martedì 26 gennaio 2016

L’Europa senza politica (e la politica senza Europa)




di Damiano Palano

Questo testo è apparso su "Via Romagnosi. Rivista di cultura sociale della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli", n. 18, 2016.

«La crisi dell’Euro rispecchia il fallimento di una politica senza prospettive». Sono passati poco più di tre anni da quando, nell’agosto 2012, Jürgen Habermas, Peter Bofinger e Julian Nida-Ruemelin scrivevano queste parole. L’auspicio dei tre intellettuali era che il governo tedesco prendesse atto della necessità di proseguire sul cammino dell’integrazione e verso una «democrazia sovranazionale» dotata di istituzioni realmente federali. Da allora le cose sono cambiate, ma non certo perché il disegno di una «democrazia sovranazionale» abbia incominciato a prendere forma. Le linee di frattura che attraversano oggi l’Ue sono anzi ancora più profonde. Se la crisi dell’Euro non ha avuto una soluzione strutturale, il Vecchio continente si è trovato alle prese anche con le conseguenze dell’instabilità politica in Nord Africa e in Medio Oriente. Conseguenze che non hanno semplicemente mostrato, ancora una volta, la debolezza (o forse l’inconsistenza) della politica estera dell’Ue, ma che hanno anche innescato nuove pressioni xenofobe, dinanzi alle quali sembrano sul punto di essere accantonati persino i principi di Schengen. E mentre il più volte annunciato «piano Juncker», che avrebbe dovuto rilanciare gli investimenti, è rimasto per ora solo un vago progetto, le forze politiche ‘europeiste’ – e cioè le assai eterogenee famiglie ospitate dal Pse e dal Ppe – si trovano incalzate da sfidanti sempre più aggressivi, per identificare i quali la formula dell’«euroscetticismo» appare ormai quantomeno imprecisa.
Quando gli storici di domani tenteranno di chiarire i motivi del prolungato stallo del processo di integrazione, probabilmente non potranno fare a meno di considerare alcune delle tendenze di lungo periodo che la crisi globale del 2008 ha fatto affiorare in modo evidente. Tendenze rappresentate innanzitutto dal ‘relativo’ declino degli Stati Uniti, dallo spostamento del baricentro della politica americana verso il Pacifico, o dal disordine che – anche per effetto della seconda guerra del Golfo – ha investito il Medio Oriente. Al tempo stesso, i futuri storici non potranno però trascurare il peso dell’assetto istituzionale dell’Ue, un assetto che rende ‘politicamente’ quasi impraticabile la strada verso una «democrazia sovranazionale». Per molti versi, solo la costruzione di un’Europa federale e solidale potrebbe infatti consentire di superare la crisi che investe oggi l’Ue, grazie per esempio a una mutualizzazione del debito e dunque a misure redistributive tra gli Stati membri. Ma si tratta di un sentiero precluso da ostacoli politici molto difficili da scavalcare. Per imboccare questa strada sarebbe infatti indispensabile un sostegno politico che non può essere fondato semplicemente su argomentazioni di opportunità economica. Un sostegno di questo genere però – ormai lo abbiamo amaramente compreso – negli ultimi anni è diventato sempre più fragile. Sia perché le tracce di un «noi» condiviso, su cui basare politiche di solidarietà, oggi – per effetto anche di quel «diritto europeo dell’emergenza», di cui il Fiscal Compact costituisce il pilastro – sembrano ancora più labili che vent’anni fa. E sia perché i partiti che oggi sono protagonisti della politica europea, oltre a godere di una assai scarsa legittimazione, tendono a guardare esclusivamente alle rispettive opinioni pubbliche nazionali.
Alle radici dell’odierna crisi si trova però anche la genetica impronta ‘post-democratica’ che rende impraticabile qualsiasi riforma volta a dare centralità politica al demos europeo, e che tende a vanificare qualsiasi tentativo di costruire un’identità politica comune. Per molti versi l’Ue fu infatti costruita a Maastricht anche come una formidabile macchina di ‘depoliticizzazione’: una macchina istituzionale in grado cioè di ‘sterilizzare’ le democrazie degli Stati membri, di ‘de-politicizzare’ alcune decisioni cruciali, di sottrarre dunque la capacità di interdizione agli elettorati nazionali e alle singole opinioni pubbliche, oltre che – ovviamente – per ‘costringere’ persino le classi politiche più riluttanti ad adottare misure impopolari. All’interno di un sistema di questo genere, concepito proprio per scavalcare la voce dei popoli europei e per neutralizzare le resistenze che provengono ‘dal basso’, i progetti che ambiscono a ‘democratizzare’ la macchina rischiano di urtare contro ostacoli invalicabili. La prospettiva di una federazione dei popoli europei lascia così il posto al «federalismo degli esecutivi» e al «diritto europeo dell’emergenza». Anche se in questo modo le istituzioni europee sono destinate a veder crescere quasi ogni giorno nuovi avversari, che – a destra e a sinistra – vedono il principale bersaglio della loro battaglia proprio nell’Ue. E che, contro la realtà di un’Europa senza politica, innalzano con sempre maggiore convinzione il vessillo di una politica senza Europa.

Damiano Palano


martedì 19 gennaio 2016

Schmitt e la «guerra di aggressione». Pubblicato uno scritto del 1945, commissionato al giurista da un grande industriale tedesco



di Damiano Palano

Questo testo è apparso su "Avvenire" del 15 gennaio 2015, con il titolo Schmitt. Crimini del Reich


Condividendo un destino simile a quello di Martin Heidegger, il nome di Carl Schmitt è destinato ad essere sempre accompagnato da una fama sinistra. Probabilmente Schmitt non fu, come suggeriscono alcuni dei suoi critici, il «sommo giurista del Führer». Ma certo il suo sostegno al regime nazionalista negli anni immediatamente successivi alla presa del potere da parte di Hitler non può essere liquidato come un dettaglio trascurabile. Se questi motivi impongono di accostarsi a Schmitt sempre con grande cautela, è però difficile non riconoscere nel giurista tedesco uno dei più acuti osservatori delle grandi trasformazioni politiche del Novecento. Perché Schmitt fu davvero tra i primi a intravedere le implicazioni della fine della centralità politica del Vecchio continente e del tramonto dello jus publicum europaeum
Dopo essersi dedicato per due decenni al diritto costituzionale, a partire dalla metà degli Trenta, il giurista si rivolse infatti ai mutamenti del diritto internazionale. La riflessione sui fondamenti spaziali della politica (e del diritto) l’avrebbe spinto a rielaborare le ipotesi sulla distinzione fra amicus e hostis, fissate già negli anni Venti nel celebre saggio sul Concetto di ‘politico’, e soprattutto a scrivere le pagine di Terra e mare e del Nomos della terra. Alcuni dei saggi più significativi dedicati a questi temi sono raccolti in Stato, Grande spazio, Nomos (Adelphi, pp. 527, euro 60), un volume che non offre materiali sconosciuti al pubblico italiano, ma che consente di cogliere, una volta di più, come la riflessione sul rapporto costitutivo fra Ortung e Ordnung, fra “localizzazione” e “ordinamento”, attraversi l’intera indagine schmittiana. 
Inedito in Italia è invece il singolare testo La guerra d’aggressione come crimine internazionale (Il Mulino, pp. 142, euro 16.00), che riprende un  parere steso da Schmitt nel 1945 su richiesta dell’industriale tedesco Friedrich Flick. Come ricostruisce Carlo Galli nella prefazione, al termine della guerra gli avvocati di Flick commissionarono a Schmitt un testo finalizzato a sostenere la difesa dell’industriale nell’eventualità in cui egli fosse incriminato dagli Alleati per aver contribuito a preparare una «guerra d’aggressione». La discussione di Schmitt si riconnetteva alla sua precedente riflessione sulle trasformazioni della guerra e del diritto internazionale. Ma in realtà il giurista attenuava le proprie tesi, nel tentativo di dimostrare che per un cittadino europeo del 1939 la «guerra di aggressione» non poteva essere considerata come un crimine internazionale, e che in ogni caso la guerra era una responsabilità esclusiva degli Stati (e non dei singoli individui). 
In realtà Flick non fu mai incriminato per questo reato. Fu invece condannato per crimini contro l’umanità, perché aveva utilizzato nelle proprie imprese manodopera schiavizzata. Pochi mesi dopo avere steso il parere, toccò invece allo stesso Schmitt finire in carcere a Norimberga, dove corse il rischio di essere accusato per avere indirettamente partecipato «alla pianificazione di guerre d’aggressione, crimini di guerra e crimini contro l’umanità». Dopo alcune settimane di interrogatori le accuse però caddero, e Schmitt passò da detenuto a semplice testimone, prima di essere definitivamente rilasciato, il 13 maggio 1947. Proprio allora lo studioso poté salire sul treno che lo avrebbe condotto nella cittadina di Plettenberg, dove visse ritirato per più di quarant’anni, «protetto dalla sicurezza del silenzio», sentendosi come uno sconfitto della storia e come l’ultimo epigono della scuola dello jus publicum europaeum.

Damiano Palano

giovedì 14 gennaio 2016

Genealogia dell’azzardo di massa. Un libro di Natasha Dow Schüll su Las Vegas come laboratorio del machine gambling




di Damiano Palano

Il libro di Natasha Dow Schüll, Architetture dell’azzardo. Progettare il gioco, costruire la dipendenza, a cura di Marco Dotti e Marcello Esposito, Sossella, Roma, 2015 (euro 18.00) non è solo un libro sulle trasformazioni di Las Vegas. È anche uno studio prezioso e dettagliatissimo sulla genesi dell’azzardo di massa, che aggiunge un nuovo tassello alla fenomenologia della condizione in cui si trova a vivere l’«uomo indebitato» protagonista del nostro tempo.



Che poi in fondo / Non è importante vincere / 
Questo non lo capiranno mai, quelli là fuori / Non è importante vincere / 
È importante giocare / Solo quello conta
(Marco Martinelli, Slot Machine)

Allora concederemo agli uomini una felicità quieta e umile, 
la felicità delle creature deboli, quali essi sono stati creati. […] 
Certo, li costringeremo a lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro 
organizzeremo la loro vita come un gioco, 
con canzoni e cori infantili, danze innocenti
(F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov)

Imparando (ancora) da Las Vegas

Apparso nel 1972, Learning from Las Vegas di Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour divenne ben presto una sorta di manifesto teorico dell’architettura postmoderna. In quel libro i tre architetti indirizzavano un attacco spietato al modernismo sulla scorta della convinzione di fondo secondo cui la vera «rivoluzione» in campo architettonico consisteva nell’imparare adeguandosi al mondo circostante. Come scrivevano in un passaggio famoso: «Imparare dall’ambiente esistente è, per un architetto, un modo di essere rivoluzionario. Non nella solita maniera, che è quella di demolire Parigi e ricominciare daccapo, come suggeriva Le Corbusier negli anni ’20, ma in un modo diverso, più tollerante: ciò significa domandarci come guardiamo le cose» (1). E proprio per questo il luogo da assumere come punto di osservazione privilegiato diventava La Vegas, o meglio la sua «Strip». La strada commerciale della capitale del gioco d’azzardo poteva essere considerata infatti come un simbolo di quella architettura popolare che era necessario guardare con tolleranza, ma, soprattutto, doveva essere intesa come l’espressione paradigmatica di un’architettura pensata per automobilisti, come l’esempio di un assetto in cui veniva assegnata centralità non tanto ai negozi, quanto alle enormi insegne pubblicitarie che li sovrastavano (e che risultavano visibili dalla macchina). «La grande insegna ‘balza in avanti’ per collegare l’automobilista al negozio, mentre lungo la strada le miscele per dolci e detersivi sono pubblicizzati dai loro produttori nazionali su enormi cartelloni ‘inflessi’ verso la highway. Il segno grafico è diventato l’architettura di questo paesaggio» (2).
Poco più di dieci anni dopo Fredric Jameson avrebbe trovato nel saggio di Venturi e nella sua estetica del postmoderno le tracce più importanti della «logica culturale del tardo capitalismo». Jameson non avrebbe guardato però a Las Vegas, perché avrebbe invece trovato nell’Hotel Bonaventure di Los Angeles, nella sua struttura labirintica e nell’onnipresenza di scale mobili e ascensori, la testimonianza dell’emergere di un «iperspazio postmoderno», ossia di una nuova modalità di organizzazione dello spazio capace di «trascendere le capacità di orientarsi del corpo umano individuale, di organizzare percettivamente le cose che lo circondano da vicino e, cognitivamente, di tracciare una mappa della sua posizione in un mondo esterno che lo consenta». E tutto questo doveva apparire a Jameson il simbolo di un processo più ampio, in grado di segnalare «l’incapacità delle nostre menti, almeno al presente, di tracciare una mappa del grande network comunicazionale, globale, multinazionale e decentrato, in cui ci troviamo impigliati come soggetti individuali» (3).
Le parole di Jameson – scritte quando ancora la rivoluzione microelettronica muoveva solo i primi timidi passi – riusciva senz’altro a cogliere, con strabiliante lungimiranza, alcuni dei tratti fondamentali di quella che, nello spazio di alcuni decenni, sarebbe divenuta la nostra quotidiana condizione di disorientamento. A distanza di trent’anni da quella profetica raffigurazione della logica culturale nascosta nel «postmodernismo», forse non abbiamo ancora preso compiutamente atto di tutte le implicazioni che la nuova condizione comporta. E sebbene quella visione complessiva che Jameson probabilmente auspicava rimanga ancora un miraggio (forse persino impossibile da raggiungere), solo oggi tutti i diversi frammenti della «condizione postmoderna» iniziano a comporsi in un mosaico almeno minimamente coerente. E, soprattutto, vengono a mostrarsi le linee che connettono tutte le grandi trasformazioni economiche, sociali e politiche, e che collegano queste ultime al clima emotivo in cui ci troviamo a vivere. 
Un nuovo tassello di questa fenomenologia del presente giunge ora da un libro della ricercatrice canadese Natasha Dow Schüll, Architetture dell’azzardo. Progettare il gioco, costruire la dipendenza, che esce nell’edizione italiana curata da Marco Dotti e Marcello Esposito (4). Seguendo le orme di Venturi e dei suoi collaboratori, anche Schüll torna a Las Vegas. Il ritratto che ne esce è però davvero molto diverso da quello dipinto nel 1972 dai tre architetti, e non solo perché lo sguardo della studiosa non è «tollerante» come l’alfiere del postmodernismo auspicava, ma perché, nel procedere di un’indagine protrattasi per due decenni, ai suoi occhi si è profilata una realtà almeno in parte inaspettata. Il testo ricostruisce infatti le radici dell’azzardo di massa esaminando le trasformazioni subite da Las Vegas nel corso degli ultimi quarant’anni. E, in particolare, mostra come la capitale mondiale dell’azzardo costituisca un formidabile punto di osservazione, perché è davvero una sorta di laboratorio in cui vengono sperimentate le più sofisticate tecniche capaci di stimolare il gioco.



Azzardo di massa

Il libro della ricercatrice del Mit di Boston trae origine da un’indagine sul campo, iniziata nel 1992, che originariamente doveva essere dedicata semplicemente a ricostruire da un punto di vista etnografico e archivistico le trasformazioni dell’architettura e dell’interior design dei casinò, allora al centro di una fase di notevole espansione. Gradualmente però l’indagine doveva ampliare la propria prospettiva, fino a considerare Las Vegas come una sorta di enorme laboratorio, nel quale veniva progettato, sperimentato e perfezionato l’azzardo di massa: un azzardo molto diverso da quello del passato, che comportava il ricorso a nuove tecnologie e che si rifletteva anche nel mutamento della geografia urbana, oltre che la modificazione della stessa fisionomia delle case da gioco. «Durante lo svolgimento delle mie ricerche sul campo» scrive infatti Schüll, «mentre la popolazione locale cresceva rapidamente e un assortimento di nuovi casinò di quartiere apriva i battenti, io divenni sempre più curiosa circa l’esperienza dei residenti di vivere e lavorare in una città così satura di ambienti e tecnologie del gioco d’azzardo. Non appena spostai la mia attenzione lontano dai casinò turistici lungo la Strip, rimasi colpita dall’onnipresenza delle macchine per il gioco d’azzardo, il cosiddetto machine gambling – sui cartelloni pubblicitari, nei negozi di alimentari e nelle farmacie, nei ristoranti e nei bar, e addirittura negli autolavaggi» (5). L’incontro con questa realtà doveva contribuire a spostare il focus della ricerca, e così indusse Schüll dapprima a intervistare i giocatori abituali, per comprendere il ruolo che il tempo trascorso dinanzi alla macchina aveva nella loro giornata (e nella loro vita), e poi a interpellare gli operatori del settore, per ricostruire le logiche con cui le stesse slot venivano disegnate, perfezionate e posizionate nei casinò. Ed è proprio per lo sguardo complessivo con cui viene puntigliosamente indagata la genealogia del machine gambling che il libro di Schüll – ancora una volta «imparando da Las Vegas», ma in modo ben diverso da quello auspicato da Venturi – può essere letto come la nitida descrizione di processi che, sperimentati nella capitale del gioco, vengono gradualmente estesi all’intera società. 
Fino a qualche anno fa il gioco d’azzardo era un fenomeno circoscritto a fasce sociali piuttosto limitate, e forse per questo era ancora circondato da un ambiguo fascino romantico, cui certo non erano stati insensibili anche grandi romanzieri come Balzac e Dostoevskij. Negli ultimi due decenni l’azzardo ha subito invece una sorta di mutazione genetica, perché è diventato davvero un fenomeno di massa, che tende a coinvolgere tutti gli strati sociali. Ed è facile rendersi conto della portata di questa trasformazione anche solo contando le sale giochi che spuntano nelle nostre città, o alle slot che proliferano quasi ovunque. Spesso è però mancato finora uno sguardo d’insieme sul fenomeno, e quasi invariabilmente l’attenzione all’azzardo si è legata a ciò che si definisce come «ludopatia» (ossia a una ‘dipendenza patologica’ dal gioco, i cui confini rispetto al gioco ‘normale’ vengono definiti dalla scienza medica) e alle sue conseguenze criminali. «Ciò che non viene detto, però», ha scritto Marco Dotti (probabilmente uno dei più attenti osservatori della diffusione dell’azzardo di massa e delle sue mille implicazioni), «è che l’insorgere di queste patologie, nel cuore stesso della ‘normalità’, è inizialmente avvenuta sottotraccia e sottopelle, attraverso apparecchi low technology come i videopoker – in Italia così venivano generalmente chiamate, prima della legalizzazione del 2003, le slot machine elettroniche – che, poco per volta hanno soppiantato i vecchi apparecchi ludici (flipper) nei bar, nei circoli ricreativi, nei luoghi d’incontro e persino in farmacie, fermate degli autobus e supermercati. Ma i filtri sono saltati: oramai è il gioco che ci segue» (6). La proliferazione dell’azzardo di massa che l’Italia ha vissuto nell’ultimo quindicennio, per quanto abbia assunto proporzioni rilevanti, non è però un’eccezione, e una conferma può essere ritrovata proprio nello studio di Schüll, che in effetti mostra come, a un certo punto, la stessa fisionomia delle grandi case da gioco di Las Vegas inizi a subire una metamorfosi, e come in particolare i casinò incomincino a essere centrati sulle ‘macchinette’, o meglio sulle loro evoluzioni.
Fino alla metà degli anni Ottanta, i casinò di Las Vegas erano dominati ancora dai tavoli verdi dedicati al blackjack o ai dadi, mentre le slot erano collocate lungo le aree di transito. Già alla fine degli anni Novanta prese invece a delinearsi un ribaltamento, perché le slot cominciarono a occupare il centro delle sale. Secondo Schüll le motivazioni del cambiamento sono diverse. Innanzitutto le slot – all’apparenza più ‘innocue’ – consentirono di allentare lo stigma del vizio che gravava sull’azzardo e dunque di avvicinare soprattutto donne e anziani a un’attività percepita come semplice «gioco». La diffusione dei pc e dei videogame contribuì inoltre a ‘normalizzare’ gli apparecchi automatici da gioco, proprio mentre molti Stati, alle prese con la crisi fiscale, trovarono nella legalizzazione dell’azzardo un modo per rimpinguare le casse pubbliche. Nel corso del tempo, contestualmente all’incorporazione della tecnologia digitale nelle slot, l’esperienza del giocatore doveva però modificarsi in termini significativi. E proprio questo tipo di esperienza è in grado di chiarire lo sconcertante successo delle ‘macchinette’: un successo che, nel grande ‘laboratorio’ di Las Vegas, non viene sperimentato tanto sui turisti che affluiscono da tutto il mondo a visitare la ‘capitale del vizio’ sepolta nel Nevada, quanto sulla stessa popolazione residente (la quale peraltro è in gran parte impiegata in settori legati al gioco). Come si legge nel volume: «Mentre nel 1984 solo il 30% dei residenti identificava le slot machine come propria preferita forma di azzardo, solo dieci anni più tardi la cifra è bruscamente salita al 78%. Generando un fatturato impressionante per le aziende dell’azzardo attraverso la collettiva, costante ripetizione del loro gioco, i giocatori d’azzardo da macchinette low-rolling, con puntate di gioco ridotte, presero il posto di quelli high-rolling, con scommesse elevate, da tavolo verde, in qualità di pesi massimi sulla scena dell’azzardo di Las Vegas» (7).



Progettare la dipendenza

Un aspetto fondamentale dell’analisi di Schüll – particolarmente prezioso per arricchire la fenomenologia del presente – consiste nel fatto che l’indagine mette al centro di tutta l’industria del gambling la complicata, per alcuni versi persino oscura, interazione Uomo-Macchina. E in questa esplorazione ciò che sorprende, tanto da risultare persino sconcertante, è l’oscura e irresistibile forza di attrazione che la slot sembra esercitare nei confronti dei giocatori. I molti utilizzatori abituali delle ‘macchinette’ intervistati nel volume chiariscono infatti che l’obiettivo che li spinge verso la slot e che li tiene inchiodati alla macchina non è vincere, ma semplicemente continuare a giocare. L’attrattiva della slot sembra essere cioè un isolamento dentro quella che i giocatori definiscono talvolta come la «zona», una sorta di ‘animazione sospesa’, uno spazio in cui vengono temporaneamente annullati i legami con il mondo umano. «Quello che la gente non capirà mai», dice una delle persone intervistate da Schüll, «è che non gioco per vincere», ma per una sorta di irresistibile forza di attrazione che la spinge verso la «zona»: «È come essere nell’occhio di un ciclone, ecco come descriverei la zona. Hai una visione chiara della macchina di fronte a te, ma tutto il mondo ti gira intorno e tu non sei in grado di sentire proprio nulla. Questo perché non sei veramente lì – sei con la macchina ed è l’unica cosa con cui stai» (8). In sostanza, «la continuità del gioco d’azzardo alla macchina automatica mantiene le contingenze terrene in una sorta di sospensione, garantendo una zona di certezza altrimenti inafferrabile» (9). 
La centralità che riveste «zona» consente a Schüll di ipotizzare anche quali siano le motivazioni più profonde del successo dell’azzardo di massa nella società delle «incertezze fabbricate». In effetti, «sebbene la pratica del machine gambling implichi un rischio – coinvolgendo il denaro, che se non altro è una misura chiave del valore sociale ed economico – e racchiuda quel rischio all’interno di un quadro affidabile, permette ai giocatori di adottare una modalità di auto-equilibratura che è diventata caratteristica delle interazioni tecnologiche quotidiane» (10). E una simile ipotesi conduce a scorgere, nell’interazione odierna tra uomo e macchina, una serie di implicazioni tutt’altro che secondarie, nel quale a essere in gioco è la stessa ‘riduzione’ dell’incertezza: «In un momento storico in cui le transazioni tra esseri umani e macchine avvengono “a un livello d’intimità crescente e su scala sempre maggiore” […], computer, videogiochi, telefoni cellulari, iPod e simili sono diventati un mezzo attraverso il quale gli individui possono gestire i loro stati affettivi e creare una personale zona cuscinetto contro le incertezze e le preoccupazioni del proprio mondo. Anche se i dispositivi di consumo interattivi sono tipicamente associati a nuove scelte, a connessioni e a forme di espressione di sé, essi possono anche funzionare per restringere il campo delle scelte, per scollegare e per ottenere un’uscita da se stessi» (11). E proprio per questo un’«indagine dell’intenso coinvolgimento dei giocatori d’azzardo dipendenti nel rapporto con le macchine da gioco può offrire abbondanti indizi per comprendere tendenze, situazioni, pericoli e sfide che lambiscono più vaste ‘zone’ della vita» (12).
Il potere di attrazione della «zona» nello sviluppo del machine gambling è davvero importante per Schüll, che infatti mostra come tutta l’industria dell’azzardo di massa – dall’architettura delle sale alla creazione degli ambienti, dalla progettazione delle macchine all’elaborazione degli schemi di gioco – punti a indebolire le resistenze dinanzi alla forza attrattiva della “zona”, a velocizzare il ritmo delle giocate, ad accrescerne l’intensità. Buona parte del libro è così dedicata a ricostruire come l’esigenza di ‘risucchiare’ il potenziale giocatore nella «zona» e di azzerare le sue resistenze alla seduzione del gioco sia perseguita sistematicamente da tutti i settori coinvolti. I casinò vengono innanzitutto concepiti, nella loro stessa architettura, come labirinti, ma non solo per ‘disorientare’ il giocatore, che in questo senso smarrisce le proprie resistenze, ma anche perché i giocatori delle slot sembrano ricercare piccole enclave nascoste, isolate, nelle quali siano invisibili agli altri. Secondo le parole di un progettista citato da Schüll: «La disposizione a labirinto fissa l’attenzione dei visitatori sugli apparecchi immediatamente davanti a loro. Le slot machine alla fine dei corridoi corti e stretti sono puntate dritte verso di loro. I percorsi tortuosi, senza via d’uscita, costringono i passanti a focalizzarsi sulle macchinette mentre si avvicinano per evitare di andare a sbatterci contro. Se un visitatore ha la predisposizione a giocare d’azzardo, la disposizione a labirinto gliela tirerà fuori» (13). E così i casinò, a partire da un certo momento, non prevedono più grandi saloni e soffitti alti, perché il loro spazio viene ‘segmentato’ in aree tra loro invisibili, separate da elementi architettonici che spezzano l’uniformità dello spazio e che creano aree di ‘riparo percettivo’. Ma anche tutte le variabili che possono andare a influenzare (o a inibire) il gioco – come per esempio la temperatura ambientale, l’intensità delle luci, il volume e il tipo di musica, il suono delle macchine, i profumi diffusi nelle sale – vengono sperimentate, considerando l’impatto che hanno sui volumi di gioco. In questo senso, l’industria del gambling non fa altro che sviluppare la ricerca che da più di un secolo è indirizzata alla ‘costruzione’ del consumatore. Al tempo stesso, come osserva Schüll, offre anche una concreta esemplificazione del ruolo che conquista la dimensione affettiva nei flussi economici contemporanei: «il design dei casinò segue quello che un’azienda leader definisce il “paradigma dell’immersione”, mantenendo i giocatori in uno stato di desoggettivazione, di movimento ininterrotto, in modo da galvanizzare, canalizzare e trarre profitto da quello che un consulente accademico […] ha chiamato “affettività esperienziale”. Se, come sostengono fermamente filosofi e antropologi dell’affettività, il capitalismo contemporaneo si distingue per i tentativi strategici di estrarre valore dalle capacità attive dei consumatori, allora il design dei casinò apparirebbe come un caso emblematico» (14). 
Muovendosi in questa stessa direzione, i designer delle slot cercano «di sintonizzare i macchinari di produzione del loro settore sulle predilezioni del consumatore» (15). E cercano così di ‘assecondare’ quella che pare l’esigenza principale del giocatore – ossia il desiderio di non interrompere il ‘flusso’ di gioco – modificando la struttura delle macchine al fine di ridurre al minimo operazioni come l’inserimento delle banconote, studiando l’ergonomia per consentire tempi di permanenza lunghissimi dinanzi allo schermo, o introducendo pulsanti che consentano di chiamare un addetto del casinò senza allontanarsi dalla «zona». Un salto ulteriore è naturalmente sancito, nell sviluppo della tecnologia del machine gambling, dalla sostituzione delle vecchie macchine a rulli meccanici con slot dotate di rulli virtuali (che comunque tentano di simulare, per quanto possibile, dei rulli veri e propri). E questo non solo ha affinato la programmazione delle probabilità di vincita, ma ha anche consentito ai produttori di congegnare sistemi molto raffinati (e costantemente aggiornati) con cui viene data al giocatore l’illusione di una ‘quasi’ vincita, capace di indurre ovviamente a proseguire la partita con la macchina. Proprio la tecnologia consente però alla progettazione anche ulteriori passaggi, che consistono, nel cogliere le preferenze di gioco e al tempo stesso nell’indirizzarle verso determinate direzioni, e forse soprattutto nel monitoraggio sistematico dei giocatori, condotto con l’obiettivo di ‘assorbirli’ interamente nella macchina. Quest’ultimo punto non è affatto secondario, perché testimonia davvero come l’industria dell’azzardo rifletta una tendenza più ampia. La possibilità del giocatore di operare su un proprio conto prepagato (che può persino essere ricaricato mentre gioca, accedendo ai propri conti bancari senza abbandonare neppure per un istante la slot) consente ai gestori del sistema di ‘monitorare’ nel tempo i flussi di gioco di un singolo utente, di ricostruire quali sono i momenti in cui tali flussi si intensificano, o quali sono le sue strategie di gioco preferite. Una simile ‘mappatura’, se certo offre la possibilità di aumentare in generale la produttività ‘adeguando’ l’offerta ai ‘desideri’ dei consumatori, consente al sistema di gioco – e cioè alle slot, costantemente collegate in rete – anche di riconoscere immediatamente l’utente che si accosta alla slot¸ adeguando il sistema di gioco alle sue ‘preferenze’, sempre naturalmente con l’obiettivo di inchiodarlo alla macchina per il maggior numero di ore possibile e di svuotare i suoi conti correnti. Il ‘monitoraggio’ degli utenti non è d’altronde una prerogativa esclusiva del machine gambling, perché si inquadra in una tendenza più generale, di cui Schüll è ben consapevole: «I sistemi tecnici dell’industria del gioco d’azzardo non solo rappresentano, ma fanno anche da pionieri nelle forme di monitoraggio da cui tale controllo dipende. “La conoscenza è potere e forse in nessun luogo ciò è tanto evidente quanto nel settore del gioco”, si affermava in una rivista del settore nel 1999, prima che le società hi-tech come Google, Amazon e Facebook divenissero famose per le loro innovazioni nel monitoraggio dei consumatori. Molte innovazioni per la sorveglianza e il marketing utilizzate in primo luogo nei casinò, in seguito sono state adattate ad altri ambienti – tra cui aeroporti, piani per il trading finanziario, grandi centri commerciali di consumo, agenzie di assicurazione, banche, programmi di governo per la sicurezza nazionale. […] La ricerca implacabile del settore per acquisire e mobilitare questa ‘profusione di dati’ diventa ancora un altro registro su cui si inscena la collusione asimettrica tra l’industria del’azzardo e giocatori d’azzardo. In un circuito ricorsivo sempre più raffinato, i giocatori monitorati contribuiscono alla realizzazione delle macchine, degli spazi e dei servizi che meglio si adattano a loro, attraverso una loro stessa “azione provocata dal giocatore”, adoperando un’espressione diffusa nel settore. L’affettività del giocatore d’azzardo e il suo comportamento condizionano e, al tempo stesso, sono condizionati dal sistema» (16).



La macchina e la «zona»

Anche se Architetture dell’azzardo offre una formidabile analisi sull’ascesa del machine gambling, il libro di Natasha Dow Schüll può – e forse deve –essere letto anche come una formidabile indagine sulle insidie dell’interazione uomo-tecnologia e sugli effetti più oscuri di un’economia ‘affettiva’ che punta a costruire «zone» di sospensione, capaci di risucchiare il consumatore globale. In questo senso, la ricercatrice canadese ha il merito di rifiutare uno sguardo ‘determinista’, ossia uno sguardo che imputi solo alla macchina il ruolo ‘corruttore’. Alla domanda che si pone una delle giocatrici intervistate – «Che cos’è questa cosa che mi controlla?» – Schüll fornisce così una risposta che considera entrambi i lati della relazione uomo-macchina: sembrerebbe cioè che «quella ‘cosa’ non sia né completamente all’interno della persona, né completamente scritta nella macchina, ma che si tratti piuttosto di una forza ibrida che ha il contributo di entrambe le parti» (17). E questa intuizione è davvero preziosa, perché, in qualche misura, aiuta a mostrare come l’industria del gambling non faccia altro che puntare a far emergere, a coltivare e a far crescere qualcosa che esiste in ciascun essere umano, ma che abitualmente costituisce solo una dimensione marginale dell’esistenza. «Il gioco», ha scritto Marco Dotti in suo recente volume sul significato misterioso dell’azzardo e sulla sua penetrazione nella vita quotidiana, «è un momento di uscita da sé, un azzardo, un’estasi temporanea del soggetto che depone le maschere della vita quotidiana, per farsi consapevolmente e temporaneamente visitare da quei demoni che, altrimenti, indefinitamente lo abiterebbero grazie alla sua inconsapevolezza» (18). 
Se l’inclinazione verso l’«uscita da sé» non è il prodotto di un esperimento di ingegneria sociale, è però necessario ritrovare alla base dell’industria del gambling l’obiettivo di mettere a profitto la capacità attrattiva dell’alea, ‘estraendo’ una predisposizione nascosta, coltivandola e progettando una dipendenza che, in fondo, ha come conseguenza massima – seppur non come obiettivo esplicito – la ‘liquidazione’ della soggettività. E da questo punto di vista alcune annotazioni di Schüll sono senz’altro preziose: «Nel gioco d’azzardo alla macchina, l’obiettivo dell’industria di liquidare i beni del giocatore (o di causare “l’estinzione del giocatore”) opera in una specie di collaborazione con la spinta del giocatore stesso all’autoliquidazione (o “all’autoestinzione”). In questo senso, l’efficacia del design della macchina non sta tanto nell’introduzione di una forza estranea o corruttrice nella psiche umana, ma nella sua capacità di estrarre e incanalare le inclinazioni già presenti nei giocatori d’azzardo. Come ci ha già detto prima Diane: “[le macchine] rappresentano la cosa più soddisfacente in cui mi sia mai imbattuta per la mia dipendenza, e loro hanno permesso che questa cosa dentro di me crescesse e prendesse il sopravvento”. Potremmo dire che le macchine automatiche per il gioco d’azzardo distillino l’economia psichica dell’impulso di morte, secondo la descrizione di Freud, convertendo i circuiti sospensivi della vita in un percorso senza ostacoli verso la zona» (19). 
È in questo senso che si esplicita ulteriormente il nesso che stringe l’azzardo di massa con le trasformazioni del capitalismo contemporaneo e le logiche dell’«economia affettiva»: «Benché i giocatori d’azzardo agiscano, almeno negli Stati Uniti, dentro lo spazio chiuso del casinò, seduti dinanzi alle console di dispositivi immobili e ripetano una stessa routine, si inseriscono in un flusso di credito che può portarli nel fluido non luogo della zona e permettere loro di essere “continuamente produttivi” per il casinò, fin a quando quel credito dura. […] L’economia affettiva del machine gambling è una tra le espressioni di produzione di valore dei giorni nostri, che sono “simultaneamente e volontariamente fornite e non retribuite, godute e sfruttate” […]. Le strategie di design per la resa della produttività continua si accordano con il desiderio del giocatore per la persistenza dell’isolamento nella zona e viceversa; i giocatori d’azzardo diventano collaboratori nell’ottimizzazione dei profitti del settore» (20). E allora si mostra in modo chiaro come l’azzardo di massa non sia altro che una figura specifica di una condizione più generale: «l’impulso dei giocatori d’azzardo di rimanere indefinitamente sospesi nella zona è reindirizzato, grazie alle invenzioni tecnologiche dell’industria dell’azzardo, verso una destinazione finale di completo sfruttamento e impoverimento. […] La relazione che esiste tra i giocatori e l’industria non è tanto uno scontro tra due sistemi di valore, quanto un’interdipendenza asimmetrica tra un sistema di estrazione di valore che gioca secondo le regole economiche del mercato, e una zona effimera di non valore in cui queste regole sono, per il giocatore, sospese» (21).
Con la sua meticolosa raccolta di materiali, il libro di Schüll costituisce dunque uno strumento per molti versi indispensabile per decifrare i meccanismi più oscuri dell’azzardo di massa, soprattutto perché consente di evitare un certo giudizio moralistico, più o meno implicitamente, affiora quando si tende a considerare casi particolarmente eclatanti di «ludopatia», che ormai da circa vent’anni – da quando iniziarono a diffondersi i primi «videopoker» - sono diventati tutt’altro che eccezionali anche in Italia (22). Il testo della ricercatrice canadese consente infatti di dimostrare, su basi difficilmente contestabili, che la «dipendenza» non è un fenomeno propriamente ‘volontario’, se non altro perché essa viene sistematicamente progettata e perseguita come obiettivo dagli operatori del settore. «Suoni, luci, velocità e contatto con i tasti, progettazione, design di macchina e ambiente: tutto contribuisce a costituire un labirinto sensoriale da cui è davvero difficilissimo uscire, ma da cui davvero tutti – giocatori e non – possiamo essere attratti. Non è un gioco, non è un vizio, non è una ‘scelta’ finita male, dunque. Non è, in altri termini, un ‘peccato’ che il giocatore e i suoi familiari devono indefinitamente espiare. La dipendenza da queste macchine infernali è solo e nient’altro che dipendenza, ossia schiavitù emotiva, affettiva, economica, relazionale» (23).
Oltre che per comprendere meglio le logiche che guidano l’azzardo di massa, il volume di Schüll ha probabilmente anche un altro merito, che lo rende per molti versi una sorta di ‘antidoto’ contro ogni residua tentazione di ritrovare nelle ‘macchine’ – ossia nel grande apparato comunicativo che ci circonda e che si insinua in tutti gli interstizi della nostra vita quotidiana – uno strumento ‘neutrale’, suscettibile di essere utilizzato per finalità differenti e magari anche, come scrivono un po’ ingenuamente nel loro Manifesto per una politica accelerazionista Alex Williams e Nick Srnicek, per «liberare le forze produttive latenti» e per rinconvertire «la piattaforma materiale del neoliberismo» (24). Certo non tutte le macchine sono uguali, e le slot machine descritte da Schüll non possono essere sommariamente equiparate a un impianto siderurgico, o agli sterminati impianti della Foxconn in cui vengono molti dei prodotti tecnologici più sofisticati che invadono i mercati occidentali. Ma quando pensiamo alla grande infrastruttura comunicativa attorno alla quale ormai ruota buona parte della nostra vita quotidiana, e nella quale si svolgono porzioni sempre più significative delle nostre attività, è bene tenere presente ciò che mostra la ricerca di Schüll sul machine gambling. Ossia, che quelle macchine non ‘impongono’ in modo autoritario una condotta, ma, ciò nondimeno, tentano di «estrarre e incanalare le inclinazioni già presenti» nei singoli individui. E dunque che quelle macchine sono originariamente plasmate e costantemente perfezionate sempre e soltanto – con le parole di Dostoevskij – per coltivare e soddisfare la «felicità delle creature deboli» (25). Cioè per ‘catturare’ gli affetti e per rincorrere, coltivare e assorbire l’oscuro desiderio di ‘sospensione’ che spinge i giocatori (ma non solo i giocatori). Per attirare il consumatore globale dentro la «zona», e forse persino per risucchiare nel vortice della valorizzazione quella ‘pulsione’ di annullamento che si nasconde dentro ciascuno di noi.


Note

1. R. Venturi et al., Imparando da Las Vegas (1972), in G. Chiurazzi, Il postmoderno. Il pensiero nella società della comunicazione, Paravia, Torino, 1999, p. 115.
2. Ibi, p. 120.
3. F. Jameson, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo (1984), Milano, Garzanti, 1989, p. 83. 
4. Natasha Dow Schüll, Architetture dell’azzardo. Progettare il gioco, costruire la dipendenza, che esce ora nell’edizione italiana curata da Marco Dotti e Marcello Esposito, Sossella, Roma, 2015.
5. Ibi, p. 36.
6. M. Dotti, Slot city- Brianza-Milano e ritorno, Round Robin, Roma, 2013.
7. N. Schüll, Architetture dell’azzardo, cit., pp. 21-22.
8. Ibi, p. 15.
9. Ibi, p. 25.
10. Ibi, p. 26.
11. Ibidem.
12. Ibidem.
13. Ibi, p. 58.
14. Ibi, p. 66.
15. Ibi, p. 68.
16. Ibi, pp. 182-183.
17. Ibi, p. 252.
18. M. Dotti, Il calcolo dei dadi. Azzardo e vita quotidiana, O barra O edizioni, Milano, 2013, p. 18.
19. N. Schüll, Architetture dell’azzardo, cit., pp. 252-253.
20. Ibi, 89.
21. Ibi, pp. 90-91.
22. Un ritratto di una certa intensità del fenomeno affiora per esempio, oltre che da molte inchieste giornalistiche, da un romanzo di Caterina Emili, L’autista delle slot, Besa, 2013. Cfr. anche Un viaggio nell’inferno delle slot machine. Dialogo con Caterina Emili, nel numero monografico Per gioco? della rivista «Communitas», n. 66, 2012.
23. M. Dotti (a cura di), No slot. Anatomia dell’azzardo di massa, Feltrinelli, Milano, 2013.
24. A. Williams e N. Srnicek, Manifesto per una politica accelerazionista, in M. Pasquinelli (a cura di), Gli algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune, Ombre corte, Verona, 2014, p. 23.
25. Traggo la citazione dai Fratelli Karamazov ancora una volta da M. Dotti, Bellezza persino nella vergogna. Dilemma e mistero del giocatore, in M. Martinelli, Slot machine, Sossella, Roma, 2015, pp. 61-69.

sabato 9 gennaio 2016

Il linciaggio 2.0. “I giustizieri della rete” di Jon Ronson





di Damiano Palano

L’etimologia della parola «linciaggio» non è del tutto chiara. Alcune tracce riconducono infatti al latifondista Charles Lynch, che negli anni Ottanta del Settecento presiedette corti irregolari per punire lealisti filo-britannici, mentre altre portano al capitano William Lynch, che più meno nello stesso periodo, in una contea della Virginia, fu autorizzato ad amministrare la giustizia senza regolare processo. Ma, nonostante le diverse piste conducano tutte agli Stati Uniti, non si tratta di un fenomeno circoscritto alla cultura nordamericana, perché anche la storia europea è ricca di episodi (talvolta deformati e ingigantiti dalla memoria popolare) di esecuzioni sommarie compiute da folle inferocite. La rivoluzione tecnologica dell’ultimo ventennio e la diffusione dei social media hanno sancito però la nascita di una nuova forma di linciaggio, meno cruenta, ma dalle conseguenze tutt’altro che indolori. 
Nel suo ultimo libro I giustizieri della rete (Codice, Torino, 2015, pp. 238, euro 21.00), Jon Ronson – scrittore, giornalista e sceneggiatore inglese, noto al pubblico italiano per testi come Psicopatici al potere (Codice, 2014), Loro: i padroni segreti del mondo (Fazi, 2005) e L’uomo che fissa le capre (Einaudi, 2009) – indaga proprio sui meccanismi perversi che può avere la gogna mediatica dei social network. 
L’indagine di Ronson non ha nulla di accademico, perché raccoglie semplicemente alcune storie di persone coinvolte da vicende sconcertanti, e tutte accomunate dal fatto di essere legate a episodi di ‘linciaggio mediatico’. Più o meno in tutti i casi raccontati da Ronson, la ‘colpa’ compiuta dai malcapitati, oggetto di umiliazione pubblica, è davvero risibile, o comunque del tutto sproporzionata alle conseguenze. 
Il primo caso riguarda Stephen Glass, un giornalista specializzato in divulgazione scientifica, che in un libro dedicato ai meccanismi della creatività, attribuisce un piccolo frammento a Bob Dylan, aggiungendo alla frase «Sono di non essere io», tratta da un’intervista al cantante, poche parole: «Sono felice di non essere quello là». ‘Smascherato’ da un giornalista free-lance, Glass inizia a essere oggetto di pubblico dileggio. Si scopre che in passato aveva compiuto altre scorrettezze simili, e che aveva persino parzialmente ‘plagiato’ propri articoli, rimaneggiandone alcune parti in testi pubblicati su testate differenti. Naturalmente è davvero difficile considerare le ‘scorrettezze’ di Glass come episodi davvero gravi, almeno in Italia, dove la clemenza con cui si giudica il lavoro giornalistico arriva persino a far perdonare direttori che pubblicano libri scopiazzando articoli stranieri senza citarli, o persino importanti editorialisti che – incensati per anni come autorevoli esperti – confessano, messi alle strette, di essersi inventati lauree, master e mille altre cose. Ma per Glass le cose vanno molto peggio, perché perde il proprio lavoro (ben retribuito) su una grande testata, e perché ogni suo tentativo di riabilitarsi viene bocciato dall’impietoso giudizio degli utenti di Twitter. Altri episodi sono quelli che vedono coinvolti Justine Sacco, fustigata (e licenziata) per un tweet di cattivo gusto scritto mentre era in partenza per le vacanze in Sud Africa, e Lindsey Stone, che subisce la medesima sorte per aver diffuso una foto dal discutibile umorismo goliardico. Ancora oggi il loro nome è legato a questi episodi, che per qualche minuto le hanno rese celebri (loro malgrado) in tutto il mondo. E che – grazie alla memoria impietosa dei motori di ricerca – rimarranno legati ancora a lungo al loro nome. 
Nel proprio viaggio Ronson tenta anche qualche spiegazione. Evoca (con più di qualche semplificazione) le ipotesi sul comportamento delle folle elaborate sul finire dell’Ottocento da Gustave Le Bon, e si impegna anche in una lunga – e un po’ semplicistica – indagine su cosa sia la vergogna, oltre che su ciò che innesca l’umiliazione pubblica. Ma naturalmente non è qui che sta l’interesse del libro, che va letto come piuttosto una documentazione che arricchisce la fenomenologia sul tempo presente. Le storie raccontate – con un indubbio talento narrativo – da Ronson ci devono così mettere in guardia sugli effetti perversi di qualcosa che ci sembra innocuo, come i “mi piace” che mettiamo allo stato postato da un amico di Facebook, o le poche parole con cui condanniamo senza appello il tweet di qualche personaggio pubblico, o persino di qualche sconosciuto. Tutto questo ‘chiacchiericcio’ virtuale – ormai lo abbiamo capito – non migliora davvero la vita di nessuno, e in molti casi non fa altro che dilatare (e rendere manifesto al mondo intero) il narcisismo di alcuni o l’estrema solitudine di altri. Ma sicuramente contribuisce ad arricchire le multinazionali del web. E da questo punto di vista (ma si tratta di un calcolo che richiederebbe più di qualche verifica) Ronson stima per esempio che l’umiliazione pubblica di Justine Sacco abbia aumentato il traffico online, attirando utenti su Google a dunque facendo incrementare sensibilmente, in quei giorni, gli introiti pubblicitari del motore di ricerca. «Se l’interesse per Justine Sacco fosse stato sufficiente a trattenere gli utenti online più a lungo del solito, la diretta conseguenza per Google», scrive Ronson riportando l’opinione del ricercatore Jonathan Hersh, «sarebbe stato maggiori introiti pubblicitari» (p. 229). «In mancanza di dati più precisi da parte di Google», Hersh «pensava fosse prudente stimare […] che il valore di Justine, in quanto ‘query a basso valore, valesse un quarto della media. Se la stima fosse corretta, dalla distruzione di Justine Sacco Google avrebbe incassato centoventimila dollari. Forse la stima non è precisa; forse Google ha guadagnato di più, forse di meno, ma una cosa è certa: quanto ha preso chi di noi ha effettivamente contribuito a distruggere Justine? La risposta è: neanche un soldo» (p. 229). 
Ma probabilmente non è neppure questo l’unico meccanismo imprevisto innescato dai social network. Forse, osserva Ronson, c’è anche un’altra implicazione rilevante: un’implicazione che riguarda il conformismo che i social network tendono a generare, producendo capri espiatori e favorendo nuove forme di conformismo, che ci inducono ad accodarci alla lunga fila di “mi piace”, o a unirci alla folla mediatica che accerchia la vittima di turno. «Crediamo di essere degli anticonformisti, ma in realtà credo che tutto ciò stia creando un’epoca ben più conformista e conservatrice», scrive Ronson proprio alla conclusione del volumetto. «“Guarda!” ci diciamo, “noi siamo normali! Questa è la media!”. Ma il fatto è che stiamo definendo i confini di quella normalità distruggendo le persone che ne restano fuori» (p. 232). E se probabilmente il ritratto dipinto da Ronson finisce per questo per essere fin troppo cupo, è bene tenerlo presente. Quantomeno per liquidare come utopie ormai sbiadite quelle visioni che, solo alcuni anni fa, rappresentavano la Rete come l’agorà virtuale in cui confrontarsi su un piano di completa parità, e come il luogo immateriale in cui poteva finalmente prendere forma una democrazia reale.

Damiano Palano

martedì 5 gennaio 2016

La parabola della democrazia da Pericle alla globalizzazione. Il nuovo libro di Massimo L. Salvadori



di Damiano Palano

Questa recensione al libro di Massimo L. Salvadori, Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà (Donzelli, Roma, 2015), è apparsa su "Avvenire" il 2 gennaio 2016. 

Alcuni anni fa, nelle dense pagine di Democrazie senza democrazia, Massimo L. Salvadori dipinse un severo ritratto dei sistemi politici occidentali. Un assetto istituzionale nato come strumento per porre un freno al potere delle oligarchie – argomentava lo storico – si era trasformato nel tempo in qualcosa di molto diverso. E, a dispetto del suo apparente trionfo, la democrazia appariva progressivamente ‘svuotata’ dall’ascesa di nuove potenti oligarchie, prevalentemente economiche e quasi totalmente sottratte al controllo degli Stati. Quella diagnosi può essere considerata come una sorta di prologo al nuovo lavoro di Salvadori, Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà (Donzelli, pp. 507, euro 35.00), un libro che ricostruisce un viaggio lungo duemila e cinquecento anni. L’analisi parte infatti dall’Atene di Pericle e giunge sino all’età della globalizzazione, toccando una serie di tappe intermedie in cui le trasformazioni istituzionali si intrecciano con la riflessione dottrinaria. 
Nel ripercorrere questa vicenda lo studioso riconosce innanzitutto l’ambiguità che contrassegna il termine «democrazia» fin dalle sue origini greche. Un’ambiguità che si carica nel tempo di ulteriori motivi, quando, soprattutto a partire dalla Rivoluzione francese, la democrazia inizia a essere pensata prevalentemente come democrazia rappresentativa, e quando nel Novecento emergono i partiti di massa. 
Il contributo di Salvadori arricchisce una discussione che negli ultimi anni si è fatta particolarmente intensa. Mentre il 1989 paradossalmente sanciva la vittoria della democrazia sui suoi rivali novecenteschi, molti osservatori iniziarono infatti a denunciare, con ancora maggior forza rispetto al passato, le «promesse non mantenute» degli ideali democratici. Nel quadro di questo fitto dibattito – che ha avuto come protagonisti per esempio studiosi come Colin Crouch, Pierre Rosanvallon e Sheldon Wolin – lo sguardo di Salvadori spicca però soprattutto per l’ipotesi che guida l’indagine. Ciò che forse è più interessante nella sua impostazione è infatti il tentativo di far convivere la tensione verso l’estensione della partecipazione popolare, che caratterizza il pensiero democratico, con uno sguardo realista, che quasi paradossalmente considera la «sovranità popolare» come un «mito». 
Lo storico è infatti ben consapevole che la democrazia in senso proprio – come effettivo potere sovrano del popolo – nel mondo moderno non è mai esistita, né potrà mai essere realizzata. La democrazia rappresentativa lascia d’altronde al popolo solo una quota ridotta di potere reale, consistente nel diritto di votare i propri rappresentanti o di investire i governi. E per molti versi non può essere altrimenti, perché – come avvertivano Gaetano Mosca, José Ortega y Gasset o Joseph A. Schumpeter – ogni regime politico può esprimersi e agire solo per mezzo di élites. Al tempo stesso, il realismo non deve indurre però a rinunciare del tutto alle grandi aspirazioni coltivate dal pensiero democratico nel corso dei secoli. In particolare non può lasciar cadere l’aspirazione all’uguaglianza e alla effettiva garanzia dei diritti politici di tutti i cittadini, e soprattutto delle fasce più deboli della popolazione. Per Salvadori, la democrazia non è così solo un assetto istituzionale e neppure solo un ideale, ma la combinazione di queste due dimensioni. Una simile combinazione nell’ultimo secolo è stata garantita in Occidente dall’incontro tra le istituzioni liberali (arricchite dal suffragio universale) e l’azione politica di masse organizzate. Ma è proprio questo fragilissimo equilibrio a risultare oggi minacciato dall’estendersi delle diseguaglianze, dall’indebolimento delle grandi organizzazioni politiche e sindacali, dalla crescita del potere reale delle élites globali. Ed è per questo insieme di processi che i nostri sistemi politici tendono davvero ad assomigliare a «democrazie a bassa intensità».

Damiano Palano