lunedì 25 maggio 2015

L’era dello sciame. Un nuovo libro di Byung-Chul Han




di Damiano Palano

Questa recensione al libro di Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale (Nottetempo, pp. 107, euro 12.00), è apparsa su "Avvenire" del 23 maggio 2015, con il titolo Le "folle" di Gustave Le Bon oggi sono uno sciame digitale. 

Nel 1895, nel suo libro più famoso, Gustave Le Bon annunciò l’avvento della nuova «era delle folle». Se in passato l’opinione pubblica aveva avuto un ruolo marginale nelle dinamiche politiche, secondo l’intellettuale francese era ormai necessario riconoscere che “la voce delle folle” era divenuta preponderante. E ciò comportava una serie di problemi notevoli. La nuova stagione era infatti segnata dalla caduta di tutte le vecchie credenze e dal trionfo delle opinioni, ossia di idee suggestive ma del tutto effimere, capaci di conoscere un rapido successo eppure destinate a tramontare altrettanto velocemente. E senza una guida capace di indirizzare i volubili entusiasmi delle folle, il rischio era quello di un rapido crollo dell’intera civiltà occidentale. 
A distanza di ben più di un secolo, nel suo recente Nello sciame. Visioni del digitale (Nottetempo, pp. 107, euro 12.00),  il filosofo di origine coreana Byung-Chul Han torna alla visione di Le Bon per interpretare la rivoluzione digitale. I mutamenti tecnologici e in particolare l’avvento del web 2.0 producono infatti secondo Han conseguenze di portata simile a quelle segnalate dalla Psychologie des foules
La nuova folla assume però il volto di uno “sciame digitale”, che – a differenza dell’aggregato sociale di cui parlava Le Bon – è composto di individui isolati, che non possiedono un’“anima collettiva”. Lo sciame è infatti una sorta di assembramento occasionale, instabile, fugace, che si dissolve con la stessa velocità con cui si è formato. E non assume mai i contorni di una vera e propria “moltitudine”, perché il suo tratto caratterizzante rimane sempre la disgregazione individualistica. Lo sciame non mette mai realmente in discussione le relazioni di potere, ma si limita piuttosto a scagliarsi contro singole persone, rendendole oggetto di scherno, coprendole di insulti, esponendole al pubblico ludibrio. E alla base di queste forme di azione non si trova mai una vera identità collettiva. Lo sciame cioè non esprime mai un “Noi”, e non è neppure in grado di sviluppare forme stabili di organizzazione. Se la richiesta di partecipazione e di ‘trasparenza’ si risolve così quasi sempre solo in una banalizzazione dei messaggi e dei discorsi, la logica dello sciame secondo Han sembra anche preludere alla fine del ‘politico’. Se non altro perché pare annunciare il tramonto di uno spazio pubblico in cui possano davvero confrontarsi posizioni e argomentazioni differenti. 
Nella discussione sulle implicazioni delle nuove tecnologie non è certo difficile collocare il filosofo coreano sul versante degli “apocalittici”. Ma il limite delle sue posizioni – in cui pure si possono ritrovare molte intuizioni preziose – non consiste solo in un eccesso di pessimismo. Una distorsione forse più rilevante si nasconde nella stessa immagine dello sciame. Se nelle folle di Le Bon si trovavano ‘condensati’ molti incubi della società di fine Ottocento, nello sciame di Han si trovano infatti sovrapposti fenomeni in realtà molto diversi (e ben più complessi). Certo la crisi delle identità collettive che sperimentano oggi le società occidentali è una conseguenza dei mutamenti tecnologici. Ma ha anche motivazioni specificamente politiche e culturali. E solo un determinismo semplicistico può far ritenere che si tratti soltanto di un effetto dalla rivoluzione digitale. 

Damiano Palano

lunedì 18 maggio 2015

E Camaldoli criticò il liberalismo. Il "Codice" a settant'anni dalla pubblicazione in un'edizione curata da Michele Dau



di Damiano Palano

Questa recensione al libro di Michele Dau, Il codice di Camaldoli (Castelvecchi, pp. 187, euro 17.50) è apparsa su "Avvenire" di sabato 8 maggio 2015. 

Proprio settant’anni fa, nell’aprile 1945, veniva dato alle stampe e diffuso in circa tremila copie un piccolo volume in cui veniva prefigurata la fisionomia della nuova Italia democratica. Quel volumetto si intitolava Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale, ma sarebbe ben presto stato ribattezzato Il codice di Camaldoli. E proprio con questo titolo viene ora riproposto da Castelvecchi, arricchito da un’introduzione di Michele Dau e dai commenti di Fausto Bertinotti, Valerio Castronovo e Paolo Savona (pp. 187, euro 17.50). Pubblicato quando ormai la guerra volgeva al termine, il testo nasceva dalla discussione svoltasi quasi due anni prima, nel luglio 1943, fra un gruppo di intellettuali e professionisti cattolici riunitisi nel Monastero di Camaldoli. Tra i partecipanti all’incontro (e tra coloro che contribuirono alla rielaborazione del documento) figuravano personalità che avrebbero ricoperto un ruolo di primo piano nella Democrazia cristiana e nella vita pubblica del Paese, come, fra gli altri, Ezio Vanoni, Pasquale Saraceno, Giulio Andreotti, Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani. A svolgere una funzione importante fu però soprattutto Sergio Paronetto, una figura spesso dimenticata su cui invece Dau attira con forza l’attenzione.
Paronetto era nato in Valtellina nel 1911, ma si era trasferito a Roma molto giovane per studiare Scienze politiche. Qui era entrato in contatto con il gruppo romano della Fuci, di cui era assistente ecclesiastico Giovanni Battista Montini. Proprio per i suoi interventi, Paronetto fu oggetto all’inizio degli anni Trenta di ripetute aggressioni da parte di bande fasciste, e le violenze subite fecero ulteriormente aggravare le sue già precarie condizioni di salute. Le difficoltà sperimentate durante gli anni della dittatura cementarono comunque il rapporto intellettuale con Montini. Anche se non vi partecipò direttamente (per non destare i sospetti del regime), Paronetto ebbe un ruolo decisivo nell’organizzazione della riunione di Camaldoli. Innanzitutto perché riuscì a coinvolgere le diverse anime della riflessione cattolica. Ma anche perché – come ricordò Montini alcuni anni dopo – redasse materialmente il testo del documento.
Per quanto i novantanove articoli del Codice di Camaldoli si collochino nel solco della Dottrina Sociale, sono evidenti alcuni passaggi che riflettono un cambiamento nelle prospettive di azione. In primo luogo, è netto il sostegno alla democrazia come forma di organizzazione politica, con l’esplicita rivendicazione del diritto dei cittadini «di scegliere e designare gli investiti della pubblica autorità». E, in secondo luogo, è decisa l’enunciazione del principio secondo cui «una società bene ordinata» deve dare «a ciascun uomo la possibilità di esplicare nel lavoro la sua energia e di conseguire un reddito sufficiente alle necessità proprie e della propria famiglia». Era però soprattutto a proposito del ruolo economico dello Stato che emergevano alcuni elementi particolarmente originali. Perché, se certo erano ben chiari i fallimenti del corporativismo fascista, il Codice faceva trasparire anche una diffusa consapevolezza dei limiti del liberalismo classico. Una consapevolezza che suggeriva di imboccare la strada di un’economia mista, in cui lo Stato giocasse un ruolo importante.
Il testo di Camaldoli – è bene tenerlo presente – non era però un manifesto politico. Nell’intenzione degli estensori – e dello stesso Paronetto, che morì poche settimane prima che il documento fosse pubblicato – si trattava piuttosto del primo contributo a una discussione che doveva assumere come obiettivo prioritario l’azione concreta. E d’altronde il tratto forse principale del Codice era il marcato pragmatismo. Un pragmatismo che, pur partendo da una visione complessiva, induceva a cercare nelle condizioni del nuovo assetto internazionale il percorso più adeguato per incidere su una società ancora alle prese con le macerie del conflitto, eppure già alla vigilia di un mutamento radicale.

Damiano Palano

venerdì 15 maggio 2015

Lo spettro inafferrabile del populismo. Un’ipotesi di Nicola Tranfaglia


di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Nicola Tranfaglia, Populismo. Un carattere originale nella storia d’Italia (Castelvecchi, pp. 125, euro 14.50), appare sul sito dell'Istituto di Politica.

«Il politico di maggiore successo», diceva Theodore Roosevelt, «è quello che dice ad alta voce ciò che la gente pensa più di frequente». Benché non sia forse solo questa dote a decretare il successo di un leader politico, abbiamo ormai imparato che la convinzione di Roosevelt diventa sempre più realistica nella «democrazia del pubblico», come la definì ormai quasi vent’anni fa Bernard Manin. Ed è in fondo proprio su questo aspetto che attira l’attenzione Nicola Tranfaglia nel suo recente Populismo. Un carattere originale nella storia d’Italia (Castelvecchi, pp. 125, euro 14.50). 
Pur prendendo in considerazione molte interpretazioni di un fenomeno controverso come il «populismo», Tranfaglia propone infatti una definizione molto semplice: «Il populismo, inteso come capacità di coinvolgere le masse degli umani, dicendo loro esattamente quello che vogliono sentirsi dire e, non dovendo attuare un programma preciso o dettato da un’ideologia pregressa (un modo di governare che ha caratterizzato i secoli precedenti il Ventunesimo, ma fino ad oggi, non quest’ultimo), dispone – per così dire – della flessibilità necessaria per andare di volta in volta incontro alle esigenze e ai desideri del suo popolo» (p. 6). Naturalmente Tranfaglia non trascura altri aspetti – il riferimento al popolo come comunità omogenea, il rancore verso gli intellettuali, l’ossessione per il complotto, la presenza di un leader carismatico – ma non è casuale che si concentri, nella propria definizione minimale, sull’assenza di chiari riferimenti ideologico-programmatici. In effetti, per Tranfaglia il populismo è soprattutto un fenomeno che emerge prepotentemente nei momenti di passaggio storico, di crisi, di lacerazione, che abbattono le vecchie identità e offrono spazio a nuove proposte. «Il fenomeno populistico», scrive in questo senso, «ha un andamento carsico nella società contemporanea», e compare «di fronte alle crisi belliche come a quelle economiche e sociali, e appare come una reazione al senso di frammentazione di una comunità in precedenza apparsa come coesa e raccolta intorno a valori accettati della grandissima maggioranza delle persone»
(p. 15). E non è allora sorprendente che le tentazioni populiste ricompaiano dopo la fine della Guerra fredda.
La ricostruzione di Tranfaglia – anche se non è priva di riferimenti al peronismo, così come ad altre esperienze – punta però lo sguardo soprattutto sul caso italiano e sul significato specifico che riveste il populismo nella vicenda repubblicana. Tranfaglia ricostruisce così alcune sequenze della ‘tentazione populista’, passando da Achille Lauro a Bettino Craxi, e giungendo a Silvio Berlusconi, senza dimenticare il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, la Lega Nord prima di Umberto Bossi e ora di Matteo Salvini, l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. E naturalmente l’approdo di Tranfaglia non può che essere Matteo Renzi, in cui vengono ravvisati i tratti paradigmatici del leader populista: «Renzi fa parte della generazione postdemocristiana, ma del rigoroso senso dello Stato e delle istituzioni, che pure avevano gli uomini migliori di quel partito, ha ben poco. Quello che non gli difetta è invece la spregiudicatezza, il decisionismo, un certo disprezzo per le procedure e i meccanismi della partecipazione e della dialettica democratica […]. Il populismo di Renzi è, ancora una volta, un populismo che parla alla pancia del Paese, che solletica il disprezzo per gli intellettuali e i ‘professori’, che fa appello diretto al popolo. Gli italiani – dice il premier – sono con lui, contro i ‘gufi’ (da notare l’uso di un termine adolescenziale per irridere gli avversari) che vogliono fermare il cambiamento. C’è, insomma, nel comportamento e nel pensiero del ‘giovane’ Renzi qualcosa di molto vecchio. Che ci riporta agli anni Ottanta e al craxismo, a Berlusconi e alla ‘modernità’ senza sviluppo» (pp. 83-84). 
Anche se forse agli ammiratori dell’attuale Presidente del Consiglio un simile giudizio potrà apparire quantomeno ingeneroso, è bene tenere presente che Tranfaglia ritiene che tutti i partiti italiani siano oggi «infettati dal verme del populismo, sia per il carisma che caratterizza di solito il capo prescelto, sia per i poteri dispotici di cui dispone il capo verso i candidati eletti» (p. 94). E questa consapevolezza spinge Tranfaglia a ipotizzare che il populismo, «carattere originale della nostra storia», sia diventato «il traguardo della politica nel Ventesimo secolo grazie alla fine delle ideologie storiche che avevano contrassegnato, nel bene e nel male, la storia precedente della Penisola» (p. 94). Ed è anche per l’assenza di qualsiasi alternativa reale alla ‘tentazione
populista’ che la previsione di Tranfaglia è piuttosto fosca: «Negli anni a venire, una situazione nella quale i partiti rappresentati in Parlamento (ma anche gli altri che aspirano a entrarvi alle prossime elezioni) sono caratterizzati da un forte degrado e da sprazzi di neopopulismo non consente un grande ottimismo. Rischiamo, insomma di trovarci ancora una volta o di fronte all’uomo forte, che è intervenuto più volte nella nostra storia (Crispi, Mussolini o Berlusconi, per fare qualche nome) o di perpetuare il disagio e l’incertezza che ci hanno accompagnato nel Ventunesimo secolo» (p. 112).
L’interpretazione di Tranfaglia si inserisce in una discussione che sta diventando sempre più fitta. Che la formula «populismo» sia quantomeno problematica è fin troppo scontato, e, a ben guardare, i fenomeni che si intendono indicare con questo nome sono talvolta tanto distanti fra loro da rendere davvero molto problematica la loro inclusione in un’unica categoria. Anche per questo, ciò che Tranfaglia considera come specifico del populismo – la «capacità di coinvolgere le masse degli umani, dicendo loro esattamente quello che vogliono sentirsi dire e, non dovendo attuare un programma preciso o dettato da un’ideologia pregressa» - sembra in fondo definire, più che un fenomeno davvero unitario, uno stile retorico, di cui forse nessuna forza politica può davvero fare a meno. Perché, anche nella retorica delle forze più ideologiche, non è difficile ritrovare qualche traccia – più o meno forte – di populismo. E basti pensare, da questo punto di vista, al Pci di Togliatti, alle polemiche contro i «forchettoni» e all’enfasi sulle masse «popolari» (ben più che sulla classe operaia e sui lavoratori salariati).
Ma c’è un punto davvero importante su cui Tranfaglia si concentra, ossia il fatto che il populismo viene a occupare lo spazio lasciato libero dalle precedenti identità politiche, in corrispondenza di fasi di crisi. In effetti, è per molti versi probabile che oggi l’Europa stia attraversando – non solo, ma anche per effetto della crisi economica – una fase di brusca ridefinizione delle identità politiche, che per esempio sfida in profondità le classiche demarcazioni tra destra e sinistra. Le varie formazioni che possono essere fatte rientrare nei confini labili del «populismo» - da Renzi al Fronte Nazionale, dalla Lega Nord a Podemos – hanno in comune forse proprio il fatto di tentare di definire nuove linee di demarcazione e di costruire
nuove identità. Naturalmente è molto difficile dire oggi se queste proposte avranno successo, e quale opzione riuscirà ad avere la meglio. Ma c’è un elemento che vale la pena tenere presente. I ‘vecchi’ populismi, una volta arrivati al potere, hanno sempre cercato di dare stabilità al proprio regime utilizzando le risorse dello Stato per consolidare il consenso. Ma questo è invece uno strumento su cui, almeno in Europa, i ‘nuovi’ populismi possono contare solo in minima parte. E se per questo ogni proposta ‘populista’, una volta giunta al potere, tende a rivelarsi sempre più fragile di quanto possa apparire, non sembra neppure di poter intravedere margini di stabilizzazione di un quadro e di nuove identità. Tanto che il rischio potrebbe diventare quello di un’ulteriore polarizzazione delle proposte ‘populiste’, con effetti di cui è difficile immaginare l’entità, ma di cui sarebbe superficiale sottostimare la portata.

Damiano Palano

domenica 10 maggio 2015

Un ricordo di Edmondo Berselli. All'Università Cattolica, Milano, giovedì 14 maggio 2015, alle ore 11.30. Con Ilvo Diamanti, Aldo Grasso, Lorenzo Ornaghi


di Velania La Mendola

Ci sono tanti ragazzi oggi che studiano editoria e sognano di lavorare nel mondo della cultura, dei libri. C’era una volta un ragazzo che a 20 anni iniziò come correttore di bozze al Mulino, a Bologna, e poi ne divenne direttore. Aveva parallelamente una spiccata vocazione per la scrittura e il giornalismo e presto divenne collaboratore di testate come il Resto del Carlino, Il Messaggero, La Stampa, Il Sole 24 ore, La Repubblica, L'Espresso. Questo ragazzo si chiamava Edmondo Berselli.
L’Università Cattolica il 14 maggio (Aula Negri da Oleggio, h. 11.30) omaggia lo scrittore e giornalista scomparso nel 2010 con gli interventi di Marzia Barbieri Berselli, Ilvo Diamanti, Aldo Grasso, Lorenzo Ornaghi e Damiano Palano. Un incontro per raccontare chi era questo «intellettuale per vocazione e per moralità, protagonista della cultura italiana refrattario a qualsiasi genere di albero genealogico con cui nobilitare la propria presenza e sotto le cui fronde ripararsi secondo necessità o convenienza», come scrive Ornaghi nella prefazione al libro, al centro del dibattito, Meglio stare a casa (Vita e Pensiero) a cura di Roberto Righetto, che raccoglie gli articoli o interventi pensati e scritti, fra il 2003 e il 2008, per la rivista «Vita e Pensiero».
Nella postfazione Aldo Grasso scrive: «Il rammarico più grande per la scomparsa di Edmondo Berselli è che con lui se n’è andata una figura molto rara nel panorama culturale italiano, un intellettuale capace di raffinate e rigorose analisi politologiche e insieme di vertiginose disquisizioni». Una scrittura coinvolgente e in grado di far vibrare le corde più alta della cultura, che possono però suonare familiari come un ritornello popolare.
Lo si può intuire anche solo leggendo un piccolo estratto dal volume, tratto dall’articolo di Berselli L’industria culturale e il rischio della diserzione.
«A me l’industria culturale piace. O non dispiace a priori, come si usa dire per non essere apodittici. Ho studiato Adorno, a suo tempo, e sarei ancora in grado di applicare le sue categorie hegelo-marxiste, come si diceva allora, alla cultura di massa, comprendendo benissimo le ragioni, anzi la ‘ratio’, dei giudizi horror del maestro francofortese sulla produzione culturale del capitalismo avanzato. Sicché sarei disposto ad accettare anche le opinioni più apocalittiche sull’industria culturale, sui suoi protagonisti e i suoi esiti, rilevando però che si comincia con Adorno e si può anche concludere con Battiato, «minima immoralia, minima immora...», in Bandiera bianca (nell’album La voce del padrone).
Se osserviamo i vertici delle charts librarie negli ultimi mesi, ci si può sbizzarrire volentieri nel cercare le cuspidi del trash, volontario o involontario che sia, e magari rabbrividire. L’Iliade riscritta e semplificata da Alessandro Baricco, il secondo romanzohard boiled di Giorgio Faletti, l’ultimo sicil-noir di Andrea Camilleri. Eccetera. Nessun moralismo. Baricco non fa letteratura, produce letterarietà. Faletti è un caso di successo comprensibile. Comprensibile perché si applica, come dicevano le professoresse, e, come dice Antonio D’Orrico, scrive con la grafia giusta le marche delle auto e degli orologi, scegliendoli appropriatamente in base alle caratteristiche dei personaggi. E Camilleri solletica quel pubblico che ama una Sicilia in bozzetto, e si compiace di leggere «spiò» e «taliò», magari ricordando un weekend a Palermo.
Ma ho anche visto cose che noi umani facciamo fatica a interpretare: ad esempio, nel settembre scorso, lo straordinario successo di Massimo Cacciari al Festival Filosofia di Modena, con quattromila professoresse giunte in pullman da ogni parte d’Italia, che prendevano appunti e guardavano adoranti il filosofo. (L’anno prima, idem il successo di Umberto Galimberti, che ha inflitto al pubblico soprattutto femminile raccolto in Piazza Grande, sotto la Ghirlandina, considerazioni squisite sul fatto che non siamo soltanto «funzionari della specie», e che in questo momento il nostro compito consiste nel tornare a «pensare greco». Vivissimi applausi delle professoresse).
Allora, voglio dire che anch’io so benissimo che il numero, nella cultura, non è potenza. Eppure, eppure. Eppure non sarei così convinto che l’antidoto al consumo di massa e ai suoi feticismi consista nelle nicchie più o meno privilegiate, più o meno silenziose. Tutto sommato, resto affezionato all’idea che in quell’universo di «comunicazione, intrattenimento, spettacolo» che Alfonso Berardinelli vede come flusso e sintesi magmatica della cultura contemporanea di consumo, ci siano delle distinzioni da operare, materiali da ‘processare’, categorie da applicare, generi da interpretare. Fare di tutta l’erba un fruscio, un rumore di fondo, non mi sembra così conveniente, e neanche efficace. Resto anche convinto che il pubblico, quando determina i grandi numeri, gli effetti slavina, i casi Titanic, non sbaglia mai, o pochissimo».

Velania La Mendola







venerdì 8 maggio 2015

Il caso Lombroso non è chiuso. Indagini su Cesare Lombroso e la cultura del Novecento. Un seminario a Milano (Università Cattolica), martedì 12 maggio, alle 14.30


 

In occasione della pubblicazione del volume di Cesare Lombroso, Scritti per il “Corriere”1884-1908, a cura di Damiano Palano (Fondazione Corriere, 2014)
 
martedì 12 maggio
alle ore 14.30
presso l'Università Cattolica
Largo Gemelli, 1 Milano
Aula G.053
 
si terrà un seminario dal titolo
 
Il caso Lombroso non è chiuso.

Indagini su Cesare Lombroso
e la cultura del Novecento
 

 

Programma
 
Introduzione ai lavori
Prof. Paolo Colombo
Università Cattolica del Sacro Cuore e Direttore della Scuola di dottorato in Istituzioni e politiche
 
I volti di Lombroso
Prof. Damiano Palano, Università Cattolica del Sacro Cuore
 
La ricezione letteraria di Cesare Lombroso
Prof. Andrea Rondini, Università di Macerata
 
Dal materialismo allo spiritismo, la felice ambiguità di Cesare Lombroso
Dott. Giorgio Colombo
 
Cesare Lombroso tra ipnosi e delitto
Prof. Paolo Marchetti, Università di Teramo
 
Il controverso lascito di Lombroso nella cultura giuspenalistica fascista
Dott.ssa Emilia Musumeci, Università di Teramo
 
 

giovedì 7 maggio 2015

Il vento non fischia più. Crisi e metamorfosi della sinistra secondo Franco Cassano


Questa recensione al volume di Franco Cassano, Senza il vento della storia. La sinistra nell’era del cambiamento (Laterza, pp. 92, euro 12.00), è apparsa sul sito dell'Istituto di Politica


di Damiano Palano

Introducendo una ricostruzione dedicata alla diade «Destra-Sinistra», alcuni anni fa Marco Revelli riconosceva come ormai i significati di quei termini tendessero a diventare sbiaditi, e forse persino a dissolversi. L’eclissi di quella distinzione, osservava allora Revelli, era per molti versi «l’effetto di un ‘cedimento strutturale’ del contesto stesso in cui quella contrapposizione aveva preso forma (la spazialità ‘solida’ dello Stato-nazione) e aveva catalizzato in sé buona parte dei fattori ‘di senso’ dell’agire politico». E, sulla base di questa lettura, si spingeva a prevedere che l’«inoperosità» dell’antitesi fosse «destinata a continuare, secondo i voti dei tanti fautori del ‘superamento delle contrapposizioni ideologiche’ e delle ‘astratte’ divisioni ideali, per una politica finalmente e pragmaticamente ridotta all’amministrazione dell’esistente, in cui sia la forza delle cose (e del mercato) a suggerire le soluzioni condivise» (M. Revelli, Destra Sinistra. L’identità smarrita, Laterza, Roma – Bari, 2007, p. XIX). Anche se poteva stupire che venisse accolta da un intellettuale da sempre vicino alla sinistra radicale, la tesi formulata da Revelli non era certo nuova. Perché è quantomeno da un trentennio – ma se ne potrebbero trovare anticipazioni anche molto prima, fin dall’alba del Novecento – che il superamento della ‘classica’ distinzione tra destra e sinistra è diventato quasi una sorta di luogo comune, declinato secondo mille varianti. Una delle più fortunate è senza dubbio quella che sostiene che sia soprattutto la sinistra a essere entrata in crisi, o addirittura in una fase di irreversibile obsolescenza. Ed è in questo dibattito che si inserisce anche il pamphlet di Franco Cassano, Senza il vento della storia. La sinistra nell’era del cambiamento (Laterza, pp. 92, euro 12.00), un testo che però non si limita a registrare la ‘crisi’ della sinistra, ma fa seguire alla diagnosi anche delle indicazioni per poter uscire dalle difficoltà.

Il ragionamento di Cassano è in fondo estremamente lineare, e come nel caso di Revelli anche qui il discorso prende le mosse dalla ‘globalizzazione’. Più specificamente, Cassano sottolinea però il peso che le trasformazioni economico-sociali dell’ultimo trentennio hanno sul radicamento sociale della sinistra. Il punto di partenza di Cassano – un punto tutt’altro che privo di aspetti problematici – è però la coincidenza tra la frattura destra/sinistra e il conflitto capitale/lavoro, oltre che la contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica: «Su quelle carte tutte le rivalità e i conflitti che avevano segnato la storia prima della guerra erano stati cancellati o messi al margine, ad eccezione di quello che diventava il vero e proprio architrave dell’epoca: lo scontro tra il capitalismo nella sua forma liberale e il socialismo nella sua forma sovietica. In tal modo il conflitto tra destra e sinistra, che era nato molto prima con la Rivoluzione francese, pagava il costo di essere compresso in quest’unica forma ma al tempo stesso diventava l’asse intorno al quale ruotava la storia e non era più costretto a coabitare, come fino ad allora era accaduto, con altri conflitti» (pp. 4-5). Ora il contesto globale è irreversibilmente mutato, e ciò – secondo Cassano – dovrebbe indurre a riconsiderare completamente la dicotomia: «È necessario partire dal riconoscimento che l’egemonia della linea di divisione fra destra e sinistra e la sua supremazia sulle altre non sono garantite da nessuna provvidenza e da nessuna teologia del progresso. La sua centralità è stata forte in un determinato periodo storico, ma la sua incidenza si è indebolita in molte aree del pianeta, anche se non si può certo escludere che essa ritorni più in là ad assumere un ruolo forte ed evidente, alimentata dalle disuguaglianze e dal bisogno di giustizia sociale. Ma quello che appare innegabile è che, accanto a quella linea di divisione, ne esistono altre, e che esse s’intersecano in modo complesso e conoscono archi temporali di egemonia che dipendono da una pluralità di fattori non tutti facilmente disponibili» (pp. 26-27).

Sulla base di una simile posizione, Cassano si indirizza verso alcune teorie che ‘semplificano’ eccessivamente la realtà, o perché replicano gli schemi marxisti, o perché rappresentano la ‘globalizzazione’ in termini esclusivamente negativi, senza cogliere cioè le potenzialità positive. Il ragionamento di Cassano è certo inficiato da una consapevole forzatura polemica, per cui assume che la dicotomia destra-sinistra coincida con la divisione tra capitalisti e lavoratori, e con la linea di demarcazione tra Usa e Urss: benché certo aiuti a riconoscere alcuni elementi importanti, una forzatura di questo tipo rischia di generare almeno qualche fraintendimento, principalmente perché il conflitto tra datori di lavoro e lavoratori è ‘relativamente autonomo’ dai livelli della mediazione politica. E ciò significa per esempio – come dimostra d’altronde abbondantemente la storia americana della prima metà del Novecento – che energiche lotte operaie possono essere condotte anche senza il sostegno di formazioni politiche più o meno riconducibili alla sinistra. Ma soprattutto che la coincidenza tra la contrapposizione tra destra e sinistra e la divisione tra datori di lavoro e lavoratori – più che il riflesso di una realtà ‘oggettiva’ – è sempre stata l’esito di una costruzione retorica, e cioè di una efficace rappresentazione politica. E questo non implica semplicemente – come Cassano d’altronde riconosce – che la distinzione tra destra e sinistra non coincida affatto con la distinzione tra formazioni ostili o estranee al socialismo e formazioni ‘socialiste’. Piuttosto, vuol dire che l’identità della sinistra non comportava affatto, nella realtà concreta delle dinamiche politiche, una centralità reale del conflitto capitale/lavoro, nonostante essa fosse stata costruita nel corso del Novecento (soprattutto in Italia) proprio sulla centralità simbolica di quel conflitto.

Ma il discorso di Cassano d’altronde è volto in un’altra direzione. Sostanzialmente si riferisce proprio al fatto che l’identità della sinistra novecentesca si è delineata su una certa immagine del conflitto sociale e su un determinato assetto della «guerra civile mondiale». In questo senso, ciò che auspica non è tanto il superamento della distinzione tra destra e sinistra, quando la ridefinizione dell’identità della sinistra, secondo linee che siano in grado di consentire un consolidamento tra i settori ‘deboli’ della società (settori che invece tendono spesso a guardare altrove). Con una formula coincidente con quella di Ernesto Laclau, Cassano ritiene infatti che il problema sia quello della «costruzione del popolo», e – in termini che non possono non suonare sostanzialmente gramsciani – quello di costruire un «blocco sociale»: «All’egemonia del capitale bisogna tentare di opporne un’altra, costruendo un blocco sociale capace di tenere insieme, in una fase storica diversa, le ragioni dei diritti e quelle della competitività, superando vecchie polarizzazioni e invitando giocatori abituati a contrapporsi a giocare insieme per produrre un vantaggio comune» (p. 74). Naturalmente una simile proposta si limita a indicare un terreno, perché rimangono del tutto in ombra le concrete modalità che consentano di tenere insieme «le ragioni dei diritti e quelle della competitività». E se certo è molto facile tenerle insieme retoricamente – come nei celebri accostamenti di Walter Vetroni – è scontato che farli convivere nella realtà di un’azione politica sia molto meno agevole.

Forse però la perplessità suggerita dal ragionamento di Cassano riguarda un altro aspetto, ossia il livello al quale il sociologo sembra concepire la sintesi del «blocco sociale». Se infatti Cassano coglie un punto cruciale quando sottolinea il ruolo di ‘sintesi’ svolto a livello simbolico e retorico dalla costruzione di un «popolo», sembra trascurare il fatto che le rappresentazioni politiche richiedono un terreno per potersi manifestare e per poter ‘mettere in scena’ il conflitto. Negli ultimi due secoli questo terreno è stato offerto soprattutto dall’arena parlamentare: un grande palcoscenico in cui le varie parti politiche possono confrontarsi, dando una rappresentazione plastica della parti in un cui si suddivide il paese. In gran parte è ancora così. Ma il punto è che per una lunga fase del Novecento lo Stato si è mostrato come un attore, se non effettivamente sovrano, comunque in grado di incidere sulle relazioni economiche e sociali. Oggi lo Stato non è affatto morto, come pretende qualcuno, e non è neppure ‘svuotato’ di ogni potere. E da questo punto di vista è sufficiente dare uno sguardo a ciò che accade in Cina o in America Latina per rendersi conto che il capitalismo del XXI secolo ha nello Stato un protagonista tutt’altro che marginale. Ma per quanto riguarda i paesi dell’Unione Europea la situazione è evidentemente diversa. Non perché lo Stato non sia rivelante, ma perché – come ormai sappiamo bene – una serie di strategie di ‘depoliticizzazione’ ha nel corso dell’ultimo ventennio di fatto spogliato i governi nazionali di buona parte della loro autonomia d’azione. Ed è per questo che progettare di «costruire» retoricamente un popolo – come suggerisce Cassano, e come concretamente sta cercando di fare per esempio Podemos in Spagna – può rilevarsi un’operazione possibile, ma insidiosa. Perché il rischio è di costruire retoricamente un «popolo» senza potere. Un popolo non solo privo di basi solide nella società e nei suoi conflitti. Ma privo anche di quegli strumenti – che un tempo offriva lo Stato – di governare ‘dall’alto’ i processi sociali, incidendo sulle relazioni di potere. E per questo destinato a sfaldarsi rapidamente senza lasciare traccia.


Damiano Palano

mercoledì 6 maggio 2015

Una recensione di Lorenzo Mesini a «Filosofia politica» 1/2015, Partito

 
 
Questa recensione al numero monografico di "Filosofia politica" dedicata al lemma "partito" appare su "Pandora. Rivista di Teoria e politica", rivista online la cui anteprima può essere scaricata gratuitamente qui.
 
di Lorenzo Mesini
 
Da diversi decenni si parla di crisi dei partiti. Secondo modalità e prospettive diverse, tutti i livelli del dibattito pubblico e scientifico si sono confrontati con lo scenario politico e culturale in cui matura e sembra consumarsi definitivamente la storia della forma partito, così come la Modernità europea l’aveva concepita. La sua crisi si è imposta insieme a quella del principio di rappresentanza e continua ad imporsi come un dato innegabile all’occhio di studiosi, politici e di tutta l’opinione pubblica. Nessuno ritiene che i partiti attuali siano in grado si svolgere quelle che Norberto Bobbio, finita la guerra, aveva indicato essere le principali funzioni dei partiti: organi motori dello Stato democratico e agenti di educazione politica. È opinione diffusa che quei compiti siano stati disattesi e insieme ad essi tradite le speranze che li accompagnavano.
Non solo. Alla percezione del fallimento e dell’incapacità di condurre con efficacia la loro importante funzione di mediazione tra cittadini e istituzioni, si aggiunge la diffusa convinzione che le dinamiche di potere interne ai partiti siano anche uno dei principali ostacoli allo svolgimento di un’onesta ed efficace politica democratica. La crisi della forma partito e del sistema partitico è diventata così parte integrante della retorica antipolitica, alimentando in diversi casi una vera e propria avversione verso la stessa forma partito. Sempre più distanti dai problemi dei cittadini, i partiti appaiono (e vengono raccontati) sempre più come luoghi in cui dominano corruzione e logiche di potere non democratiche, in cui si fa uso non trasparente di grandi somme di denaro pubblico, al servizio di ambizioni e interessi personali di una casta composta da professionisti della politica e loschi faccendieri.
Dagli anni Settanta ad oggi l’opinione pubblica italiana è stata attraversata, insieme a quella delle maggiori democrazie occidentali, da continue ondate di sfiducia, più o meno profonda, verso i partiti e il loro contributo alla politica dei rispettivi paesi. Secondo modalità spesso inadeguate, l’opinione pubblica coglie e registra mutamenti effettivamente in corso, come dei sintomi. Sarebbe miope non riconoscere questa dinamica. Se da un lato questo stato di crisi che attanaglia i parti ha guadagnato sempre maggiore attenzione e spazio all’interno del dibattito pubblico, attirando l’interesse in merito alle sue cause e ai suoi possibili sviluppi, dall’altro il partito è uscito gradualmente dalle riflessioni teoriche proprie della ricerca storico-filosofica. Come è stato osservato da Nancy Rosenblum i partiti sono diventati gli «orfani» della filosofia politica. All’oggettiva difficoltà di interpretare adeguatamente tale fenomeno di crisi, situandosi alla sua altezza, si aggiunge il crescente disinteresse teorico e critico nei suoi confronti.
L’ultimo numero di «Filosofia politica» intende contribuire a colmare la lacuna presente nella ricerca e nel dibattito sulla forma partito. Proseguendo l’ormai consolidato programma di indagine sul lessico politico europeo, la rivista diretta da Carlo Galli offre sei importanti articoli su un problema tanto complesso quanto attuale, come quello del partito. Chi si aspetta di trovarvi svelati gli arcani dell’attuale crisi e della corruzione dei partiti resterà deluso. Essenzialmente per due ragioni. In primo luogo per la natura storico-politica dei problemi e dei processi in questione, impossibili da risolvere a un livello strettamente teorico. In secondo luogo per via dell’intenzione che muove questo fascicolo di «Filosofia politica» che è quella di fornire dei contributi che possano colmare, per quanto possibile, la lacuna presente attualmente in sede filosofico-politica in merito alla «forma partito» a i problemi ad essa connessi.
Gli autori tracciano un approfondito quadro storico e concettuale che si snoda dall’antichità classica fino alle vicende del Novecento, nel quale il concetto di partito viene indagato e problematizzato in una prospettiva storico-critica, prestando attenzione a non confondere l’evoluzione del «concetto» con le travagliate vicende di quelle organizzazioni che oggi identifichiamo come «partiti politici». Particolarmente rilevante risulta la genesi moderna del concetto di «partito», inconcepibile al di fuori del paradigma della sovranità e dello stato moderno. I contributi da un lato delineano in maniera precisa lo scarto profondo che separa le concezioni pre-moderne dei partiti politici (antica e medievale) dal concetto di «partito» caratteristico dell’orizzonte teorico della politica moderna. Dall’altro viene approfondita l’evoluzione del concetto moderno di «partito» a partire dal dibattito inglese del XVIII secolo fino alla crisi attuale, problematizzandone la logica interna e le aporie in relazione alla democrazia rappresentativa e al moderno stato dei partiti.
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domenica 3 maggio 2015

Zombie, i mostri siamo noi


La storia dei morti viventi attraversa tutta la storia del cinema e ora invade anche fumetti, videogiochi e serie tv come la popolarissima The Walking Dead. Metafora e proiezione delle ansie che attraversano la società e la politica

Questo testo è apparso su CattolicaNews il 30 aprile 2015

di Michele Alinovi 

Non sono mai passati di moda. E negli ultimi anni è addirittura cresciuta la popolarità degli zombie, soprattutto tra fumetti, film, serie tv e videogiochi. Il caso più celebre è la fortunata serie tv cult The Walking Dead, dove l’universo dei morti viventi è spesso metafora di temi politici e sociali attuali. Un parallelismo che è stato al centro dell’incontro The Walking Dead e altri mostri fra immaginario mediale e allegorie della politica, promosso dalle facoltà di Scienze linguistiche e di Scienze politiche e sociali e dal Certa il 28 aprile in aula Gemelli dell'Università Cattolica.
«Sono sempre più frequenti le storie ambientate in uno scenario post-apocalittico abitato da mostri, dove la società civile viene annullata», ha spiegato Damiano Palano, docente di Filosofia politica alla Cattolica. 
Le storie sugli zombie ovviamente hanno una lunga tradizione. Il primo film del genere, White Zombie, risale al 1932, con Bela Lugosi nella parte di Legendre, un mago che guida un gruppo di zombie che lavoravano come schiavi nelle sue piantagioni di zucchero. Da qui seguono altri film fino agli anni Sessanta; ma solo nel decennio successivo inizia a delinearsi la figura dello zombie contemporaneo, spesso metafora di teorie sociali e politiche con radici molto antiche. «Il cannibalismo degli zombie, per esempio, può essere associato agli studi di Rousseau, che pensava alle tribù antropofaghe del Continente Nero per teorizzare lo Stato di natura».
Il vero punto di svolta arriva con il regista statunitense George A. Romero, con La notte dei morti viventi, (1968) e Zombi, uscito dieci anni dopo. In questo film, le orde dei morti viventi che affluiscono con la goffa marcia verso un grande centro commerciale, sono un chiaro riferimento agli “uomini-massa” soggiogati dallo spettacolo ipnotico delle merci. «A un certo punto del film, uno dei protagonisti li descrive così: “Sono alla ricerca di questo posto. Non sanno perché. Ricordano e basta, ricordano che vogliono venire qui”», spiega Palano. «Da quel momento, soprattutto grazie a Romero, il mito dello zombie verrà sempre più utilizzato per riflettere i problemi e i difetti della società del capitalismo e dei consumi». 
Questo è evidente soprattutto nella cinema inglese, dove l’horror si mescola con l’ironia per creare storie paradossali che prendono in giro i vizi e i problemi del mondo di oggi. Un esempio molto ben riuscito è Dead Set (2008), una mini-serie di cinque episodi prodotta dalla Bbc. «La storia è ambientata nella casa del Grande Fratello inglese, dove i concorrenti rimangono gli unici sopravvissuti a un’invasione di zombie», spiega Luca Barra, docente di Culture della Comunicazione in Cattolica. «Alla fine le orde di morti viventi riescono ad entrare nella casa, divorando anche loro». 
Un altro caso è la recente serie In The Flash (2013), dove gli ex-zombie sono curati e reintrodotti nella società. «Il protagonista, un tredicenne insicuro, deve superare le difficoltà e i problemi tipici dell’adolescenza, oltre al rimorso di aver ucciso e divorato decine di uomini», aggiunge Barra.
Nelle storie più recenti, gli zombie non vivono più in luoghi misteriosi o lontani, ma si insinuano nelle città, nelle case, al centro della vita civile. La paura del contagio da parte dei sopravvissuti e la volontà di conservare la propria umanità diventa sempre più metafora di una ribellione contro l’estraniamento da sé e l’omologazione della società contemporanea. «Quello più che colpisce è la mitologia plasmabile dello zombie», osserva Massimo Scaglioni, docente di Storia dei Media, «la sua rappresentazione, che è cambiata seguendo le ansie e dei problemi economici e sociali della civiltà occidentali».
Nel 2010 ha inizio The Walking Dead, prodotta dalla rete statunitense Amc: basata su un fumetto, è nata come serie tv horror di nicchia, è diventata la serie più seguita negli Stati Uniti (il primo episodio della quarta stagione per esempio ha raggiunto il record di 16,1 milioni di spettatori) e in tutti il mondo. 
«In The Walking Dead gli elementi dello zombie di oggi ci sono tutti», spiega Dominic Holdaway, docente all’Università di Bologna, «La serie mostra un universo distopico, dove i pochi uomini rimasti sono costretti a organizzarsi e collaborare insieme per sopravvivere contro gli altri. È presente anche qui, come in altri esempi, la dottrina moralista di una nuova società utopica, dove ogni disuguaglianza è annullata in favore dell'aiuto reciproco».
Secondo Luca Rochira, direttore creativo di Fox Channel Italy, il segreto del successo della serie è che, in realtà, la storia parla di relazioni tra gli uomini, non sugli zombie. «Il protagonista è un uomo che si sveglia dal coma in un modo post-apocalittico; dopo aver trovato la sua famiglia, scopre che la moglie sta con il suo migliore amico. I combattimenti e le lotte, poi, coinvolgono soprattutto gruppi di esseri umani», continua Rochira. «Nella terza stagione, per esempio, muoiono 17 personaggi, ma solo tre persone sono uccise dagli zombie». 
Il successo di The Walking Dead ha dato il via a videogiochi, festival e wepisodes sull’universo dei morti viventi, coinvolgendo un pubblico mainstream. La verità è ormai evidente: gli zombie ci stanno contagiando. 

Michele Alinovi