giovedì 30 ottobre 2014

Il moto pendolare fra la ‘parte’ e il ‘tutto’. Una recensione a un volume di Massimiliano Gregorio

di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Massimiliano Gregorio, Parte totale. Le dottrine costituzionali del partito politico in Italia tra Otto e Novecento (Giuffrè, Milano, 2013, Collana «Per la storia del pensiero giuridico moderno», n. 101), è apparsa sulla rivista «Storia del pensiero politico», n. 2, 2014. 

L’insofferenza che l’opinione pubblica sembra oggi nutrire nei confronti dei partiti in tutte le democrazie occidentali può forse alimentare il sospetto che questa forma organizzata dell’azione politica sia giunta al capolinea. A ben vedere, però, la pessima fama che circonda i partiti non è affatto eccezionale nella lunga vicenda del pensiero occidentale, perché una svolta significativa avviene solo a partire dalla fine del XVIII secolo e, soprattutto, al principio del Novecento. Un contributo rilevante alla ricostruzione di questo passaggio teorico e concettuale proviene ora dal volume di Massimiliano Gregorio, che in una approfondita e ricca analisi si sofferma sulle dottrine costituzionali italiane nel periodo compreso tra gli ultimi due decenni dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del XX secolo. L’idea di fondo che orienta il lavoro è ben sintetizzata dal sintagma che dà il titolo al volume, perché l’espressione ossimorica «parte totale» viene a descrivere «la dialettica entro cui l’idea di partito è da sempre costretta a muoversi, quella tra parte e tutto, tra pluralità degli interessi e necessità di reperire un principio di unità politica» (p. VIII). Secondo Gregorio il concetto di partito è infatti destinato a oscillare nello spazio concettuale compreso tra la ‘parte’ e il ‘tutto’, alla costante ricerca di un punto di equilibrio. 
Nella stagione liberale – la prima fase considerata da Gregorio – l’atteggiamento della dottrina costituzionale italiana nei confronti del partito risulta segnato dalla marcata influenza esercitata dalla Staatslehre tedesca. Il dibattito può però accogliere parzialmente il partito perché lo intende come l’articolazione interna di una classe politica compatta dal punto di vista sociale e ideale, e dunque come il semplice riflesso della distinzione tra una maggioranza e un’opposizione che comunque «non poteva più rappresentare un reale pericolo di frammentazione» (p. 21). Questa prima legittimazione rimane però molto limitata, sia perché le riserve tradizionali sull’opportunità di formare veri e propri schieramenti partitici non vengono mai meno, sia perché l’infiltrazione della politica nella pubblica amministrazione viene ben presto interpretata come uno dei più nefasti prodotti della contrapposizione tra maggioranza e opposizione propria del sistema parlamentare. Dal punto di vista dottrinario, la soluzione che si impone – e che segna a lungo il dibattito all’interno della ‘scuola giuridica nazionale’ – è però quella avanzata da Vittorio Emanuele Orlando: una soluzione che certo riconosce un ruolo ai partiti, ma che, al tempo stesso, li colloca su un terreno ‘politico’ del tutto esterno al perimetro in cui domina la personalità giuridica dello Stato. 

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sabato 25 ottobre 2014

Il Novecento «oltre» il Novecento. Mario Tronti in un libro di Franco Milanesi


di Damiano Palano


Questa recensione al volume di Franco Milanesi, Nel Novecento. Storia, teoria, politica nel pensiero di Mario Tronti (Mimesis, Milano, 2014) è apparso su "Tysm magazine" il 15 ottobre 2014. Il libro di Milanesi sarà presentato a Milano, presso la Casa della Cultura (Via Borgogna 3), giovedì 20 novembre, alle ore 17.30. Oltre all'autore, parteciperà alla discussione Carlo Formenti.

Nel gennaio 2003, assistendo ai funerali di Gianni Agnelli, Marco Revelli si immergeva tra la folla che sfilava dinanzi al feretro dell’«Avvocato» per ricercare le orme di quella che – ancora pochi anni prima – era stata la «capitale del lavoro», e forse anche l’unica vera «città-fabbrica» italiana. In realtà ben poco era rimasto dei miti dell’industrialismo novecentesco. Il Lingotto, in cui era ospitata la camera ardente, non mostrava più nulla della sua vecchia natura di tempio modernista della produzione. Tra i volti disciplinatamente in fila per rendere il proprio omaggio alla salma, gli operai non erano neppure riconoscibili. E anche il rituale funebre finiva col sembrare abissalmente distante dalla geometria dell’ordine della Fabbrica, assumendo piuttosto i contorni di una manifestazione tardo-ottocentesca. «Non è stato un funerale ‘industriale’», scriveva Revelli, ma un rito «d’ancien régime», «che ha scoperto, sotto la patina del secolo industriale, una Torino di longue durée, radicalmente monarchica nel proprio immaginario collettivo, nella gestualità, nei linguaggi simbolici, nella struttura delle fedeltà e dei comportamenti, popolana più che popolare, cortigiana più che disciplinata». Dinanzi al feretro, veniva così a riemergere un immaginario pre-industriale, tutto costruito su una polarità elementare: «il corpo del sovrano e la folla informe dei ‘suoi’ sudditi», «la ‘persona’ nella quale il corpo sociale si rappresenta e riconosce, e la massa informe di chi senza quel simbolo non sarebbe». Ma dei soggetti politici ed economici che avevano segnato il Novecento non sembrava più neppure vagamente visibile una traccia sbiadita: «Mancava, clamorosamente, fragorosamente, direi, l’Impresa […]. Mancavano le Fabbriche, i loro simboli, le loro insegne, i loro nomi. Mancavano gli Operai, le figure del Lavoro, riconoscibili, visibili fino a pochi anni fa. Mancava […] il Lavoro. Si vedeva solo il Potere – nella sua forma tradizionale di struttura di dipendenza personale, di essenza della ‘sovranità’ -, ma il Lavoro che è la struttura in cui nella modernità il potere s’innerva, si fa pratica e conflitto collettivi, e infine Produzione, quello non si vedeva, come scomposto e dissolto nell’aggregazione casuale della folla, nei volti indistinti della ‘gente’» (M. Revelli, La cerimonia degli addii. Il funerale di Gianni Agnelli e la fine dell’industrialismo, in Id., Controcanto, Chiarelettere, Milano, 2010, pp. 207-208).
Non era la prima volta che Revelli si imbatteva nell’«aggregazione casuale della folla», nei «volti indistinti della ‘gente’», in quel residuo pre-moderno, in cui la vocazione industrialista di Torino sembrava totalmente sommersa dalla sua soggezione sabauda a un potere monarchico. Più di trent’anni prima, seguendo in presa diretta – come ‘intellettuale militante’ – i trentacinque giorni dell’occupazione operaia di Mirafiori, aveva intravisto nella «marcia di quarantamila», nei volti compassati dei quadri di fabbrica che il 14 ottobre 1980 sfilarono per le vie di Torino chiedendo la rimozione dei picchetti, la nitida anticipazione di un mutamento d’epoca. «Venivano giù a branco, uniformi e grigi come il muro dei reparti», aveva scritto in una cronaca per alcuni aspetti persino profetica, «con un rumore sordo di ciotoli che rotolano, di bisbigli trattenuti, di passi strascicati, quel rumore che esce dalle folle occasionali in attesa, o dai funerali… riempivano lentamente il centro della città, senza simboli, colori, bandiere» (M. Revelli, Gli operai di Torino e gli «altri», in «Primo maggio», n. 14, 1980-1981, p. 8). Ma se quei quadri erano ancora «un pezzo di fabbrica trasferito in città», e dunque «un’espressione soggettiva del lavoro senza soggettività», la schiera di volti anonimi che rendevano il proprio rispettoso omaggio all’«Avvocato» parevano ormai avere smarrito ogni legame con il simbolismo novecentesco, con la religione produttivista della Fabbrica, con i suoi ritmi e con la sua disciplina, oltre che naturalmente con i suoi conflitti.
La scoperta nella camera ardente del Lingotto di una sorprendente folla ottocentesca evidentemente equivaleva per Revelli a una conferma della fine dell’industrialismo. La «folla» anonima, disciplinata, priva di identità, era infatti l’esatto opposto rispetto alla «classe» novecentesca, cresciuta dentro la geometria della fabbrica e dentro la mitologia produttivista del Novecento. E per questo i funerali di Gianni Agnelli suonavano come l’ennesima conferma della necessità di archiviare il «secolo breve», con le sue ideologie, i suoi conflitti, i suoi orrori e naturalmente i sogni prometeici coltivati dal movimento operaio. Con Oltre il Novecento, pubblicato proprio all’inizio del nuovo secolo, Revelli si era infatti già accomiatato – in termini peraltro piuttosto radicali – da quell’immaginario, e in particolare da quella versione che in Italia ne aveva fornito l’«operaismo». Per Revelli – che aveva adottato per decenni la prospettiva operaista, seppure in una variante specifica – era ormai divenuto indispensabile abbandonare la mitologia dell’industrialismo: una mitologia che aveva condotto il movimento operaio ad adottare la medesima visione produttivista della fabbrica, e che aveva indotto a concepire come una «macchina» efficiente, come uno strumento di lotta politica, quel partito che invece era ben presto diventato fine a se stesso. Non tutti gli epigoni dell’operaismo degli anni Sessanta e Settanta avevano imboccato questa medesima strada. In termini quasi paradigmatici la «moltitudine» sarebbe infatti divenuta per molti una sorta di erede post-moderno della vecchia «classe», un erede dai contorni ancora sfuggenti eppure capace di raccogliere il testimone abbandonato dalle figure conflittuali protagoniste del Novecento. Se in questo senso Empire di Michael Hardt e Antonio Negri costituiva quasi una sorta di antitesi al discorso di Oltre il Novecento, fra gli eredi della riflessione operaista non mancava anche un’altra opzione, che si distingueva quantomeno per un radicale pessimismo. E a indicare una simile prospettiva era proprio Mario Tronti, che a buon diritto – con Operai e capitale può essere considerato come il fondatore di questo filone di pensiero, l’espressione forse principale di quella che è stata recentemente definita come la Italian Theory.
Prima ancora che il Ventesimo secolo si chiudesse, Tronti aveva infatti già solennemente e malinconicamente riconosciuto che – insieme alla parabola del movimento operaio – si era consumata anche la fine della politica moderna. Proprio nelle pagine introduttive della Politica al tramonto aveva scritto: «A guardarlo dalla fine del novecento, il tempo della politica che hai attraversato ti appare come un fallimento storico. Non erano troppo altre le pretese, erano inadeguati gli strumenti, povere le idee, deboli i soggetti, mediocri i protagonisti. E la storia, a un certo punto, non c’era più: solo cronaca. Niente epoca: giorni, e poi ancora giorni. Il miserabilismo dell’avversario ha chiuso il cerchio. Non c’è grande politica senza la grandezza del tuo avversario» (M. Tronti, La politica al tramonto, Einaudi, Torino, 1998, p. XI). Dopo più di quindici anni – nel corso dei quali, nelle riflessioni di Tronti, sono peraltro affiorati talvolta piccoli segnali di ottimismo – i toni del vecchio maestro tornano oggi a diventare cupi. In una lunga intervista con Antonio Gnoli, definendosi uno «sconfitto» - ma non un «vinto» - Tronti ha rivendicato di appartenere a un’epoca ormai irrimediabilmente conclusa: «Sono un uomo fuori da questo tempo. Ho sempre condiviso la tesi del vecchio Hegel che un uomo somiglia più al proprio tempo che al proprio padre» (A. Gnoli, Mario Tronti: «Sono uno sconfitto, non un vinto. Abbiamo perso la guerra del ‘900», in «la Repubblica», 28 settembre 2014, pp. 52-53).
Un contributo importante per ricostruire l’itinerario di uno dei più originali intellettuali della storia repubblicana viene ora dal volume di Franco Milanesi, Nel Novecento. Storia, teoria, politica nel pensiero di Mario Tronti (Mimesis, Milano, pp. 297, euro 22.00). Il lavoro di Milanesi può essere in qualche modo letto come una sorta di ‘biografia politico-filosofica’ dell’autore di Operai e capitale, dal momento che segue le diverse sequenze di sviluppo del pensiero di Tronti in relazione agli snodi politici della sua esperienza. Come avviene ormai per pochi pensatori contemporanei, nella ricerca di Tronti è davvero difficile individuare una riflessione teorica che non sia anche sempre una riflessione ‘politica’, ossia una riflessione che – magari cripticamente – intende il pensiero come strumento di cui valersi dentro un conflitto. E così è anche inevitabile che le grandi scansioni della metà del Novecento trovino ben più di un vago riflesso dentro le stagioni della ricerca trontiana. Nei primi scritti su Gramsci, si può ravvisare infatti l’eco del 1956 e della crisi che l’invasione sovietica dell’Ungheria produce sul Pci, mentre nella stagione operaista – in realtà brevissima per Tronti, dal momento che in fondo si consuma nell’arco dei pochi anni che vanno dal 1961 al 1967 (quando esplode il Sessantotto studentesco Tronti sembra ormai guardare verso altri orizzonti teorici e organizzativi rispetto a quelli delineati in Operai e capitale) – si colgono per intero le ambivalenze del boom e dei primi governi di centro-sinistra. 
Nelle fasi successive – segnate teoricamente dalla ‘scoperta’ dell’«autonomia del politico» - si riconoscono invece le nuove difficoltà che incontra il Partito comunista dopo l’Autunno caldo e poi durante la fase del «compromesso storico». Infine, nell’Ottantanove, nella scomparsa del Pci, nella disfatta del movimento operaio, si ritrova la svolta che induce Tronti a prendere atto del tramonto della politica moderna. Ed è forse in corrispondenza di questo passaggio – quando gli scritti di Tronti diventano spesso ermetici, allusivi, talvolta oscuri, anche per palesare anche formalmente l’estraneità alla nuova stagione – che il lavoro di Milanesi diventa più complesso, quantomeno perché deve tentare di ricomporre in un mosaico unitario i frammenti di un discorso interrotto. Un discorso che ama spiazzare il lettore, con provocazioni intellettuali, esplorazioni fra i classici del pensiero conservatore, sperimentazioni con il linguaggio della spiritualità: operazioni di cui spesso al lettore finisce per sfuggire la cifra politica, che invece continua incessantemente a segnare la riflessione trontiana.
Senza dubbio il lavoro di Milanesi rappresenterà da questo momento un punto di riferimento per chiunque voglia accostarsi al pensiero di Tronti, anche perché – a differenza di altri scritti più o meno organici apparsi sinora – si confronta con l’intera riflessione dell’intellettuale romano, e non solo con la sua fase «operaista», peraltro ancora oggi al centro dell’attenzione di molti studiosi neo-marxisti un po’ in tutto il mondo. A contrassegnare e a rendere originale la lettura di Milanesi è infatti, semmai, proprio l’interesse che viene rivolto all’indagine trontiana sull’«autonomia del politico»: un’indagine che si svolge soprattutto a partire dagli anni Settanta, ma che, in qualche misura – e qui Milanesi tocca un punto spesso sottovalutato – percorre l’intera ricerca di Tronti. D’altronde, il nodo dell’organizzazione politica affiora già nel dibattito degli anni Sessanta. In questa discussione – che sancisce peraltro il passaggio dai «Quaderni rossi» a «Classe operaia» - Milanesi osserva infatti che la «sensazione è che manchi sempre un passaggio, manchi in fondo proprio quella politica ‘messa in forma’ di organizzazione» (p. 59). 
Ma per Tronti, secondo la lettura di Milanesi, già in questa stagione «la politicità della lotta non può che svilupparsi dentro un discorso complessivo sulle forme e le strutture di potenziamento e di indirizzo dell’azione di classe» (p. 61). È d’altronde su queste basi che Tronti chiude l’esperienza di «Classe operaia» e torna nell’alveo del Partito Comunista, dal quale peraltro non è mai veramente uscito, dal momento che probabilmente ha sempre inteso la ‘protesta operaista’ come un’operazione radicale di rinnovamento della cultura e del gruppo dirigente di quel partito. Ma è anche su queste basi che prende a confrontarsi con più intensità con il tema dell’«autonomia del politico», approssimato in realtà per passi successivi. Al centro di molte feroci discussioni, quelle ipotesi sono spesso accolte dai critici vicini alla sinistra extra-parlamentare come una sorta di legittimazione della strategia del «compresso storico», anche se – come nota Milanesi – si tratta piuttosto di un ragionamento che procede in una direzione differente (pp. 182-183). Si tratta, cioè, di «usare il partito per superare la debolezza politica delle masse e attaccare là dove l’avversario mostra “un difetto di razionalizzazione”, cioè sul piano istituzionale, che appare insufficiente sia sul versante del governo sia su quello amministrativo» (p. 139). Anche per il clima del periodo, Tronti in realtà non esplicita però le proprie riserve sul progetto del compromesso storico nel corso degli anni Settanta, ma solo quando l’esperienza dei governi di solidarietà nazionale si è esaurita, sul finire del decennio. Al tempo stesso, una simile critica non si traduce comunque in un attacco alla linea seguita da Berlinguer. Anzi la figura del segretario tende a diventare negli anni Ottanta per Tronti – specialmente dopo la sua prematura scomparsa – una sorta di simbolo antropologico di una possibile «alternativa»: come scrive in questo senso Milanesi, «la figura di Enrico Berlinguer rappresenta l’ultimo tentativo di elaborazione di un’alternativa al sistema e obbliga ad aprire una riflessione sul significato del rapporto tra il comunismo e l’“essere comunisti”, secondo una curvatura antropologica del pensiero politico che a partire dagli anni Ottanta sempre più frequentemente troviamo svolta nelle pagine di Tronti» (p. 187). 
In effetti la dimensione antropologica diventa a partire dagli anni Novanta sempre più importante per Tronti, nel senso che è l’«ultimo uomo», l’uomo medio, l’homo oeconomicus, il protagonista di quella democrazia di massa che segna la fine della politica moderna. «Le masse sono diventate sempre più la massa, cioè un insieme di individui senza classe, incapaci come tale di autorganizzazione politica», diceva Tronti in un’intervista di alcuni anni fa.  E proprio queste masse manipolabili – così simili in fondo a quelle che Revelli riconosceva in fila alla camera ardente del Lingotto – segnano il tramonto della politica.
In realtà, nella lettura di Milanesi la posizione di Tronti fa trapelare comunque una possibilità residua per la politica. «La ‘talpa’ del pensiero trontiano», scrive infatti Milanesi verso le pagine conclusive, «senza lasciare la presa, continua il suo scavo ‘dentro e contro’ e torna a pensare le radici del politico alla ricerca di una sua fondazione» (p. 243). Il pensatore romano, secondo Milanesi, «si muove lungo una via di fuga dal secolo ventesimo che inverte il senso storico-teorico di posizioni che, molto critiche verso quella storia, finiscono tuttavia per riproporne concettualità e struttura. Insiste invece sulla necessità di accogliere pienamente il senso del Novecento come base per un rilancio di politica che sia, in gran parte, altra rispetto alle espressioni del secolo trascorso. Ciò significa tornare a pensare e fare rigettando tanto la dialettica dell’immediatismo, che ritiene che il capitale nel suo sviluppo produca necessariamente il soggetto destinato a superarlo, quanto le culture dell’esodo o quelle che riducono la lotta al capitalismo al tentativo di controllo democratico del mercato. Modi, in fondo, tipicamente novecenteschi, evidentemente deboli rispetto alla potenza del tecno-capitalismo» (p. 276).
La linea di ricostruzione si muove tanto sul terreno culturale, quanto sul terreno strettamente organizzativo, ed è d’altronde proprio su questi due piani che si muove forse da sempre il lavoro trontiano sul politico, e che rende la sua opera – come scrive Milanesi – un «classico del pensiero politico novecentesco, uno dei suoi punti più alti», anche se «non è mai solo questo». «La forza dei suoi apparati argomentativi, il linguaggio incisivo ed evocativo, l’originalità delle prospettive analitiche vanno intesi come espressioni di un dispositivo politico che rigetta, pur mantenendo una propria cifra di levità formale, l’autonomia del teorico e la tendenza alla teoria generale» (p. 279).
Le traiettorie di questa fuoriuscita dal XX secolo rimangono però, per molti versi, come uno sviluppo di ciò che la politica del Novecento aveva offerto, e in particolare di ciò che per Tronti era stata la scoperta della parzialità. «Ci vuole un punto di vista, da cui guardare il mondo, e la vita», «ci vuole una parte di mondo e di vita a cui ascrivere il proprio pensiero», ha scritto nel suo ultimo volume Per la critica del presente (Ediesse, Roma, 2013, p. 15). Ma ha anche ricordato: «Oggi, per la storia che il movimento operaio ci ha lasciato in eredità, la tua parte te la devi andare a cercare con intelligenza, paziente, con passione, pensante, strappandola quasi giorno per giorno alla narrazione che l’ha sepolta, bucando il velo delle idee dominanti che l’hanno data per morta, e poi facendola scorgere da lontano, con la visione, facendola toccare con mano da vicino, con il realismo, sempre consapevole di star e di operare tra le sbarre di una gabbia d’acciaio» (p. 15). Per molti versi proprio la ricerca di un simile punto di vista – che ovviamente non può coincidere né con il punto di vista di un singolo, né con l’evocazione di un interesse «generale» - accompagna l’intero percorso teorico di Tronti fin dai suoi primi passi, scandendone le diverse stagioni. È d’altronde la rivendicazione di quella stessa parzialità che conduce oggi il filosofo a evocare quell’«oltre» che affiora problematicamente dalle pagine più recenti. Ed è forse a partire dalla centralità di quel punto di vista che diventa possibile ricostruire, o quantomeno immaginare, le linee di sviluppo di quell’antico progetto, più volte annunciato e ogni volta accantonato, celato da Tronti sotto il titolo affascinante, oltre che del tutto inattuale, Per la critica della democrazia politica.
Proprio nelle pagine conclusive di Per la critica del presente, in un saggio inedito intitolato evocativamente La sinistra e l’oltre, Tronti ragiona sulle possibilità di attribuire un nuovo significato alla parola «sinistra»: «si può andare oltre la sinistra, senza tornare indietro dalle conquiste con essa ottenute, si può ampliare il suo campo senza perdere il suo senso?» (pp. 117-118). La risposta a quella domanda passa per Tronti innanzitutto dalla rinobilitazione dell’idea stessa della politica come progetto di trasformazione, un’idea che invece gli ultimi trent’anni hanno del tutto demolito. «L’idea del ‘nuovo che avanza’, fatta propria ed esercitata dalle più tradizionali forze conservatrici dello stato di cose presente», scrive, «è la ‘novità’ vera intervenuta, a breve, storicamente, nel panorama politico contemporaneo» (p. 121). Contro questa operazione di squalificazione della politica, indica dunque come indispensabile il recupero di una visione di lungo periodo: «Va ricostruito un orizzonte, c’è bisogno più che di una narrazione di una visione, l’assunzione di un compito appunto storico. Noi che abbiamo detto di venire da lontano e di volere andare molto lontano, non possiamo offrire a chi vede impegnarsi la sola capacità di misurare meglio di altri la contabilità di piccoli passi quotidiani. Da giovanissimi, di quella che era un’epoca, i nostri padri ci insegnavano a occuparci della fontanella, ma come passo per arrivare a costruire il socialismo. Se non si riannoda il rapporto, il nesso di conseguenze, tra il già stato, il qui e il non ancora, non si uscirà da questo purgatorio, in cui i lavoratori scontano le colpe dei loro padroni e soprattutto di chi non li ha più contrastati» (p. 127). E se l’«oltre» che evoca è ovviamente ancora molto nebuloso, è però chiaro quello che deve essere il punto di partenza, il perno attorno al quale incardinare un progetto politico, oltre che forse un argine contro l’emergenza antropologica. Proprio al termine del saggio infatti scrive: «L’essere umano non può vivere come appendice della merce, come funzione di mercato, come produttore di reddito e consumatore del prodotto che produce. C’è un oltre di sé a cui guardare, che, solo, può permettere il ritorno in te, attraverso la coltivazione, educante, delle qualità generalmente umane. Questione antropologica è lotta contro la disumanizzazione della vita da parte dell’attuale organizzazione del mondo. L’agire politico, trasformativo, non può ora che pensarsi e praticarsi in sintonia, in alleanza, con forme, libere, di sensibilità religiosa. La dimensione laicista, la secolarizzazione dei comportamenti alternativi, è ormai tutta catturata dentro l’orizzonte invalicabile del presente. L’oltre della sinistra è invece l’oltre di questo mondo. Questo linguaggio evocativo va riempito di contenuti, cioè di scelte, decisioni, atteggiamenti, programmi, che parlino dell’esistenza quotidiana delle persone semplici. Semplici è il nome politico, tradizionale, e proprio per questo innovativo, per dire il concetto cristiano degli ultimi. Gli esclusi, che non aspirano ad essere inclusi, piuttosto pretendono di escludere da sé la subalternità, la dipendenza, la stessa acquiescenza, rispetto ai meccanismi di sistema» (pp. 146-147).
Più che dal disinteresse, l’invocazione di Tronti è stata accolta da una sostanzialità sordità, e forse anche questo testimonia come l’«oltre» che affiorava da quelle righe sia ancora ben lontano dal mostrare un profilo persino molto sfumato, e come le ultime posizioni del filosofo romano si pongano trasversalmente rispetto alle direttrici del progressismo novecentesco. Ma se la materializzazione di un orizzonte «oltre» la sinistra novecentesca rimane per ora solo un auspicio, la realtà sembra proporre uno scenario ben diverso. Ed è da questo punto di vista scontato che molti abbiano visto nella linea seguita da Tronti negli ultimi due anni una sorta di replica dell’atteggiamento più volte tenuto da Pietro Ingrao nel corso della sua militanza all’interno del Pci. Impegnatosi con vigore come presidente del Centro per la Riforma dello Stato in una battaglia politica di difesa del «Lavoro» e della sua dignità politica, Tronti ha intravisto forse nel Pd guidato da Pierluigi Bersani uno strumento per iniziare a dare consistenza al progetto di una sinistra capace di andare «oltre» i suoi significati novecenteschi. Ma, al di là di ogni valutazione sulla correttezza di quella lettura, la storia è andata, come sappiamo, in un’altra direzione. E così Tronti – nel suo nuovo ruolo di Senatore della Repubblica – ha spesso dovuto anteporre la ‘novecentesca’ disciplina di partito alle proprie convinzioni, piegandosi così alla forza del «nuovo che avanza». È per questo inevitabile che più di qualcuno abbia individuato in questo atteggiamento ambivalente l’ennesimo segno di quella sconfitta – politica e culturale – che Tronti d’altronde inalbera orgogliosamente. Sebbene ogni valutazione politica possa forse apparire oggi prematura, è però forse possibile leggere in una simile sconfitta il segno del definitivo, irreversibile esaurimento storico di quella sinistra italiana cui Tronti ha legato la propria vita, e non solo dal punto di vista intellettuale.

In uno dei rari passaggi autobiografici che si possono rinvenire nei suoi scritti, Tronti ha evocato un episodio risalente a più di vent’anni fa, quando per la prima volta – fra il 1992 e il 1994 – aveva occupato i banchi di Palazzo Madama. «Ero in Senato quando c’erano, per mia fortuna insieme, Miglio e Bobbio. Sedevamo in disparte, a conversare, e Miglio dice: sapete qual è una categoria fondamentale della politica? La vendetta. Bobbio disse subito apertamente di no, io, in cuor mio, mi dissi, ma forse sì» (ibi, p. 68). La questione dibattuta allora dai tre intellettuali – che in qualche modo, rappresentavano tre differenti declinazioni della tradizione del realismo politico italiano – meriterebbe probabilmente un approfondimento, quantomeno per il posto che la logica della vendetta ha sempre occupato nella storia nazionale. Ma non c’è dubbio che Tronti sia tornato spesso col ricordo a quel dialogo, e alla provocazione di Miglio. Gli eventi che abbiamo vissuto – e stiamo ancora oggi vivendo – forniscono infatti ben più di qualche conferma all’idea secondo cui la vendetta è davvero una delle categorie fondamentali della politica. Ma confermano soprattutto che il nostro tempo non cessa ancora oggi di essere permeato dalla vendetta. E che, anche per questo, rimane ancora molto difficile, forse impossibile, intravedere cosa si nasconda «oltre» la sinistra e «oltre» il Novecento. O persino capire se, dietro la lunghissima coda del XX secolo, esista davvero un «oltre».

mercoledì 22 ottobre 2014

Mistica e Politica. Un incontro con Zygmunt Bauman e Maria Pia Veladiano (nel centenario di "Vita e Pensiero")


Dal 22 al 24 ottobre l'Università Cattolica ospita tre giornate di dibattito dal titolo 
DIECI PAROLE
PERCHÉ LA NOSTRA EPOCA HA BISOGNO DI DIO 
cui prenderanno parte studiosi di ambito internazionale e nazionale come Zygmunt Bauman, Jürgen Moltmann, Sergio Givone, Mariapia Veladiano, Fabrice Hadjadj, John Milbank, Antonio Spadaro, Goffredo Fofi, Michela Murgia, Natalino Irti, Michele Salvati. Insieme a loro altri relatori di alto profilo e alcuni professori dell'Ateneo, tra i quali Francesco Botturi, Aldo Grasso, Silvano Petrosino, Simonetta Polenghi, Damiano Palano, Daniele Bardelli.

Nel quadro di questa serie di incontri, giovedì 24 ottobre, alle ore 16.30, nell'Aula Pio XI dell'Università Cattolica (Largo Gemelli 1, Milano), si svolgerà un dibattito, moderato da Damiano Palano, intorno alle due parole Mistica e Politica, fra il sociologo Zygmunt Bauman e la scrittrice Maria Pia Veladiano.

sabato 18 ottobre 2014

ALBANIA & ITALIA: UNA PARTNERSHIP PER L’EUROPA. UN CONVEGNO A TIRANA - 20-21 OTTOBRE 2014

ALBANIA & ITALIA: UNA PARTNERSHIP PER L’EUROPA 
Tirana, 20-21 ottobre 2014
Ambasciata d’Italia – Università Cattolica Nostra Signora del Buon Consiglio


Nell’ambito delle attività della Presidenza Italiana del Consiglio dell’Unione Europea, l’Ambasciata d’Italia e l’Università Cattolica “Nostra Signora del Buon Consiglio” organizzano a Tirana, nelle giornate di lunedì 20 e di martedì 21 ottobre, un Convegno dal titolo ALBANIA e ITALIA: UNA PARTNERSHIP PER L’EUROPA. L’evento si snoda in due giornate. La cerimonia inaugurale si svolgerà lunedì 20 ottobre ore 17.00 presso il Palazzo dei Congressi. I lavori del convegno, invece, si terranno martedì 21 ottobre dalle ore 9.00 presso l’Aula Magna dell’Università Cattolica “Nostra Signora del Buon Consiglio”.

L’obiettivo, a pochi mesi dalla concessione all’Albania dello status di Candidato all’unione Europea, è quello di riflettere sul futuro dell’Albania a partire dal ruolo giocato dall’Italia nel processo di integrazione del paese in Europa, collocando questa prospettiva bilaterale nel più ampio quadro strategico dell’allargamento dell’Unione Europea sull’intera area del Balcani Occidentali e della cooperazione regionale in quest’area.

L’evento sarà aperto da una cerimonia inaugurale prevista per lunedì 20, a partire dalle ore 17.00, presso la Sala Conferenze del Palazzo dei Congressi. Presenteranno l’iniziativa l’Ambasciatore d’Italia Massimo Gaiani e il Prof. Lorenzo Ornaghi, consigliere CdA della Fondazione Nostra Signora del Buon Consiglio. Interverranno Jean-Eric Paquet, Direttore per Albania, Bosnia-Erzegovina, Serbia e Kosovo presso la Direzione Generale Allargamento della Commissione Europea; Pier Ferdinando Casini, Presidente Commissione Esteri del Senato ed Edi Rama, Primo Ministro della Repubblica d’Albania.

I lavori del Convegno proseguiranno durante tutto il giorno seguente, martedì 21 ottobre, presso l’Aula Magna dell’Università Cattolica Nostra Signora del Buon Consiglio, aperti dal saluto di benvenuto del Magnifico Rettore dell’Università Cattolica “Nostra Signora del Buon Consiglio”, Prof. Bruno Giardina.

Alle ore 9.00 avrà luogo la Lectio Magistralis del Prof. Romano Prodi, dal titolo “L’Europa e il futuro: porte chiuse o porte aperte?”.

Alle ore 10.30 prenderà avvio il panel economico, moderato dal Dott. Stefano Folli, editorialista de “Il Sole 24 Ore”. Interverranno in ordine: Arben Ahmetaj, Ministro dello Sviluppo economico del Commercio e dell’Imprenditoria, Gian Maria Gross-Pietro, Presidente del Consiglio di Gestione di Intesa San Paolo, Paolo Costa, Presidente dell’Autorità Portuale di Venezia, Milva Ekonomi, Vice Ministro della Sanità, Carlo Crea, Direttore Affari Internazionali Rete Elettrica Terna, Riccardo Delleani, Presidente di Telecom Italia Sparkle, Giampaolo Russo, TAP Italy Country Manager.

Dalle 15.00 alle 17.00 avrà invece spazio il panel accademico. Moderati dal Prof. Silvestro Montone (Preside della Facoltà di Scienze Economiche e Politiche dell’Università NSBC), interverranno in ordine: il Prof. Federico Niglia (Università LUISS di Roma), il Prof. Tritan Shehu (Università Cattolica NSBC), il Dott. Remzi Lani, fondatore dell’Albanian Media Institute, il Prof. Damiano Palano (Università Cattolica del Sacro Cuore), la Prof.ssa Paulina Hoti (Università Cattolica NSBC) e il Dott. Gledis Gjipali, Direttore esecutivo dell’European Movement of Albania.




domenica 12 ottobre 2014

Viaggio sentimentale intorno al nulla. Se l’intellettuale diventa Piccolo

di Damiano Palano

In un tempo ormai lontano, che nel ricordo si tinge talvolta dei colori della nostalgia, esisteva l’«intellettuale di sinistra». Non si trattava soltanto di un’etichetta volta a contrassegnare una componente del mondo culturale italiano, anche perché non esistevano gruppi speculari sul versante di destra oppure al centro dello schieramento politico (al massimo c’erano talvolta intellettuali «irregolari», che non avevano rapporti organici e stabili con formazioni partitiche). E non si trattava neppure di un’etichetta destinata a indicare studiosi votati a fornire al movimento operaio – mediante la ricerca teorica – gli strumenti dell’azione politica. L’«intellettuale di sinistra», in altre parole, era tale non tanto per ciò che scriveva o faceva nel proprio specifico campo – fosse la narrativa, il cinema, il teatro, la canzone, l’architettura – quanto per la sua vicinanza (più o meno esplicitamente dichiarata) alla causa del Partito Comunista Italiano. Paradossalmente, ciò che facevano e scrivevano nella pratica questi intellettuali poteva essere persino privo di sostanziali connessioni con l’impostazione ideologica del Pci, e solo nelle rappresentazioni più edulcorate questi operatori della cultura si limitavano ad applicare le direttive definite dal Partito. D’altronde, le provocazioni e le diversioni erano di fatto consentite, sempre che non assumessero la forma di un dissenso organizzato. Ciò che era importante era che quegli intellettuali, in prossimità delle scadenze elettorali, tornassero a schierarsi disciplinatamente sotto le insegne del Partito, e che offrissero una rappresentazione del sostegno del «mondo della cultura» al «cambiamento del Paese». I motivi che consentirono al Pci di conquistare quella che spesso viene definita come un’«egemonia culturale» (certo molto diversa da quella cui pensava Gramsci) furono molti. Gli storici continuano ancora oggi a interrogarsi su quel fenomeno, che ha davvero pochi eguali nel mondo (non solo occidentale), ma è davvero molto difficile negare che qualcosa di simile a un’«egemonia» esistesse effettivamente. Un’egemonia forse più sentimentale che politica, che comunque fece sì che anche una parte di intellettuali che poco avevano a che spartire con la causa del comunismo (e, va da sé, col marxismo) finissero con l’iscriversi – per conformismo, per convinzione, per opportunismo – allo schieramento degli intellettuali di sinistra, nella convinzione che il Pci fosse l’unico reale, credibile, responsabile attore capace di ‘modernizzare’ l’Italia, sotto il profilo politico, economico, culturale e morale.
Che in tutto questo vi fosse qualcosa di paradossale è piuttosto evidente, ma, al di là di ogni dibattito sulle matrici e sui vizi di un simile quadro, è chiaro che oggi non esiste più neppure l’ombra di quel mondo, che cominciò a dissolversi già nella seconda metà degli anni Settanta e che si polverizzò definitivamente negli anni Ottanta. Non esiste più alcun rapporto organico fra intellettuali e partiti (anche perché i partiti di fatto in Italia non esistono più) e non esistono più gli intellettuali come «gruppo», internamente articolato ma compatto nella sua collocazione. Ma, naturalmente, anche oggi esistono degli intellettuali di sinistra, e soprattutto il cosiddetto «popolo della sinistra» continua ad avere alcuni punti di riferimento (seppur sempre più sbiaditi). E anche se è difficile ricostruirne le coordinate ideologiche e teoriche, una buona esemplificazione si trova nelle opere narrative di Walter Veltroni, oltre che nelle sue fatiche saggistiche, in cui si trova condensato molto di quello stile di pensiero che negli ultimi mesi è diventato familiare a molti come «renzismo». Per chi fosse interessato a decifrare il codice genetico di questa galassia – che in verità, più che l’espressione di un mondo organizzato, appare spesso come una sorta di magmatica mucillagine intellettuale – una fonte estremamente preziosa è senza dubbio il romanzo-saggio-autobiografia di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti (Einaudi, Torino, 2013), libro pluri-premiato, le cui fortune – largamente anticipate dagli ambienti letterari – hanno in qualche modo accompagnato in parallelo l’ascesa al potere dell’attuale Presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
Il titolo del libro di Piccolo – che può apparire in parte enigmatico – è in realtà una citazione di Natalia Ginzburg, posta dall’autore a epigrafe del volume: «Ora noi possiamo sentirci, in mezzo alla comunità, soli e diversi, ma il desiderio di rassomigliare ai nostri simili e il desiderio di condividere il più possibile il destino comune è qualcosa che dobbiamo custodire nel corso della nostra esistenza e che se si spegne è male. Di diversità e solitudine, e di desiderio di essere come tutti, è fatta la nostra infelicità e tuttavia sentiamo che tale infelicità forma la sostanza migliore della nostra persona ed è qualcosa che non dovremmo perdere mai». Per molti versi, la citazione di Ginzburg rimane la cosa migliore dell’intero volume, che – adottando un registro variabile – è difficilmente collocabile all’interno di uno specifico genere letterario. Costruito da Piccolo come un’autobiografia, nel libro l’autore accosta la propria formazione personale alle vicende della politica italiana dell’ultimo quarantennio. Proprio per il messaggio politico che scaturisce dalle sue pagine, il testo, più che un vero e proprio romanzo, può essere considerato come un saggio politico. Un saggio costruito – come vuole lo Zeitgeist – senza alcun riguardo per l’argomentazione logica, ma grazie all’accostamento analogico di situazioni, di scene sentimentali, eventi politici, e all’utilizzo di materiali della culturale popolare (strategia in cui Veltroni era maestro e che Renzi sfrutta certo con minore eleganza ma forse con più efficacia). E, soprattutto, un saggio che punta in una direzione precisa.
Il momento iniziale del racconto-saggio di Piccolo è costituito dal gol di Jürgen Sparwasser, il centravanti della Germania Est, che decide le sorti dello scontro diretto contro la Repubblica Federale, ai mondiali del 1974. Proprio quel momento – ed è questa la trovata più simpatica del volume – decide il destino futuro del protagonista, il quale decide di diventare «comunista», e cioè di schierarsi dalla parte del Partito Comunista Italiano guidato da Enrico Berlinguer: «il 22 giugno 1974, al settantesimo minuto di una partita di calcio, sono diventato comunista» (p. 33), scrive Piccolo, anche se, per la verità, al lettore non è consentito di capire cosa implichi davvero la scelta del protagonista, il quale non si iscriverà mai al Pci, non svolgerà mai alcuna attività politica, se non – da ciò che è dato capire – quella consistente nel seguire la fidanzatina, ai tempi del liceo, ad alcune riunioni di un gruppo studentesco di estrema sinistra. D’altronde – ed è questo, si badi, l’elemento più significativo del racconto di Piccolo – la vicinanza del protagonista alla sinistra si svolge tutta in un mondo interiore, del tutto immaginario, che non ha di fatto alcuna connessione con la realtà. Nella vita reale, il giovane Piccolo appare infatti impegnato in attività del tutto prive di qualsiasi connotazione politica, e le sue energie sembrano dedicate quasi interamente alla partecipazione a «feste», la cui evocazione ricorre ossessivamente nella prima parte della narrazione. Ciò nondimeno, il protagonista Piccolo instaura un forte rapporto emotivo con la figura di Berlinguer, nella quale proietta un ideale di purezza, non solo politica. Il Piccolo-narratore trova però una simmetria tra la purezza ricercata dal protagonista e il reale Berlinguer, quello che, dopo il fallimento del compromesso storico, getta sul piatto la «questione morale» e innesca un confronto-scontro con il Psi di Bettino Craxi. Viene così ricostruita la vicenda del referendum sulla scala mobile, voluto da Berlinguer proprio per rispondere a un attacco che considerava personale, e che segnò per molti versi la definitiva sconfitta del Partito Comunista. Di lì a poco, Berlinguer sarebbe scomparso e il Pci – privo di qualsiasi bussola e preda delle faide interne – sarebbe sopravvissuto in uno stato quasi letargico fino alla fine degli anni Ottanta. Ma c’è un episodio che Piccolo ricorda in particolare, quello dei fischi a Berlinguer in occasione del Congresso socialista di Verona del 1984. 
Allora, quei fischi parvero a Piccolo un incredibile affronto a un uomo politico indiscutibile, e quell’affronto diventa addirittura l’episodio che innesca una totale identificazione: «L’11 maggio 1984, nel momento in cui è entrato nel palazzetto dello sport di Verona, e tutto il pubblico ha cominciato a fischiare, io sono diventato Enrico Berlinguer. È stato il momento esatto in cui il mio sentimento pubblico e il mio sentimento privato, che in quei mesi di scontro avevano aderito ogni giorno, sono balzati via da me per infilarsi dentro lo sguardo perduto del segretario del mio partito – che stava davanti a quella gente con la stessa incapacità di organizzare un’espressione che avevo avuto io davanti a Elena che strappava la carta da regalo; ha sentito che mi riguardava così tanto, mi faceva soffrire così tanto, richiamava così precisamente il dolore mio personale, che non ci poteva essere più nessuna distanza tra me e lui; guardavo il suo viso teso, sperduto, e sentivo che con lui c’ero anch’io, anche se non ero lì» (pp. 131-132). E quello stesso episodio – in particolare, la dichiarazione con cui Craxi affermava di non essersi unito ai fischi solo perché non era in grado di fischiare – muta anche l’atteggiamento nei confronti del leader socialista: «Tutto quello che è venuto dopo, e che riguarda Craxi e il suo disfacimento personale e politico, non mi ha più toccato nel profondo; certo, mi sono indignato come quasi tutti gli italiani, mi è stato chiaro che i modi di fare politica erano inaccettabili – ma nulla di tutto questo mi ha davvero più toccato. Il mio rapporto con Craxi, di simpatia o antipatia, di speranza per un’alleanza tra socialisti e comunisti, e il resto che (non) ne conseguì, è finito nell’attimo in cui ha detto, studiando così bene le pause, che non aveva fischiato anche lui soltanto perché non sapeva fischiare» (p. 134-135).
Se la rievocazione di questo episodio e la ricostruzione delle più minute ripercussioni che esso ebbe sul Piccolo-protagonista possono persino risultare sconcertanti per qualche lettore, è evidente che il senso di questa insistenza emerge chiaramente con lo sviluppo del racconto. I fischi a Berlinguer e il suo funerale, così come la famosa intervista sulla questione morale, diventavano il simbolo della «purezza». «Nella sostanza le caratteristiche erano diventate due: essere diversi dagli altri – in un modo che è possibile definire: la purezza; frenare il forsennato ammodernamento della società – un atto che è impossibile non definire: la reazionarietà» (p. 139). E questo secondo elemento già fa trapelare un giudizio politico non da poco, perché in fondo Piccolo riconosce che allora aveva ragione Craxi e che Berlinguer era dalla parte sbagliata della storia. In altre parole, Berlinguer aveva scelto la strada della «purezza», e per rimanere «puro» il Pci aveva rinunciato a fare politica, al contrario del Psi di Craxi. In sostanza, secondo il ragionamento di Piccolo, con la sconfitta del compromesso storico, la sinistra italiana (o almeno quella rappresentata dal Pci), aveva scelto di mantenere un’idea di «purezza» anche se questa implicava necessariamente la sconfitta politica, e – oltre tutto – aveva da quel momento visto nella sconfitta una conferma della propria «purezza». Come scrive il narratore al termine della prima parte, in un passaggio fondamentale del suo saggio in forma di romanzo: «La questione definitiva della sinistra alla quale mi sentivo di appartenere senza alcun dubbio, fu questa: Craxi rappresentava un’innovazione troppo cinica, disinvolta, corruttibile, poco oggettiva e famelica; di conseguenza – e questa è stata una transizione di pensiero del tutto decisiva per la storia della sinistra italiana – fu l’innovazione stessa a significare cinismo, disinvoltura, corruttibilità, famelicità. La sinistra si ritirava per sempre, e con assoluta convinzione – sicura di stare dalla parte della ragione – dal proposito del progresso per trasformarsi in forza reazionaria. Dall’entrata mancata nel governo e dal rapimento di Moro, nasce un’idea di purezza – interpretata come un destino – che non morirà più. Quello che Moro aveva temuto, si verifica alla lettera: il Pci diventa interlocutore esterno della realtà. Ma quello che Moro indicava come un pericoloso punto di forza, diventa una condanna alla marginalità, alla sconfitta. È qui che sta il grande cambiamento: della vittoria non importava più nulla; bisognava soltanto segnare una volta e per sempre una linea di demarcazione, un’idea definitiva di diversità; bisognava sfilarsi dalla vita pubblica reale e rappresentare un’alternativa astratta, pulita, arroccata. Un’alternativa pura» (pp. 154-155).
Dopo la «vita pura», si apre però la «vita impura», in cui Piccolo ricostruisce la propria autobiografia sentimentale nella Seconda Repubblica. Anche in questo caso, la realtà ha poco a che vedere con il vissuto emotivo del protagonista, che anzi appare del tutto disinteressato a ciò che accade nella lunga «transizione» italiana. Piccolo trasforma infatti il sistema politico italiano nel teatro di una drammatica tauromachia, in cui a Romano Prodi spetta il ruolo di eroe positivo, impegnato in una battaglia senza esclusione di colpi con Fausto Bertinotti, il quale diventa addirittura una sorta di Titano politico, seppur incaricato di rappresentare le forze del male. Il momento in cui Rifondazione comunista ritira l’appoggio esterno al primo governo Prodi è infatti considerato come l’inizio del cataclisma politico italiano. Naturalmente, a Piccolo non interessa la realtà dell’operato del governo Prodi, come d’altronde appare sostanzialmente indifferente a considerare in profondità la vicenda delle privatizzazioni, le implicazioni del Trattato di Maastricht sulla politica italiana, la lungimiranza della decisione di procedere sulla strada dell’unificazione monetaria, la costruzione di nuovi blocchi di potere, la demolizione dell’amministrazione pubblica, la proliferazione di legami clientelari a ogni livello di governo, la precarizzazione dei rapporti di lavoro, e cioè tutti quegli aspetti che riguardano la realtà della politica italiana (e dell’operato del primo governo guidato da Romano Prodi). Nell’economia di una storia sentimentale, ciò che preme a Piccolo è rappresentare Bertinotti come l’erede della sinistra «pura» voluta da Berlinguer: una sinistra ‘reazionaria’, ostile al corso ‘naturale’ della Storia, e invece desiderosa di sempre nuove sconfitte, capaci di confermare la propria purezza. Il giudizio politico di Piccolo, da questo punto di vista, è senza appello: «Il gesto di Bertinotti è compiuto in nome della purezza, segue la sorda etica dei principî. Il governo Prodi era stato il riscatto da questa purezza senza fertilità; se avesse portato a termine il suo mandato, probabilmente adesso vivremmo in un paese diverso. […] In quel momento finisce, si consuma, si esaurisce in un tempo brevissimo la rinascita dell’ultima spinta riformatrice del nuovo corso del centrosinistra e il Paese viene consegnato in mano a Berlusconi» (pp. 177-178). Ma è anche qualcosa di più: «Quel giorno è cambiato il mio atteggiamento verso la vita – per sempre. La purezza, il senso di giustizia, non sono state mai più il mio criterio, nemmeno come amico, o come amante; ed è cambiato perfino il mio modo di scrivere, il mio interesse per le storie […] Ho capito una volta per tutte che non soltanto non mi piaceva il fatto che Bertinotti e i suoi sentissero di essere dalla parte della ragione, ma soprattutto che se pure lo fossero davvero stati, la mia inquietudine non si sarebbe più modificata. Quindi non c’entrava con la ragione o il torto; ma con l’uso che si fa della ragione o del torto» (pp. 184-185).
La caduta del governo Prodi, invece di rappresentare un nuovo lutto, diventa per Piccolo il momento di una vera liberazione, di una svolta anche individuale, perché rompe davvero con quell’immagine di «purezza» con cui aveva convissuto dal tempo dei fischi a Berlinguer e, prima ancora, dal momento del gol di Sparwasser. Il protagonista del romanzo-saggio decide di sposare la propria compagna, denominata con la formula «Chesaramai», per la capacità di sdrammatizzare eventi all’apparenza gravissimi. Ma, soprattutto, inizia a vedere le cose in modo diverso, si arrende finalmente alla «forza delle cose». E alla fine – anzi molto presto – scopre che ci si trova benissimo a navigare insieme a quella «forza delle cose», che tutto sommato fregarsene dei grandi problemi del mondo e della «purezza» era scritto fin dalle origini nel suo Dna. 
Nel Conformista di Moravia il protagonista lottava tutta la vita per reprimere la propria diversità, cercava in ogni modo di confondersi nella massa, diventando un piccolo-borghese, un convinto fascista, addirittura un agente dell’Ovra. Ma alla fine doveva soccombere, e quando il fascismo crollava, riemergeva ciò che era sempre stato. Nel libro di Piccolo, il percorso è esattamente l’opposto. Il protagonista cerca di reprimere in ogni modo il proprio conformismo, il «desiderio di essere come tutti», trovando in Sparwasser, in Berlinguer, nel Pci, nell’antiberlusconismo dei simboli di «purezza» da seguire. Ma alla fine – e non è forse casuale che il libro venga concepito e sia pubblicato nel momento in cui Silvio Berlusconi esce sostanzialmente dal proscenio della politica italiana – anche in questo caso riemerge tutto ciò si era tentato di reprimere. Finalmente libero da ogni fantasma di purezza, il protagonista  può finalmente esplodere nel classico, godereccio «checcefrega». Può rivendicare così con orgoglio la propria vorace superficialità, il proprio menefreghismo, l’ingorda piccola felicità domestica, il proprio inguaribile familismo amorale. Il Robert Redford che in Come eravamo dice a Barbra Streisand, il giorno della morte di Roosevelt, che tutto ciò accade nel mondo «non accade a te personalmente», diventa un piccolo inno a profittare delle piccole gioie della vita, a disinteressandoci del nostro vicino, ad arraffare ogni piccolo possibile godimento, dimenticando ogni ‘grande causa’ e ogni nobile ideale. Come scrive Piccolo nelle pagine conclusive: «La superficialità ha diritto di esistere, quanto la profondità. La vita politica, la vita contemplativa e la vita dedita ai piaceri sono sempre esistite contemporaneamente, e la capacità di farle convivere è il compito di ogni individuo e di ogni comunità. […] La sinistra, mi pare, ha imparato a conoscere a fondo i grandi problemi di questo Paese (senza peraltro che questa conoscenza bastasse a risolverli); mentre è geneticamente maldisposta verso un’altra parte di Paese, preponderante per costume e forza, superficiale, spensierata. Ed è così geneticamente maldisposta, che non sa nemmeno più che Paese è. Finora questa lacuna era stata combattuta dicendo: stanno dall’altra parte del confine, non ci riguardano. Ma poiché questo è un solo Paese; poiché la Storia ha insegnato che la corresponsabilità degli accadimenti è di coloro che vincono e di coloro che perdono, anche se non in parti uguali; poiché probabilmente in ognuno di noi al di qua del confine c’è una percentuale di superficialità, di spensieratezza e anche di mostruosità – che siamo sicuri di non avere, ma che abbiamo – è bene oltrepassarlo questo confine e andare a capire di là chi c’è, come si ragiona, cosa si fa. Portando il proprio sapere, i propri ragionamenti, le proprie soluzioni» (pp. 255-256).
È molto difficile immaginare oggi cosa penseranno i posteri di un saggio come quello di Piccolo, e soprattutto è difficile come riusciranno a spiegarsi il successo che gli è stato tributato dal mondo culturale italiano, o quantomeno da ciò che ne rimane ancora. Ma forse nelle pagine di Piccolo – in cui i più malevoli lettori potrebbero divertirsi a ritrovare svariate centinaia di frasi fatte, oltre che le più fruste banalità che da almeno un trentennio circolano nel «sinistrese» italiano – si può trovare davvero il segno di un grande mutamento culturale, contemporaneo ovviamente alla svolta compiuta a livello politico al principio del 2014. Il libro di Piccolo, al di là dei meriti letterari (che il futuro giudicherà più saggiamente di quanto oggi si possa fare), offre infatti la testimonianza di un viaggio sentimentale comune a una parte consistente di ciò che sono diventati gli «intellettuali di sinistra» nel corso dell’ultimo trentennio, ed è probabilmente questo dato che può contribuire a spiegare il successo del libro. Quella formidabile esaltazione della «superficialità» - che certo trova la sua più efficace esemplificazione nella ricostruzione della recente storia italiana compiuta da Piccolo – è infatti un punto di approdo in cui molti si possono riconoscere, liberandosi con soddisfazione dei fardelli del passato. In altre parole, il libro di Piccolo è davvero l’ultimo capitolo di una mutazione genetica che conduce il vecchio «intellettuale di sinistra» a spogliarsi della propria diversità e a indossare finalmente i panni dell’«italiano medio» tante volte impersonato da Alberto Sordi: un personaggio senza dubbio simpatico, ma soprattutto ingordo, addirittura vorace nel soddisfare i propri ancestrali appetiti, dimentico di ogni causa collettiva, ma sempre ossessivamente impegnato a soddisfare il proprio «particulare», e, va da sé, a cogliere l’attimo fuggente dei più effimeri piaceri materiali.
In questa metamorfosi ben poco rimane della vecchia convinzione di stare – nonostante tutto, nonostante le difficoltà, gli errori, le crisi, le sconfitte – dalla parte giusta della Storia. Nel senso che la Storia smarrisce ovviamente ogni residua teleologia, per diventare semplicemente ciò che accade, o per identificarsi addirittura – come scrive Piccolo – con la «forza delle cose». Una «forza delle cose» che non si coincide con nulla di preciso, ma che comunque è bene assecondare, adagiandosi nella corrente e lasciandosi trasportare. Forse a qualcuno il libro di Piccolo sembrerà per questo una sorta di legittimazione della vecchia, vecchissima tradizione nazionale dei «voltagabbana», sempre pronti a capire in quale direzione tira il vento e ad aggiustare il tiro, assecondando i potenti di turno. Ma in verità si tratta di qualcosa di più. È il punto terminale (e coerente) di un nichilismo integrale. Un nichilismo che, rifiutando ogni teleologia e abbandonando qualsiasi tensione etica, si limita a riconoscere che l’unica realtà è quella che accade. E che non esiste alcuna alternativa, né lontana né vicina, all’impetuosa, trascinante, irresistibile «forza delle cose». 

Damiano Palano

sabato 4 ottobre 2014

"Tra parte e tutto: il partito e le sue radici". Un dibattito a Roma, mercoledì 8 ottobre, ore 15.00


Mercoledì  8  ottobre 2014, alle ore 15:00, presso Sala delle Lauree della Sapienza (Piazzale Aldo Moro, 5 Roma), a partire dai volumi di Massimiliano Gregorio, Parte totale. Le dottrine costituzionali del partito politico tra Otto e Novecento (Giuffrè, 2013) e Damiano  Palano, Partito (Il Mulino, 2013), si svolgerà un dibattito dal titolo

Tra parte e tutto: 
il partito e le sue radici

Alla discussione parteciperanno Luca   Borsi, Maurizio Fioravanti, Fulco Lanchester, Vincenzo Lippolis, Oreste  Massari, Paolo  Pombeni,  Giorgio  Rebuffa, Luca Scuccimarra

Saranno presenti gli autori