sabato 29 dicembre 2018

Il lungo viaggio degli uomini della moneta. Le radici del presente nell'analisi di Rita di Leo



di Damiano Palano

Il giorno di Ferragosto del 1971 l’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon annunciò da Camp David la sospensione della convertibilità tra dollaro e oro. Molti lessero allora quella clamorosa decisione come il segnale dell’imminente declino dell’«impero americano», impantanato nella guerra del Vietnam e alle prese con le forti tensioni sociali interne, con un’inflazione galoppante, con l’aumento della spesa pubblica. La sospensione della convertibilità – confermata definitivamente nel 1973 – sembrava inoltre concludere la quasi trentennale vicenda del sistema delineato a Bretton Woods nel 1944, quando si fissarono i cardini del nuovo ordine internazionale liberale, fondato sul ruolo egemone degli Usa. Quello che parve allora un tramonto può invece oggi essere considerato come il momento di avvio della globalizzazione (o quantomeno della sua fase più recente), oltre che come il punto di partenza di quella rivoluzione ‘neo-liberale’ che si manifestò compiutamente con la presidenza di Ronald Reagan a partire dagli anni Ottanta. L’ordine internazionale liberale si rivelò infatti molto più vitale di quanto molti avessero previsto, anche se modificò almeno in parte la propria logica. E proprio allora la partita della Guerra fredda conobbe per molti versi una mossa decisiva, destinata a rivelare le proprie conseguenze solo più tardi.

È anche per questo che, nel corso degli ultimi anni, molti studiosi sono tornati alla svolta degli anni Settanta per ripercorrere la genesi del nuovo assetto ‘neo-liberale’ e per individuare le radici della crisi contemporanea. Nel suo nuovo libro, L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo (Il Mulino, pp. 197, euro 19.00), Rita di Leo propone invece una rilettura più ambiziosa, che procede ben più indietro rispetto al 1971 e alla sospensione della convertibilità tra dollaro e oro. Per comprendere il presente, a suo avviso è certo indispensabile ricostruire le sequenze cruciali del «secolo breve» e in particolare la sfida rappresentata dall’Unione Sovietica (di cui di Leo ha in molti libri messo in luce, come pochi altri, le tensioni interne e le svolte più importanti). Ma l’ipotesi del libro è che nel Ventesimo secolo si consumi solo l’atto terminale di un lungo processo di affermazione degli «uomini della moneta» su altri soggetti e altre logiche che, di volta in volta, ne hanno contestato l’egemonia.


Nel suo nuovo libro, è inevitabile riconoscere l’ennesima tappa del percorso compiuto da Rita di Leo nel corso di più di quasi sessant’anni nei quali le sue ricerche si sono intrecciate con la storia dell’operaismo italiano, oltre che con la vicenda teorica e politica di Aris Accornero, «intellettuale della classe operaia» – come l’ha definito recentemente Mario Tronti – che dell’esperienza operaista fu al tempo stesso protagonista (seppure in incognito) e coscienza critica. Rita di Leo entrò infatti in contatto con Raniero Panzieri nel 1959, ben prima che vedesse la luce il primo numero dei «Quaderni rossi», mentre conduceva una ricerca sui braccianti pugliesi, poi destinata a diventare un libro (I braccianti non servono. Aspetti della lotta di classe nella campagna pugliese, Einaudi, Torino, 1961). Grazie a Panzieri, di Leo conobbe – oltre al folto gruppo di giovani torinesi, che avrebbe contribuito alla nascita della rivista – anche i romani Asor Rosa, Umberto Coldagelli e lo stesso Tronti, con cui da quel momento iniziò una discussione destinata a protrarsi negli anni e a procedere, per molti versi, su binari paralleli. Sul secondo numero dei «Quaderni rossi» - quello che ospitava il saggio trontiano La fabbrica e la società, di solito individuato come il vero punto di origine dell’operaismo italiano – era pubblicato anche un articolo su Lavoro necessario e valore della forza-lavoro in edilizia in cui di Leo, sulla scorta di Marx (e della lettura che ne proponeva il giovane Tronti), cominciava a svolgere i primi elementi di un’inchiesta sul conflitto di classe tra gli edili. E dopo il 1963, in seguito alla decisione del gruppo romano di dare vita (insieme alla componente veneta e alla pattuglia raccolta attorno a Romano Alquati) all’esperienza di «classe operaia», di Leo si dedicò con intensità all’intervento politico, concentrandosi in particolare su alcune fabbriche romane. Fu però dopo la fine di «classe operaia», e la conclusione di un periodo di militanza politica a tempo pieno, che la ricerca di Rita di Leo, iniziando a riflettere sulla classe operaia in Unione Sovietica, imboccò un sentiero che avrebbe continuato a percorrere per molti anni. Nel 1969, su «Contropiano» compariva infatti I bolscevichi e «Il Capitale», un saggio che per la prima volta esplicitava l’esigenza di rileggere l’esperienza del socialismo sovietico «dal punto di vista operaio», a partire dalla Nep fino alla stagione di Stalin. Come si leggeva nell’incipit di Operai e sistema sovietico, pubblicato l’anno successivo, si trattava di esaminare l’esperienza sovietica da una prospettiva radicalmente diversa da quella che aveva indirizzato sia le letture ortodosse, sia quelle trotskiste: «fare un discorso sull’Urss ha oggi un significato se il discorso è allo stesso tempo sul capitalismo, se serve a portare avanti l’analisi su una realtà oscura qual è ancora il rapporto tra operai e capitale. […] Sta diventando chiaro che la forza del sistema non sta nella proprietà privata dei mezzi di produzione oppure nella destinazione egoistica del prodotto sociale, ovvero nel caos del processo economico complessivo, bensì nel semplice e resistentissimo stato di fatto che vede da un lato la forza lavoro e dall’altro le condizioni sociali per utilizzarla e ricavarne un valore maggiore del suo costo. Al di là delle trasformazioni avvenute, il rapporto tra lavoro e capitale sembra rimasto saldamente ancorato alle sue fondamenta materiali, oggettive, non scalfito da nulla e tantomeno dall’ideologia del socialismo o dalla esperienza del socialismo realizzato nell’Urss. […] Il controllo sul valore di scambio della forza lavoro e l’utilizzo più conveniente del suo valore d’uso hanno condizionato la costruzione del socialismo né più né meno di quanto è avvenuto per il capitalismo alle sue origini» (R. di Leo, Operai e sistema sovietico, Laterza, Bari, 1970, pp. 7-9). Rifiutare l’«ideologia socialista», per di Leo, significava articolare le ipotesi operaiste anche per studiare le sequenze e le dinamiche dello sviluppo capitalistico in Unione Sovietica: «L’analisi del rapporto di produzione nei paesi socialisti mette allo scoperto la sopravvivenza tenace della relazione fondamentale tra lavoro e capitale; riporta quindi la questione al suo punto di partenza. Perché e come si produce la subordinazione del lavoro vivo alle strutture produttive, della classe operaia al potere politico del sistema? Con il suo tormentato passato, con il suo ricco presente, ha un futuro lo scontro tra lavoro e capitale?» (ibi, p. 17).

A queste domande Rita di Leo ha cercato di rispondere per decenni, con libri come Operai e fabbrica in Unione sovietica nelle lettere alla «Pravda» e al «Trud» (De Donato, Bari, 1973), Il modello Stalin (Feltrinelli, Milano, 1978), Occupazione e salari nell’Urss 1950-1977 (Etas, Milano, 1980), L’economia sovietica tra crisi e riforme (1965-1983) (Liguori, Napoli, 1983), Vecchi quadri e nuovi politici. Chi comanda davvero nell’ex Urss (Il Mulino, Bologna, 1992), L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa (Ediesse, Roma, 2012) e Cento anni dopo: 1917-2017. Da Lenin a Zuckerberg (Ediesse, Roma, 2017), oltre che in molti articoli e saggi che varrebbe la pena raccogliere in volume. A quelle stesse domande, dopo la conclusione dell’«esperimento profano», se ne sono però aggiunte altre, che hanno a che vedere con la sconfitta storica del movimento operario e con l’affermazione di un’antropologia che pare persino refrattaria all’idea stessa del conflitto di classe. A questi interrogativi Rita di Leo ha cercato alcune risposte alcuni anni fa nel suo Il ritorno delle élite (Manifestolibri), ma la risposta più ambiziosa giunge proprio con L’età della moneta.

L’uomo della moneta per di Leo coincide con un modello antropologico, secondo il quale ogni singolo individuo è valutato per ciò che vale sul mercato. Inoltre, l’uomo della moneta è anche il rappresentante di una specifica élite, il cui potere non si basa sulla forza coercitiva, bensì sulle risorse economiche. Come scrive di Leo in alcune dense pagine: «L’uomo della moneta è antropologicamente oltre l’uomo economico nella definizione che si ritrova nella letteratura dei filosofi, degli economisti, dei politologi. Quella definizione è suggerita dall’irruzione dell’economia mercantile nel Settecento di Mill e Smith come fenomeno irreversibile, come male/bene nell’Ottocento di Marx e Walras, come ‘il’ capitalismo nel Novecento di Pareto e Lenin. Quella definizione contiene di per sé una forma-sostanza che si identifica nel possesso di beni, in redditi, in salari, in flussi finanziari. L’uomo economico è per l’appunto valutato per quanto vale sul mercato, e il mercato è indispensabile al comune esistere quotidiano. Il valore è concreto: esisti per quello che fai e hai. Sono il fare e l’avere a determinare il tuo valore agli occhi del mondo» (L’età della moneta, p. 153).

Per una lunga stagione storica, il confronto è così soprattutto con gli «uomini della spada», e cioè con una logica che fa discendere la legittimazione del potere dalla forza, prima dalla spada del cavaliere e poi dagli eserciti mercenari. Per tutta la prima età moderna, gli uomini della moneta rimangono in una posizione del tutto subalterna rispetto al potere politico. Ma, nella loro sotterranea lotta contro gli «uomini della spada». trovano negli intellettuali – gli «uomini del libro» - degli alleati preziosi, che per secoli utilizzano gli strumenti della critica per dissolvere le basi culturali della società feudale. Il rapporto tra «spada» e «moneta», per quanto problematico, non è però sempre conflittuale, e, anzi, nella stagione del nazionalismo – mentre i mercanti si trasformano in produttori – si risolve molto spesso in un saldo compromesso. Ma quando incomincia il tramonto delle élite aristocratiche – un tramonto che si conclude per molti versi solo con la Prima guerra mondiale – si profilano per «gli uomini della moneta» nuovi insidiosi contendenti. Sono naturalmente gli «uomini del lavoro», ossia il movimento operaio, le prime organizzazioni sindacali, che contestano nei luoghi stessi della produzione il potere del capitale. E un’insidia ulteriore giunge dagli «uomini del libro», che – dopo avere contribuito alla dissoluzione del mondo feudale – si fanno portavoce degli sfruttati in nome di una trasformazione radicale della società. Naturalmente il 1917 è per di Leo – ben più che una rivoluzione operaia – la vittoria di un manipolo di «filosofi-re», di politici professionali. Se la Nep di Lenin rappresenta il tentativo compiuto dagli «uomini del libro» di strappare agli uomini della moneta le conoscenze tecniche per gestire l’economia pianificata, la lunga stagione di Stalin ne sancisce la brusca interruzione. L’«operaismo» di Stalin si nutre infatti della diffidenza, o persino del disprezzo, per gli intellettuali. E così la costruzione di una nomenklatura di estrazione esclusivamente operaia sancisce la rottura dell’alleanza tra intellettuali e movimento operaio, ma il nuovo ceto dirigente operaio non si rivela tecnicamente all’altezza del compito, con esiti disastrosi per le ambizioni sovietiche. E il divorzio tra gli «uomini del lavoro» e gli «uomini del libro» non coinvolge solo l’Urss di Stalin. Perché da allora prende forma quel ‘lungo addio’ destinato ad allontanare gli intellettuali dal movimento operaio (o quantomeno dai partiti comunisti). «Fare a meno degli uomini del libro», d’altronde, «è un preciso obiettivo degli uomini della moneta» (p. 160).

I fattori che entrano in gioco nel «secolo breve» sono ovviamente molti. Uno di questi è il ruolo cruciale della tecnologia nello smantellamento del potenziale conflittuale della classe operaia, su cui spesso le indagini ‘post-operaiste’ hanno insistito, e su cui anche di Leo ha attirato l’attenzione, per esempio in Cento anni dopo, dove osserva: «l’informatica e la globalizzazione, le due brillanti stelle del firmamento tra la fine del Novecento e l’inizio del XXI secolo, hanno influito nel senso opposto a quello di stelle dell’avanguardia loro attribuito, giacché nei fatti sono servite ai datori di lavoro per far rinascere il passato nel rapporto con l’uomo del lavoro. E non si tratta della semplice attività di comando ripristinata su un esercito sconfitto, ma della scomparsa dell’esercito. Nei paesi coinvolti la novità è la fine dell’assembramento operaio in un solo spazio. Gli uomini del lavoro hanno materialmente perso il proprio essere collettivo e si ritrovano intrappolati nell’antico rapporto ad personam con il datore di lavoro. Ciascuno solo con se stesso e di nuovo subalterno senza sponde di difesa. In un tempo di strepitosi successi della tecnica, dai droni agli algoritmi, stregoni infallibili, l’antico odio operaio per le macchine ha un’innegabile ragion d’essere» (R. di Leo, Cento anni dopo: 1917-2017, p. 27).

Lo snodo che per di Leo è davvero decisivo è proprio quello che rompe l’alleanza fra intellettuali e mondo del lavoro. La battaglia più importante vinta dagli «uomini della moneta» sembra infatti proprio quella combattuta contro il filosofi-re, contro gli «uomini del libro». Ciò che resta sul tappeto dopo quella vittoria è allora il «vuoto del pensare», o l’illusione che un pensiero possa essere valutato positivamente o negativamente sulla base di algoritmi: «Nel nuovo secolo quei fili si sono spezzati, grazie ai sofisticati giochi matematici come l’arma vincente, sperimentata con successo dagli artisti degli algoritmi. E dunque che un qualsiasi giro di pensiero possa essere valutato utile o nocivo sulla base di algoritmi, ha reso il pensiero un esercizio matematico. Di conseguenza le categorie fondative della cultura classica europea sono apparse superate proprio come gli stati, i parlamenti, i partiti i sindacati, i conflitti sociali, nati tutti dalle antiche teste di antichi uomini del libro. Le nuove teste sono ormai catturate dai numeri e con essi definiscono lo stato delle cose, con algoritmi che assicurano il risultato e quel risultato è la prova di aver ben pensato» (L’età della moneta, p. 161). E, come ha scritto in Cento anni dopo, il tempo dell’algoritmo non consente spazio alla critica: «Il tempo nuovo che sta sorgendo dall’eclissi è l’universo degli algoritmi, i quali consistono nei passi da fare per raggiungere un risultato entro un tempo previsto. Passi, risultati, tempi sono espressi in formule matematiche, in codici propri al campo dell’informatica. Nell’universo degli algoritmi non è escluso il pensare, ma si pensa attraverso numeri, espressioni, codici. È escluso il pensare alla Aristotele e alla Dante Alighieri, alla Machiavelli e alla Hobbes. […] Nel tempo degli algoritmi, i passi, i tempi, i risultati di una qualsiasi azione comportano una tecnica che appare invincibile in confronto all’uomo che pensa per pensare. Il quale per ci stesso è divenuto un rischio per l’equilibrio dell’universo. Come nell’epoca del golem operaio, anche in quella del golem algoritmico i filosofi-re appaiono alieni cui spetta l’ostracismo. Viene da ciò l’ipotesi già espressa che si sia esaurita la ragion d’essere delle sirene-Platone, dei filosofi-re che si attribuivano la capacità di cambiare lo stato delle cose. A questo ‘risultato’ provvederebbe la tecnica quando se ne presentasse l’esigenza» (Cento anni dopo: 1917-2017, cit., pp. 101-102).        

In un paesaggio segnato dall’egemonia dell’uomo della moneta, il tratto più macroscopico non può che essere il riconoscimento della ‘natura asociale’ dell’uomo come dato ‘originario’. E la conseguenza diventa fatalmente l’accettazione della solitudine come condizione ineluttabile: «Nell’età della moneta l’uomo si riconosce primariamente nella condizione originaria di animale asociale. È una condizione antichissima, tornata sulla scena con le sue conseguenze. La prima conseguenza è la concezione del mondo della moneta spazza via i tanti conflitti tra gli uomini nelle tante loro società, e porta non alla pace kantiana ma ad accettare come ineluttabile l’essere solo dell’individuo. Dalla sua solitudine ciascuno ricava il proprio stare al mondo, da debole o da forte, e nel XXI secolo ciò è sempre più visibile e sempre più accettato. Non è subìto, è accettato» (p. 176). Le domande che per molti versi orientano l’intera indagine compiuta da di Leo non possono però non coinvolgere il ruolo degli «uomini del libro», di quei «filosofi-re» che hanno rinunciato al ruolo politico che per buona parte dell’Ottocento e del Novecento erano stati in grado di interpretare, e dalla cui capacità di articolare una critica all’altezza del tempo dell’algoritmo dipende probabilmente anche il futuro della politica nel XXI secolo: «accecati dalle antiche, classiche certezze dei filosofi-re, non sono stati capaci di vedere e di capire il percorso che portava all’età della moneta? Oppure non sono stati essi capaci di sbarrarlo? Forse a impedirlo è stata la loro fede nell’illuminismo, una fede che ha fatto leggere il Capitale di Marx come il manuale per l’edificazione della società perfetta mentre era l’analisi del capitalismo. E la prova del fraintendimento è venuta quando i pianificatori sovietici hanno preso a modello gli schemi di riproduzione del secondo libro del Capitale per la loro economica senza capitalisti, creando un capitalismo anomalo ma pur sempre un capitalismo, come si è visto dopo la fine dell’Urss» (pp. 171-172). E se la risposta a queste domande ha certo una notevole importanza per comprendere il nostro passato, oltre che per ricostruire le sequenze che conducono al nostro presente, forse – come suggerisce Rita di Leo nelle pagine conclusive – si tratta anche di una risposta che coinvolge il nostro futuro. Perché, «nel secondo decennio del nuovo secolo, la risposta alla domanda riguarda il futuro degli uomini dei libri: torneranno per sempre nella caverna, o cominceranno a pensare contro gli algoritmi?».

Damiano Palano


domenica 23 dicembre 2018

La fine possibile della democrazia. "How democracy ends" di David Runciman




di Damiano Palano


Questa recensione al libro di David Runciman, How democracy ends, è apparsa su "Avvenire" il 5 dicembre 2018. 


Nel suo vecchio romanzo Qui non è possibile, il dimenticato premio Nobel Sinclair Lewis immaginò che, alla metà degli anni Trenta, anche negli Stati Uniti, favorita dal clima della grande crisi, potesse avere luogo una svolta autoritaria. «Qui non è possibile», non cessavano di ripetere molti dei protagonisti, persuasi che i vincoli costituzionali e la tradizione politica americana fossero baluardi inespugnabili per movimenti analoghi a quelli che in Italia e in Germania avevano travolto le istituzioni rappresentative. E invece, nell’incubo fantapolitico di Lewis, Berzelius Windrip – quasi un paradigma del leader populista, costruito sul modello del controverso senatore e governatore della Louisiana Huey Long – riusciva a conquistare la Casa Bianca, a instaurare una dittatura e a stabilire un ferreo controllo sulla società grazie a fedeli formazioni paramilitari. Naturalmente, come sappiamo, i timori di Lewis si sarebbero rivelati ben presto eccessivi. Negli ultimi anni, allarmati dai risultati eclatanti (e talvolta imprevisti) riportati da candidati e partiti ‘populisti’, diversi politologi sono invece tornati a chiedersi, ancora una volta, se non sia possibile anche in Occidente un crollo della democrazia. E cioè hanno iniziato a interrogarsi sull’eventualità che anche le democrazie mature, all’apparenza più consolidate e stabili, siano soggette al rischio di crisi politiche tanto gravi da innescare una svolta autoritaria. Roberto Stefan Foa e Yascha Mounk hanno per esempio ravvisato i segnali di un «deconsolidamento» delle democrazie occidentali. E Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, guardando alla storia del Novecento, hanno riconosciuto, soprattutto negli Stati Uniti, dinamiche simili a quelle che prepararono l’ascesa dei regimi autoritari nell’Europa uscita dalla Prima guerra mondiale. Nel suo brillante saggio How Democracy Ends (Profile Books, pp. 249), David Runciman segue invece un’altra strada. Esclude categoricamente che si possa tornare agli Trenta, e cioè che la minaccia per le democrazie avanzate possa giungere dalla presa del potere da parte di movimenti autoritari e totalitari. Ciò non significa che la democrazia non corra qualche rischio, ma per il politologo – direttore del Dipartimento di Politica e Studi internazionali dell’Università di Cambridge – la storia non si ripete e le minacce non sono più quelle del passato. Le nostre società, sostiene, sono «troppo ricche, troppo anziane, troppo interconnesse» perché mutamenti come quelli degli anni tra le due guerre possano ripetersi. Guardando al passato, possiamo anzi correre il rischio di non riconoscere le nuove forme che potrebbe assumere la fine della democrazia.

Alcuni anni fa, nel suo The Confidence Trap, Runciman sosteneva che il rischio principale per il futuro delle democrazie occidentali derivasse dal successo che quel modello politico aveva ottenuto. Le istituzioni democratiche sono state infatti in grado di monopolizzare la violenza, di consentire lo sviluppo economico, di sostenere uno stabile progresso tecnologico e di raggiungere un livello di benessere sconosciuto a ogni altra società del passato. Ma proprio questa assenza di precedenti storici ci priva della possibilità di riconoscere, sulla scorta dell’esperienza storica, i rischi di fallimento. La democrazia occidentale potrebbe così rimanere vittima dell’eccessiva sicurezza riposta nelle proprie capacità. E potrebbe persuadersi cioè, sulla base dei successi conseguiti nel passato, che il processo di miglioramento sia destinato a proseguire in modo interminabile, che gli incubi del passato non possano tornare e che tutti i problemi – anche i più complicati – siano in fondo risolvibili. In How Democracy Ends Runciman torna a sviluppare questo discorso, invitando a distogliere lo sguardo dal passato, per tentare invece di «pensare l’impensabile». Il politologo cerca cioè immaginare gli scenari che potrebbero mettere in crisi le istituzioni rappresentative occidentali. In primo luogo, considera l’eventualità di un colpo di Stato: un’ipotesi che non può certo essere considerata come un ricordo del passato, ma che – almeno per quanto concerne le democrazie consolidate – rimane piuttosto improbabile. Uno degli obiettivi cui puntava la spettacolare presa del potere da parte dei golpisti era infatti dissuadere gli oppositori dal ricorso alle armi. Ma la notevole riduzione della violenza politica nelle società occidentali rende molto difficile che una presa del potere avvenga secondo il vecchio repertorio del Putsch. Più probabile sarebbe invece una sorta di invisibile golpe «incrementale», che conti sull’apatia di quella che Runciman chiama «zombie-democracy», e che dunque riduca gradualmente libertà e garanzie. Un secondo scenario è legato all’insorgere di una catastrofe, specialmente perché, a differenza di quelle del passato, le minacce di oggi (come il riscaldamento globale o un incidente nucleare) non sembrano poter innescare un’azione collettiva. Infine, il politologo considera le conseguenze che potrebbe avere la rivoluzione digitale. La comunicazione contemporanea e i social media rappresentano infatti un’insidia fatale per la democrazia rappresentativa. Invece di abituare i cittadini ad attendere con pazienza gli effetti delle decisioni politiche, li incoraggiano a richiedere una gratificazione immediata, li inducono a chiedere autenticità e trasparenza. E, al tempo stesso, spingono gli attori politici a inseguire un sostegno immediato e a rinunciare a progetti di lungo periodo.

Come tutti gli esercizi di futurologia, il libro di Runciman – benché sia davvero ricco di suggestioni – non può prevedere il futuro. Probabilmente il politologo britannico ha ragione a escludere che le tensioni dei prossimi anni non ricalcheranno quelle del passato. Ma sarebbe comunque un errore ritenere che la storia non ci insegni nulla. Non solo perché proprio l’esperienza del passato suggerisce di non riporre eccessiva fiducia nelle virtù delle istituzioni e di diffidare di chi ripete, con un ottimismo un po’ ingenuo, che «qui non è possibile». Ma anche perché, probabilmente, le trasformazioni contemporanee non possono essere davvero comprese senza riconoscere come spesso le crisi del presente affondino (almeno in parte) le loro radici nel passato.



Damiano Palano

mercoledì 19 dicembre 2018

Sulle tracce di un’utopia realistica. "Il senso della possibilità" di Salvatore Veca



di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Salvatore Veca, Il senso della possibilità. Sei lezioni (Feltrinelli, pp. 238, euro 22.00), è apparsa su "Avvenire" il 22 luglio 2018.

Quasi un secolo fa, al termine di una celebre conferenza pronunciata a Monaco, Max Weber mise in guardia dalle insidie che si nascondevano nella politica intesa (in senso nobile) come «professione». E soprattutto indicò alla platea degli studenti che aveva di fronte quali fossero gli ostacoli contro cui doveva scontrarsi chiunque intendesse dedicarsi seriamente a questa attività. «È certo del tutto esatto, e confermato da ogni esperienza storica», disse allora il sociologo, «che non si realizzerebbe ciò che è possibile se nel mondo non si aspirasse sempre all’impossibile». Chi era in grado di assumersi davvero un simile compito, proseguì, doveva essere «un capo», se non addirittura «un eroe». Ma coloro che non erano né capi né eroi dovevano «armarsi di quella fermezza interiore che permette di resistere al naufragio di tutte le speranze», perché «altrimenti non saranno in grado di realizzare anche solo ciò che oggi è possibile». Il sociologo di Economia e società pronunciava la propria lezione al principio del «secolo breve», nel clima rivoluzionario dell’Europa post-bellica, in cui le speranze di trasformazione della realtà andavano spesso ben al di là dei confini del possibile. Come avrebbero fatto mezzo secolo dopo i contestatori del Sessantotto, anche gli studenti cui si rivolgeva Weber pensavano infatti che essere realisti significasse chiedere l’«impossibile». E probabilmente ritenevano che lo strumento per modificare la realtà fosse la politica. Oggi le cose sono ovviamente ben diverse. Non soltanto perché le grandi utopie che hanno nutrito il Novecento si sono dissolte, ma anche perché la politica pare incapace di governare i flussi dell’economia globale e perché i suoi margini d’azione sembrano essersi ridotti alla pura amministrazione dell’esistente.

Il nuovo libro di Salvatore Veca, Il senso della possibilità. Sei lezioni (Feltrinelli, pp. 238, euro 22.00) torna a esplorare la tensione che segnalava Weber. Ma proprio perché lo scenario con cui si confronta è segnato dall’impotenza della politica e dall’apparente assenza di alternative, per molti versi rappresenta un elogio dell’utopia. «Lo spazio del possibile», scrive infatti, «è contratto e come dissolto», mentre «la densità e la rigidità dei vincoli sono tali che non abbiamo più risorse intellettuali, né morali, né motivazioni per prenderci per mano e ragionare e operare insieme su forme più decenti di convivenza». Un po’ come faceva Weber, anche Veca invita allora a ripensare il realismo, discostandosi però da quella tradizione di pensiero che considera la realtà come un insieme di determinanti inaggirabili. Naturalmente non nega che i vincoli esistano, ma cerca di mostrare che lo spazio della realtà non è mai totalmente determinato dalla necessità. In altre parole, c’è sempre un margine di incertezza, in cui si situa la possibilità di sviluppi alternativi. L’elogio dell’utopia in cui Veca si impegna è allora una sollecitazione a esplorare lo spazio della possibilità dentro i confini che il mondo concede, a immaginare «mondi possibili», «modi differenti di convivere, ideali di società ed esperimenti di vita individuali e collettivi».

L’utopia di Veca naturalmente ha poco a che vedere con quelle che hanno nutrito le rivoluzioni novecentesche. Si tratta piuttosto di un’«utopia realistica», che, sulla scia di John Rawls, punta principalmente a estendere «quelli che di solito sono considerati i limiti delle possibilità politiche pratiche». E, dunque, più che a fornire una visione radicalmente contrapposta alla rappresentazione del mondo offerta dal realismo, si propone di indicare l’utilità di uno scavo dentro le nicchie della contingenza. «Il discorso dell’utopia ragionevole non rinuncia all’esplorazione delle possibilità istituzionali e politiche alternative», scrive infatti il filosofo, «ma assume che questa esplorazione abbia luogo entro lo spazio che il mondo ci concede». Ed è anche per questo che, secondo Veca, l’immaginazione politica e sociale non eleva castelli su una tabula rasa, ma attinge alle voci dell’umanità che abbiamo alle spalle. Qualsiasi progetto futuro non può che alimentarsi cioè al senso del passato, alle esperienze riuscite, oltre che alle catastrofi e ai fallimenti. Ma allora non è solo per la presa dei vincoli economici che l’immaginazione politica si restringe. L’utopia scompare infatti dalla nostra mappa anche perché il nostro sguardo è schiacciato sul presente. E proprio perché non siamo più davvero in grado di guardare alle nostre spalle, tendiamo a concepire il futuro come un destino già scritto. 

Damiano Palano

domenica 16 dicembre 2018

Le bandiere discrete del «nazionalismo banale». Un libro di Michael Billig



di Damiano Palano


Questa recensione al libro di Michael Billig Nazionalismo banale (Rubbettino, pp. 351, euro 20.00) è apparsa su "Avvenire" il 18 novembre 2018.


Nel suo celebre, contestato e spesso frainteso libro sulla fine della Storia, Francis Fukuyama non concedeva grandi prospettive al nazionalismo. La conclusione della Guerra fredda aveva sancito naturalmente la sconfitta delle ideologie socialiste e la vittoria della democrazia liberale. Ma quelle forze economiche, che un tempo avevano richiesto la formazione di grandi entità centralizzate, ora spingevano verso la creazione di mercato mondiale unico e integrato, destinato a dissolvere tutte le barriere nazionali. «Il fatto che la neutralizzazione definitiva del nazionalismo non possa avere luogo in questa o nella prossima generazione», aggiungeva l’analista nippo-americano, «non cambia niente: la sua fine è ormai segnata». Naturalmente sarebbe facile oggi contestare a Fukuyama questa previsione. Poco più di un quarto di secolo dopo, il nazionalismo sembra infatti tutt’altro che un concorrente sconfitto o una comparsa della scena politica contemporanea. E non è dunque affatto sorprendente che si sia riaperta la discussione su cosa sia davvero il nazionalismo, sulle sue origini storiche, sulle sue dimensioni ideologiche.

Un tassello importante di questo dibattito è senza dubbio rappresentato dal libro di Michael Billig Nazionalismo banale, apparso originariamente nel 1995 e ora finalmente tradotto in italiano (con una introduzione di Andrea Geniola, Rubbettino, pp. 351, euro 20.00). Il tema al cuore del libro non è però quel nazionalismo aggressivo, estremista, violento, che proprio alla metà degli anni Novanta del secolo scorso – quando il libro venne pubblicato – aveva da poco fatto la propria ricomparsa nel cuore del Vecchio continente. Billig si propone piuttosto di indagare il nazionalismo ‘discreto’ che compare nella nostra vita quotidiana, il nazionalismo ‘banale’ delle bandiere issate sugli edifici pubblici o dei simboli stampati sulla carta moneta. In questo senso, il suo lavoro si colloca in una corrente di ricerche volta a smantellare il mito ‘primordialista’, secondo cui ogni nazione avrebbe alla base una lingua comune, tradizioni condivise e dunque un’identità ben definita (precedente rispetto agli Stati). A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, molti studiosi – tra cui, per citare solo qualche esempio, Ernst Gellner, Eric Hobsbawm e Benedict Anderson – hanno d’altronde messo radicalmente in discussione una simile visione. Hanno mostrato innanzitutto che molte delle ‘tradizioni’ che le nazioni custodiscono gelosamente – per esempio l’abbigliamento delle Highlands scozzesi o i rituali della monarchia britannica – sono in realtà invenzioni tutto sommato recenti, quasi sempre risalenti al trentennio che precedette la Prima guerra mondiale. E più in generale hanno messo in luce come le identità e le lingue nazionali siano il prodotto dell’azione di uniformazione culturale esercitata dagli Stati negli ultimi due secoli. L’analisi di Billig si colloca però a un livello diverso. Come psicologo sociale, più che alla genesi storica delle ‘tradizioni’ nazionali, è infatti interessato al ruolo che le rappresentazioni sociali hanno nel plasmare il nostro modo di concepire la realtà. Ed è dunque investigando il nostro ‘senso comune’ che porta alla luce la centralità del riferimento (spesso implicito) alla nazione.

Di solito non facciamo molta fatica a riconoscere (e a stigmatizzare) il nazionalismo, specie quando la sua retorica viene inalberata da leader e movimenti estremisti. Ma siamo invece meno disponibili a riconoscere anche nelle democrazie mature la presenza costante della «coscienza ideologica della nazione». Una coscienza che «abbraccia un complesso insieme di temi relativi a ‘noi’, la ‘nostra patria’, le ‘nazioni’ (‘loro’ e ‘nostre’), il ‘mondo’, così come la moralità del dovere e dell’onore nazionali». Secondo Billig, anche nei paesi in cui il nazionalismo sembra essere stato dimenticato, continua infatti a vivere in una condizione endemica, per essere riattivato solo in presenza di crisi. La nazione fa cioè costantemente da sfondo ai discorsi politici, ai prodotti culturali, al modo stesso in cui i giornali sono strutturati. Il richiamo mentale del ‘nazionalismo banale’ non viene neppure percepito, così come non viene notata la bandiera che penzola da un edificio pubblico. Ma in realtà struttura il nostro senso comune. In altre parole, alcune idee che ci sembrano persino ‘banali’ sono in realtà costruzioni ideologiche del nazionalismo, «permanenze inventate» nell’età moderna, che ci sembrano esistere da sempre. Da questo punto di vista è sufficiente pensare alla nostra concezione delle lingue, una concezione plasmata da un mondo di lingue formalmente costituite, risultato dei processi di uniformazione compiuti dagli Stati. Ma anche al linguaggio di giornali e tv, alle previsioni metereologiche o alle cronache sportive, che – nella misura in cui usano termini come «noi» e «qui» - ci rammentano implicitamente la nostra appartenenza alla comunità nazionale.

Ovviamente l’indagine di Billig non dimostra che il ‘nazionalismo banale’ sia sempre qualcosa di negativo. Per molti versi, si limita a ricordarci che la nazione non è scomparsa, anche se spesso la sua presenza passa inosservata. E si tratta certo di un motivo in più per ridimensionare tutte quelle previsioni che – partire da Fukuyama – davano per spacciato il nazionalismo. Da un certo punto di vista si potrebbe ribattere allo studioso britannico che è persino un bene che la nazione sia ‘sopravvissuta’, per il semplice motivo che, in molti casi, è davvero solo l’identità nazionale a tenere insieme una società. Ma, sulla scorta di Hannah Arendt, Billig non manca di ricordarci che ‘banale’ non significa affatto benevolo. E proprio per questo non dovremmo dimenticare che difficilmente il ‘nazionalismo banale’ può essere davvero innocente.



 Damiano Palano

martedì 4 dicembre 2018

Web e democrazia. Ci vuole più educazione (digitale). Un pamphlet di Jamie Bartlett



di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Jamie Bartlett, The People Vs Tech. How the internet is killing democracy (and how we save it) (Ebury Press, pp. 242), è apparsa su "Avvenire", il 21 novembre 2018.

Leggendo molte delle riflessioni condotte sul potere pervasivo delle fake news, si può avere la sensazione di un déjà-vu. E si può finire col ritrovare nella vecchia Psicologia delle folle di Gustave Le Bon una formidabile anticipazione di quella sorta di vertigine che sperimentiamo oggi. «Mentre le nostre antiche credenze vacillano e dispaiono, mentre le vecchie colonne della società crollano una dopo l’altra», scriveva Le Bon nell’incipit del suo pamphlet più celebre, «l’azione delle folle è l’unica forza che nulla minaccia e il cui prestigio cresce sempre». Ma l’«era delle folle» era soprattutto l’annuncio di un imminente cataclisma, destinato a dissolvere le basi stesse dell’ordine sociale. «Quando l’edificio di una società è tarlato», osservava Le Bon, «le folle ne determinano il crollo». Se cioè le orde dei barbari avevano dissolto la civiltà dell’impero romano, le nuove folle potevano solo distruggere la società esistente, senza essere in grado di costruire nulla di solido.

Anche Jamie Bartlett, direttore del Centro per l’analisi dei social media del think-tank Demos, nel suo libro The People Vs Tech. How the internet is killing democracy (and how we save it) (Ebury Press, pp. 242), sostiene che la rivoluzione comunicativa dell’ultimo ventennio abbia portato sulla scena la potenza distruttiva di nuove folle digitali. La visione di Bartlett – lo si intuisce già dal titolo del suo testo – è agevolmente ascrivibile alla schiera dei ‘tecno-pessimisti’, che vedono nello sviluppo tecnologico una seria minaccia alle istituzioni democratiche. Molto probabilmente, sostiene infatti, nei prossimi anni verranno progressivamente erosi tutti quei pilastri su cui si è retto l’edificio della democrazia rappresentativa: una cittadinanza attiva e dotata di autonomia intellettuale, una cultura condivisa, elezioni libere e corrette, un’ampia classe media, un’economia competitiva, una società civile indipendente dallo Stato e una diffusa fiducia nei confronti dell’autorità. Per motivi in gran parte (anche se non solo) connessi con le trasformazioni tecnologiche, tutti questi «pilastri» sono però già oggi minacciati da processi di logoramento sempre più visibili. Innanzitutto, la «datizzazione» e le tecniche predittive basate sugli algoritmi, oltre a rappresentare un rischio per la nostra privacy, profilano un tipo di scelta affidata alle macchine e sottratta agli individui. Il punto è che potremmo convincerci (più rapidamente di quanto pensiamo) che le decisioni assunte dagli algoritmi siano più efficaci, più oggettive e più ‘giuste’ di quelle che adotterebbero degli esseri umani. E che siano dunque più efficaci di quelle adottate a seguito di processi di discussione democratica. L’economia del futuro potrebbe inoltre aumentare ancora di più le diseguaglianze, in particolare riducendo l’ampiezza della classe media. I grandi giganti del web potrebbero estendere ancora di più le reti del loro controllo sui diversi settori produttivi, avvicinandosi a costituire veri e propri monopoli e aumentando così la loro influenza sulla società. E la stessa autorità dello Stato potrebbe alla fine collassare.

Tra le tendenze destinate secondo Bartlett a mettere in crisi l’edificio della democrazia rappresentativa, la più suggestiva riconduce però probabilmente proprio alla vecchia immagine delle folle distruttive evocata da Le Bon. Fino a un decennio fa, molti guardavano a internet come a una grande agorà virtuale, in cui si sarebbe realizzata una nuova democrazia diretta. Le cose sono andate molto diversamente. E in particolare, i social media, invece di diventare uno strumento di discussione e confronto, si sono rivelati un formidabile canale di polarizzazione. In altre parole, invece di attenuare le differenze, le nuove tecnologie comunicative hanno esasperato le distanze. Bartlett ritrova nella crescita della polarizzazione una conferma della vecchia previsione di Marshall McLuhan, secondo cui il villaggio globale avrebbe prodotto una nuova ondata di ‘ri-tribalizzazione’. La comunicazione digitale sembra in effetti favorire l’«omofilia», ossia la tendenza a rivolgersi e a scambiare opinioni con persone che condividono le medesime preferenze. Una conseguenza è, dunque, la formazione di «tribù» sempre più convinte delle loro opinioni e insofferenti nei confronti degli avversari. Ma un’altra dalle implicazioni cruciali per le sorti della democrazia è lo sgretolamento di quella cultura condivisa in grado di attenuare i conflitti e di trasformare dunque i ‘nemici politici’ in avversari con cui è possibile discutere e trovare un compromesso.

Naturalmente il pessimismo di Bartlett lascia più di qualche spazio per immaginare il futuro in modo meno cupo. Ma, a ben vedere, non tutte le venti «idee per salvare la democrazia», con cui si conclude il volume, sembrano agevolmente realizzabili. Un punto centrale rimane senza dubbio la necessità di aggiornare le leggi che regolamentano le campagne elettorali, tenendo conto di come sono cambiate le tecniche di mobilitazione negli ultimi dieci anni. Non è comunque sorprendente che le contromisure forse più importanti – ma tutt’altro che semplici da realizzare – riguardino lo stesso atteggiamento dei cittadini nei confronti delle tecnologie, dalla tendenza a delegare alle macchine la responsabilità delle nostre scelte, alla dipendenza compulsiva da internet, alla passiva accettazione della disinformazione. Naturalmente sul futuro dei nostri sistemi politici pesano molte altre incognite, alcune delle quali legate anche a dinamiche ‘strutturali’. Ma è davvero probabile che la salvaguardia dei «pilastri» dell’edificio democratico passi anche dalla conquista di una maggiore consapevolezza sui rischi di manipolazione delle nuove tecnologie. Perché proprio una simile ‘educazione digitale’ può consentire all’homo democraticus di non cedere all’abbraccio seduttivo delle nuove folle.

Damiano Palano