz Neumann, Otto Kirchheimer, Walter Benjamin e Siegfried Kracauer. Il grande obiettivo polemico contro cui si volgevano quelle prime riflessioni era soprattutto il marxismo «ortodosso», che aveva trascurato le dimensioni culturali, sociali e psicologiche, a favore di un’indagine diretta principalmente verso la «base» economica. Ma ben presto gli eventi politici dovevano porre agli studiosi di Francoforte una domanda ben più urgente. Il 13 marzo 1933 le porte dell’Istituto vennero infatti sprangate dalla polizia e l’ascesa al potere del movimento hitleriano costrinse all’esilio tutti i membri della nascente «Scuola» francofortese, che si ricostituì – quasi al completo – a New York, alla Columbia University. E sull’altra sponda dell’Atlantico, Horkheimer, Adorno, Marcuse e Fromm cercarono di spiegare da dove fosse nato il regime totalitario, e quali fossero le radici della «personalità autoritaria».

Nel corso di un secolo di storia, la Scuola di Francoforte non ha cessato di rappresentare una voce importante nel dibattito filosofico e delle scienze sociali, anche se le posizioni sono nel tempo davvero cambiate. Il volume di Giorgio Fazio, Ritorno a Francoforte. Le avventure della nuova teoria critica (Castelvecchi, pp. 414, euro 34.00), rappresenta uno strumento davvero utile, perché ricostruisce le diverse stagioni della Scuola focalizzandosi sulle principali figure che ne hanno scandito le vicende. È inevitabilmente nella riflessione di Jürgen Habermas e poi di Axel Honneth che Fazio riconosce una cesura netta rispetto ai predecessori. Ma Fazio dedica anche una particolare attenzione agli sviluppi più recenti, a quella «quarta generazione» che vede i suoi esponenti principali in Rahel Jaeggi e in Hartmut Rosa. Ed è forse proprio in quest’ultimo studioso che si può riconoscere un ritorno ai temi al cuore dei primi studi francofortesi. Nell’approccio di Rosa all’alienazione e nella sua indagine sulla «risonanza» rimane in realtà ben visibile anche l’influenza del pensiero di Charles Taylor. E il suo «ritorno a Francoforte» può essere dunque considerato solo in parte come un ‘ritorno alle origini’.

Damiano Palano


sabato 25 settembre 2021

Cento anni dopo la nascita della Facoltà di scienze sociali dell'Università Cattolica. Una recensione di Davide G. Bianchi al volume "Un ideale da molti anni coltivato"


di Davide G. Bianchi

Questa recensione al volume curato da Damiano Palano Un ideale da molti anni coltivato. Materiali per la storia della Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (Vita e Pensiero, pagine 848, euro 50.00), è apparsa su "Avvenire" il 27 dicembre 2020.

Nel 1921 ricorre il centenario della fondazione dell’Università Cattolica. Per volontà di padre Agostino Gemelli, la Facoltà di Scienze sociali nacque originariamente nel 1921, coeva alla fondazione dell’ateneo, per poi trasformarsi alcuni anni più tardi in Scuola di scienze politiche economiche e sociali. Con l’avvento dell’Italia repubblicana gli studi politologici e sociologici della Cattolica conobbero un nuovo impulso, dando vita così, nel 1949, alla Facoltà di Scienze politiche e sociali, quando nel frattempo l’economia di era data ormai una propria facoltà all’interno dell’ateneo.

Un volume elegante e ponderoso, curato da Damiano Palano va in questi giorni in libreria, offrendo al lettore dei materiali che documentano questa lunga vicenda (Un ideale da molti anni coltivato. Materiali per la storia della Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Vita e Pensiero, pagine 848, euro 50.00). Troviamo nel volume contributi di Antonio Boggiano-Picco, Albino Uggè, Francesco Vito, Amintore Fanfani, Anton Maria Bettatini, Marcello Boldrini, Pasquale Saraceno, Gianfranco Miglio, Giuseppe Biscottini, Ettore Passerin d’Entreves.

Come ricorda il rettore Franco Anelli nella sua prefazione, alla base della fondazione dell’Università Cattolica vi era un duplice programma: preparare giovani cattolici capaci di diventare membri attivi della comunità sociale ed elaborare idee alle quali tali giovani avrebbero dovuto richiamarsi. Lo ricorda espressamente padre Gemelli in un suo intervento del 1949 dal titolo L’Università come strumento di pace sociale, antologizzato nel volume: «Ciò di cui il mondo ha bisogno sono soprattutto le idee». Un lascito culturale in grado di declinarsi in nuovi paradigmi interpretativi, pronti a leggere una realtà in continua trasformazione.

Non ha quindi un valore meramente celebrativo il fatto di interrogarsi sull’evoluzione di questo percorso intellettuale. Come scrive Palano nella sua introduzione, il volume intende avviare una riflessione sugli sviluppi e sugli snodi – compresi quelli critici – che hanno riguardato la Facoltà, senza lasciare in ombra l’interazione che quest’ultima ha sempre alimentato con il mondo esterno. Un’analisi con queste caratteristiche conduce inevitabilmente a riflettere sulla natura metodologica e contenutistica degli studi politici e sociali, e su come questa sia mutata nel tempo. Senza dubbio ha enormemente giocato il definitivo approdo democratico che il nostro Paese ha conosciuto dopo la fine della Seconda guerra mondiale: durante il Ventennio, infatti, le Facoltà di Scienze politiche erano interpretate come dei luoghi di elaborazione di una dogmatica filosofica e giuridica che, nell’interpretazione gentiliana, era orientata a costruire la pesante impalcatura della “dottrina dello Stato”, d’ispirazione fascista. Merito indiscusso di padre Agostino Gemelli è stato quello di tenere al riparo l’Università Cattolica dalle più pesanti intromissioni del regime, come avvenuto in altri contesti (si pensi alla Cesare Alfieri di Firenze). Fin dalla sua fondazione, l’Università Cattolica intendeva declinare scientificamente una ben diversa dottrina, la Dottrina sociale della Chiesa, che naturalmente era – ed è – molto presente negli studi politici e sociali dell’ateneo.

Ed oggi? Impossibile rispondere in poche battute. Si deve dire però che negli ultimi anni, internazionalmente, gli studi politologici e sociologici hanno visto la forte affermazione del paradigma quantitativo, in base al quale “conta (scientificamente) solo ciò che si può contare”. Non solo in economia, ma anche nelle altre scienze sociali, ormai gli studi sono sempre più costruiti sulla base di raffinate applicazioni della statistica inferenziale, resa operativa da appositi software. Fra le missioni degli studi politici e sociali della Cattolica di questi anni vi è senza dubbio anche quella di alimentare il pluralismo metodologico, evitando che il paradigma quantitativo diventi – con il suo arido tecnicismo – non solo prevalente, ma semplicemente il solo ad avere diritto di cittadinanza.


giovedì 23 settembre 2021

Democrazia e populismo. Un'intervista realizzata da Valentina Gheda sul CdS Brescia

di Valentina Gheda

Questa intervista è apparsa sul "Corriere della Sera - Edizione di Brescia" il 22 settembre 2021, in occasione della presentazione del volume di Paolo Corsini, Democrazie populiste (Scholé, 2021). 

Se il XX secolo si concluse con una ventata di ottimismo nei confronti del processo di democratizzazione in Occidente, l’inizio del XXI non ha confermato pienamente tale prospettiva, scoprendo invece qualche scricchiolio e dietro front, verso governi più autoritari, che lasciano ipotizzare una transizione verso la “postdemocrazia”.  Anticipando di una settimana l’apertura di Librixia, fiera del Libro, di democrazie e populismi ne discorreranno mercoledì 22 settembre alle 17.30, nel cortile di Palazzo Broletto, introdotti dal professor Mario Bussi, l’ex sindaco bresciano Paolo Corsini, autore del testo Democrazie populiste. Storia, teoria, politica (Scholé, 2021) con Emilio Del Bono, Rosy Bindi e Damiano Palano. Direttore del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, docente di Teoria politica dell’età globale e Scienza politica, Palano è autore di numerosi studi in merito come Bubble Democracy. La fine del pubblico e la nuova polarizzazione (Scholé, 2020); La democrazia senza partiti (Vita e Pensiero, 2015); La democrazia senza qualità. Le «promesse non mantenute» della teoria democratica (Mimesis, 2015); Populismo (Editrice Bibliografica, 2017), Il segreto del potere (Rubbettino, 2018).

Che cosa si intende dunque per “post democrazia”? La democrazia è un modello che ancora corrisponde alle esigenze dei giorni nostri?

La democrazia è, per sua natura, sempre attraversata da “crisi”. Per le sue dinamiche interne, alimenta speranze e aspettative che spesso non possono essere mantenute. Secondo diversi osservatori la situazione di oggi è un po’ diversa. La nozione di “postdemocrazia” fotografa un assetto in cui rimangono in vigore le “forme” della democrazia (soprattutto la competizione elettorale), ma cambia lo scenario generale: i partiti di massa si sgretolano, la partecipazione diventa del tutto occasionale, la discussione pubblica assomiglia a uno spettacolo al quale i cittadini assistono passivamente, mentre le vere decisioni vengono prese fuori dai parlamenti. In sostanza, a parere di alcuni studiosi, ci staremmo spostando da una “vera” democrazia e una “postdemocrazia”. Forse si tratta di un’interpretazione troppo pessimista e influenzata da un’immagine mitizzata dei decenni seguiti alla Seconda guerra mondiale, ma sicuramente molti dei pilastri su cui le nostre democrazie sono cresciute dopo il ’45 non ci sono più: i partiti di massa, una strutturazione della società civile, un’economia in crescita e un ordine internazionale fondato sul ruolo egemone degli Stati Uniti. Ciò non significa che la democrazia sia destinata a crollare, come negli anni Venti e Trenta del Novecento. Ma le tensioni ci sono. E comunque vadano le cose nei prossimi anni, le nostre democrazie cambieranno ancora.

Alla luce del recente e travagliato ritiro dall’Afghanistan, dopo venti anni di occupazione, si può ancora affermare che la democrazia sia un modello “esportabile”?

La risposta che ci viene dalla storia è ambivalente. Ci sono casi in cui l’esportazione con le armi della democrazia ha avuto successo. Dopo il 1945, la vittoria degli Alleati avviò la democratizzazione in Italia, Germania e Giappone. E i nuovi regimi riuscirono a consolidarsi. Ma gli esiti infausti sono molto più numerosi. Con l’eccezione degli interventi a Grenada (1983) e Panama (1989), i tentativi statunitensi di esportare militarmente la democrazia hanno avuto risultato negativo. L’Afghanistan è solo l’ultimo esempio di una serie di fallimenti, dai diversi interventi a Cuba nella prima parte del Novecento ai casi del Vietnam, della Cambogia, di Haiti e della Somalia. Esportare la democrazia non è dunque davvero impossibile, ma il successo dell’operazione dipende da fattori che non si possono costruire facilmente: per esempio, la presenza di stabili istituzioni statali, la strutturazione della società civile e del sistema partitico, la possibilità di costruire un ampio compromesso. Il grande errore commesso dopo il 1989 è stato ritenere che il mondo extra-europeo dovesse seguire il binario della democratizzazione occidentale. Le cose si sono rilevate invece molto più complicate.

Gli ultimi decenni e le crisi globali che si sono susseguite - da quella economica a quella sanitari - hanno innescato quella che viene definita “sindrome populista”, sia in Europa che nel resto del mondo. Quali fattori hanno innescato questo processo?

Dopo la crisi economica globale del 2008 si sono intrecciate diverse linee di crisi: una crisi economico-sociale, che ha colpito il “ceto medio” e che ha aumentato la percezione di insicurezza; una crisi di tipo culturale, in virtù della quale i cittadini occidentali si sentono oggi minacciati dall’ascesa degli “altri” e dall’“invasione” dei migranti; una crisi politica, che ha ulteriormente indebolito la fiducia nei confronti della classe politica e dei partiti “tradizionali”. In questo intreccio, le forze anti-establishment hanno potuto sfruttare le potenzialità della rivoluzione comunicativa degli smartphone e dei social network: strumenti che non consentono di costruire nuove culture politiche, ma sono formidabili canali di delegittimazione dell’avversario. Tutte queste dinamiche non sono congiunturali, ma ci accompagneranno a lungo. Non è affatto escluso che i populisti che abbiamo conosciuto nell’ultimo decennio escano di scena. Ma è davvero probabile che la “sindrome populista” si ripresenterà, magari con nuovi protagonisti, anche dopo la fine dell’emergenza pandemica.

Valentina Gheda

martedì 21 settembre 2021

Gli elettori si sono imprigionati in una bolla. E adesso le idee non si confrontano più

di Martino Loiacono

Questo testo è apparso su "ItaliaOggi" il 2 febbraio 2021.

Una delle rivoluzioni più rilevanti degli ultimi anni è senza dubbio quella derivante dall'avvento dei social media. I social, in breve tempo, hanno imposto un netto cambiamento al modo di vivere e consumare di milioni di cittadini. Ma hanno modificato notevolmente anche il modo di informarsi, influenzando massicciamente la politica e il dibattito pubblico. La polarizzazione e la conflittualità che stanno coinvolgendo buona parte delle società occidentali sono dovute, tra le altre cose, alle modalità e alle logiche con cui essi operano.

I social media, rispetto ai media tradizionali come la televisione, si basano infatti sulla profilazione dei propri utenti. Tale meccanismo, rispetto alla comunicazione di massa, garantisce a queste piattaforme la possibilità di raggiungere specifici target di pubblico con la pubblicità e incentiva l'interazione tra profili che condividono gli stessi interessi. In base ai «mi piace», alle condivisioni e ai commenti, gli algoritmi che regolano i social favoriscono l'engagement con contenuti affini ai propri gusti. Se questo è chiaramente un vantaggio, perché facilita e semplifica i rapporti tra l'utente e le sue passioni, è anche un problema perché, in una prospettiva politico-informativa, tende a creare delle bolle mediatiche.

Delle bolle all'interno delle quali si ritrovano utenti caratterizzati dagli stessi orientamenti politici e ideologici. Il meccanismo è semplice, quanto efficace: grazie alla profilazione, i social avvicinano gli utenti dalle preferenze simili e allontanano quelli dalle preferenze diverse. Gli utenti, in base ai propri comportamenti, vengono così portati a interagire con profili e pagine in linea con i loro interessi. Questo processo, che si rafforza e perfeziona con il costante utilizzo dei social, porta quindi alla creazione delle cosiddette echo-chambers, cioè camere dell'eco in cui vengono di fatto eliminate visioni e interpretazioni divergenti.

Bolle autoreferenziali che per la loro omogeneità rischiano di far passare determinate opinioni o visioni del mondo come assolute. Del resto, se la verità si limita a quanto propone la bolla in cui l'utente è inserito, è difficile pensare che possa esistere altro al di fuori delle informazioni che circolano al suo interno. Le bolle, proprio per queste dinamiche, facilitano la circolazione di fake news (chi potrebbe contrastarle?), ma limitano anche la disponibilità al confronto, aumentando la conflittualità. Il dibattito pubblico, di conseguenza, viene disincentivato e tende a radicalizzarsi. Se nella democrazia dei partiti di metà Novecento e nella democrazia del pubblico degli anni Ottanta e Novanta esisteva un terreno comune su cui avviare la discussione, nella bubble democracy che si sta via via affermando tutto ciò diventa molto più difficile. Proprio perché le informazioni a cui sono esposti gli individui sono talmente diverse che risulta complesso condividere un'unica realtà.

Il passaggio dalla democrazia dei partiti alla democrazia del pubblico, descritto da Bernard Manin nel suo Principi del governo rappresentativo, ebbe sicuramente delle conseguenze mediatico-comunicative, ma non così radicali come quelle appena descritte. Certo, con il passaggio dalle masse al pubblico televisivo, partiti e parlamenti persero la tradizionale centralità a vantaggio dello spettacolo televisivo. Tuttavia, pur nelle sue sfaccettature, rimase una realtà condivisa su cui fondare i dibattiti. La transizione verso la bubble democracy, come illustrato nell'omonimo saggio da Damiano Palano, a causa delle tante e contrapposte bolle create dai social, complica la costruzione di una realtà condivisa su cui convergere per confrontarsi. La segmentazione del pubblico in tanti e diversi pubblici esposti a messaggi eterogenei e contrastanti rende così difficile l'incontro e il confronto tra persone dalle posizioni ideologiche differenti.

Lo scontro tra bolle deve quindi essere affrontato con rigore, evitando condanne preventive o approcci semplificatori nei confronti delle nuove tecnologie. Resta però la necessità di capire come vincere la polarizzazione estrema e una conflittualità crescente.

 

lunedì 20 settembre 2021

Il risentimento del «popolo» nella crisi delle democrazie. Alle radici dell'ondata populista


di Damiano Palano

Questa nota è apparsa sul quotidiano "Avvenire"  il 22 luglio 2021. 

Il 19 settembre 1955 un colpo di Stato delle forze armate argentine pose fine alla presidenza di Juan Domingo Perón. Diversi anni dopo, il grande scrittore argentino Ernesto Sábato tornò con la memoria all’entusiasmo con cui, insieme ai suoi amici, aveva accolto la notizia. E ricordò di aver allora riconosciuto la frattura che lacerava il popolo argentino. «Mentre noi dottori, possidenti e scrittori festeggiavamo rumorosamente nella sala la caduta del tiranno», si legge infatti in L’altro volto del peronismo, da poco pubblicato in italiano (Rogas, pp. 118, euro 11.70), «in un angolo dell’anticucina vidi che le due indigene che lavoravano lì avevano gli occhi inzuppati di lacrime». Pur essendo stato uno strenuo oppositore di Perón, Sábato si rese pienamente conto del sostegno di cui il leader aveva goduto presso gli strati popolari. Le ragioni andavano ricercate nel «risentimento» accumulatosi negli anni. «Nel pantano delle città improvvisate» aveva preso corpo una «una dolorosa disillusione rispetto alla maggior parte degli uomini che gestivano la cosa pubblica». Cresciuto nel corso di un mezzo secolo di rapide trasformazioni, quel risentimento era poi esploso con l’ingresso sulla scena di Perón.

La lacerazione fra «dottori e popolo» di cui parlava Sábato può forse oggi aiutare a decifrare l’enigma del populismo contemporaneo. L’ascesa dei nuovi outsider «populisti» rappresenta in effetti un sintomo della condizione di disagio che vivono oggi le democrazie occidentali. Ma le opinioni degli osservatori divergono nettamente sia a proposito del grado di pericolo che minaccia oggi le istituzioni liberaldemocratiche, sia sull’individuazione delle cause del fenomeno. Per ricostruire lo stato della discussione è molto utile il volume di Paolo Corsini Democrazie populiste. Storia, teoria, politica (Scholé, pp. 299, euro 20.00), che si concentra sui casi classici, arrivando infine alla scena odierna. Corsini non evita la grande domanda sulle motivazioni dell’ascesa di leader e movimenti accomunati dalla protesta contro un establishment di volta in volta rappresentato dalla classe politica, dagli intellettuali, dalle élite economiche. Le radici, suggerisce Corsini, hanno a che vedere con la marginalità di quote di popolazione, oltre che con le tensioni legate ai processi migratori e ai mutamenti tecnologici. Ma, dinanzi a queste dinamiche, il populismo si rivela essere, più che un farmaco in grado di curare un disagio, un veleno che rischia di minare la rappresentanza pluralistica degli interessi.

Nel suo recente Il tramonto della democrazia. Il fallimento della politica e il fascino dell’autoritarismo (Mondadori, pp. 159, euro 18.00), Anne Applebaum non ha esitazioni a stabilire un parallelo tra quanto accade oggi e gli avvenimenti che portarono alla Seconda guerra mondiale. Trasferitasi in Polonia dopo il 1989, Applebaum – autrice di libri di successo sui gulag e le carestie ai tempi di Stalin – ha avuto modo di assistere in prima persona ai mutamenti politici del paese e soprattutto alle evoluzioni delle classi dirigenti. Dopo il crollo del Muro di Berlino, il mondo intellettuale era schierato con convinzione a favore dei valori occidentali, del cosmopolitismo, dell’apertura all’economia di mercato. Dopo trent’anni le cose sono invece radicalmente cambiate. E molti hanno iniziato a rivolgersi contro i principi liberali in nome di una nostalgia nazionalista. Non tanto, secondo Applebaum, perché abbiano subito i contraccolpi della crisi economica e della globalizzazione, ma per un complesso di fattori, tra cui le ambizioni personali, la delusione per le promesse non mantenute della meritocrazia, la litigiosità del dibattito politico e le trasformazioni comunicative.  Un simile fenomeno non riguarda però soltanto la Polonia o l’Ungheria. Secondo la giornalista americana si tratta infatti di una tendenza che accomuna l’intero Occidente. E che minaccia seriamente le istituzioni liberaldemocratiche.

Ben diversa è invece la lettura avanzata da Michael Lind nel suo La nuova lotta di classe. Élite dominanti, popolo dominato e il futuro della democrazia (Luiss, pp. 240, euro 20.00). Secondo il politologo statunitense, alla base dell’ondata populista – e del successo ottenuto da Donald Trump – starebbe infatti una lacerazione profonda tra la classe lavoratrice e una «superclasse» contrassegnata dal possesso di elevati titoli di studio. Mentre la classe lavoratrice è al proprio interno frammentata (per settori e linee di divisione etnica), per Lind la «superclasse» - composta dalle élite «perlopiù native e perlopiù bianche» - è tanto compatta da poter indirizzare le scelte politiche del «neoliberismo tecnocratico». E i demagoghi populisti possono diventare i catalizzatori della protesta, senza poter fornire comunque risposte credibili alle sfide delle trasformazioni economiche e sociali.

La spiegazione di Lind è segnata da uno schematismo talvolta grossolano. E l’idea di una «superclasse» definita dal possesso di titoli di studio universitari risulta quantomeno inappropriata per il contesto europeo. Ma, insieme ad alcuni aspetti della sua interpretazione, non può essere sottovalutato il suo invito a riconoscere le radici delle tensioni degli ultimi anni in una nuova lacerazione – culturale, prima che politica – tra «dottori» e «popolo». Ai tempi di Perón, gli intellettuali e le classi dirigenti liquidarono i sostenitori del colonnello come «feccia», «descamisados» attratti soltanto dai piccoli benefici economici promessi dal regime. Ma non videro come, dietro quel sostegno popolare, vi fosse anche, come scriveva Sabáto, «una giustificata ansia di giustizia e di riconoscimento, di fronte a una società egoista e fredda, che sempre li aveva dimenticati». E oggi, dinanzi all’ascesa di nuovi demagoghi e al successo della loro propaganda, dovremmo evitare di cadere nello stesso errore, dimenticando di prendere sul serio le ragioni dei nuovi «descamisados».

Damiano Palano

sabato 18 settembre 2021

Quando la democrazia scivola all’indietro. Ripensare il "backsliding" democratico

di Damiano Palano

Questa nota è apparsa su quotidiano "Avvenire" il 25 giugno 2021.

Nel 1962 Philip K. Dick pubblicava The Man in the High Castle, uno dei suoi romanzi più fortunati, noto in italiano con il titolo La svastica sul sole. La trovata più originale consisteva nell’immaginare che la storia mondiale avesse seguito un binario differente. La Seconda guerra mondiale era stata infatti vinta da Germania e Giappone, e gli Stati Uniti erano stati divisi in aree di influenza. Negli ultimi anni l’«ucronia» di Dick è stata nuovamente riscoperta, e il genere – che interseca storia, fantascienza e politica – si è arricchito di nuove varianti. Ma, se Dick immaginava di far ‘scivolare indietro’ la storia del mondo, anche molti politologi hanno interpretato in modo non troppo differente il possibile crollo della democrazia. Naturalmente gli studiosi di politica non si sono dedicati a narrazioni fantapolitiche, ma hanno in qualche misura continuato a concepire la decadenza delle istituzioni liberaldemocratiche utilizzando come modello l’ascesa al potere del fascismo e del nazionalsocialismo. Ed è proprio questo modo di immaginare le minacce della democrazia a essere messo oggi sempre più spesso in discussione dagli studiosi di politica.

Quasi trent’anni fa, Samuel Huntington proponeva una spiegazione di tre grandi «ondate» di democratizzazione, che dall’inizio dell’Ottocento avevano visto una progressiva espansione dei paesi democratici. Dopo ogni ondata, osservava Huntington, si era sempre registrato anche un «riflusso autoritario». E anche per questo invitava a diffidare dell’ottimismo che era seguito al crollo del Muro e ad attendersi, presto o tardi, un nuovo «riflusso». In effetti alcuni politologi riconobbero una simile inversione di tendenza a partire dal 2006, notando in particolare ciò che stava avvenendo in Russia, in Bielorussia e in Venezuela. E i rapporti annuali di Freedom House – l’organizzazione non governativa che quasi da cinquant’anni monitora costantemente lo stato della libertà del mondo – sembrerebbero confermare la tendenza a un declino globale della democrazia, che nel 2020, dopo quindici anni di costante peggioramento, avrebbe raggiunto la punta più elevata. Non tutti gli studiosi concordano con questa lettura, ma la discussione sulla «crisi della democrazia» impegna comunque sempre più intensamente i politologi.

Alcuni anni fa, Steven Levitsky e Daniel Ziblatt cercarono nei casi di crollo democratico del Novecento una guida in grado di indicare quando un sistema politico corresse realmente il rischio di un’involuzione autoritaria. Più di recente, Adam Przeworski, in Crises of Democracy, ha preso in esame tutti i sintomi del logoramento, attirando l’attenzione soprattutto sulla polarizzazione. Altri si sono invece chiesti come si debba concepire secolo il «riflusso» autoritario nel XXI secolo, e cioè in un contesto ben diverso da quello novecentesco. Prima del 1989 era infatti relativamente semplice individuare una netta linea di demarcazione fra regimi democratici e non democratici. Da una parte si trovavano paesi in cui i governanti erano scelti mediante elezioni competitive. Dall’altra, stavano invece regimi in cui il potere era detenuto – a seconda dei casi – da un partito unico, da un leader autocratico o da una giunta militare, e in cui gli apparati repressivi controllavano stabilmente i dissidenti. A partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso le cose sono invece notevolmente cambiate. Nel corso dell’ultimo ventennio un numero crescente di Stati è andato a collocarsi in una sorta di «zona grigia» al confine tra democrazia e non democrazia. Molti regimi non (pienamente) democratici hanno iniziato a ricorrere stabilmente a elezioni, per mostrare al mondo di godere di una forte legittimazione popolare. Gli stessi margini di libertà concessi ai dissidenti e alle forze di opposizione sono diventati più ampi, oltre che variabili a seconda della congiuntura. E anche il lessico politologico si è così arricchito di nuove categorie teoriche, talvolta discutibili, come per esempio «regime ibrido», «democrazia elettorale», «democrazia illiberale», «pseudo-democrazia», «autoritarismo elettorale», «autoritarismo competitivo». Ma proprio alla luce di una simile trasformazione è del tutto legittimo chiedersi se sia ancora calzante l’immagine del «riflusso» autoritario. E cioè se lo si possa concepire ancora nei termini di un backsliding, di uno «scivolamento all’indietro», o se invece questa rappresentazione non rischi di suggerire una lettura distorta. Il problema di fondo sta nelle stesse categorie utilizzate per identificare il punto di partenza e quello di arrivo. L’immagine dello «scivolamento all’indietro» tende infatti a concepire la trasformazione come una transizione dalla democrazia a un regime autoritario (e viceversa). Come hanno osservato Lidia Cianetti e Seán Hanley sul «Journal of Democracy», la traiettoria può invece essere meno lineare. Innanzitutto, perché molti fattori (di breve e lungo periodo) possono interagire tra loro, dando luogo a risultati differenti. Ma anche perché nei «regimi ibridi» i confini tra democrazia e autocrazia sono tanto permeabili da essere soggetti a frequenti mutamenti e a fluttuazioni (in un senso o nell’altro).

Qualche tempo fa, David Runciman ha osservato che l’«immaginazione politologica» è rimasta ferma al Novecento, e cioè continua in larga parte a concepire il crollo democratico sulla scorta delle immagini della marcia su Roma, dell’incendio del Reichstag e dell’assedio della Palazzo della Moneda. Naturalmente, il Putsch non è totalmente scomparso dall’armamentario delle forze antidemocratiche, e in questo caso è sufficiente pensare al recente colpo di Stato in Myanmar. Continuare a immaginare il «riflusso» autoritario come uno «scivolamento all’indietro» potrebbe però davvero finire col deviare il nostro sguardo da cambiamenti altrettanto rilevanti, anche se forse meno clamorosi.

 Damiano Palano

domenica 12 settembre 2021

Il potere fragile delle nuove folle. Dal protagonismo delle piazze alla repressione digitale. Un'analisi da "Vita e Pensiero"



di Damiano Palano

Questa testo - che è uno stralcio da un più ampio articolo pubblicato sulla rivista "Vita e Pensiero" (3/2021) - è apparso sul quotidiano "Il Foglio" il 16 luglio 2021.

Pochi mesi prima di morire, nel marzo 1895, Friedrich Engels scrisse una densa introduzione al volumetto sulle Lotte di classe in Francia, in cui Marx aveva ricostruito gli eventi del 1848. Tornando a rileggere quelle pagine, Engels non esitava a riconoscere come l’intera interpretazione dell’amico scomparso fosse stata viziata da una serie di errori fatali. «La storia», ammetteva Engels, «ha dato torto anche a noi», «ha rivelato che la nostra concezione di allora era un’illusione». Le diverse crisi dell’economia capitalistica non avevano provocato il tanto atteso «crollo» generale, né l’impoverimento crescente delle masse operaie. Ma, soprattutto, alcune trasformazioni tecniche avevano radicalmente modificato le modalità della lotta politica. «Se le grandi città sono diventate notevolmente più grandi», scriveva, «gli eserciti si sono accresciuti ancora di più», e «l’armamento di questa massa di soldati è diventato incomparabilmente più efficace». Le barricate che Marx aveva celebrato in tante occasioni non potevano dunque più rappresentare un esempio cui guardare. La direzione era piuttosto indicata da quanto era avvenuto in Germania, dove il partito socialdemocratico aveva iniziato infatti a partecipare alle elezioni, conquistando consensi sempre più ampi e avviandosi verso quella che appariva come una inevitabile e pacifica presa del potere.

Nel corso del Novecento, le barricate non sono del tutto scomparse dal repertorio dei movimenti di protesta, e talvolta hanno fatto una fugace ricomparsa, come ci ricorda puntualmente l’iconografia del «maggio 68». Ma, come Engels aveva intuito, le vere protagoniste del XX secolo sono state proprio le «masse», organizzate dai partiti nelle democrazie competitive, o mobilitate «dall’alto» nei regimi autoritari e totalitari. E a insidiarne la centralità sono stati semmai il «pubblico» dei lettori di giornali e, più tardi, le platee dello spettacolo televisivo. Negli ultimi decenni – con sempre maggiore intensità – le cose sembrano però essere almeno in parte cambiate, perché la «politica della strada» pare aver riconquistato un ruolo. Non più monopolizzate dalle manifestazioni di regime o occupate dalle bandiere di partito, le piazze sono diventate per molti versi il luogo in cui aggregare l’opposizione al «Palazzo», l’arena in cui esibire una protesta non violenta, pacifica, lontana tanto dall’iconografa delle barricate ottocentesche, quanto dalle manifestazioni del «secolo breve». Molti hanno riconosciuto nelle nuove folle una richiesta di partecipazione diretta alla vita politica, amplificata dalle potenzialità delle nuove tecnologie. E quei rapporti di forza che secondo Engels condannavano all’obsolescenza l’azione delle folle urbane sembrerebbero dunque essersi nuovamente rovesciati. Ma il ritorno delle piazze, che con alterne vicende ha segnato l’ultimo trentennio, potrebbe essere un fenomeno temporaneo, e il potere della loro protesta rischia di rivelarsi nel prossimo futuro nuovamente molto fragile.

 Nelle democrazie consolidate, le piazze hanno mostrato, nel corso dell’ultimo decennio, il volto degli Indignados spagnoli, quello di Occupy Wall Street e di Black Lives Matter, quello indecifrabile dei Gilet gialli in Francia e anche quello inquietante dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Ma è stato soprattutto nell’Europa orientale, in Nord-Africa e in America Latina che le piazze sono state protagoniste importanti delle dinamiche politiche, nonostante solo in alcuni casi abbiano conquistato la meta che si prefiggevano.  Le rivoluzioni «colorate» in Georgia e Ucraina, all’inizio del nuovo secolo, videro infatti scendere in piazza migliaia di cittadini che, ricorrendo quasi sempre solo alla protesta pacifica, richiesero con successo elezioni regolari e le dimissioni di leader giudicati corrotti. La vittoria ottenuta dai manifestanti contribuì a diffondere in alcuni paesi circostanti analoghe modalità di protesta, e anche più di recente prolungate mobilitazioni contro la corruzione della classe politica hanno avuto come teatro la Moldova (2015), la Macedonia (2016), l’Armenia (2018) e, durante la pandemia, la Bielorussia di Aljaksandr Lukašėnka, oltre che la stessa Russia, in occasione delle proteste contro il trattamento riservato ad Aleksej Naval'nyj. Dieci anni fa, al principio della «Primavera araba», i presidenti al potere in Egitto e Tunisia (Mubarak e Ben Ali) furono deposti proprio in seguito alla pressione popolare. In Libia, Siria e Yemen le proteste assunsero invece quasi immediatamente un profilo violento, che aprì una lunga stagione di conflitti. Ma anche recentemente in altri paesi nord-africani e medio-orientali – Marocco, Algeria, Giordania, Libano e Iraq – la piazza è tornata a farsi sentire per protestare contro la corruzione e gli effetti della crisi. Una dinamica in gran parte differente ha riguardato invece le piazze latinoamericane. Le mobilitazioni dei piqueteros argentini, diventate fenomeno di massa al momento del tracollo dell’economia del paese, nel dicembre 2001, fornirono infatti la prima esemplificazione di una mobilitazione contro le classi dirigenti, al grido «Que se vayan todos!», poi giunta anche in Europa. Le piazze latinoamericane sono spesso tornate a mobilitarsi contro le politiche di austerità, per esempio nel 2019, in Argentina contro il presidente Macrì, in Equador contro Moreno, in Perù contro Vizcarra e in Cile contro Pinera, per i tagli alla spesa pubblica e al rincaro delle tariffe dei mezzi pubblici. Di segno ben diverso sono state invece le mobilitazioni che in Venezuela e Bolivia si sono indirizzate sia contro i rispettivi governi, accusati di aver manipolato le elezioni (oltre che della violazione delle garanzie democratiche), sia a loro difesa, con il ricorso alla violenza da parte di entrambi gli schieramenti. E questo elenco delle mobilitazioni contro i «Palazzi» della politica, che offre solo una rassegna incompleta dei volti che le piazze hanno mostrato quasi in ogni area del mondo, potrebbe continuare ulteriormente, evocando per esempio le mobilitazioni delle «camicie rosse» tailandesi nel 2010 o le proteste degli studenti di Hong-Kong contro il governo di Pechino.

(...)

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domenica 5 settembre 2021

Le costituzioni perdute di Aristotele . Gli "Scritti politici" completi del filosofo in una preziosa edizione curata da Federico Leonardi


Damiano Palano

Dopo quasi duemila e quattrocento anni, ogni discussione su cosa sia la politica deve fare ancora i conti con la definizione dell’essere umano come zoon politikon con cui si apre la Politica di Aristotele. Naturalmente la nostra concezione della politica non è più quella che avevano i Greci e di cui lo Stagirita fissò gli elementi cardinali. Con quella formula, più che a definire la politica, Aristotele puntava d’altronde a chiarire quali fossero i caratteri davvero distintivi degli esseri umani. E quando qualificava la partecipazione alla vita della polis come la più elevata attività cui gli uomini si potessero dedicare, restituiva così un’immagine davvero lontana da quella moderna, plasmata dall’esperienza dello Stato moderno. La Politica non fu comunque l’unico testo che il filosofo dedicò a un tema che riteneva tanto importante. Steso quasi certamente in un periodo di tempo piuttosto lungo, il trattato crebbe infatti contestualmente alla raccolta sistematica di informazioni sulle costituzioni delle città greche cui Aristotele – secondo la testimonianza di commentatori antichi, come soprattutto Diogene Laerzio – si dedicò per decenni. In altre parole, secondo questa ipotesi, la Politica sarebbe per molti versi una sorta di cantiere, cui il filosofo lavorò per molti anni, mentre compiva una meticolosa indagine sull’assetto istituzionale e sulle vidende di centinaia di città-Stato greche, che erano state indipendenti o che lo erano ancora nella seconda metà del IV secolo a.C. Di quelle centinaia di costituzioni non ci è pervenuto quasi nulla. Ciò nondimeno, alcuni studiosi hanno cercato di ricostruire quantomeno una ‘mappa’ di quel lavoro. E di questi tentativi tiene conto la ponderosa edizione degli Scritti politici di Aristotele curata da Federico Leonardi (Rubbettino, pp. 693, euro 48.00), che – oltre alla Politica e alla Costituzione degli Ateniesi – raccoglie testi spesso di incerta attribuzione, come i tre libri dell’Economia, la lettera ad Alessandro sul Regno, i frammenti dei dialoghi politici, oltre che alcune notizie relative alle costituzioni studiate dallo Stagirita e dai suoi allievi.



L’elemento su cui scommette l’edizione curata da Leonardi consiste proprio nella catalogazione delle 148 costituzioni di cui il grecista svizzero Olaf Gigon (1912-1998) ritrovò le tracce essenziali. Com’è noto, l’unica costituzione di Aristotele che ci è pervenuta è quella di Atene. Nel 1879 alcuni papiri, privi di indicazioni sul loro autore, furono ritrovati a Ermopoli, in Egitto. Qualche anno dopo, un paleografo del British Museum, Frederic George Kenyon, riconobbe in quella storia di Atene – in alcuni punti anche piuttosto imprecisa – proprio uno di quei documenti perduti in cui Aristotele (o qualche allievo, sotto la sua direzione) ricostruiva le tappe dell’evoluzione politica e degli assetti istituzionali delle città greche. Anche oggi non tutti gli studiosi sono convinti che il testo della Costituzione di Atene debba essere davvero attribuito ad Aristotele. E negli ultimi decenni la filologia aristotelica ha peraltro sollevato molti dubbi anche sull’idea che la raccolta di costituzioni sia mai esistita. Secondo Gigon – che Leonardi segue (confidando nell’utilità dell’operazione) – le costituzioni invece non solo esistevano, ma il loro numero doveva avvicinarsi a quello riferito da Diogene Laerzio. Lo studioso svizzero giunse a questo numero incrociando i titoli di costituzioni esplicitamente citati in commentari antichi e da autori come Cicerone, ma in particolare ricorrendo ai frammenti o ai riassunti riportati da Eraclide Lembo e Nicola da Damasco. Infine, ipotizzò l’esistenza di testi specifici a partire dai riferimenti a città presenti nelle opere aristoteliche, Gigon giunse al numero complessivo di 148. Nel volume curato da Leonardi, il lettore troverà dunque le informazioni relative a queste costituzioni, a partire naturalmente da quelle di Atene, Sparta, Creta e Cartagine, che peraltro Aristotele considera nella Politica. Ma nel catalogo si trovano anche dettagli relativi a casi assai meno noti. Per alcune città, le notizie sono però davvero scarne, e non di rado sono relative a episodi mitologici. Una simile disomogeneità potrebbe mettere in discussione l’attendibilità della ricostruzione di Gigon. Ma non devono essere trascurate alcune possibili spiegazioni. In alcuni casi Aristotele forse si trovò dinanzi alla difficoltà reperire informazioni, sia perché molte città greche avevano ormai perso la loro autonomia da molti anni, sia perché l’interesse nei confronti della politica andava scemando. Inoltre, i commentatori successivi di cui ci sono pervenuti i frammenti potrebbero aver selezionato i passi a loro avviso rilevanti sulla base della sensibilità ellenistica, che ormai privilegiava gli elementi del fantastico, mentre risultava piuttosto disinteressata ai dati istituzionali e in generale alla politica.

Da considerare con una certa cautela, il catalogo di costituzioni raccolto nel volume curato da Leonardi contribuisce comunque a chiarire, una volta di più, quale fosse l’approccio di Aristotele allo studio della politica. Anche se ci resta ben poco dei materiali che andarono ad alimentare quel cantiere, la ricerca filosofica dello Stagirita si fondava infatti su una conoscenza storica della vita delle comunità, basata sulla raccolta di documenti attendibili. L’indagine sulla miglior forma di governo scaturiva così da una comparazione, per molti versi, di taglio ‘politologico’. E per quanto il catalogo compilato da Gigon sia destinato a sollevare interrogativi sull’archivio perduto delle antiche costituzioni, la nuova edizione degli scritti politici di Aristotele rimane uno strumento utile. Che conferma, una volta di più, come lo studio dell’«animale politico» non possa fare a meno del filosofo di Stagira.

Damiano Palano

 

 

lunedì 26 luglio 2021

La politica in un mondo vulnerabile. Dentro e oltre la pandemia, un libro di Vittorio Parsi


di Damiano Palano

 All’inizio degli anni Settanta del Novecento la crisi energetica arrestò improvvisamente la crescita delle società occidentali. La letteratura futurologica iniziò a dipingere scenari inquietanti. Secondo alcuni osservatori, la fine del «Progresso» poteva addirittura indirizzare verso un periodo oscuro, una sorta di «nuovo Medioevo» dominato dall’insicurezza, dalla violenza e dalla scarsità. Nessuno degli scenari dipinti allora si materializzò, e molti dei fattori che avevano innescato la crisi alcuni anni dopo sembrarono tornare sotto controllo. Ciò nonostante, quegli esercizi di ‘futurologia’ coglievano linee di tensione reali e aiutavano a focalizzare l’attenzione sui rischi che poneva la transizione verso una società post-industriale. Ed è per questo stesso motivo che anche oggi – dinanzi alla sfida radicale, rappresentata per tutto il pianeta dalla pandemia – è indispensabile tentare di immaginare come sarà il nostro futuro. Non certo perché un simile esercizio possa davvero contribuire a ‘prevedere’ gli eventi. Ma perché riconoscere le tensioni di oggi ci può consentire di rispondere più rapidamente alle crisi di domani. E forse anche di stimare le conseguenze che avranno le decisioni che adottiamo oggi.



Proprio come un esercizio di «immaginazione politologica» deve essere letto il nuovo di libro di Vittorio Emanuele Parsi, Vulnerabili: come la pandemia sta cambiando la politica e il mondo. La speranza e il rancore (Piemme, pp. 206, euro 16.90), un testo che è in larga parte diverso, oltre che più ricco, rispetto all’omonimo e-book uscito con il medesimo titolo un anno fa. Nel pieno del «confinamento», nell’aprile 2020 il politologo delineò infatti tre possibili scenari alternativi, verso cui l’irruzione del Covid-19 avrebbe potuto indirizzare le dinamiche globali. A dodici mesi di distanza, le cose sono in parte cambiate, nel senso che la crisi sanitaria si è rivelata molto più duratura rispetto a quanto allora si sperasse, con inevitabili e ulteriori ripercussioni sul tessuto economico-sociale. E Parsi torna dunque sui tre scenari, approfondendo l’analisi e precisandone i contorni. La pandemia ci ha fatto scoprire il ‘lato oscuro’ dell’interdipendenza, di quella globalizzazione che nel corso dell’ultimo trentennio ha cambiato il volto del pianeta, aprendo molte possibilità, ma anche generando nuovi rischi. «Con il Covid-19», scrive Parsi, «l’umanità si è riscoperta vulnerabile», come l’equipaggio di «una nave senza timone». Al di là delle conseguenze della crisi sanitaria, la consapevolezza della vulnerabilità potrebbe avere ricadute rilevanti sulle tendenze globali. Nel primo scenario – la «Restaurazione» - si potrebbe assistere a una semplice riedizione dell’iperglobalizzazione che abbiamo conosciuto, forse con il ridimensionamento di alcuni progetti e comunque con l’ulteriore crescita delle diseguaglianze nelle democrazie occidentali. Nel secondo scenario – identificato dalla suggestiva formula della «fine dell’Impero Romano d’Occidente» – il dato principale sarebbe invece la «de-globalizzazione»: la riduzione del commercio a lungo raggio, con la frammentazione del globo in sfere di influenza, il recupero delle sovranità nazionali e una spinta verso l’autoritarismo. L’ultimo scenario – il «Rinascimento» – è invece segnato da una regolazione politica del mercato globale, capace di ridurre le diseguaglianze e di stabilizzare la stessa economia. Ciò cui pensa Parsi è una sorta di New Deal globale: una versione aggiornata dell’ordine internazionale liberale post-bellico e all’altezza della sfida posta dall’interdipendenza, ma il cui perno dovrebbero essere ancora una volta gli Stati Uniti. In altre parole, l’alternativa a un mercato senza regole, ma anche al capitalismo di Stato di matrice cinese, sarebbe un «riequilibrio del rapporto tra politica ed economia, tra democrazia e mercato, tra libertà e solidarietà», in grado di trarre un importante insegnamento dalla lezione della vulnerabilità. Ma affinché questo scenario diventi almeno in parte reale, la politica dovrebbe riconquistare la capacità di immaginare al futuro. Una capacità senza la quale l’attività di governo e la discussione pubblica, schiacciate sulla gestione del presente, rischiano di ridursi semplicemente allo sfruttamento del rancore, del risentimento, della paura.

Damiano Palano