giovedì 29 gennaio 2015

"Identità e riconoscimento, tra biopolitica e biotecnologie". Un corso della Scuola di Alta Formazione Filosofica di Acqui Terme - 19-21 Febbraio 2015


Scuola di Alta Formazione Filosofica di Acqui Terme

XVI edizione

19-21 febbraio 2015

Identità e riconoscimento,

tra biopolitica e biotecnologie

Giovedì 19 febbraio, ore 9

Saluti delle Autorità

Gerardo Cunico (Università di Genova), Introduzione ai lavori

Laura Bazzicalupo (Università di Salerno), Biopolitica e/o riconoscimento?

Damiano Palano (Università Cattolica del Sacro Cuore), Corpi senza voce. Soggettività, potere e linguaggio nell’era biopolitica

Giovedì 19 febbraio, ore 14.30

Relazioni dei borsisti

Venerdì 20 febbraio, ore 9

Barbara Henry (Scuola Superiore Sant’Anna – Pisa) Robotica e tecnologie trasformative: un’analisi filosofica

Michele di Francesco (Istituto Universitario di Studi Superiori – Pavia), Orizzonti filosofici del potenziamento cognitivo del sé

Venerdì 20 febbraio, ore 14.30

Relazioni dei borsisti

Sabato 21 febbraio, ore 9

Graziano Lingua (Università di Torino), Corpi secolari e identità religiose come problema politico

Relazioni dei borsisti

Alberto Pirni (Scuola Superiore Sant’Anna – Pisa), Considerazioni conclusive per un dialogo a venire

Conclusione dei lavori

§§§

Bando di concorso – call for papers

La partecipazione alla Scuola è libera. Sono previste fino a 10 borse di studio di € 200,00 cad. per giovani studiosi e ricercatori che svolgano studi attinenti alle tematiche proposte. Fino a 5 ulteriori borse di studio, di € 100 cad., sono riservate a giovani studiosi e ricercatori residenti in Regione Piemonte e in Provincia di Genova. Le persone selezionate saranno invitate a presentare una comunicazione nell’ambito dello svolgimento della Scuola. Si prevede la pubblicazione delle comunicazioni unitamente alle relazioni presentate dai relatori ufficiali. Per partecipare alla selezione dovranno essere prodotti: 1) richiesta di partecipazione comprensiva di dati anagrafici e recapiti; 2) un sintetico curriculum (1 cartella); 3) l’abstract della comunicazione proposta (1 cartella). Le domande, che saranno vagliate da apposita Commissione scientifica, dovranno pervenire esclusivamente all’indirizzo e-mail: a.pirni@sssup.it. Termine ultimo per la presentazione delle domande: 12 febbraio 2015. Per ogni ulteriore informazione: www.acquistoria.it; info@acquistoria.it; 0144/770210; 340/1063420. Coordinamento: dott. Alberto Pirni (Scuola Superiore Sant’Anna – Pisa). 

domenica 25 gennaio 2015

L’ortopedia del «vincolo esterno». Un libro di Emidio Diodato sulla de-democratizzazione italiana dopo Maastricht

di Damiano Palano


Nel 1977 Guido Carli – che allora ricopriva la carica di Presidente di Confindustria, dopo essere stato dal ’60 al ’75 governatore della Banca d’Italia – rilasciò a Eugenio Scalfari una lunga intervista, nella quale esponeva la propria lettura del ‘caso italiano’ e della crisi in cui versava allora il paese. L’interpretazione che svolgeva Carli non era in fondo molto originale, perché individuava alla base della crisi economica un progressivo deterioramento dello «spirito imprenditoriale», un processo innescato inizialmente dalla nazionalizzazione dell’industria elettrica e dagli effetti negativi del credito agevolato, ma poi condotto a termine dalle mobilitazioni sindacali della fine degli anni Sessanta. Come sintetizzava nitidamente lo stesso Carli: «dal ’69 in poi questo processo di distruzione vera e propria dello spirito imprenditoriale ha registrato un’accelerazione senza confronti col passato. Lo Statuto dei lavoratori e la rigidità della forza-lavoro: sono stati questi i due momenti fondamentali del deterioramento della situazione. Con essi siamo arrivati al culmine della disgregazione del sistema» (G. Carli, Intervista sul capitalismo italiano, a cura di E. Scalfari, Laterza, Roma – Bari, 1977, p. 113). 
Se queste dinamiche, secondo Carli, avevano fatto precipitare la situazione dell’economia italiana, l’ex-governatore dalla Banca d’Italia ritrovava però anche una contraddizione di fondo nelle scelte compiute dalla classe politica italiana: una contraddizione che scaturiva, da un lato, dalla decisione adottata alla fine degli anni Cinquanta di aderire alla Comunità Europea, e, dall’altro, dal permanere di una diffidenza, se non di una vera e propria ostilità, nei confronti della logica dell’economia di mercato. In altre parole, secondo Carli la classe politica italiana non si era resa conto, al momento dell’adesione alla Cee, di cosa quella decisione avrebbe comportato, e in special modo non si era resa conto che – laddove non fosse intervenuto un adeguamento delle strutture del paese – l’economia nazionale non sarebbe stata in grado di affrontare la competizione degli altri partner europei. In questo senso Carli osservava, dinanzi all’allora direttore di «Repubblica»: «Fu un errore non rendersi conto delle conseguenze che quell’adesione avrebbe avuto e dei mutamenti che essa obbligatoriamente comportava. Mi sembra insomma che all’origine della nostra crisi vi sia una profonda contraddizione tra l’aver ‘affondato’ l’economia italiana nel sistema dell’economia di mercato dominante in tutt’Europa e, nello stesso tempo, l’aver conservato o addirittura accresciuto un atteggiamento di ostilità verso l’economia di mercato e verso i meccanismi che vi presiedono» (p. 65).
Carli naturalmente non era affatto contrario all’adesione alla Cee, di cui era stato anzi a suo tempo uno strenuo sostenitore e della cui opportunità continuava a essere fermamente convinto anche negli anni Settanta. Ciò di cui si rammaricava era invece la miopia della classe politica italiana, una miopia che scaturiva a suo avviso proprio dall’ostilità ‘culturale’ nei confronti del ruolo imprenditoriale da parte non solo del mondo sindacale e della sinistra, ma da parte anche di una porzione consistente del mondo democristiano. Ad avviso di Carli, non si trattava inoltre di elementi congiunturali, legati a quel periodo specifico, perché erano atteggiamenti profondamente radicati nella società italiana e molto difficili da scardinare o modificare. Proprio per questo dall’Intervista sul capitalismo italiano emergeva un marcato pessimismo, che certo non precludeva l’individuazione di qualche spazio d’azione, ma che d’altro canto appariva molto lontano dal prefigurare margini di ripresa. 
Nonostante le cupe previsioni di Carli, l’economia italiana iniziò di lì a qualche anno a mostrare segni rilevanti di ripresa, tanto che gli anni Ottanta – a torto o a ragione – sono ancora oggi ricordati da molti come una sorta di perduta «età dell’oro». Che quella crescita, per quanto favorita anche dall’esplosione del made in Italy, fosse in misura non marginale legata anche a quell’espansione del debito pubblico di cui ancora oggi ci troviamo a pagare le conseguenze, era però ben chiaro a Carli. Anche per questo non abbandonò neppure nel corso degli anni Ottanta la propria diffidenza nei confronti della classe politica italiana, giudicata inadeguata a gestire un paese sottoposto a crescenti pressioni internazionali. E così – prima ancora che esplodesse la crisi della cosiddetta «Prima Repubblica» – ricercò le condizioni per introdurre nel sistema italiano una sorta di riforma ‘invisibile’, capace di costringere gli attori politici a rispettare, persino contro la loro stessa volontà, la disciplina dei conti pubblici e i principi dell’economia di mercato. Più specificamente Carli – che fu Ministro del Tesoro nell’ultimo governo Andreotti, al principio degli anni Novanta – individuò nel negoziato europeo che avrebbe condotto alla firma del Trattato di Maastricht, il 7 febbraio 1992, l’opportunità per imporre al sistema italiano quello che più tardi, nelle sue memorie, l’ex-governatore definì un «vincolo esterno»: «La nostra scelta del ‘vincolo esterno’», si legge infatti nelle sue memorie postume, «nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo Paese» (G. Carli, Cinquant’anni di politica italiana, in collaborazione con Paolo Peluffo, Laterza, Roma – Bari, 1993, p. 267). Naturalmente la classe politica – che già non aveva intuito quali fossero le implicazione dell’adesione alla Comunità Europea – non comprese neppure quali sarebbero state le conseguenze di Maastricht, e in particolare – come lo stesso Carli non mancava di osservare – non si rese conto che, sottoscrivendo i vincoli fissati dal Trattato, accettava di fatto «un cambiamento di una vastità tale che difficilmente essa vi sarebbe passata indenne» (ibi, p. 437).
Oggi, a quasi un quarto di secolo dalle trattative che condussero a Maastricht, ci appare del tutto chiaro come il «vincolo esterno» abbia pesato sulla politica italiana molto più di ogni altro aspetto, tanto che persino l’intera parabola del bipolarismo della «Seconda Repubblica» può essere considerata come un tentativo – più o meno riuscito – di rispettare (o aggirare) quel vincolo. E proprio per questo è davvero importante il libro di Emidio Diodato, Il vincolo esterno. Le ragioni della debolezza italiana (Mimesis, pp. 172, euro 15.00), un testo che non si sofferma solo sul presente e sul passato recente, ma si spinge anche all’indietro, per meglio comprendere le radici di un processo che giunge a manifestarsi compiutamente solo al principio del XXI secolo. Il libro di Diodato, politologo dell’Università per Stranieri di Perugia, non è infatti solo dedicato alla politica italiana della «Seconda Repubblica», perché – adottando una prospettiva davvero fruttuosa, e assai poco praticata in Italia – tenta anche di cogliere l’interazione fra la dimensione interna e quella internazionale. Da questo punto di vista, Diodato richiama infatti la vecchia (ma spesso dimenticata) lezione di Otto Hintze, secondo cui il mutamento nell’assetto interno di uno Stato costituisce il riflesso – ovviamente non automatico – delle trasformazioni del sistema internazionale. E, inoltre, ricostruisce la relazione problematica fra lo Stato e la democrazia in Italia, evidenziando la portata dei due «vincoli esterni» che, prima di quello di Maastricht, ‘ancorarono’ il sistema: l’adesione agli istituti di Bretton Woods, dopo la seconda guerra mondiale, e l’entrata nel Sistema Monetario Europeo nel 1979. Ma ovviamente l’analisi è proiettata soprattutto sul terzo «vincolo esterno», rappresentato da Maastricht. E proprio riesaminando il significato che tale vincolo ha avuto per la politica italiana dell’ultimo ventennio, Diodato viene a sviluppare un’analisi preziosa, che riesce a cogliere la connessione fra alcune dinamiche interne e un processo che vede modificarsi il ruolo internazionale dell’Italia.
Ci sono in particolare tre nodi su cui Diodato si concentra, e su cui vale la pena soffermarsi. Un primo aspetto è rappresentato dalla sostanziale impreparazione cui la classe politica italiana della «Prima Repubblica» giunse all’appuntamento europeo di Maastricht. Con la dissoluzione del blocco sovietico, le tradizionali linee di politica estera adottate dall’Italia si trovarono in gran parte spiazzate da un quadro radicalmente nuovo. Il primo episodio in cui emersero le difficoltà fu senza dubbio la Guerra del Golfo del 1991, perché l’opposizione di Arafat all’intervento internazionale contro l’Iraq di Saddam Hussein mise in crisi il ruolo che l’Italia aveva assunto nello scacchiere mediterraneo, incrinando così l’immagine di «media potenza regionale» cui la classe politica del Belpaese aveva lavorato per decenni. Anzi i tentativi di nuovo attivismo sperimentati negli anni Ottanta – nel quadro della ‘nuova guerra fredda’ di Ronald Reagan – si rivelarono, dalla prospettiva del 1989, come «uno sforzo tutto sommato improduttivo e anzi dannoso per il paese», perché «non predispose di certo l’Italia ad affrontare l’appuntamento, molto più impegnativo, di Maastricht» (p. 91). L’assenza di una politica estera adeguata al passaggio in atto doveva invece aprire uno spazio di manovra alternativo, e in questo spazio venne a inserirsi proprio l’iniziativa di Carli, il quale comprese come nel nuovo scenario, successivo alla dissoluzione del blocco sovietico, le priorità della politica estera mutassero radicalmente, perché in particolare la riunificazione tedesca configurava un fattore di nuova instabilità. La conclusione del Trattato di Maastricht avvenne così anche sull’onda della riunificazione tedesca, e la sua architettura fu concepita – certo paradossalmente, giudicando come poi si sono snodate le vicende dell’Ue – come uno strumento con cui gli altri partner europei cercarono di vincolare la nuova Germania unita. Come scrive Diodato in questo senso: «La preoccupazione per il rafforzarsi sul continente di una nazione capace di sovrastare le altre spinse il governo italiano a sostenere con grande fiducia il mantenimento del Patto atlantico e, allo stesso, tempo, a procedere con forza verso l’unificazione politica oltre che monetaria dell’Europa. Si ritenne, infatti, che solo entro un’Europa più unita, ma difesa dal Patto atlantico, sarebbe stato possibile proseguire l’integrazione del continente senza che una nazione (cioè la Germania) prevalesse sulle altre. Tuttavia, questa posizione fu più una scommessa sul futuro che una ponderata scelta diplomatica» (p. 94). Il vincolo che da quel momento avrebbe pesato sull’Italia si è tradotto, nota anche Diodato, in un fardello sempre più gravoso: «non siamo in grado di capire se l’Unione saprà rivelarsi la risposta adeguata alla crisi della sovranità dello Stato moderno. Quel che sappiamo è che l’Italia, a causa del suo ritardo con la modernità, nel corso del Novecento si è trovata a dover gestire un vincolo esterno divenuto sempre più costrittivo. Il rischio è che l’attuale vincolo monetario possa paralizzare lo sviluppo democratico ed economico del paese, soprattutto se la corruzione politica renderà vana ogni virtù nazionale» (p. 103). Più in generale, dunque, il vincolo esterno – da potenziale risorsa – si è tramutato (forse definitivamente) in un peso insostenibile: «i vincoli esterni possono essere considerati salvifici nella misura in cui indicano una via (ragionevolmente univoca) di sviluppo moderno, e quindi sono gestiti o governati mediante una politica estera capace di trasformare le preferenze in potere nazionale. Altrimenti rischiano di paralizzare lo sviluppo democratico ed economico del paese, soprattutto se la riabilitazione ortopedico-monetaria e la rieducazione all’austerità economica non funzionano» (p. 133).
Un secondo nodo su cui Diodato si sofferma è invece costituito proprio dal «berlusconismo», ed è a questo proposito che si impegna in una discussione dell’interpretazione proposta da Giovanni Orsina, secondo il quale Silvio Berlusconi è stato – nell’intera vicenda unitaria – l’unico leader che non si sia proposto di ‘correggere’ gli italiani, mediante soluzioni ortopediche e pedagogiche. In realtà Diodato non concorda con l’interpretazione di Orsina, soprattutto perché tale lettura non considera in alcun modo l’insieme delle pressioni provenienti dall’esterno e dunque il peso del «vincolo esterno». A proposito della lettura avanzata dallo storico, Diodato osserva infatti che essa «non considera la realtà istituzionale dello Stato, quindi le condizioni politiche di esistenza della comunità nazionale e le relazioni internazionali che influenzano la direzione e il carattere delle istituzioni»: quella proposta da Orsina, dunque, è «una spiegazione tutta ripiegata all’interno del paese che esclude ogni riferimento al contesto esterno» (p. 147). Nelle pagine dello stesso Orsina, Diodato però scorge anche le tracce che conducono verso un’altra proposta, che in questo caso considera la parabola e le trasformazioni del «berlusconismo» proprio alla luce delle trasformazioni del quadro internazionale. Se il primo governo presieduto dall’imprenditore vede positivamente la globalizzazione e considera sufficiente ‘liberare’ le risorse presenti nella società italiana eliminando ‘lacci e lacciuoli’, il secondo governo Berlusconi – a partire dal 2001 – deve invece modificare la propria prospettiva, ricercando proprio nella politica (e in special modo nella politica estera) lo strumento grazie al quale legittimare la reazione al vincolo europeo. Naturalmente questi tentativi si risolvono in un fallimento e la caduta del quarto governo Berlusconi, nel novembre 2011, sancisce in modo inequivocabile la conclusione della parabola politica dell’imprenditore milanese, oltre che, al tempo stesso, la sconfitta del proposito di rovesciare il vincolo esterno.
Il terzo nodo su cui l’analisi di Diodato si sofferma è probabilmente quello più significativo, perché riguarda il nesso fra il vincolo esterno e il processo di «de-democratizzazione» del sistema politico italiano. Ma Diodato da questo punto di vista non evoca complotti o minoranze che operano nell’ombra per depotenziare gli istituti della democrazia parlamentare. Piuttosto, attira l’attenzione su ciò che è avvenuto in Italia, e su ciò che non ha consentito di tramutare il vincolo esterno in una risorsa. «Se vi è stato un processo di de-democratizzazione», osserva per esempio, «questo non è imputabile alla rottura di un vincolo interno, ossia del legame fra opinione pubblica e politica estera», bensì «all’indebolirsi del potere nazionale, o, meglio, della capacità e forse della volontà dei decisori politici di trasformare i vincoli internazionali in opportunità per il paese, quindi le preferenze nazionali in azioni di politica estera» (pp. 138-139). E in questo senso il politologo finisce con l’assolvere quel decadimento della comunicazione politica cui è spesso stata attribuita in Italia la responsabilità della degenerazione della dinamica democratica: «Inseguendo il fantasma del berlusconismo, troppo spesso in Italia si è parlato di crisi della democrazia come diretta conseguenza delle degenerazione della comunicazione. Naturalmente ciò è stato imputato alla capacità d Berlusconi di controllare la comunicazione grazie al possesso di televisioni e giornali. Ma si dimentica, in questa critica, che l’insoddisfazione nei confronti della democrazia italiana è esistita sin dalla nascita della Repubblica» (p. 141). Per Diodato, invece, la vera spiegazione di quanto avvenuto in Italia nell’ultimo ventennio – e anche della polarizzazione fra centro-destra e centro-sinistra – va rinvenuta nel quadro internazionale e naturalmente nelle implicazioni del vincolo esterno. «Piuttosto che discutere di Maastricht e della sua moneta unica», osserva infatti, «le forze politiche e anche quelle intellettuali (teologi e parroci) hanno cercato la risposta ai problemi del paese discutendo, come fanno i contendenti di un derby politico, la superiorità del berlusconismo o dell’antiberslusconismo» (p. 141). Ma in questo modo si è fatalmente sottovalutato il fatto che proprio a Maastricht furono scritte le pagine più importanti di quella che sarebbe diventata, qualche anno dopo, la «Seconda Repubblica»: «L’ascesa e poi il declino del berlusconismo hanno avuto origine proprio in questa sottovalutazione. La decisione presa a Maastricht non fu quella di operare un trapianto, bensì di eseguire un più efficace intervento ortopedico-monetario, accompagnato da un forte sostegno pedagogico tutt’altro che approssimativo» (p. 142).
Ciò che abbiamo vissuto negli ultimi vent’anni è stato davvero l’esito delle decisioni di Maastricht. E per quanto le conseguenze di quelle decisioni si siano rivelate molto diverse da quelle in cui confidavano gli estensori del trattato, era ben chiaro fin da allora – forse non alla classe politica italiana, ma sicuramente all’allora Ministro del Tesoro – che cosa avrebbe significato il «vincolo esterno». Se infatti la forma politica dell’Unione Europea è un unicum, che non ha eguali nella storia, è anche piuttosto chiaro che la struttura che ha assunto l’edificio europeo a partire dagli anni Novanta è il risultato di una ben precisa volontà: non soltanto della volontà di procedere nel senso dell’unificazione ‘nonostante’ i popoli, e cioè a dispetto delle resistenze dei singoli elettorati nazionali; ma soprattutto della volontà di ‘de-democratizzare’ i sistemi politici europei, ossia di sottrarre alcune decisioni – principalmente di carattere economico – all’influenza degli elettorati nazionali e dunque alla stessa autonomia delle singole classi politiche. Ciò non ha semplicemente a che vedere con la rinuncia alla sovranità da parte degli Stati nazionali, ma piuttosto appare connesso alle modalità con cui il trasferimento di alcuni poteri a livello sovranazionale si è verificato, soprattutto nel passaggio cruciale che conduce a Maastricht. Il punto è che nella costruzione europea la dimensione della legittimazione ‘verticale’, ossia la legittimazione proveniente dal ‘basso’, dagli elettorati, è stata di fatto sempre sostituita da un meccanismo di prevalente legittimazione ‘orizzontale’: un meccanismo in cui i singoli governi nazionali vengono legittimati dagli altri partner in virtù del rispetto degli accordi assunti collegialmente. Questo sistema di legittimazione scaturisce dalla stessa originaria natura di organizzazione internazionale della Comunità europea, nella quale la dimensione intergovernativa è inevitabilmente prevalente su qualsiasi dimensione che chiami in causa le singole opinioni pubbliche. Con la progressiva trasformazione della Comunità in un’Unione tendenzialmente ‘federale’, a questa dimensione doveva affiancarsi un ruolo più significativo del Parlamento europeo: tale processo, nonostante l’allargamento delle competenze dell’assemblea, non ha però mai realmente indebolito la logica intergovernativa. Il punto, così, è che proprio una simile logica viene a offrire una formidabile soluzione per raggiungere determinati obiettivi ‘neutralizzando’ le resistenze interne. Come osserva Diodato, la tendenza conduce, più che a uno sgretolamento dell’autorità statale, verso «l’emergere di una autorità invisibile, per quanto non meno efficace nel controllo delle società» (p. 102). Come sottolinea chiaramente Diodato, se forse la classe politica italiana del tempo non comprese fino in fondo la portata della decisione, essa era invece ben chiara a Carli, per cui la via dell’Ue era la stessa che conduceva allo «Stato minimo»: «Solo riducendo la sovranità democratica, l’unione monetaria di Maastricht avrebbe potuto vincolare i paesi europei, e soprattutto l’Italia a performance politiche idonee alla competizione globale. […] Maastricht fu quindi una scelta politica, prima che tecnica ed economica, e il Trattato sulla stabilità del 2 marzo 2012 ne ha dato piena conferma» (pp. 102-103).
Nel testo sono molte le riflessioni che richiederebbero un approfondimento. Ma l’aspetto che rende interessante il discorso di Diodato è soprattutto il rovesciamento di una tendenza interpretativa che nel corso degli ultimi dieci anni ha ricondotto la ‘crisi’, il ‘logoramento’ e la ‘decadenza’ della democrazia italiana a quel fenomeno – al tempo stesso politico, economico e culturale – che è stato spesso definito «berlusconismo». Certo ci possono essere pochi dubbi sul fatto che l’ascesa politica di un magnate dell’industria televisiva abbia rappresentato un’anomalia nell’ambito delle democrazie occidentali e sul fatto che la concentrazione di potere economico e politico abbia prodotto ben pochi effetti benefici sulla vitalità delle istituzioni. Ciò nondimeno è davvero molto probabile che le analisi che hanno considerato il «berlusconismo» come la causa della ‘crisi’ democratica – e tra queste analisi importanti e talvolta anche preziose – abbiano quantomeno peccato di ‘provincialismo’, nella misura in cui hanno evitato di confrontarsi col quadro internazionale: e cioè non solo sottovalutando la transizione geopolitica, ma anche trascurando quelle trasformazioni interne che diventano comprensibili (come suggeriva Hintze) solo tenendo conto delle pressioni esterne. Ed è invece proprio perché si concentra su questo nesso fra ‘interno’ ed ‘esterno’ che l’analisi di Diodato viene a fornire indicazioni (anche metodologicamente) importanti, meritevoli di un esame ponderato e di ulteriori verifiche. 
Oltre a offrire delle sollecitazioni fondamentali per individuare la corretta prospettiva da cui indagare il processo di «de-democratizzazione» del sistema politico italiano,  il quadro delineato da Diodato consente anche di sottolineare due elementi rilevanti ai fini di un ripensamento della «Seconda Repubblica» e della crisi – politica, economica e sociale – che l’Italia sta vivendo oggi (e che probabilmente continuerà a vivere nel prossimo futuro). In primo luogo, l’esame compiuto dal politologo consente di smantellare alle radici l’idea che il vincolo europeo sia imputabile ad attori esterni, siano essi la «tecnocrazia» di Bruxelles o la Germania di Angela Merkel. Benché infatti l’evocazione di questi ‘nemici’ torni spesso nella retorica di vecchi e nuovi critici dell’Europa e dell’euro, deve essere ben chiaro che l’assetto odierno dell’Unione – un assetto che certo ha prodotto vantaggi in termini relativi per l’economia tedesca, e che inoltre assegna realmente un ruolo significativo alla burocrazia di Bruxelles – è l’effetto di decisioni prese dai singoli governi nazionali, tra cui ovviamente si trovavano gli stessi esecutivi italiani (i quali anzi furono a lungo i più europeisti del Vecchio continente). In secondo luogo, la ricostruzione compiuta da Diodato suggerisce di considerare Maastricht in una nuova luce: se forse gli effetti che avrebbe prodotto il Trattato furono sottovalutati da una classe politica ‘distratta’, spiazzata dal mutamento epocale del 1989 e ormai prossima al proprio capolinea storico, essi furono invece ben chiari fin dal principio a personaggi come Carli, cui non casualmente Diodato assegna in qualche modo il ruolo, se forse non proprio di ‘artefice’, comunque di ideologo del nuovo «vincolo esterno» europeo. In qualche misura, infatti, il Trattato di Maastricht e i famigerati parametri che oggi vengono da più parti liquidati come insensati e perniciosi furono consapevolmente perseguiti e appoggiati da una componente (forse minoritaria ma non irrilevante) della classe dirigente italiana, rappresentata proprio da Carli, che vide in quella cornice il «vincolo esterno» capace di ‘disciplinare’ tanto la società italiana quanto una classe politica ‘culturalmente’ ostile ai principi dell’economia di mercato. In sostanza – e da questo punto di vista è sufficiente rileggere le memorie di Carli – Maastricht fu percepito come quello strumento con cui ‘sterilizzare’ la democrazia italiana, sottraendo alla classe politica nazionale (e dunque, indirettamente, agli stessi elettori), una serie di decisioni cruciali in campo economico. Ma, soprattutto, fu concepito come lo strumento con cui poter finalmente risolvere quella grande contraddizione che si era aperta nel 1957, e di cui Carli aveva esposto la gravità già nella sua vecchia intervista a Scalfari sul finire degli anni Settanta. Se allora l’Italia aveva aderito alla Cee conservando però la propria diffidenza per le regole della competizione economica, Maastricht offriva finalmente lo strumento con cui ‘educare’ gli italiani e la classe politica del Belpaese alla ‘cultura’ del capitalismo. E, dunque, l’unificazione monetaria rappresentava agli occhi di Carli quella strada che avrebbe definitivamente ‘costretto’ l’Italia a essere ‘virtuosa’, uscendo così dalle secche in cui – secondo la lettura dell’ex governatore della Banca d’Italia – si era arenata a partire dal 1969.
Il lavoro di Diodato consente oggi di comprendere come quella scelta, che certo fu anche il prodotto di una serie di circostanze contingenti, scaturisse da una visione complessiva, che ovviamente trovava nella garanzia offerta dal «vincolo esterno» il tassello cruciale. Sarebbe interessante ridisegnare le geometrie politiche dell’intera vicenda della «Seconda Repubblica» ponendo in primo piano proprio la difesa del «vincolo esterno» (o la sua contestazione), perché alla luce di una simile indagine probabilmente tutte le più consuete linee di divisione dovrebbero essere abbandonate in favore di una nuova mappa di alleanze. Forse però oggi le condizioni sono ormai mature anche per valutare gli esiti di quel grande progetto ‘ortopedico’ e ‘pedagogico’ che Carli si proponeva con l’idea di un nuovo «vincolo esterno». A questo proposito, non si può negare che Carli non avesse colto nel segno, individuando nel Trattato di Maastricht un dispositivo che avrebbe cancellato gran parte dell’autonomia di cui la classe politica aveva potuto disporre in precedenza. E, inoltre, Carli aveva anche compreso nitidamente che proprio il «vincolo esterno» avrebbe favorito la progressiva eliminazione di quei due fattori cui nell’Intervista sul capitalismo degli anni Settanta aveva attribuito il «deterioramento» della situazione italiana e la distruzione dello «spirito imprenditoriale»: lo Statuto dei lavoratori e «la rigidità della forza-lavoro». Ma, se per quanto concerne il livello ‘interno’, la strategia di Carli sembra aver pienamente raggiunto gli obiettivi principali, per quanto attiene invece la dimensionale ‘esterna’ le cose sono molto diverse. Perché Maastricht e la moneta unica hanno inferto – e sarebbe impossibile negarlo – un colpo davvero duro alla competitività economica italiana, oltre che alla stessa società italiana e, ovviamente, alla stessa vitalità delle istituzioni democratiche. Quello «spirito imprenditoriale» di cui Carli auspicava la rinascita non ha d’altronde mai ripreso il vigore sperato, e una parte della ‘nuova classe dirigente’ italiana ha semmai mostrato una marcata vocazione predatoria e una predilezione per la rendita (ed è sufficiente pensare alla tragica vicenda delle ‘privatizzazioni’ degli anni Novanta per averne una conferma).
Al termine del suo lavoro, Diodato concede ancora qualche margine alla possibilità che l’Italia riesca a rovesciare a proprio favore il vincolo esterno, nonostante una notevole mole di indicatori (relativi alla competitività e allo sviluppo umano) sembri fornire un quadro piuttosto cupo, e nonostante la perdita di gran parte del residuo prestigio internazionale sia ormai innegabile. «L’Italia deve fare i conti con i suoi ritardi rispetto alla modernità, e fino a quando non riuscirà a immaginare se stessa come una nazione europea, quindi ad assumere una linea di politica estera che, senza cancellare il vincolo monetario, riesca a gestirlo e governarlo, difficilmente riuscirà a frenare l’inerziale indebolimento e la perdita di prestigio» (p. 156). E in vista di un simile obiettivo, suggerisce Diodato, potrebbe forse aprirsi una finestra di opportunità quando in sede europea saranno finalmente considerati i problemi della periferia. Ma naturalmente – e su questo punto è legittimo essere più pessimisti di Diodato – è proprio tale condizione che rimane per molti versi improbabile, rendendo la ‘chiusura del cerchio’ un’operazione pressoché impraticabile. Non certo perché non siano chiari gli squilibri economici e perché non esistano ipotesi d’azione concreta. Ma perché non sembra affacciarsi all’orizzonte nessuna di quelle condizioni che potrebbero sbloccare lo stallo dell’Unione Europea, modificando così la netta contrapposizione fra Nord e Sud. E proprio per questo motivo, diventa molto più plausibile il rischio che il «vincolo esterno» – quel vincolo in cui Carli prefigurava la salvezza dell’Italia – si tramuti per molti nel simbolo stesso di una democrazia morente e di una società in decomposizione.

Damiano Palano


lunedì 19 gennaio 2015

Autopsia dello Zombie



di Damiano Palano

Questo testo è apparso su Tysm Magazine.

«E attraverso il rifiuto / attraverso i rifiuti / abbiamo trovato asilo / su mondi separati / e per comunicarci / il menù di domani / possiamo solamente / far segni con le mani / e fare le boccacce / d'un linguaggio inventato / che non emette suoni / emette solo fiato / con un po' di paura / che un intellettuale / capisca anche il silenzio / e lo voglia svelare / e ci tolga la voglia / di non capire niente / vivendo come corpo / anche la nostra mente / sapendo che comprendere / vuole dire abbracciare / ma se l'abbraccio è morsa / vuol dire strangolare / sapendo che la morte / non è così lontana / siamo noi che l'amiamo / non è lei che ci chiama / perché siamo i fantasmi / del fantasma d'Europa / che di carne e di sangue ne ha conservata poca / e dice con sospiro / come un basso profondo / unitevi di nuovo / zombie di tutto il mondo».
Sul finire degli anni Settanta, gli «zombie di tutto il mondo» di cui Gianfranco Manfredi evocava l’unione erano naturalmente una metafora di ciò che rimaneva dei movimenti del «maggio strisciante» italiano. In un Lp che riprendeva in chiave satirica i titoli di alcuni film del periodo, il cantautore milanese non mancava infatti di sfruttare il successo di Dawn of the Dead, il secondo episodio della saga dedicata ai morti viventi da George A. Romero, uscito pochi mesi prima e distribuito in Italia da Dario Argento con il titolo Zombi (oltre che con una colonna sonora dei Goblin, ben più efficace di quella originale). Per Manfredi la sinistra sagoma dello zombie diventava così il pretesto per fare dell’ironia (e soprattutto dell’autoironia) sul sogno coltivato durante un lungo decennio di mobilitazioni. Un sogno di cui in quella fase restava ormai solo qualche scampolo rabberciato, messo a dura prova dalla militarizzazione di alcune componenti del movimento e dal prorompente «riflusso». Tanto che il vecchio «spettro», che secondo Marx ed Engels si aggirava per il Vecchio continente, lasciava il posto alle assai meno romantiche movenze dei morti viventi, «fantasmi / del fantasma d’Europa / che di carne e di sangue ne ha conservata poca». Fantasmi di cui valeva ancora la pena auspicare l’unità, ma che certo parevano sempre più abissalmente lontani da quel nuovo ‘spirito del tempo’, che incominciava già allora a mostrare i propri contorni.
Nell’allegoria di Manfredi lo zombie assumeva evidentemente sembianze molto diverse da quelle che sembravano suggerire le sequenze di Dawn of the Dead. Nel film di Romero le orde di morti viventi, che affluivano con la loro goffa marcia verso un grande centro commerciale, parevano infatti alludere agli «uomini-massa» soggiogati dallo spettacolo ipnotico delle merci. «Sono alla ricerca di questo posto», diceva d’altronde uno dei protagonisti della pellicola di Romero osservando la massa di zombie assiepata ai cancelli di quel tempio del consumo, ormai abbandonato: «Non sanno perché. Ricordano e basta. Ricordano che vogliono venire qui». Ma l’operazione che Manfredi operava sulla sagoma dello zombie non era certo la prima rielaborazione di cui l’immagine del morto vivente era oggetto, e non sarebbe stata neppure l’ultima. A ben vedere, infatti, lo zombie subisce una serie di radicali metamorfosi, e soprattutto quando entra a far parte della cultura popolare delle società occidentali – in gran parte proprio per merito di Romero – lo spettro del living dead è destinato a conoscere una serie quasi sterminata di utilizzi, nel corso dei quali spesso acquisisce nuove caratteristiche o esibisce aspetti in precedenza sottovalutati.
Probabilmente la storia dello zombie inizia in Africa, ma le tracce del percorso che poi lo condurrà a irrompere nell’immaginario delle società occidentali passano soprattutto per Haiti. Nell’isola, nel corso del diciottesimo secolo, lo zombie assume infatti le sembianze di un individuo ridotto a una condizione di morte apparente a causa di una polvere somministrata da malvagi sacerdoti, i quali riescono poi a risvegliare quegli individui, ormai privi di resistenza, per costringerli al lavoro dei campi. In questo immaginario popolare il morto vivente è probabilmente un simbolo della schiavitù e della stessa incapacità da parte degli schiavi di poter anche solo immaginare la libertà. Ma da Haiti lo zombie sbarca negli Stati Uniti al principio del Novecento, con il romanzo di William Seabrook The Magic Island, per poi essere sfruttato anche dal cinema, in pellicole degli anni Trenta come L’isola degli zombies (1932) di Victor Halperin. In questa fase il morto vivente è comunque ancora – come nella tradizione haitiana, e prima ancora africana – un individuo drogato da qualcuno che ne vuole sfruttare lo stato di incoscienza. È invece solo molto più tardi, proprio con il primo film di Romero, il celebre La notte dei morti viventi (1968), che lo zombie assume i connotati che poi diventeranno familiari: innanzitutto l’idea che gli zombie siano individui morti che, per motivi mai del tutto chiari, tornano a vivere; in secondo luogo, il motivo che rappresenta la condizione di zombie come in parte assimilabile a una sorta di epidemia, che si trasmette a seguito a un contatto con gli infetti; infine, l’attribuzione allo zombie dell’antropofagia, un espediente in virtù del quale i morti viventi vengono da allora in poi rappresentati come belve fameliche alla costante ricerca di carne umana. 
È scontato rilevare come ognuno dei tratti, che a partire da Romero contrassegnano la sagoma dello zombie, abbia radici profonde, tanto che per molti versi il morto vivente eredita l’iconografia popolare del vampiro. Inoltre è certo che, nella rilettura operata da Romero, qualche ruolo sia stato svolto da uno dei più famosi romanzi di Richard Matheson, Io sono leggenda. Nel romanzo, pubblicato al principio degli anni Cinquanta, Matheson metteva infatti in scena un mondo ormai spopolato, in cui l’unico superstite era costantemente accerchiato da schiere di vampiri: i vampiri di Matheson avevano però ben poco a che vedere con il vecchio immaginario, perché si trattava di esseri umani contagiati da una misteriosa epidemia, probabilmente causata dall’utilizzo di armi batteriologiche concepite per finalità belliche. A partire dalla loro pubblicazione le pagine di Matheson hanno ispirato diverse pellicole, tra cui per esempio Omega Man (1971) di Boris Segal (film noto in Italia con il titolo 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra) e il più recente I am Legend (2007) di Francis Lawrence, nel quale peraltro i vampiri sono ormai divenuti veri e propri zombie. Qualche influenza sul giovane Romero, che di lì a pochi anni avrebbe realizzato The Night of the Living Dead, ebbe probabilmente anche la prima trasposizione del romanzo sul grande schermo, L’ultimo uomo sulla terra (1964), di Ubaldo Ragona e Sidney Salkow, per molti versi la più evocativa (anche in virtù dell’ambientazione della vicenda nel quartiere romano dell’Eur). E forse non è neppure da escludere che qualche ruolo, nella metamorfosi dello zombie, si stato svolto anche da un piccolo cult movie come I Vampiri (1957) di Riccardo Freda, che ruppe con la tradizionale ambientazione gotica, collocando il vampiro in una città contemporanea. Ma il punto più significativo è che, combinando il mito haitiano dello zombie con i vampiri di Matheson, Romero riusciva a dar forma a una figura destinata a imporsi nell’immaginario occidentale e a conquistare sempre maggiore spazio con l’andare del tempo.
Fino agli anni Settanta gli zombie rimasero in fondo confinati a una piccola nicchia dei b-movies, ed è sufficiente pensare agli emuli italiani di Romero e in particolare al grande Lucio Fulci, che rivisitò in più occasioni il genere, in piccoli classici del cinema splatter come Zombi 2 (1979), Zombi 3 (1985) o Paura nella città dei morti viventi (1983). Ma solo più di vent’anni dopo la fortuna dello zombie incomincerà a conoscere un’autentica esplosione nella cultura popolare. Non solo perché lo zombie tornerà al centro di film come 28 giorni dopo o di serie televisive come The Walking Dead, o perché verrà sfruttato da videogiochi, fumetti e romanzi di genere (oltre che nella narrativa più ‘rispettabile’, come nel caso di La strada di Cormac McCarthy). Ma anche perché la sagoma del morto vivente riaffiorerà persino nella stessa cultura ‘alta’, diventando per esempio oggetto delle riflessioni di filosofi e politologi, i quali – certo senza prendersi troppo sul serio – si interrogheranno sul successo di questa figura o la assumeranno come simbolo di una conflittualità assoluta.
Alcuni esempi di questa riflessione sono senz’altro due volumi recentemente tradotti in italiano: La filosofia di zombie e vampiri. Una nuova vita per i non morti, un testo curato da Richard Greene e K. Silem Mohammad (Mimesis, pp. 295, euro 20.00), e Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso lo zombie, un saggio di Maxime Coulombe (Mimesis, pp. 116, euro 12.00). 
Nel primo dei due volumi si incontrano i contributi di intellettuali provenienti da percorsi disciplinari piuttosto eterogenei che – con qualche concessione alla goliardia – indagano i percorsi che conducono dal vampiro fino allo zombie contemporaneo, non senza volgersi verso i possibili significati che i morti viventi assumono nella cultura popolare americana. Ben più stimolante è invece il secondo lavoro, in cui Coulombe, sociologo e docente di storia dell’arte contemporanea all’Università francese di Laval, compie una sorta di ‘autopsia’ filosofica dello zombie, alla ricerca di una risposta al fascino che questa creatura dell’orrore esercita sull’Occidente contemporaneo. Benché forse non proprio sorprendente, la risposta che fornisce Coulombe è comunque interessante, ed emerge d’altronde già dall’enunciazione dell’obiettivo che l’autore del volume esplicita: «fare dello zombie un Virgilio, una guida per osservare la nostra società occidentale», una guida particolarmente efficace perché «sembra indicare le angosce e le paure della nostra società occidentale molto più che le sue speranze o i suoi sogni» (p. 14). Ma Coulombe rifiuta una lettura schiacciata su un’unica interpretazione, perché – e qui coglie un punto importante – nello zombie «confluiscono immaginari a volte contraddittori che dinamizzano la sua figura», immaginari che lo intendono di volta in volta «cadavere e riflesso di noi stessi, mostro sanguinario e individuo traumatizzato, vittima e carnefice» (p. 15), senza che comunque sia mai riconducibile solo a una di queste varianti. Adottando alcune delle indicazioni metodologiche fornite da Georges Didi-Huberman, a partire dall’opera di Aby Warburg (cfr. sul punto L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino, 2006), Coulombe mostra che in effetti «lo zombie rappresenta perfettamente il frutto di un bricolage complesso che arriva a mescolare il mostro haitiano e l’individuo turbato, la bestia sanguinaria e il malato contagioso, la folla anonima e il doppio dell’uomo» (p. 33). Tutte le trasformazioni che la figura subisce nel corso del tempo – nel suo cammino dall’Africa ad Haiti, fino a giungere nel cuore dell’Occidente – hanno comunque significati che non possono essere ricondotti a una logica binaria, e cioè alla lotta fra due (e solo fra due) istanze contrapposte. «Noi infatti siamo convinti» – questa è la tesi di Coulombe – «che lo zombie non sia il risultato di una dialettica tra due desideri contraddittori; forse non è neppure soltanto una questione di desideri, ma anche di timori. Questi timori, distinti tra loro, costruiscono una creatura capace di aprirsi un varco in molteplici modi fino all’immaginario della nostra epoca. Seguire lo zombie come appare oggi nel nostro cinema, nei nostri romanzi e nelle nostre strade, significa capire che rispetto a questo stesso tema si sono espressi molti dei nostri interrogativi, dei nostri dubbi e dei nostri fantasmi. Questa la ragione per cui lo zombie ci affascina ed è così popolare, questa è la ragione per cui è anche un formidabile rivelatore della nostra epoca» (p. 37).
Per decifrare cosa si nasconda dietro il volto dello zombie, Coulombe segue in particolare alcune grandi piste teoriche. La prima – nonostante l’autore prenda in parte le distanze dalla logica dicotomica ravvisabile nella teoria del padre della psicoanalisi – è indicata da Sigmund Freud e dal suo celebre scritto sul «perturbante». Lo zombie in altre parole è legato, in questo senso, al paradigma dell’uomo traumatizzato, all’individuo che ha subito uno shock, e più in particolare lo shock causato – come voleva Walter Benjamin – dalla modernità. «L’appiattimento della soggettività e la difficoltà di vivere nuove esperienze segnano», secondo Coulombe, «l’orizzonte della nostra condizione (post)moderna» (p. 51). Una seconda pista conduce invece a rappresentare la cinematografia degli zombie come una sorta di rito carnevalesco, in cui si ribalta il codice ordinario della cultura contemporanea, fondato sul rifiuto della morte e della carne, anche se in un tale rovesciamento manca del tutto qualsiasi proiezione verso un futuro alternativo: «Ciò che si manifesta chiaramente nella figura dello zombie è una volontà, visibile nella risata, di rovesciamento delle costrizioni sociali. Tuttavia stiamo parlando di una volontà priva di progetto. Nel momento in cui la trama lo renderebbe possibile, l’orrore non riesce a trasformarsi in utopia. Essa non fa che liberarci mostrando i nostri obblighi, le nostre norme minate. In questo gusto per lo sfogo, in questa volontà di assistere alla fine del mondo occidentale, in questa incapacità di sognare, sopra le rovine dell’ordine stabilito, un altro mondo possibile, si manifesta una certa pulsione per la morte. Qui arriviamo a toccare il nodo centrale fantasmatico che si incarna nel mondo contemporaneo ed è raffigurato nel cinema zombie: il desiderio di assistere, in mancanza della possibilità di sognare qualcosa di migliore, alla distruzione del mondo» (p. 81). Ed è questo motivo che conduce d’altronde a ritrovare, dentro l’immaginario di tutta la fantascienza apocalittica, un riflesso della freudiana pulsione di morte: «una parte di noi desidera la distruzione dell’umanità come modo – metaforico – di riprendere il controllo di un fenomeno che ci è generalmente imposto. Il sogno dell’apocalisse funziona come una pulsione di morte, non semplicemente comportando una distruzione dell’umanità, ma permettendo di liberarsi da una passività – sociale, politica, ecc. – imposta. La fine dell’umanità sarebbe il nostro riscatto, non ne saremmo più vittime poiché l’avremmo, almeno immaginariamente, sognato, sperato. D’un tratto essa potrebbe liberarci: il film dell’apocalisse ci mostra questo fantasma. La finzione ci permette qui una riscossa immaginaria» (p. 103).
Le considerazioni di Coulombe – talvolta davvero interessanti, in qualche caso non del tutto convincenti – meriterebbero un approfondimento ulteriore. Ma, probabilmente, meriterebbe anche uno sviluppo più articolato il richiamo dell’autore alla riflessione di Giorgio Agamben sull’homo sacer e sul fondamento biopolitico dell’intera esperienza occidentale. Nel discorso di Coulombe le ipotesi di Agamben sul ruolo costitutivo dell’«eccezione» e dunque sullo spazio di indeterminazione fra zoé e bios, tra la vita ‘animale’ e la vita ‘qualificata’ (propriamente umana), vengono utilizzate per interpretare l’orrore nei confronti dello zombie, come variante del medesimo orrore (o della pietà) che proviamo dinanzi a individui privati di bios, e cioè a individui ridotti a una condizione di «quasi vita». «Lo zombie è una figura immaginaria, il comportamento dei protagonisti nei suoi confronti fornisce indicazioni sulla nostra cultura. Qui la reazione dei protagonisti davanti allo zombie è molto simile alle reazioni che noi abbiamo di fronte a individui che si trovano in uno stato vegetativo irrimediabile, individui che non sarebbero, ormai e per sempre, che zoè» (p. 58). Intesa in questo senso, l’immagine agambeniana dell’homo sacer finisce evidentemente col diventare poco più di una caricatura, che peraltro smarrisce del tutto il riferimento al potere ‘sovrano’, come potere che agisce nello spazio di indeterminazione tra zoé e bios. E in questo senso Coulombe non coglie alcune sollecitazioni pure molto importanti per sviluppare il suo progetto. È infatti molto probabile che proprio le ipotesi di Agamben potrebbero consentire di interpretare almeno alcuni frammenti dell’immaginario cresciuto attorno allo zombie. 
Come ha sostenuto Agamben in alcune sue pagine fondamentali, la macchina antropologica occidentale riesce a scoprire ciò che è proprio dell’essere umano solo grazie a un’operazione di esclusione, e cioè grazie alla fissazione di un confine tra la vita specificamente umana e la vita di qualcosa che, pur essendo vivo, non è qualificabile come «umano». In questa macchina è in gioco proprio «la produzione dell’umano attraverso l’opposizione uomo/animale, umano/inumano»: per questo, essa non può funzionare se non «attraverso un’esclusione (che è anche e sempre già una cattura) e un’inclusione (che è anche e sempre già un’esclusione)» (G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 42). Inevitabilmente, la possibilità di distinguere fra umano e inumano prevede uno spazio di indeterminazione. Ed è questo lo spazio che viene occupato da quella galleria di mostri – di cui lo zombie rappresenta l’ultima variante – che si presentano come al tempo stesso «umani» e «non (più) umani». Nella passione che mostra per la sagoma dello zombie, la cultura popolare contemporanea non fa altro che riflettere il fascino e al tempo stesso la repulsione verso quella zona di indeterminazione, inevitabilmente ‘perturbante’. Ma è anche molto probabile che nel successo dell’immaginario dei morti viventi si trovino confusi tutti gli incubi dell’era biopolitica. Un’era in cui l’estensione globale dell’impero globale abbatte ogni barriera fisica tra il dentro e il fuori. E un’era in cui tutte le mitiche figure dell’estraneità – figure che in un passato neppure troppo lontano risultavano proiettate oltre i confini, o intraviste (forse solo immaginate) nelle misteriose foreste di remoti scenari esotici – vengono fatalmente introiettate. Tanto che nel famelico, bestiale eppure così familiare ghigno dello zombie possiamo riconoscere – ‘condensati’ come in un grande incubo notturno – tutti gli spettri della «natura umana». 

Damiano Palano

sabato 10 gennaio 2015

Un epitaffio per la scienza politica italiana?

di Damiano Palano

Questa recensione è apparsa sul sito dell'Istituto di Politica - RdP online.


Nella primavera del 1973, nell’alveo dell’Associazione Italiana di Scienze Politiche e Sociali, si costituì una nuova sezione, da cui poco meno di dieci anni dopo, nel 1981, sarebbe nata la Società Italiana di Scienza Politica (Sisp). Quel passaggio, che seguiva di poco la fondazione della «Rivista Italiana di Scienza Politica», sanciva senza dubbio una tappa importante per l’affermazione della disciplina (che peraltro da alcuni anni, con la riforma del 1968, era stata stabilmente introdotta nei piani di studio delle Facoltà di Scienze politiche). Il volume Quarant’anni di scienza politica in Italia, curato da Gianfranco Pasquino, Marta Regalia e Marco Valbruzzi (Il Mulino, pp. 322, euro 26.00), nasce proprio con l’obiettivo di celebrare questo anniversario. Il testo non si propone in realtà di stilare un bilancio, ma solo di offrire una panoramica sui campi di studi più frequentanti dai membri della Sisp, almeno secondo il quadro che emerge da una rilevazione condotta dall’associazione. Per ciascuno dei singoli ambiti sono così proposti brevi saggi, in cui alcuni tra i più noti cultori della disciplina ricostruiscono il dibattito e lo stato delle ricerche. 
Esaminando i numerosi campi individuati (Concetti e metodi, Democrazia e democratizzazioni, Comunicazione politica, Opinione pubblica e comportamento politico, Partecipazione e movimenti sociali, Organizzazioni di partito, Sistemi elettorali, Rappresentanza e classe politica, Governo e processo legislativo, Sistema giudiziario, Politiche pubbliche, Unione Europea, Relazioni internazionali) non può certo sfuggire l’assenza della Teoria politica, quantomeno perché si tratta di un ambito tradizionalmente molto presente fra i cultori italiani degli studi politici, e nel quale è peraltro molto più evidente che altrove un tratto marcato della stessa identità culturale italiana. Se un quarto di secolo fa, in un rapporto sulla scienza politica italiana commissionato dalla Fondazione Agnelli, Leonardo Morlino dedicava un corposo capitolo a Teoria e macropolitica, oggi all’interno del volume curato da Pasquino, Regalia e Valbruzzi si può rinvenire un’eco flebile di questi temi solo nel saggio firmato da Mauro Calise e Roberto Cartocci su Concetti e metodi. Ma l’esclusione della teoria politica non è – ed è bene ricordarlo – l’esito di una valutazione soggettiva compiuta dai curatori: dai dati riportati nel volume risulta infatti che i membri della Sisp dichiarano di considerare, fra i propri principali settori di ricerca, la Metodologia e la Teoria politica (peraltro fra loro accomunate in un’unica voce) solo in una percentuale irrisoria: 0,5%, pari a 2 risposte su 362 complessive. E davvero non è difficile ritrovare una conferma di questa sensibilità nelle pagine della «Risp», da cui gli interessi teorici ormai risultano sostanzialmente, se non del tutto, assenti. 
La scomparsa della Teoria politica dal perimetro della scienza politica italiana è naturalmente compensata dal crescente interesse rivolto ad altri settori, come le Politiche pubbliche, le Relazioni internazionali e l’analisi dei sistemi partitici. A proposito dell’evoluzione della disciplina è però interessante l’analisi svolta da Regalia e Valbruzzi nel saggio introduttivo, in particolare nel momento in cui si interrogano sull’«istituzionalizzazione» della disciplina. Rispetto al grado di internazionalizzazione l’esame restituisce un risultato interlocutorio, indice comunque di una progressiva apertura. Ma è forse sul tipo di sapere che i politologi italiani ritengono di disporre che emergono alcuni elementi di riflessione interessanti, perché dai risultati dei questionari risulta che «all’incirca tre studiosi su quattro credono che la scienza politica sia in grado di creare un sapere applicabile» (p. 25). Sul punto, Regalia e Valbruzzi si sentono però in dovere di precisare quali siano i contorni entro cui concepire l’applicabilità della scienza politica, e in questo senso il riferimento cui attingono è, prevedibilmente, il contributo sul tema fornito da Giovanni Sartori fra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, in più occasioni rivisitato e aggiornato da molti suoi allievi. «Per chi fa scienza politica» - osservano - «essere orientati all’applicazione significa (saper) produrre un sapere verificabile o, nella versione popperiana, falsificabile. Questo non vuol dire che lo scienziato politico sia chiamato a indossare una qualche ‘casacca’ politica o a tramutarsi direttamente in un decisore pubblico. La scienza politica è applicabile perché viene sottoposta alla prova dei fatti, alle dure repliche del futuro. […] Se la scienza politica non guarda davanti a sé e si limita unicamente a coltivare il rapporto tra teoria e ricerca, a tutto svantaggio di quello tra teoria e pratica, i rischi di irrilevanza e inutilità si fanno molto concreti» (p. 26). E non si tratta in effetti di rischi esclusivamente ipotetici. Perché chiunque consideri lo stato della scienza politica italiana oggi, quando le condizioni di una piena legittimità sono ormai conquistate, non puo' non riconoscere che i rischi principali derivano proprio dalla sostanziale irrilevanza, o persino dalla completa inutilità, delle principali ricerche politologiche per la società italiana. È evidente che si tratta di rischi che corrono spesso le scienze sociali, chiamate talvolta a svolgere il ruolo della nottola di Minerva. Ma è anche paradossalmente molto probabile che si tratti di rischi che derivano dalla stessa identità professionale attorno a cui, sulla scorta del magistero sartoriano, si è costruita la scienza politica italiana. 
Le fondamenta ‘neo-positiviste’ su cui Sartori innalzò la propria visione della scienza politica – di cui la disciplina italiana è la filiazione – sono state infatti conservate quasi senza alcuna discussione, sebbene il dibattito epistemologico nel campo delle scienze sociali abbia ormai del tutto accantonato posizioni così ingenue come quella con cui il politologo fiorentino puntava a distinguere nettamente il linguaggio della «filosofia politica», contrassegnato da uno sbilanciamento verso il ‘dover essere’, e il linguaggio della «scienza politica», caratterizzato invece da uno sguardo capace di cogliere la realtà empirica dietro ogni deformazione ideologica e filosofica. Nel corso di mezzo secolo quei principi sono rimasti sostanzialmente indiscussi nella comunità politologica italiana, probabilmente perché – dal momento che essi avevano delimitato il campo della disciplina, preservandolo dalle intrusioni di vicini aggressivi – una loro eventuale messa in discussione doveva essere percepita come una potenziale minaccia di quell’autonomia tanto faticosamente conquistata. Ma quei principi dovevano produrre col tempo conseguenze ben più rilevanti di quanto Sartori e i suoi allievi sospettassero, perché dovevano contribuire a legittimare – più o meno esplicitamente – proprio l’eliminazione di qualsiasi prospettiva teorica dagli interessi ‘legittimi’ dei politologi italiani.
La tendenza, come emerge dal volume, ha ormai superato il punto di ‘non ritorno’. E non è in questo senso affatto sorprendente che l’attuale Presidente della Sisp, Pietro Grilli di Cortona, abbia osservato (non senza qualche motivo polemico) che il più importante libro di Sartori, Democrazia e definizioni, sarebbe considerato oggi come un testo completamente esterno ai confini della disciplina: forse sarebbe percepito come un testo di filosofia politica, o forse come un lavoro di storia delle dottrine politiche; sicuramente non come un libro di scienza politica. Ma l’espulsione della teoria politica – o forse, si potrebbe anche dire, la sua ‘rimozione’ – ha una serie di conseguenze notevoli. Una prima implicazione consiste per esempio nell’incapacità di articolare domande che siano rilevanti per la società italiana. Ed è in questo senso significativo che due giovani ricercatori come Regalia e Valbruzzi abbiano ben presente l’inevitabile inaridimento di una scienza politica che smarrisca la propria connessione con la ricerca teorica: «studiare fenomeni ‘che contano’ comporta anche uno sforzo di teoria politica che oggi, non soltanto in Italia, è andato attenuandosi, fin quasi a scomparire. Se siamo alla ricerca di un sapere politologico rilevante tanto per i suoi studiosi, quanto per l’opinione pubblica in generale, sarà bene ricordare che la filosofia politica precede (ma non produce) la scienza politica e che solo il dialogo fra queste due discipline può creare le condizioni per una migliore politica. Per usare una formula: la scienza senza filosofia non ha una bussola; la filosofia senza scienza non ha una mappa» (p. 29). Ma una seconda conseguenza riguarda lo stesso rapporto della scienza politica con l’identità culturale italiana. Oltre che una rottura con la ‘vecchia’ scienza politica di Gaetano Mosca, l’espulsione della teoria politica comporta infatti anche una completa divaricazione rispetto a quel modo di guardare alla politica – con uno sguardo cinico e realista, ma rivolto sovente verso obiettivi di trasformazione – che costituisce un tratto dell’identità italiana, almeno a partire dalle pagine di Machiavelli (Si veda su questo aspetto anche Se la scienza politica dimentica il potere). Si tratta in altre parole di un completo divorzio da quel «pensiero vivente» in cui Roberto Esposito ha individuato la specificità del discorso filosofico italiano, oltre che da quella Italian Theory che ne costituisce la più vivace declinazione odierna.
Alcuni mesi fa Ernesto Galli della Loggia ha biasimato la scelta compiuta dalla «Rivista Italiana di Scienza Politica» di abbandonare la lingua nazionale, e dunque di pubblicare, a partire dal 2013, solo contributi in inglese. Motivata dalla precisa volontà di favorire l’integrazione internazionale della comunità politologica italiana, questa decisione è stata seguita anche dalla rottura con la casa editrice Il Mulino, che ha pubblicato la rivista fin dalla sua fondazione ma che la Sisp oggi non giudica più adeguata all’obiettivo di raggiungere un ampio pubblico straniero. La scelta è naturalmente del tutto comprensibile, anche perché essa appare pienamente coerente con l’obiettivo dell’internazionalizzazione, che la gran parte dei politologi italiani non cessa di invocare da anni. Non è però difficile immaginare che una simile decisione finirà con l’indebolire ulteriormente quel legame identitario che tiene insieme la comunità politologica italiana. Un tempo i politologi italiani erano infatti accomunati dalla medesima metodologia, da un ambito di ricerca piuttosto omogeneo (contrassegnato in prevalenza dallo studio dei diversi aspetti del ‘caso italiano’, osservati in chiave comparata), dal riferimento a un maestro indiscusso (identificato inequivocabilmente in Giovanni Sartori) e probabilmente anche da una visione condivisa dei problemi del Paese e delle soluzioni adeguate per ‘sbloccare’ il sistema politico. Oggi la situazione è invece completamente mutata. La frammentazione del campo di studio e la specializzazione rende persino difficile considerare molti studiosi come appartenenti alla medesima disciplina (basti pensare alla distanza abissale che separa i cultori delle Relazioni internazionali dai ricercatori che si occupano di Politiche pubbliche). Ed è forse per questo che la trasformazione della «Risp» in una rivista internazionale potrebbe diventare la pietra tombale per la scienza politica italiana. Non tanto perché in Italia finisca la scienza politica (che invece continuerà ad avere molti cultori, apprezzati e rigorosi). Ma perché finirà la vicenda di una scienza politica specificamente ‘italiana’, per molti tratti distinta da quella nord-americana e da quella coltivata in altri paesi europei. E se questo, come è molto probabile, avverrà davvero, fra qualche anno forse ritroveremo nel volume curato da Pasquino, Regalia e Valbruzzi, più che un bilancio sui quarant’anni della disciplina, qualcosa di simile a una sorta di epitaffio per la scienza politica italiana.

Damiano Palano