venerdì 1 aprile 2011

L’ambivalenza dello straniero. A proposito di un libro di Umberto Curi

di Damiano Palano

Per illustrare l’ipotesi sulla cruciale contrapposizione fra amico e nemico, Carl Schmitt, nel suo celebre Begriff des Politischen, ricorreva ai termini latini amicus, inimicus e hostis. In effetti, proprio i vocaboli latini erano in grado di chiarire la differenza fra il nemico privato, l’inimicus, e il nemico pubblico, l’hostis, ossia quel che nemico che ha effettivamente una rilevanza politica in quanto ostile all’intera comunità. L’hostis, prima ancora che il nemico, è però lo straniero, l’individuo estraneo alla comunità, di cui dunque si deve supporre – almeno potenzialmente – il carattere bellicoso. Proprio la sostanziale identità fra straniero e nemico, allusa dalla figura dell’hostis, sembra riaffiorare oggi nelle tensioni xenofobe, nella paura dell’estraneo, nel terrore verso l’immigrato che percorre le metropoli occidentali. Ed è contro una simile, automatica, identificazione – o, meglio, contro i suoi presupposti teorici – che si rivolge l’analisi compiuta da Umberto Curi intorno alla figura dello straniero. Il percorso di Curi – che si muove fra etimologia, filosofia e letteratura – punta infatti a riportare alla luce la radice paradossale che caratterizza lo straniero, l’ambiguità – in fondo non eliminabile – che ne contrassegna l’estraneità alla comunità politica. Un’ambiguità che ci mostra come lo straniero sia sempre nemico potenziale dal quale difendersi e – al tempo stesso – ospite pacifico di cui prendersi cura.
La natura ‘anfibia’ dello straniero affiora d’altronde anche dall’etimologia latina. Sebbene nel I secolo a.C. hostis sia già diventato il nemico pubblico, nel latino arcaico il termine – come ricordava lo stesso Cicerone – aveva invece un significato diverso, che non implicava l’idea di ostilità. Mentre il rapporto politico di inimicizia era indicato con il termine perduellis, l’hostis era considerato solo come uno straniero, o, meglio, come un ospite, con il quale si intrattiene un rapporto di reciprocità. È proprio affondando sulle radici arcaiche dell’hostis che Curi insiste per mostrare l’ambivalenza originaria dello straniero. «In origine hostis», osserva, «è una figura alla quale mi lega un rapporto che non è di ostilità, ma di compensazione, nel senso che sono verso di lui in obbligo di contraccambiarlo per qualcosa che ho ricevuto» (p. 59). Questa idea di un rapporto pacifico, che prevede un obbligo di compensazione, passerà in seguito al termine hospes (all’interno del quale rimarrà sempre il duplice valore di ‘ospitante’ e di ‘ospitato’), mentre l’hostis diventerà esclusivamente lo straniero con il quale si ha un rapporto di belligeranza.
Se l’ambivalenza dello straniero si perde abbastanza rapidamente nel mondo romano, essa rimane invece ben più salda nel termine greco xenos, utilizzato sia per indicare colui che, provenendo dall’«esterno», viene ospitato, sia colui che effettivamente ospita presso la propria casa. Da questo punto di vista, xenos non è soltanto lo straniero, ma lo straniero verso il quale si ha un obbligo di ospitalità. Ricorrendo a Omero ai classici della tragedia, Curi ricorda infatti come l’idea dello straniero si leghi nel mondo greco all’istituto della xenia, che obbligava all’ospitalità verso lo straniero, considerato addirittura come sacro e inviolabile (pp. 65-75). Le radici di un simile istituto affondavano, probabilmente, nella convinzione che, dietro il viandante sconosciuto, potesse celarsi una divinità, e che, dunque, la violazione degli obblighi dell’ospitalità comportasse un oltraggio nei confronti degli dei. Ovviamente, però, xenos non è l’unico termine con cui i greci indicano gli stranieri, perché, allo straniero cui si è obbligati all’ospitalità, si contrappone la ben diversa figura del barbaros, non soltanto straniero, ma anche rozzo e crudele. «L’unico caso in cui all’altro non può essere riconosciuto lo statuto di ‘ospite’, con le regole inviolabili connesse a tale riconoscimento», ricorda infatti Curi, «è il caso in cui questo altro si presenti come barbaros, vale a dire come essere umano non appartenente alla comunità assunta quale riferimento, ma come monstrum, come ‘specie’ biologica differente, come figura radicalmente antitetica rispetto agli ‘uomini’ che compongono la società» (p. 80). In altri termini, «il barbaros rappresenta in un certo senso il rovesciamento o la negazione di ciò che – pur nelle differenze – rende simili tutti gli uomini», ed è «soltanto nei confronti di queste figure intrinsecamente antiumane, quali sono i barbaroi, che non solo è consentito sottrarsi alle regole dell’ospitalità, ma è addirittura necessario ricorrere alla violenza estrema del polemos» (p. 80).
Non è però la contrapposizione fra xenos e barbaros che attira l’attenzione di Curi, ma l’ambiguità che caratterizza lo xenos, in cui convivono tanto la figura dello ‘straniero’, quanto quella dell’‘ospite’. In effetti, è proprio questa ambiguità – che finisce col perdersi nel latino hostis – che mostra l’ambivalenza strutturale, e ineliminabile, dello straniero. «Da un lato lo straniero mi fa dono della mia identità, dall’altro può svolgere questa funzione, può regalarmi il mio essere quello che sono, non perché mi sia univocamente ed esclusivamente amico, ma proprio perché è, in se stesso e irresolubilmente, anche nemico» (p. 81). In altre parole, la figura dello straniero è preziosa perché solo nel rapporto ambiguo con la sua estraneità è possibile definire la propria identità: «intrinsecamente duplice, come hostis-hospes, lo straniero è altrettanto duplice quanto ai suoi effetti, perché consente la posizione e il riconoscimento dell’identità specifica di chi entri in rapporto con lui, proprio attraverso l’apertura di una massima divaricazione fra il sé e l’altro. Ciò che mi consente di riconoscermi nella mia peculiare individualità è lo stesso che mi fa sentire in pericolo nella possibilità di conservarla» (pp. 81-82). L’ambiguità dello straniero – il suo essere almeno potenzialmente ostile – non è una condizione temporanea, destinata a chiarirsi, in un senso o nell’altro, nel momento in cui le relazioni diventano stabili, ma è una condizione originaria, che non è mai possibile dissolvere. «Sempre, in ogni momento, in qualunque circostanza, in qualsiasi fase del processo, anche quando si siano palesate pienamente le sue caratteristiche, lo straniero resta – insieme e indissolubilmente – ospite e nemico, non l’uno o l’altro, ma comunque l’uno e l’altro» (p. 82). E dunque, l’atteggiamento verso lo straniero non può che restituire la sua stessa ambiguità irresolubile: «mai dimenticare che, una volta ridotto a hostis, egli non resti comunque hospes. Ma guai anche a non cogliere nelle sembianze dell’hospes colui che è anche hostis» (p. 83).
È la natura ambivalente dello straniero che suggerisce a Curi una nuova rilettura dell’unheimlich freudiano. L’unheimlich – reso in italiano con il termine, ben più povero, di «perturbante», non è soltanto l’inquietante, il mostruoso, ma è l’effetto della scoperta di una duplicità insospettata con cui veniamo in contatto. Come nel racconto di Hoffmann la scoperta che il dottor Coppelius è anche l’«uomo della sabbia», così, la scoperta del perturbante è «la scoperta dell’intrinseca duplicità di qualcosa con cui veniamo a contatto» (p. 42). Come nel caso del confronto con lo straniero, il perturbante mostra perciò l’esistenza di una duplicità sempre ambigua e irresolubile: «La scoperta che il mio stesso Io non è unico, ma doppio, scisso in una dualità non ricomponibile, uguale e insieme irriducibilmente diversa rispetto all’immagine riflessa nello specchio, al sosia, all’ombra. Perturbante è la presa di coscienza di una insuperabile ambivalenza, di una unità che non è, non può mai essere, semplice, ma sempre inesorabilmente duplice» (p. 42). Ma, in termini ancora più chiari, unheimlich rimanda alla distinzione fra Heim e un-Heim, fra la casa e la ‘non-casa’, o, meglio, fra ciò che si riteneva fosse proprio della dimensione domestica e che si scopre – improvvisamente – minaccioso, ostile, spaventoso: «Suscita in noi grande turbamento il prendere coscienza del fatto che tra casa e non-casa non si dà opposizione, ma identità. Che ciò che ritenevamo familiare è insieme anche estraneo. E viceversa. Che il domus, il rassicurante ambito dei nostri affetti – il luogo nel quale ci ritiriamo per sentirci protetti, nel quale crediamo di poter trovare accoglienza e comprensione –, ospita in realtà anche ciò che credevamo essere esterno e remoto rispetto a essa» (p. 53). Anche lo straniero – nell’analisi di Curi – è dunque sempre unheimlich, minaccioso, inquietante, ma anche, e proprio per questo, prezioso, perché solo grazie alla sua ‘perturbante’ presenza è possibile definire la nostra identità.
È in questa prospettiva che Curi ripropone la necessità di quel diritto cosmopolitico – l’obbligo all’ospitalità, il diritto dello straniero «a non essere trattato come un nemico» - che Kant stabiliva fra le condizioni della pace perpetua. Un simile diritto, agli occhi di Curi, si rivela infatti cruciale anche nelle odierne società occidentali, nelle quali l’ospitalità non può ovviamente eliminare il carattere perturbante dello straniero, ma deve piuttosto indurre a riconoscere il suo ruolo. In effetti, «l’intrinseca duplicità dell’Unheimliches si rifrange nella costitutiva ambivalenza dell’ospite: nel suo essere insieme l’accogliente e l’accolto, il massimamente lontano e il più strettamente prossimo, l’alterità radicale che tuttavia inerisce alla più intima identità» (p. 149). In altre parole, «la consapevolezza del carattere maxime pericolosum dell’incontro con lui non cancella l’inderogabilità del rapporto», anzi, «in una certa misura lo rende ancora più necessario» (p. 13). Anche la stessa paura nei confronti dell’«altro» non deve perciò essere negata, perché della natura – spaesante – dello straniero, una natura che non può essere eliminata, è necessario «prendersi cura». «Se appropriatamente ‘curata’, e non strumentalmente utilizzata, quella paura può diventare un elemento essenziale nella costruzione di una relazione di ospitalità, in quanto rende chiara fin dall’inizio la natura intrinsecamente ambivalente di quella relazione» (p. 18). È infatti proprio lo straniero – la sua presenza perturbante – a costituire la nostra identità e suoi confini, «non solo perché la fa essere, anche perché la fa – potenzialmente – non essere», e «non solo perché la determina positivamente, ma anche perché la minaccia dall’interno» (p. 18).
L’elemento più originale di questo nuovo episodio della riflessione di Curi consiste, probabilmente, nell’idea di ritrovare il carattere dell’unheimlich freudiano nella figura dello straniero, e nella sua strutturale, irresolubile, ambivalenza, che, ogni volta, lo presenta al tempo stesso come ospite e come potenziale minaccia. Snodandosi fra i più diversi materiali – da Omero a Camus, a Euripide a Hoffmann,  da Platone a Kant – l’analisi restituisce infatti la figura di un ospite sempre inquietante, sempre potenzialmente minaccioso, ma, proprio per questo, prezioso per la nostra identità. Da profondo conoscitore del pensiero di Schmitt, Curi non può però non avvedersi dell’insidia che si annida nell’idea kantiana del diritto cosmopolitico. Non tanto perché la vecchia critica di Schmitt al filosofo di Königsberg fosse sempre calzante e appropriata, quanto perché l’idea di un diritto di ospitalità esteso a tutti gli esseri umani non può che contenere dentro di sé – almeno potenzialmente – la tentazione di ritrovare un limite oltre il quale tale diritto non può essere riconosciuto. Un nuovo limite fra umani e non umani, fra l’umanità e i suoi nemici, che, di fatto, può solo spostare – ma non certo eliminare – il vecchio confine fra xenos e barbaros: il confine fra lo straniero, verso cui è doveroso essere ospitali e lo straniero minaccioso, l’essere mostruoso verso il quale viene meno ogni obbligo, e verso il quale diventa persino legittimo adottare misure inumane.

Damiano Palano


Umberto Curi, Straniero, Raffello Cortina Editore, Milano, 2010, pp. 174, euro 12.50.


1 commento:

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