lunedì 27 gennaio 2020

Paul Tillich e il volto demoniaco del potere. Tradotti due testi del teologo D




di Damiano Palano

Questa recensione ai due volumi di Paul Tillich, Il demoniaco. Contributo a un’interpretazione del senso della storia (a cura di Luca Crescenzi, Ets, pp. 63, euro 10) e Filosofia del potere (a cura di Alessandro Gamba, Glossa, pp. 89, euro 14.00), è apparsa su "Avvenire" il 23 giugno 2018, con il titolo Paul Tillich e l'influenza del demoniaco sugli Stati.


Quando Paul Tillich si trasferì negli Stati Uniti, nel 1933, aveva ormai quarantasette anni. Era nato infatti in Prussia nel 1886, nel 1912 era diventato pastore luterano e allo scoppio della Grande guerra si era arruolato volontario come cappellano militare. Dopo aver conseguito il dottorato a Breslavia, aveva inoltre insegnato a Marburg, Dresda e Francoforte. Ma, soprattutto, era divenuto un esponente del movimento dei «socialisti cristiani». Attraverso una strada originale, era giunto infatti – anche grazie alla scoperta dei manoscritti economico-filosofici del giovane Marx – a una convergenza con le posizioni esposte da Lukáks in Storia e coscienza di classe e con i primi saggi di Marcuse. Il «socialismo religioso» di Tillich, criticando il determinismo della Seconda Internazionale, puntava sostanzialmente a una revisione del marxismo capace di riportarlo «al respiro che aveva nel giovane Marx». Il socialismo doveva cioè opporsi alla «soggettività distorta» dell’era borghese, in cui gli individui e le comunità erano privati dei fondamenti spirituali.

Centrale nella sua riflessione era in special modo il concetto di «demoniaco», che influenzò probabilmente il Doktor Faustus di Thomas Mann e la concezione della dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno. Per accostarsi alla riflessione del teologo, è per questo utile il volumetto Il demoniaco. Contributo a un’interpretazione del senso della storia, tradotto e curato da Luca Crescenzi (Ets, pp. 63, euro 10). Per Tillich il «demoniaco» costituiva la «forma fenomenica» del potere del male, ma era soprattutto l’elemento distruttivo che lo spirito doveva domare, pur rimanendo costantemente esposto al suo riaffiorare. Era cioè la stessa storia dell’uomo a essere demoniaca, dal momento che risultava sempre costretta nell’ambivalenza insolubile tra creatività e distruttività, tra demoniaco e divino. «L’opposizione dei due principi», scriveva per esempio il teologo, «attraversa ogni individuo e ogni istituzione». E sebbene fosse un aspetto del tutto trascurato dall’ottimismo illuminista, era invece necessario riconoscere i simboli del demoniaco per comprendere la crisi spirituale del dopoguerra e la forza del nazionalismo.

Per sfuggire alle persecuzioni del nascente regime nazionalsocialista, Tillich nel 1933 giunse negli Stati Uniti. Le sue opere ebbero subito una buona accoglienza e furono tradotte dal H. Richard Niebuhr, il fratello di Reinhold Niebuhr, un pensatore con cui Tillich aveva senz’altro alcuni elementi in comune (oltre che alcune sostanziali differenze). Almeno alla metà degli anni Trenta, entrambi erano d’altronde vicini ai movimenti socialisti e conducevano una critica ‘da sinistra’ del New Deal. E, inoltre, entrambi esprimevano un approccio morale alla politica, che – radicato nella teologia protestante – non si traduceva però in un atteggiamento moralistico. Si trattava, cioè, di una prospettiva che riprendeva la visione ‘realistica’ della politica, intesa come dimensione segnata inevitabilmente dal conflitto e dal dominio dell’uomo sull’uomo. Ma che, al tempo stesso, si discostava nettamente dalla cinica esaltazione del potere del «machiavellismo». Il realismo era piuttosto il presupposto per tornare ad annodare etica e politica, e per evitare che il potere asservisse gli esseri umani.

Il frutto maturo di questa riflessione può essere riconosciuto nelle lezioni sulla Filosofia del potere, tenute da Tillich a Berlino nel 1956 e ora tradotte in italiano da Alessandro Gamba (Glossa, pp. 89, euro 14.00). Per il teologo, la riflessione sul potere doveva necessariamente partire dalla comprensione delle radici ontologiche del fenomeno. Ai suoi occhi, il potere era infatti «il primo concetto col quale dev’essere caratterizzato l’essere in quanto essere». Più precisamente, l’essere poteva essere definito come «possanza d’essere», «il potere di essere». A contrassegnarlo era cioè una «volontà di potere» – espressione con cui Gamba traduce, con una scelta meditata, la formula Wille zur Macht – intesa non come «la volontà di conquistare potere sugli uomini», ma come «l’autoaffermazione della vita, della vita che spinge dinamicamente oltre sé e supera ogni resistenza interna ed esterna».  Con questa chiave di lettura, Tillich poteva esaminare le relazioni tra individui e gruppi. E giungeva anche ad affrontare, sul finire delle proprie lezioni, il nodo dell’«unità del mondo». Proprio in quegli anni, Carl Schmitt – distanziandosi da Ernst Jünger – escludeva che si potesse arrivare a uno «Stato mondiale». Pur procedendo da premesse diverse, Tillich perveniva alle medesime conclusioni. L’ipotesi di uno Stato mondiale, generato dall’unificazione delle maggiori potenze, era infatti in contrasto con la concezione del potere che aveva delineato. L’ipotesi di un impero mondiale, nato dalle ambizioni imperialistiche di una singola potenza, era invece più realistica. Ma si sarebbe trattato, anche in questo caso, di un assetto destinato a dissolversi, così come nell’arco di circa un secolo era tramontata la pax augustea garantita dall’impero di Roma. «Nulla che sia generato in questo forma», scriveva infatti Tillich al termine del corso, «può durare più a lungo». Perché «il regno dei Cieli non può essere costruito sul terreno del potere e della possanza d’essere, dove l’uno sta contro l’altro». 

Damiano Palano

lunedì 20 gennaio 2020

Se il migrante diventa un'arma. Un libro di Kelly M. Greenhill sull'utilizzo delle migrazioni come strumento di condizionamento politico



di Damiano Palano

In questi giorni la vicenda della nave Aquarius ha riaperto la discussione sull'utilizzo delle migrazioni come strumento di condizionamento politico. Non si tratta infatti di un caso inedito perché in diverse occasioni i flussi migratori - reali o minacciati - sono diventati strumenti con cui gli Stati hanno richiesto e ottenuto vantaggi economici o politici. A questo proposito, "Maelstrom" ripropone una recensione al volume di Kelly M. Greenhill, Armi di migrazione di massa. Deportazione, coercizione e politica estera (Leg, pp. 482, euro 20.00), apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 6 giugno 2017.

Nel 1979, durante uno storico incontro con Deng Xiaoping, il presidente americano Jimmy Carter pose la questione del mancato rispetto dei diritti umani da parte della Repubblica Popolare. E dichiarò che, se il regime non avesse concesso ai propri cittadini la possibilità di emigrare senza restrizioni, gli Stati Uniti non avrebbero potuto commerciare liberamente con la Cina. La replica di Deng lasciò però Carter letteralmente disarmato: «Va bene. Allora, esattamente quanti cinesi le piacerebbe avere, signor presidente? Un milione? Dieci milioni? Trenta milioni?». La minaccia di Deng non si concretizzò mai. Ma l’episodio – ricordato da Zbigniew Brzezinski – può essere considerato come una testimonianza della fragilità che le democrazie liberali spesso mostrano dinanzi alla prospettiva di essere investiti da flussi migratori di massa. Una fragilità che, in qualche caso, può essere sfruttata politicamente da alcuni Stati per ottenere concessioni, o comunque per esercitare pressione.
Proprio a questo tema è dedicato il volume di Kelly M. Greenhill, Armi di migrazione di massa. Deportazione, coercizione e politica estera (Leg, pp. 482, euro 20.00). Greenhill sostiene infatti che, almeno in alcuni casi, le migrazioni progettate coercitive – ossia movimenti transfrontalieri deliberatamente creati o manovrati da Stati o organizzazioni non statali – possano essere sfruttate per ottenere concessioni politiche, militari ed economiche. Nel periodo compreso tra il 1951 e il 2010, la politologa ne riconosce ben cinquantasei casi. Le proporzioni della popolazione coinvolta e lo stesso profilo degli attori protagonisti furono ovviamente, di volta in volta, molto diversi. Nel 1953, l’allora cancelliere della Repubblica Federale tedesca Konrad Adenauer tentò per esempio di sfruttare l’improvviso afflusso di circa trecentomila profughi dalla Germania Est (dipinto come un deliberato piano di destabilizzazione ordito dall’Unione Sovietica) per ottenere aiuti straordinari dagli Stati Uniti. Un caso analogo vide protagonista l’Austria, che nel 1956 dichiarò che non avrebbe più accolto i rifugiati in fuga dall’Ungheria, se gli Stati Uniti non avessero fornito un consistente supporto finanziario per la gestione dell’emergenza. In altre occasioni le migrazioni furono invece direttamente innescate (o favorite) da parte di chi esercitava la pressione. Fidel Castro alimentò per esempio varie volte i flussi di profughi cubani verso la Florida per riaprire la contrattazione con Washington. E nel 1993 l’ex presidente haitiano Jean-Bertrand Aristide ebbe probabilmente un ruolo nel promuovere quell’afflusso di boat people verso le coste degli Stati Uniti che indusse l’amministrazione Clinton a intervenire nell’isola.
Il testo di Greenhill offre sicuramente una chiave di lettura. Ma – è importante sottolinearlo – i suoi risultati non possono essere fraintesi. In particolare, i flussi di profughi e migranti che negli ultimi anni hanno investito l’Europa non possono essere considerati semplicisticamente come il frutto di un deliberato calcolo politico, diretto a indebolire il Vecchio continente mediante una «bomba demografica». Anche se certo alcuni attori hanno tentato di utilizzare e manipolare quei flussi per ottenere benefici (non solo economici). Quasi sempre la coercizione per mezzo di migrazione sfrutta d'altronde flussi innescati da altri processi (spesso ben più complessi). Inoltre questo strumento di pressione – come mette in luce la politologa – riesce a far leva sul fatto che, nelle democrazie liberali, la popolazione tende a considerare la limitazione dei flussi migratori come un imperativo molto più rilevante rispetto a qualsiasi altra questione di politica estera. Al tempo stesso, gli Stati democratici considerano spesso troppo elevato ciò che Greenhill chiama il «costo dell’ipocrisia», ossia il costo in termini di credibilità e reputazione derivante dal mancato rispetto di quei diritti che pure vengono solennemente dichiarati inviolabili. Proprio una simile debolezza rende infatti gli Stati occidentali bersagli sensibili alla minaccia di diventare oggetto di flussi migratori. E dunque spesso disponibili ad accogliere le richieste di quegli attori che usano i migranti come un’arma per ottenere concessioni.

 Damiano Palano


lunedì 13 gennaio 2020

"Carl Schmitt" di Gianfranco Miglio. Una raccolta di scritti a cura di Damiano Palano (editrice Scholé)


Gianfranco Miglio
Carl Schmitt
Saggi

a cura di Damiano Palano
Scholé
(pp. 128, euro 11.50)

I testi raccolti in questo volume scandiscono le tappe principali del dialogo intellettuale che Gianfranco Miglio intrattenne per molti anni con le ipotesi di Carl Schmitt. Benché rendesse sempre un sincero omaggio alle intuizioni del giurista tedesco, Miglio non nascose mai che il suo intento era superare i limiti oltre i quali Schmitt non aveva avuto l’ambizione di avventurarsi. Il suo obiettivo era infatti recidere definitivamente il residuo legame nostalgico con l’esperienza dello Stato moderno che aveva impedito al «grande vegliardo della politologia europea» di riconoscere il cuore oscuro e irrazionale dei fenomeni di aggregazione politica. In quel lungo confronto possiamo così riconoscere, oltre a una grande ammirazione, i segnali di una divergenza significativa. Ma anche per questo le pagine in cui, partendo da Schmitt, Miglio ambiva a procedere «oltre Schmitt», continuano a riproporci una serie di interrogativi fondamentali.



Gianfranco Miglio (1918-2001) fu per un trentennio, dal 1959 al 1989, preside della Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove insegnò Storia delle dottrine politiche e Scienza della politica. Tra il 1992 e il 2001 fu senatore della Repubblica. Tra le sue opere principali, Le regolarità della politica (Giuffrè 1988) e Lezioni di politica (2 voll., il Mulino 2011). Nella collana “Orso blu” è già apparso il suo volume Guerra, pace, diritto (con un saggio di Massimo Cacciari, 2016). Per Morcelliana ha pubblicato Genesi e trasformazioni del termine-concetto ‘Stato’ (2007).


Damiano Palano è Direttore del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove insegna Scienza politica e Teoria politica dell’età globale. Tra i suoi lavori più recenti: Partito (il Mulino 2013), La democrazia senza partiti (Vita e Pensiero 2015), Populismo (Bibliografica 2017), Il segreto del potere. Alla ricerca di un’ontologia del «politico» (Rubbettino 2018).

lunedì 6 gennaio 2020

Il rischio per la democrazia sono gli elettori pigri o i politici inadeguati? Un libro di Fabrizio Tonello




di Damiano Palano

Questa recensione al libro di Fabrizio Tonello, Democrazie a rischio. La produzione sociale dell’ignoranza (Pearson, pp. 146, euro 21.00), è apparsa su quotidiano "Avvenire" il 22 ottobre 2019. 

Trent’anni dopo il fatale 1989 la democrazia sembra aver perso il proprio fascino. L’ondata propulsiva della «terza ondata» di democratizzazione si è esaurita da tempo, mentre i regimi autoritari – tra cui in particolare il gigante cinese – sono tornati a rappresentare modelli alternativi alla democrazia liberale. Ma anche in Occidente la situazione è meno rosea che in passato. Secondo alcuni politologi i cittadini occidentali sarebbero infatti meno attaccati che in passato ai valori democratici e soprattutto le generazioni più giovani risulterebbero maggiormente disponibili ad accogliere opzioni autoritarie. Persino sotto il profilo della discussione intellettuale la democrazia viene inoltre sempre più spesso attaccata, perché negli ultimi anni è affiorata una corposa critica «epistocratica», la quale sottolinea che gli elettori sono quasi sempre ignoranti, disinformati o accecati dalle loro preferenze ideologiche. Nel suo volume Democrazie a rischio. La produzione sociale dell’ignoranza (Pearson, pp. 146, euro 21.00), Fabrizio Tonello prende di petto la questione, per contrastare gli argomenti del fronte «epistocratico». Innanzitutto, avverte che dovremmo dubitare dei sondaggi sulla competenza politica dell’«uomo della strada». Anche per Tonello è comunque innegabile che parte dell’elettorato sia pigro e disinteressato alla dinamica delle istituzioni. A suo a giudizio non dovremmo però dimenticare che questo disinteresse è la conseguenza di una serie di processi maturati gradualmente. Tra questi un ruolo rilevante spetta al mutamento nello scenario comunicativo. Se per decenni lo spettacolo televisivo ha modificato il linguaggio politico, i social media hanno creato un assetto inedito, che ha abbattuto i confini delle situazioni sociali consolidate. Il problema non è dunque riducibile alle fake news, perché, più in generale, i social media «creano per l’utilizzatore una situazione psicologica simile a quella di trovarsi in una folla, dove contemporaneamente si provano sensazioni di incertezza e ansia ma anche di onnipotenza». Al quadro complessivo contribuiscono inoltre l’«infantilizzazione» degli adulti, il decadimento della professione giornalistica, la scomparsa delle agenzie che preservavano le tradizioni di competenza e virtù civica, la trasformazione delle istituzioni educative e lo «svuotamento» delle classi medie. Il pericolo per Tonello non viene dunque dall’ignoranza – vera o presunta – dei cittadini. Semmai nasce da quella dei politici, «visibilmente incapaci di affrontare non solo sfide globali urgenti come quella del riscaldamento globale ma perfino problemi banali di amministrazione quotidiana dei rispettivi paesi». Naturalmente questa ‘assoluzione’ degli elettori dalle colpe che gli sono attribuite dai sostenitori dell’«epistocrazia» ha buoni argomenti. Al di là delle responsabilità, il ritratto che Tonello dipinge del cittadino democratico contemporaneo – infantile, emotivo, persino rabbioso nelle sue reazioni – non rende però l’analisi molto confortante. E suggerisce quantomeno che il lavoro di ricostruzione di un tessuto di civismo sarà molto complesso. 

Damiano Palano