sabato 22 febbraio 2014

Aron e l'Europa "senz'anima". Un libro di Raymond Aron curato da Giulio De Ligio


di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Raymond Aron, Il destino delle nazioni. L'avvenire dell'Europa (Rubbettino, pp. 250, euro 18.00), è apparsa su "Avvenire" del 21 febbraio 2014.

Fra il 1930 e il 1933 Raymond Aron trascorse una lunga fase di perfezionamento in Germania. Quel periodo fu importante per il suo percorso scientifico, ma incise in profondità anche sulla sua esperienza biografica. In quegli anni Aron ebbe infatti modo di assistere in prima persona alla tragica fine della Repubblica di Weimar e all’ascesa del movimento nazista, che doveva condurre a un rapido deterioramento dei rapporti tra Francia e Germania e allo scoppio di una nuova guerra. Forse anche per questo il grande intellettuale non cessò mai di riflettere sulla possibilità di un’unità politica capace finalmente di pacificare il Vecchio continente. Ma rimase sempre ben consapevole della forza delle identità nazionali, e così non sposò mai una visione utopistica dell’unificazione europea. 
Poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1947, tornò nuovamente in Germania, e proprio in quell’occasione fu invitato a tenere una conferenza sul futuro dell’Europa dinanzi a una platea di studenti di Monaco. Il testo di quella conferenza è ora disponibile per il lettore italiano in Il destino delle nazioni. L’avvenire dell’Europa (Rubbettino, pp. 250, euro 18.00), un libro curato da Giulio De Ligio in cui sono raccolti alcuni interventi – alcuni dei quali totalmente inediti – dedicati da Aron alla forma politica del Vecchio continente. E già dal percorso compiuto in quel discorso emergono i contorni di un atteggiamento ambivalente. Per un verso, l’integrazione europea è vista come “il termine finale dello sforzo che dà un senso a una vita o fissa un obiettivo a una generazione”. Per l’altro, il progetto di un’unione politica appare però come un’idea “da intellettuali”, priva di reale sostegno da parte dei popoli europei. D’altronde, per Aron l’intera storia del continente è segnata, al tempo stesso, dall’unità spirituale e dalla divisione politica. Nonostante si sia sempre conservata “la coscienza di una comunità di cultura propria dell’intera Europa”, la divisione “in una ventina di nazionalità indipendenti, o che si pretendono tali, rimane il fatto fondamentale”. E nessun processo può aggirare questo carattere paradossale. Nel corso dei decenni seguenti il sostegno all’integrazione si accompagna così alla critica alle modalità con cui essa viene perseguita. La convinzione secondo cui l’interdipendenza economica può costituire la premessa di un’unificazione politica è infatti giudicata solo come una grande illusione. Aron ritiene inoltre che l’unificazione economica del Vecchio continente abbia evitato sempre la domanda cruciale – ed effettivamente ‘politica’ – sul senso del “vivere in comune”. 
Come sottolinea De Ligio nel suo ricchissimo commento, il progetto comunitario ha fatto discendere la necessità di costruire un grande spazio post-nazionale solo da una serie di elementi tecnici, economici. Ma non ha mai realmente affrontato la questione dello ‘scopo’ cui tendeva la creazione di un mercato unico. E ciò non significa che, per Aron, le motivazioni economiche siano prive di importanza. Ma riflette piuttosto la convinzione che i caratteri dell’Europa – e dunque la sua unicità culturale – siano tali che le ragioni e le azioni capaci di garantirne la fioritura non possono essere solamente economiche. 
Nel suo discorso del 1947 agli studenti tedeschi,  l’avvenire dell’Europa appariva ad Aron strettamente legato a tre idee: la convinzione nell’esistenza di una “verità oggettiva, universalmente valida”, l’idea che ogni persona abbia una valore e infine la fiducia risposta nella tecnica, “padrona della natura”. Allora i progressi della tecnica non apparivano certo in discussione. “Quel che non è sicuro”, avvertiva invece, è che l’avventura europea “prosegua in un’atmosfera spirituale in cui la persona conservi il suo valore, la verità non sia limitata a quella delle equazioni matematiche o delle ricette pratiche, e le comunità di cultura non siano sottomesse a burocrazie arbitrarie”. E proprio queste parole, pronunciate di fronte un continente da poco uscito dalla tragedia della guerra e già diviso dalla cortina di ferro, appaiono ora forse ancora più preziose. Perché non è difficile riconoscere nella crisi che avvolge oggi l’Ue, insieme all’esito di una serie di difficoltà economiche, anche la conseguenza del modo in cui nel corso dell’ultimo mezzo secolo è stata pensata – prima ancora che realizzata – l’unificazione del Vecchio continente.

Damiano Palano




mercoledì 12 febbraio 2014

Che cosa è il Quinto Stato. Leggendo un libro di Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli



di Damiano Palano
 
«Un lavoro privilegiato»
Quando Luciano Bianciardi arrivò a Milano, nel 1954, il capoluogo lombardo era il centro trainante dell’economia italiana, probabilmente più ancora di quanto non lo fosse la Torino della Fiat. Se Torino era la «città-fabbrica» per eccellenza, dominata dal colosso automobilistico, Milano  era una città ‘policentrica’, in cui le fabbriche si affiancavano agli uffici, ai giornali, alle case editrici. Ed era proprio in questa Milano che Bianciardi doveva sperimentare cosa fossero diventati gli intellettuali, il loro ruolo, il loro lavoro, nel pieno del «miracolo economico». In un articolo pubblicato nel febbraio 1955, intitolato Lettera da Milano, scriveva per esempio di avere solo intravisto alcuni singoli intellettuali, ma di non avere incontrato gli intellettuali come «gruppo». E, soprattutto, scriveva di aver già riconosciuto, all’interno della schiera degli intellettuali, una netta differenziazione di ruoli: «Come non ho ancora visto gli operai, così non ho ancora visto gli intellettuali. Li ho visti, si intende e li vedo ogni mattina, come singoli, ma mai come gruppo. Non riescono a formarlo, e ad influire come tale sulla vita cittadina. L’unico gruppo in qualche modo compatto è quello che forma la desolata scapigliatura di Brera. Gli altri fanno i funzionari di industria, chiaramente. Basta vedere come funziona una casa editrice. C’è una redazione di funzionari, che organizza: alla produzione, lavorano gli altri, quelli di via Brera, che leggono, recensiscono, traducono, reclutati volta a volta come i braccianti per le faccende stagionali»[1].

Bianciardi avrebbe d’altronde sperimentato in prima persona le dinamiche dell’industria culturale milanese. E proprio questa esperienza doveva finire nello sfogo della Vita agra, la storia – scopertamente autobiografica – di un intellettuale che dalla Maremma giunge a Milano per vendicare gli operai deceduti nell’esplosione di una miniera. Il progetto di far saltare per aria i «torracchioni» di vetro e cemento dove si concentrava il «nemico» – ossia i grattacieli del centro direzionale compreso tra via Moscova e via Gioia – finiva però con l’essere abbandonato, perché l’intellettuale maremmano veniva gradualmente ‘integrato’ dentro il formidabile meccanismo della società dei consumi. In questo senso il libro di Bianciardi rimane uno specchio del boom, o meglio – come già allora molti segnalarono – un ritratto impietoso delle sue illusioni e delle sue dinamiche reali, oltre che della sua straordinaria capacità seduttiva. Ma non è solo per questo che oggi si continua a leggere Bianciardi. Se certo risulta ancora oggi efficace la satira della Milano consumista e frenetica dei primi anni Sessanta (la componente del romanzo che risultò maggiormente valorizzata dalla trasposizione cinematografica di Carlo Lizzani), è molto probabile che le nuove nuove generazioni trovino più di qualche motivo di interesse nelle pagine più cupe della Vita agra. Perché il libro di Bianciardi può essere letto oggi anche come una straordinaria anticipazione della realtà del lavoro intellettuale contemporaneo, e in particolare della condizione di quei lavoratori della conoscenza che – per scelta o per necessità – svolgono la loro attività soprattutto tra le pareti domestiche. Non è così affatto sorprendente che Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli – autori di Il Quinto Stato. Perché il lavoro indipendente è il nostro futuro[2], oltre che animatori del blog omonimo – abbiano trovato proprio nelle pagine del Lavoro culturale e della Vita agra quasi una sorta di manifesto[3]. In qualche misura, proprio quella che Bianciardi aveva descritto in modo così lucido più di mezzo secolo fa può essere infatti considerata la situazione in cui si trovano – secondo Allegri e Ciccarelli – gli esponenti del «Quinto Stato», uno strato sociale oggi già ben presente, sebbene ancora privo di un’identità definita e di un peso politico.

Assunto nella nuova casa editrice fondata da Giangiacomo Feltrinelli appena arrivato a Milano, Bianciardi ne fu infatti licenziato dopo poco tempo. O, meglio, gli venne proposto di lavorare come collaboratore esterno, come traduttore. La prospettiva era di conservare più o meno lo stesso stipendio e di lavorare a casa. Per uno spirito libertario come quello di Bianciardi questo aspetto doveva avere più di qualche lato positivo. Ma, ovviamente, ciò significava anche andare a ingrossare il gruppo di via Brera, ossia quell’esercito di lavoratori intellettuali che – al di fuori delle case editrici – «leggono, recensiscono, traducono, reclutati volta a volta come i braccianti per le faccende stagionali». Da quel momento in poi la vita di Bianciardi sarebbe mutata in modo radicale, perché, al lavoro d’ufficio, egli avrebbe sostituito un’attività svolta tra le pareti domestiche, spesso con l’aiuto della compagna. In questo modo, venivano eliminati i tempi e i costi di trasferimento quotidiani, il controllo eccessivamente rigido dei capi, gli ambigui rapporti con i colleghi, l’obbligo di timbrare il cartellino, a tutto vantaggio di tempi scelti (almeno in parte) liberamente, oltre che con prospettive di guadagno significative. Insomma, come diceva il protagonista della Vita agra, un «lavoro privilegiato»: «A pensarci bene, a far bene i conti, io ho un lavoro privilegiato, con cinque ore al giorno me la cavo, mentre altri debbono farsi le loro otto quotidiane di ufficio, più un’altra ora di tram, da casa al posto di lavoro, e hanno gli orari comandati, la macchinetta che punzona all’ingresso, oppure l’usciere apposito che segretamente marca e poi riferisce al capo del personale, e hanno i rapporti umano a cui stare dietro, gli attriti aziendali, tanta fatica per guardarsi le spalle dalle manovre delle segretarie, e dei dirigenti in ascesa. Io no, io debbo soltanto lavorare cinque ore al giorno, anche la domenica s’intende – e fanno trentacinque ore settimanali, una media da sindacato americano – ma poi sono libero, e non ho attriti aziendali, né umane relazioni, non insomma necessità di vedere gente»[4].

Sperimentando la nuova condizione consentita dal suo «lavoro privilegiato», Bianciardi avrebbe però scoperto rapidamente che la scelta di diventare collaboratore esterno doveva cambiare la sua vita anche in un altro modo. La Vita agra era infatti, in gran parte, proprio il diario della scoperta di questa nuova condizione, al tempo stesso lavorativa ed esistenziale. Una condizione in cui non rimaneva più alcuna traccia dell’antica aura che ancora nobilitava l’intellettuale di provincia, ma in cui il lavoro intellettuale, pur inglobato in un processo produttivo sempre più vicino a quello industriale, continuava comunque a conservare una propria specificità, che rendeva particolarmente utile la collaborazione esterna. E, soprattutto, una condizione che, pur svolgendosi formalmente in autonomia, addirittura tra le pareti domestiche, non cancellava il rapporto di dipendenza dal committente: «Tu magari firmi senza leggere con attenzione, ma intanto ti sei impegnato a consegnare un giorno preciso, e se sgarri ti impongono una penale del trenta per cento. Il pagamento lo fanno dopo l’approvazione. Hanno facoltà di rifiutare a loro insindacabile giudizio, escludendo ogni compenso. Sempre a loro insindacabile giudizio, qualora il tuo lavoro non corrisponda ai criteri e alle direttive […], e si renda necessaria una revisione, il compenso dovuto per quest’ultima sarà detratto dalla somma globale stabilita quale corrispettivo di cui al presente contratto. […] E poi bisogna lavorare tutti i giorni, tante cartelle per questo e quello e quell’altro, fino a far pari, anche la domenica. Se ti ammali non hai mutua, paghi medico e medicine lira su lira, e per di più non sei in grado di produrre, e ti ritrovi doppiamente sotto. […] E poi per loro era preferibile dar lavoro così, a cottimo, senza pagarci sopra oneri sociali, mutue, previdenze e altre marchette, senza rimetterci né la carta, né l’usura della macchina, dei nastri, dei tavoli, nemmeno il caldo. Il caldo te lo paghi da te. Ti paghi il caldo, l’usura della macchina e del nastro, tutto quanto. È un lavoro che può rendere, ma nessuno te lo invidia né cerca di toglierglielo, perché è parecchio faticoso e non piace. Non rientra nel gioco dei rapporti di forza aziendali, non dà né potere né prestigio, non è a livello esecutivo, e perciò te lo lasciano, e ti lasciano in pace. Al massimo ti potranno sollecitare, ti potranno telefonare»[5].

Per quanto rivestiti da una dose abbondante di ironia, molti elementi della Vita agra erano effettivamente autobiografici. Dal momento in cui Bianciardi scelse di lavorare come collaboratore esterno, ogni sua ora, ogni giornata, ogni settimana, venne infatti scandita dal numero di cartelle ancora da tradurre, dall’angosciante approssimarsi delle scadenze, dalle visite settimanali alle case editrici per consegnare i lavori svolti e per ritirare i nuovi, dai tentativi di ottenere un compenso più elevato e dal timore di non rovinare le relazioni con i pochi committenti. Il successo della Vita agra e il suo seguente adattamento cinematografico certo contribuirono a mutare la condizione economica dello scrittore. Ma l’atteggiamento di Bianciardi dinanzi alla buona notizia della decisione di Bompiani di pubblicare quello che sarebbe diventato il suo romanzo più noto rimane da questo punto di vista emblematico dello stato emotivo in cui il libro era nato. Perché, rivolgendosi al responsabile della casa editrice, che non vedeva nello scrittore tracce di entusiasmo, Bianciardi rispose che era contento, ma che doveva tornare subito a casa per concludere la sua razione quotidiana di cartelle.





 
 

lunedì 3 febbraio 2014

Ma Craxi è mai stato ‘moderno’? Leggendo «La guerra delle sinistre» di Marco Gervasoni



di Damiano Palano

Questo testo è apparso su Istituto di Politica - Rdp Online

Nella storia del Partito Socialista Italiano, il Congresso di Verona del 1984 costituì probabilmente una tappa cruciale, perché proprio allora, con la vittoria pressoché incontrastata di Bettino Craxi su ogni rivale interno, giunsero a piena maturazione tutti i segnali di trasformazione gradualmente emersi a partire dalla svolta del 1976. Scontata fin dall’inizio la conferma di Craxi, il Congresso si trasformò infatti in una convention mediatica, che culminò nella rielezione del segretario per acclamazione. Proprio segnalando l’anomalia di una simile scelta, pochi giorni dopo Norberto Bobbio – che pure aveva alle spalle una lunga militanza nel Psi – scrisse sulla «Stampa» un celebre articolo, in cui denunciava l’anomalia della Democrazia dell’applauso, un’anomalia che segnalava una lesione inquietante delle procedure democratiche interne. «L’elezione per acclamazione non è democratica, è la più radicale antitesi della elezione democratica», scriveva Bobbio, perché nell’acclamazione «si esprime l’opinione, ma sarebbe meglio dire il sentimento, lo stato d’animo, la reazione immediata, puramente emotiva, non del singolo individuo, ma della massa informe in cui l’individuo singolo conta non per se stesso ma come parte di un tutto che lo trascende, la massa appunto» (N. Bobbio, La democrazia dell’applauso, in «La Stampa», 16 maggio 1984). 
Quell’articolo sancì certo il definitivo distacco del filosofo torinese dalla causa del Psi, ma divenne anche un punto di riferimento per chi vedeva nel craxismo non un virtuoso esempio di decisionismo modernizzatore, bensì i tratti di una nuova prassi antidemocratica, capace di combinare un’abile strategia di costruzione dell’immagine pubblica con una disinvolta gestione del potere, non certo immune da rischi di corruzione. D’altronde Craxi – nonostante fosse, dopo Ferruccio Parri, il primo Presidente del Consiglio espresso da un partito di sinistra nella storia repubblicana – trovò i suoi più acerrimi rivali proprio a sinistra, e cioè sul versante politico che in linea teorica non gli doveva essere totalmente ostile. E, soprattutto, non trovò alcun appoggio – se non del tutto episodico – nel principale partito della sinistra italiana, il Partito comunista. Tanto che l’ascesa di Craxi può essere considerata da Marco Gervasoni – nel suo recente La guerra delle sinistre. Socialisti e comunisti dal ’68 a Tangentopoli (Marsilio, Venezia, 2013, pp. 204, euro 19.00) – come il momento di avvio di una conflittualità interna al campo di sinistra, le cui conseguenze non si sarebbero esaurite neppure due decenni dopo l’uscita di scena di Bettino Craxi.
Il libro di Gervasoni, già autore di alcuni stimolanti saggi sulla storia politica italiana dell’ultimo mezzo secolo (tra cui in particolare Storia d’Italia degli anni Ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia, 2010, La cruna dell’ago. Craxi, il Psi e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma – Bari, 2005, con Simona Colarizi), non si pone però solo l’obiettivo di ricostruire le vicende del dissidio fra Psi e Pci nel quarto di secolo che conduce dal 1968 fino al collasso della Prima Repubblica. Più in generale, Gervasoni cerca infatti di spiegare il fallimento – politico e culturale – della sinistra italiana: un fallimento di cui lo storico ritrova le ennesime conferme nella sconfitta elettorale subita dal Partito Democratico nel 2008 e nella mancata vittoria del 2013, e che in sostanza si riassume nell’incapacità di questa parte politica di esprimere una credibile leadership di governo (oltre che, probabilmente, anche una autentica ‘cultura di governo’). E la tesi che Gervasoni propone è esplicitata fin dalle prime pagine: «crediamo che un fattore fondamentale per spiegare il fallimento della sinistra italiana, il suo essere figlia di un dio minore, sia da cercare nel peso abnorme esercitatovi dal comunismo e nella scarsa volontà prima, nella incapacità poi, dei socialisti di controbattere a questa egemonia» (p. 8). In altre parole, il fallimento della sinistra italiana nasce dall’egemonia esercitata dal Pci, ma anche nella speculare debolezza – al tempo stesso politica e culturale – dei socialisti. Una debolezza che ebbe la sua prova più evidente nella decisione di allearsi con il Pci, sotto le insegne del Fronte democratico popolare, nelle elezioni del 1948, ma che si protrasse ancora a lungo. 
Gervasoni considera dunque l’avvento di Craxi alla guida del partito come una vera e propria «rivoluzione copernicana». La «sfida» di Craxi, secondo la lettura proposta dallo storico, si giocò così in due distinte fasi; prima come una battaglia finalizzata a «trasformare il Psi in partito di cultura socialdemocratica, liberandolo dalle incrostazioni antiriformiste e soprattutto dalla soggezione culturale nei confronti del comunismo» (p. 10); in seguito come un tentativo di «stimolare il Pci a rivedere la propria identità, a intraprendere un percorso di tipo revisionistico che lo avvicinasse al socialismo democratico europeo» (p. 10). Ma questo secondo obiettivo – ammesso che rientrasse effettivamente nei piani di Craxi – non venne mai raggiunto, perché il Pci continuò di fatto a ritrovare nel segretario socialista il proprio bersaglio polemico lungo tutti gli anni Ottanta, conservando questa posizione anche una volta abbandonato ogni riferimento all’ideologia comunista. 
Nel ricostruire le tappe della «guerra della sinistra», Gervasoni parte dalla metà degli anni Settanta, dai vivaci dibattiti che si svolgono sulle pagine di «Mondoperaio» e che, oltre a mettere in luce il deficit di liberalismo e garantismo della tradizione teorica leninista, insidiano l’egemonia del Pci proprio su quel terreno culturale in cui aveva ottenuto i maggiori successi nel primo trentennio repubblicano. In questa fase, l’orizzonte entro il quale si sviluppa la discussione è ancora costituito dall’«alternativa socialista», ossia dalla prospettiva di una collaborazione tra i due principali partiti della sinistra italiana. La «guerra» vera e propria inizia solo in coincidenza con il sequestro Moro, sia perché in quei giorni Craxi cerca di «rivendicare l’‘identità umanitaria’ del partito rispetto al ‘cinismo’ della ‘ragion di Stato’ evocata da democristiani e soprattutto da comunisti» (p. 42), sia perché il Pci e la Dc vedono l’iniziativa del leader socialista come una «provocazione». È in seguito alle lacerazioni di quei drammatici giorni che il Pci incomincia d’altronde a vedere in Craxi – come ebbe a scrivere Antonio Tatò, il segretario particolare di Enrico Berlinguer – un «morbo» che insidia la sinistra italiana. E pochi anni dopo, conclusa definitivamente la parentesi del ‘compromesso storico’ (e consumata la sconfitta dell’occupazione della Fiat), lo stesso Berlinguer avrebbe intravisto nel Psi di Craxi la principale conferma della gravità della «questione morale», ossia la prova della progressiva diffusione della corruzione in tutti i partiti di governo. 
A rafforzare la diffidenza verso il nuovo corso socialista, come osserva Gervasoni, è però anche il modello di partito ‘presidenzializzato’ che la leadership di Craxi prefigura (e che lo stesso Bobbio prende di mira dopo il Congresso di Verona): «Uno sforzo di modernizzazione che, però, né i comunisti né i democristiani comprendono, confondendo la leadership carismatica con l’autoritarismo. Dubbi più che legittimi nella Dc, a tutti gli effetti un partito democratico nella sua vita intera, non nel Pci, dove vige il ‘centralismo democratico’, con un segretario nominato a vita, al di sopra di ogni critica, osannato con un culto della personalità che, in modalità diverse, si trasferisce inalterato da Togliatti a Berlinguer» (pp. 79-80). I motivi di diffidenza devono però ingigantirsi con la conquista di Palazzo Chigi da parte di Craxi, e con l’avvio di una serie di politiche che, più o meno esplicitamente, si richiamano alla rivoluzione ‘neo-liberale’ di Reagan e Thatcher. Quella che emerge in questo periodo è così una totale divaricazione di prospettive. A proposito della revisione compiuta dal Psi, Gervasoni osserva che già nel 1982, con la Conferenza programmatica di Rimini, il Psi «approda pienamente alla cultura riformista» e comincia a delineare «il ritratto di una società ‘postindustriale’, aperta, dinamica e liberale, in cui il mercato, anziché essere visto come un limite o un male da combattere, è considerato un’opportunità e uno stimolo per una maggiore giustizia sociale» (pp. 90-91). Un simile discorso – scrive sempre lo storico – «suona però incomprensibile ai comunisti, ai cui occhi Craxi appare ora anche come una sorta di neoliberista, un seguace delle soluzioni economiche di destra di Reagan e della Thatcher» (p. 91). Nei cortei sindacali, Craxi inizia d’altronde a diventare il bersaglio polemico privilegiato e costante, e prende dunque forma quella vera e propria ‘demonizzazione’ destinata a segnare un intero decennio, per la cui spiegazione – nota Gervasoni – vengono in soccorso «le categorie della psicologia collettiva e dell’antropologia»: «in mancanza di un nemico interno forte e definito, il popolo comunista lo intravede in Craxi e nei socialisti, che incarnano una sinistra diversa, all’altezza dei tempi, con ciò additando ai comunisti lo stato della loro crisi. Gli anni ottanta, nell’immaginario dei comunisti, si delineano infatti subito come un periodo orribile, di caduta delle grandi tensioni, dominati da un lato dall’enrichissez-vous generalizzato e dall’altro dalla corruttela e dal cinismo, e in cui, per la prima volta nella loro storia, si sentono inadeguati, in ritardo, messi ai margini» (p. 92). 
La demonizzazione del leader socialista (e dello stesso Psi) continuerà fino al termine della ‘Prima Repubblica’ e raggiungerà il culmine nei giorni di Tangentopoli. Una delle tesi centrali di Gervasoni vede d’altronde proprio nell’anti-craxismo il principale vincolo identitario che – perduto ormai ogni legame con l’ideologia marxista e con il modello sovietico – guida la navigazione incerta del Pds. In altre parole, venuto meno ogni altro riferimento identitario, il Pds definisce la propria idea di sinistra per contrasto con il modello di sinistra costruito negli anni da Craxi e dal Psi. È infatti proprio l’anti-craxismo coltivato tenacemente per un decennio a spingere il neonato Pds dapprima a cavalcare la tempesta di Tangentopoli e, in seguito, a rifiutare una cultura riformista: «Una delle conseguenze della guerra culturale che il Pci aveva intrapreso contro Craxi», scrive lo storico, «portò infatti i postcomunisti al rifiuto di un’identità di tipo riformista socialdemocratica, persino dopo la morte del leader socialista» (p. 11). D’altronde, molti degli stereotipi alla base della demonizzazione di Craxi finiscono con l’essere interamente riutilizzati per fronteggiare il nuovo avversario Berlusconi.
La ricostruzione proposta da Gervasoni è senza dubbio lineare, e i contorni della «guerra delle sinistre» che emergono dal volume sono difficilmente contestabili. Ma dalla lettura del lavoro dello storico non possono però che affiorare alcune domande che riguardano proprio il ruolo ‘modernizzatore’ che Craxi e il Psi ebbero nella storia italiana. Se Gervasoni coglie bene la demonizzazione dell’avversario compiuta dal Pci, e se riconosce perfettamente le deformazioni polemiche che stavano alla base di quell’operazione, sembra talvolta sorvolare su una valutazione più compiuta della intenzioni politiche di Craxi. O, meglio, pare talvolta prendere fin troppo sul serio l’immagine che il leader socialista dipinse di se stesso e del suo partito quando evocava la necessità di ‘modernizzare’ lo Stato e di costruire istituzioni politiche all’altezza dei tempi. Proprio contro questa pretesa si volsero il Pci, i suoi intellettuali e una fetta consistente del ‘popolo della sinistra’, concedendo fin troppo a una retorica non priva di connotazioni ‘conservatrici’. Ma oggi che la distanza storica ci consente uno sguardo più meditato, è probabilmente possibile riconoscere che – se il Pci appariva negli anni Ottanta del tutto privo di qualsiasi progettualità politica – le istanze di ‘modernizzazione’ portate avanti dal Psi erano spesso poco più che bandierine agitate del tutto strumentalmente. 
Chiedersi oggi se Bettino Craxi e il suo Psi siano stati o meno espressioni della ‘modernità’ e della ‘modernizzazione’ – contro il ‘passatismo’ e la ‘conservazione’ del Pci – non può che essere una domanda piuttosto ambigua, se non altro perché non è affatto chiaro cosa siano la ‘modernità’ e la ‘modernizzazione’. Da un lato, il Psi fu sicuramente ‘moderno’ sul lato dell’immagine pubblica, perché riuscì davvero a diventare il simbolo del ‘nuovo’ nella sua avanzata travolgente, ma, sotto questo profilo, nel corso del Novecento furono ‘moderni’ anche Benito Mussolini e i bolscevichi sovietici, perché a loro modo seppero interpretare una delle tante facce della modernità e del ‘nuovo’. Dall’altro, sul versante della capacità di ‘modernizzare’ il paese (ossia della capacità di adeguare le sue istituzioni politiche alle trasformazioni della società), è invece davvero difficile ravvisare anche solo una piccola voce in positivo nel bilancio del craxismo. Certo Craxi portò avanti delle istanze di ‘modernizzazione’, ma si trattava di una modernizzazione tutta rivolta al sistema dei partiti e in particolare all’obiettivo della rottura del «bipartitismo imperfetto», e per raggiungere questo scopo giocò (senza successo) quasi tutte le carte che aveva a disposizione. Ed è proprio in questo breve arco di tempo che il ‘riformismo’ perde qualsiasi riferimento alla storia del socialismo europeo (oltre che alla frattura tra riformismo e rivoluzione), per diventare una formula passepartout con si promette invariabilmente di abbattere tutto il ‘vecchio’ (le rendite di posizione, i privilegi corporativi, e così via), prefigurando al tempo stesso i benefici generalizzati di una simile azione ‘riformatrice’. Craxi seppe senza dubbio utilizzare con grande abilità la retorica di questo ‘riformismo’, progettando grandi riforme, la principale delle quali – la ‘Grande riforma’ per eccellenza – investiva naturalmente le istituzioni politiche. Ma, esaminando il suo operato con la distanza consentita dalla storia, nella realtà non compì mai nessuna reale riforma, limitandosi piuttosto a guadagnarsi il consenso mediante una dilatazione della spesa, legami clientelari e tutto quello che le inchieste giudiziarie avrebbero portato alla luce. Osservata da quasi tre decenni di distanza, l’Italia di Craxi non può comunque apparirci come un esempio riuscito di buona ‘modernizzazione’, o di efficace ‘riformismo’. Sia perché la classe politica degli anni Ottanta spicca semmai per i suoi limiti e per l’incapacità di prevedere anche soltanto una delle grandi sfide da cui il paese sarebbe stato investito, sia perché l’opulenza conquistata in quegli anni – un’opulenza che ci fu davvero, e cui d’altronde sono consegnati gli ultimi ricordi di una stagione non segnata dalla crisi o dal ristagno – ci sembra piuttosto un’estorsione ai danni delle generazioni future e il riflesso di una sorta di generalizzata corruzione di massa. E proprio per questi motivi non possiamo probabilmente non riconoscere, nel decennio in cui Craxi occupò la scena politica italiana da protagonista, il decennio perduto, in cui maturò il lungo, interminabile declino italiano.

Damiano Palano