lunedì 1 agosto 2016

Schiavi del capitalismo del "like", nell'era della "psicopolitica". Un nuovo libro di Byung-Chul Han




di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Byung-Chul Han, Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere (Nottetempo, pp. 110, euro 12.00), è apparsa su "Avvenire" del 29 luglio 2016.

Durante il Superbowl del 1984 andò in onda per la prima volta un celebre spot della Apple in cui si annunciava il lancio del nuovo computer Macintosh. Nello spot di Ridley Scott – che metteva in scena il mondo orwelliano di 1984 – una massa apatica di lavoratori anestetizzati e totalmente privi di autonomia ascoltava passivamente il discorso del Grande Fratello proiettato su un teleschermo. Improvvisamente nella sala irrompeva una donna che, sfuggendo all’inseguimento della polizia del pensiero, riusciva a scagliare un pesante martello verso il teleschermo, che esplodeva in un’enorme fiammata. Come il martello gettato contro il Grande Fratello, il lancio del Macintosh avrebbe sancito la fine dell’apatia che aveva segnato l’era della televisione. E per questo – come recitava enfaticamente la voce fuoricampo – il 1984 sarebbe stato molto diverso da 1984.



Secondo Byung-Chul Han – filosofo di origine coreana e docente alla Universität der Künste di Berlino – il 1984 non rappresentò invece la fine di uno stato di sorveglianza. Nel suo Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere (Nottetempo, pp. 110, euro 12.00), Han sostiene infatti che l’avvento della rivoluzione microelettronica, lo sviluppo di internet e la nascita del web 2.0 avrebbero dato avvio a un’era segnata da un controllo ancora più pervasivo. Nel passato, la società disciplinare studiata da Michel Foucault puntava ad assoggettare i corpi, mediante una sorta di ‘ortopedia concertata’. Oggi il potere punta invece a plasmare la psiche, passando dal controllo passivo a un controllo attivo. E la «biopolitica» di cui parlava Foucault si trasforma allora in una «psicopolitica». In sostanza, secondo Han, il potere «si plasma sulla psiche, invece di disciplinarla o di sottoporla a obblighi e divieti», «non ci impone alcun silenzio», ma «ci invita di continuo a comunicare, a condividere, a partecipare, a esprimere le nostre opinioni, i nostri bisogni, desideri o preferenze, e a raccontare la nostra vita». Il «capitalismo del like» non ci costringe entro norme, discipline o spazi chiusi, ma ci invita a ‘essere liberi’. Perché proprio ‘partecipando’ e ‘condividendo’ le nostre passioni e i nostri bisogni, noi alimentiamo spontaneamente – e senza alcuna costrizione – l’immenso archivio dei big data. Un archivio in cui non sono solo immagazzinati per sempre i nostri gusti e le nostre preferenze, ma in cui si trova trascritto addirittura lo «psicoprogramma dell’inconscio». 
La «psicopolitica» annuncia naturalmente un totalitarismo ancora più brutale di quello novecentesco, di cui la distopia orwelliana era la trasposizione letteraria. Se il totalitarismo ‘disciplinare’ doveva infatti scontrarsi con l’opposizione dei soggetti, il nuovo totalitarismo «psicopolitico» non incontra alcuna resistenza e non innesca alcun conflitto: penetra invece come un serpente in ogni interstizio della vita e riesce a fare di ciascun individuo il controllore di se stesso. E così, dal momento che gli individui sono isolati gli uni dagli altri anche nelle relazioni lavorative, la libertà promessa dalla rivoluzione digitale si rovescia nel suo contrario, in un controllo e in una sorveglianza totali. 
Psicopolitica va ad arricchire ulteriormente un quadro – fortemente critico nei confronti delle mitologie della rete – che Han ha già cominciato a delineare in testi come La società della trasparenza (2014) e Nello sciame (2015). Per quanto anche in questo nuovo capitolo non manchino i toni apocalittici, si tratta di una lettura indubbiamente ricca di sollecitazioni e intuizioni folgoranti, e che vale la pena prendere sul serio. Perché i rischi della ‘desocializzazione’ e della ‘de-sensibilizzazione’ sono effettivamente un’insidia per la nostra libertà. E perché la «trasparenza» tanto invocata e celebrata è spesso solo la premessa di un «autodenudamento volontario» e di una «de-interiorizzazione della persona» che lasciano la vita davvero «nuda» dinanzi alle spire di un nuovo potere.

Damiano Palano