giovedì 26 ottobre 2017

La democrazia divisa nell’era delle bolle. Un libro di Cass Sunstein




di Damiano Palano


Questa recensione al volume di Cass R. Sunstein, #Republic. La democrazia nell’epoca dei social media (Il Mulino, pp. 344), è apparsa su "Avvenire" il 24 ottobre 2017. 


Sono passati quasi settant’anni da quando George Orwell iniziò a scrivere 1984, ma il romanzo dell’intellettuale britannico non cessa di entusiasmare sempre nuovi lettori. La nostra idea del totalitarismo sarebbe d’altronde diversa senza le straordinarie invenzioni letterarie della «neolingua» e del «bis-pensiero». E persino la nostra concezione della pervasività del potere non sarebbe la stessa se il romanzo di Orwell non fosse stato dominato dall’occhio onnipresente del Grande Fratello. Benché sia tornata in testa alle preferenze dei lettori anche grazie alla discussione su «post-verità» e fake news, la più celebre distopia novecentesca non è però probabilmente adeguata a cogliere le trasformazioni che stanno investendo i nostri sistemi politici. O almeno questa è l’opinione sostenuta da Cass R. Sunstein, nel suo ultimo libro #Republic. La democrazia nell’epoca dei social media (Il Mulino, pp. 344). Docente di Diritto alla Harvard Law School, Sunstein ha ricoperto diversi incarichi durante l’amministrazione Obama ed è noto soprattutto per le sue proposte sulle strategie del «paternalismo libertario», sviluppate per esempio in Nudge (Feltrinelli), oltre che per Il mondo secondo Star Wars (Università Bocconi Editore). Negli ultimi anni Sunstein si è però dedicato in modo approfondito anche ai mutamenti del contesto comunicativo. Ed è proprio in questo filone che si colloca #Republic, un libro che coglie nella rivoluzione innescata dai social media una minaccia per le basi su cui si reggono le nostre democrazie. La minaccia, sostiene Sunstein, non viene infatti dall’emergere di un nuovo Grande Fratello e non assomiglia neppure alla forzata spensieratezza consumista prefigurata da Aldous Huxley nel Brave New World. I rischi provengono piuttosto dal potere della personalizzazione, dalla chiusura in micro-comunità sempre più impermeabili, dall’isolamento nei bozzoli informativi che crescono giorno dopo giorno intorno a ognuno di noi.

Nel 1995 Nicholas Negroponte profetizzò l’imminente nascita del «Daily Me», una specie di quotidiano confezionato per ciascun singolo individuo sulla base dei suoi gusti, dei suoi interessi, dei suoi orientamenti. Naturalmente il «Daily Me» non è mai nato. Ma la diffusione dei social media non produce effetti molto diversi. Innanzitutto, ciascun individuo ha sempre più potere di selezionare ciò che vuole vedere, per esempio quando, utilizzando Facebook, decide di leggere i post e le notizie segnalategli da qualche «amico» (e tralascia invece altri link). In secondo luogo, gli algoritmi adottati da Facebook e Google filtrano ulteriormente i flussi informativi, sulla base dei gusti del singolo (ricostruiti sulla base delle sue scelte precedenti). I diversi filtri che selezionano le informazioni provenienti dal mondo reale chiudono così ciascuno di noi sempre più dentro una bolla ‘personalizzata’, in cui tutte le notizie e le opinioni vanno di fatto nella stessa direzione e confermano le nostre posizioni consolidate. Dentro la cassa di risonanza in cui ci troviamo rinchiusi, le nostre opinioni escono inoltre fatalmente rafforzate. E sul terreno strettamente politico tutto questo favorisce, secondo Sunstein, la diffusione di posizioni sempre più estreme, persino violente, che possono diventare potenzialmente pericolose.

A giocare un ruolo rilevante secondo Sunstein sono innanzitutto le cyber-cascate, che favoriscono la diffusione sia di opinioni fondate su fatti accertati, sia di dicerie e fake news. In secondo luogo, i bozzoli informativi costruiti dai social media e dal filtro degli algoritmi rafforzano la tendenza alla polarizzazione che opera sempre all’interno di gruppi omogenei. In terzo luogo, negli scambi comunicativi è sempre all’opera ciò che gli psicologi definiscono la biased assimilation, ossia una sorta di pregiudizio che ci induce inconsapevolmente a filtrare le informazioni sulla base delle nostre convinzioni di partenza. In altre parole, come dimostrano molti esperimenti, anche se leggiamo post, articoli e libri che sostengono tesi diverse a proposito di uno stesso problema (per esempio l’utilità e i rischi dei vaccini o le cause del riscaldamento globale), quasi invariabilmente ‘filtriamo’ tra tutte queste argomentazioni solo quelle che confermano la nostra convinzione di partenza. E ciò significa che anche la dimostrazione più convincente dell’infondatezza di una fake news può rivelarsi inutile. Meccanismi di questo genere ovviamente hanno sempre caratterizzato la diffusione delle opinioni. Ma l’omofilia agevolata dai social media – e cioè la tendenza a entrare in comunicazione prevalentemente con individui simili a noi (per orientamenti politici, gusti musicali, preferenze gastronomiche e altro) – innesca le cyber-cascate e accelera la spinta alla polarizzazione.

Un’opinione fortemente polarizzata e un sistema comunicativo frammentato non possono che favorire la paralisi politica e mettere in pericolo l’edificio democratico. Un’opinione pubblica frammentata, la polarizzazione e l’estremismo rendono infatti sempre più difficile il dialogo tra le forze politiche, tanto che diventa quasi impossibile affrontare molte questioni fondamentali. Per scongiurare questi rischi, Sunstein indica alcune soluzioni che potrebbero arginare la frammentazione dei sistemi informativi. Per esempio sostiene la necessità di reintrodurre un margine di ‘casualità’ nel tipo di informazione in cui un individuo può imbattersi. E auspica il rafforzamento di quelle esperienze comuni capaci di coinvolgere l’intera comunità e dunque di rompere le «bolle» costruite dai filtri che ci circondano. Benché Sunstein si voglia tenere ben lontano dal pessimismo e dalla nostalgia di un passato mitizzato, è però evidente che simili rimedi finiscono con l’apparire piuttosto ingenui. Se davvero, come è probabile, l’ambiente mediale procede nella direzione indicata da Sunstein, queste soluzioni non sembrano infatti neppure poter scalfire la scorza più superficiale dei bozzoli informativi. Proprio per questo l’avvento della bubble democracy – che per molti versi è già una realtà – richiede l’invenzione di ben altri strumenti. E forse anche una buona dose di immaginazione politica.

Damiano Palano


sabato 14 ottobre 2017

Quando il mondo divenne un globo. Un libro di Matteo Vegetti sulla "rivoluzione spaziale" contemporanea



di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Matteo Vegetti, L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria (Einaudi, Torino, 2017), è apparsa su «Avvenire» il 22 agosto 2017 con il titolo Dall’«epoca dell’aria» alla «rivoluzione dello spazio».

Nel 1942, proprio mentre la Seconda guerra mondiale entrava nella fase più drammatica, Carl Schmitt consegnò alle pagine di Terra e mare i cardini di una folgorante «considerazione sulla storia del mondo». Tra la fine del XV e il XVI secolo, secondo la sua lettura, si era determinata una cruciale alterazione dell’equilibrio fra Terra e Mare. Le innovazioni nelle tecniche di navigazione e la scoperta di nuovi continenti avevano fatto nascere un nuovo tipo umano, interamente legato all’elemento marino, amante del rischio e anticipatore della futura etica capitalistica. Ma non si trattava solo di un mutamento negli equilibri politici o nelle dinamiche economiche. Si era realizzata infatti una vera e propria «rivoluzione spaziale». «Ogni volta che sotto la spinta di forze storiche o grazie alla liberazione di nuove energie, entrano nell’orizzonte della complessiva coscienza dell’uomo nuovi territori e nuovi mari», scriveva Schmitt, «mutano anche gli spazi dell’esistenza storica», e sorgono così «nuove misure e nuovi criteri dell’attività storico-politico, nuove scienze, nuovi ordini, una nuova vita di popoli nuovi e rinati». In altre parole, dinanzi a simili scoperte, ancora prima che la scienza fornisse adeguate spiegazioni, aveva preso forma una nuova concezione del mondo, che non comportava solo un ampliamento dell’orizzonte, bensì una radicale modificazione del concetto stesso di spazio.
Per dare una raffigurazione simbolica alla contrapposizione tra potenze terrestri e potenze marittime, Schmitt evocava Behemot e il Leviatano, le due figure mostruose descritte nel Libro di Giobbe. Ma suggeriva anche che ormai si stava già delineando una nuova «rivoluzione spaziale», perché l’aria stava diventando la «nuova sfera elementare dell’esistenza umana». E tanto Behemot quanto il Leviatano sarebbero stati alla fine surclassati da un misterioso Grifo, che Schmitt – in una lettera all’amico Ernst Jünger – riconobbe nella figura di Ziz, un grande uccello menzionato nel libro dei Salmi. Nei suoi scritti successivi Schmitt sviluppò solo parzialmente l’idea della nuova rivoluzione spaziale innescata dalla conquista dell’aria. È invece proprio da quell’ipotesi che prende le mosse Matteo Vegetti nel suo volume L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria (Einaudi, pp. 219, euro 22.00). L’autore percorre infatti un viaggio affascinante attraverso il Novecento, nel tentativo di portare alla luce tutti i passaggi di una riflessione collettiva capace di cogliere per tempo la portata di una trasformazione davvero epocale. Vegetti ripercorre innanzitutto le tappe della riflessione geopolitica classica condotta da studiosi come Alfred T. Mahan e Halford Mackinder. Ma un punto di snodo è rappresentato da Il dominio dell’aria del generale italiano Giulio Douhet, che già nel 1921 comprese che la conquista di una «terza dimensione», quella verticale, sconvolgeva la classica geometria delle relazioni umane. La successiva riflessione geopolitica statunitense avrebbe poi riconosciuto come l’air power rendesse obsoleto il vecchio equilibrio fra terra e mare. E con il trauma di Pearl Harbor divenne evidente che il mondo era diventato «un unico sistema dominato dall’elemento aereo».
Per ognuno di noi pensare al mondo significa oggi davvero concepirlo come un’unità percorsa da mille linee di interconnessione. Ma il problema che Schmitt rilevava alla fine della Seconda guerra mondiale, quando indicava la necessità di un nuovo nomos della terra, sembra oggi ancor più complesso di allora. Perché se i flussi globali mostrano costantemente la vulnerabilità economica e sociale connessa all’interdipendenza, l’ipotesi di riconquistare un pieno dominio dello spazio da parte degli Stati appare davvero ostica. I «grandi spazi» non sembrano inoltre poter contare sulla forza di quei legami simbolici che sostenevano gli Stati nazionali e che la dimensione economica e gli scambi comunicativi non sono in grado di produrre (almeno in modo automatico). Ma anche il ritorno a quella che Vegetti definisce la «greve retorica tellurica dei muri» rappresenta solo una risposta simbolica, incapace di aggredire davvero la portata della «rivoluzione spaziale» che percorre il nostro tempo. E quando si evoca la possibilità di una «deglobalizzazione» - al di là delle concrete implicazioni che essa potrebbe avere – si rischia così di sottovalutare la portata dei mutamenti. Perché certo si tratta di trasformazioni che hanno una dimensione economica. Ma sono soprattutto dinamiche che modificano in profondità la nostra stessa condizione esistenziale.

Damiano Palano

sabato 7 ottobre 2017

Waldemar Gurian: l’avventura di un «pubblicista cattolico»




di Damiano Palano



Questa recensione al volume di Waldemar Gurian, Società secolare e religioni politiche, a cura di Umberto Lodovici, è apparsa su “Avvenire” del 6 ottobre 2017, con il titolo Gurian: la politica e il dovere dello scrittore cattolico.



Nel 1933 la casa editrice Vita e Pensiero pubblicò un volume dal titolo Il Bolscevismo, firmato da Waldemar Gurian, un giovane intellettuale cattolico tedesco poco più che trentenne. Il volume proponeva una chiave di lettura originale del regime politico nato dalla rivoluzione russa, che anticipava molte delle future riflessioni sui caratteri del «totalitarismo». Dopo la Seconda guerra mondiale, il testo fu nuovamente riproposto al pubblico italiano, ma il suo autore rimase sostanzialmente sconosciuto, così come gran parte della sua riflessione. Un invito importante a riscoprire la personalità di Gurian viene invece ora dall’antologia Società secolare e religioni politiche, curata da Umberto Lodovici e pubblicata dall’editrice Historica nella nuova collana «Lo scrittoio del Segretario» diretta da Alessandro Campi (pp. 238, euro 17.00).

All’indomani della morte, avvenuta prematuramente nel 1954, la «Review of Politics», che aveva fondato quindici anni prima, scrisse che «il destino personale e storico» aveva posto Gurian «al centro del vortice del XX secolo». Era nato infatti nel 1902 in Russia, a San Pietroburgo, da una famiglia ebrea, ma all’età di nove anni aveva lasciato il paese natale per trasferirsi a Berlino, insieme alla madre, che si convertì al cattolicesimo e nel 1914 fece battezzare il figlio. Tranne che negli anni del primo conflitto mondiale (durante i quali dovette spostarsi in Olanda), svolse i propri studi in Germania, conseguendo il dottorato nel 1923 sotto la guida di Max Scheler. Non intraprese la carriera accademica, ma iniziò un’intensa attività pubblicistica, che si protrasse fino all’avvento al potere del nazionalsocialismo, quando fu costretto a emigrare prima in Svizzera e poi negli Usa. Ricostruendo la trama delle sue relazioni si scopre che Gurian fu soprattutto – come scrisse Hannah Arendt nel necrologio per l’amico – un uomo di grandi amicizie. Il suo percorso si era intrecciato per esempio con quello di Carl Schmitt, di cui aveva letto alla metà degli anni Venti Cattolicesimo romano e forma politica, restandone affascinato. Ma si legò anche alla rivista «Die Schildgenossen» e a Romano Guardini, di cui Gurian apprezzava soprattutto l’idea che concepiva la libertà in armonia con l’obbedienza. Negli anni della repubblica di Weimar, Gurian riteneva infatti che la crisi della società liberale potesse essere arginata solo con il recupero di un ordine tradizionale. In questa prospettiva il «pubblicista cattolico» – come scrisse in un saggio raccolto nell’antologia – doveva prendere nettamente le distanze dal modello secolarizzato e dall’esempio illuminista, di cui Voltaire era il paradigma. E doveva soprattutto esprimere un giudizio sulla propria epoca, offrire un orientamento, senza assecondare l’opinione pubblica confermandone le convinzioni.

L’entusiasmo che lo aveva avvicinato a Schmitt fu di breve durata. Già nella seconda metà degli anni Venti il giurista divenne infatti ai suoi occhi l’esempio di un «cattolicesimo secolarizzato», se non addirittura di un «nichilismo conservatore». La diffidenza doveva inoltre tramutarsi in avversione nel 1933, quando Schmitt appoggiò il regime hitleriano. Da quel momento Gurian divenne il più severo critico di Schmitt, che definì il «giurista della corona» del nazionalsocialismo. Parallelamente, l’incontro con Jacques Maritain indusse Gurian a ripensare la giovanile critica della democrazia, che cominciò a concepire come un sistema di governo capace di tutelare i diritti umani.

Dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti, nel 1937, divenne un punto di riferimento per molti intellettuali emigrati dal Vecchio continente, che trovarono nelle pagine della «Review of Politics» un luogo in cui riflettere sul passato e sul futuro. Chiamato a insegnare nella prestigiosa Notre Dame University, continuò a svolgere la propria interpretazione del totalitarismo come «religione politica». La sua ipotesi era che si dovessero distinguere nettamente i regimi autoritari da quelli totalitari. «I movimenti totalitari», osservava per esempio in un saggio del 1952, erano «fondamentalmente movimenti religiosi», che non puntavano semplicemente a conquistare il potere o a promuovere un mutamento socio-economico, ma piuttosto a ottenere un dominio pieno su ogni sfera della vita, «a una rifondazione della natura umana e della società». E due anni dopo, discutendo con Hannah Arendt, precisò che le diverse forme di totalitarismo erano «religioni politico-sociali secolarizzate», che con il loro potere «sostituiscono Dio e le religioni istituzionali come la Chiesa». Naturalmente quella interpretazione del totalitarismo era il frutto della «guerra civile mondiale». Ma anche oggi, molti decenni dopo, quelle ipotesi continuano a rivelarsi ricchissime di sollecitazioni. E anche per questo i vecchi scritti di Gurian meritano di essere riscoperti.


Damiano Palano

venerdì 6 ottobre 2017

Guernica oggi e il ritorno inatteso della guerra civile. Una lezione di Luigi Bonanate



di Luigi Bonanate

Mecoledì 11 ottobre 2017, una lezione di Luigi Bonanate, pioniere in Italia degli studi di Relazioni Internazionali e noto soprattutto per le sue ricerche sulle trasformazioni del sistema globale e sui mutamenti della guerra, aprirà il ciclo "Il mondo in disordine. Dieci incontri sulla politica globale", presso l'aula Magna dell'Università Cattolica di Brescia (Via Trieste 17). Bonanate tornerà al bombardamento di Guernica del 1937 e al grande dipinto dedicato a quella tragedia da Pablo Picasso per riflettere non solo sui rapporti tra arte e guerra, ma anche per riconoscere in quel passaggio cruciale l’anticipazione della guerra civile globale di oggi. L'incontro sarà aperto da Damiano Palano. Interverranno Antonello Calore (Università di Brescia) e Francesco Tedeschi (Università Cattolica).

La guerra civile è tornata tra noi – o forse non se ne era mai andata, e ha semplicemente cambiato posto. Di guerre civili, l’Europa ne ha avute, nel XX secolo, di importantissime: in Spagna, in Italia, in Jugoslavia; e poi la Russia in Cecenia, e poi l’Ukraina, la Siria… Ma sembra che sia abbastanza facile dimenticarle. Dall’inizio del XXI secolo la guerra civile pare essersi insediata in quello che chiamiamo Medio Oriente (allargato) e si estende da una parte verso l’Asia centrale e dall’altra verso il Maghreb e l’Africa del Nord e del centro. Dovrà tutto ciò essere letto in una chiave geografica, dal che potremmo evincere che essa sia destinata a muoversi irrefrenabilmente, da una parte all’altra, oppure immaginare che sia in corso una straordinaria e spontanea azione di risistemazione delle condizioni di vita delle persone attraverso i continenti, per mezzo di una sorta di depurazione che insieme con le macerie e i cadaveri ricondurrebbe la storia sulla via del progresso? Persino l’arte se lo sta chiedendo… E se crediamo che l’arte sia vita, perché mai non potrebbe intrecciarsi con la guerra e cercare di spegnerla?
L’arte contemporanea (sarebbe meglio dire: le avanguardie artistiche) presta una straordinaria attenzione a ciò che sta succedendo nel mondo delle relazioni internazionali che comprendono al loro interno le diverse aree di crisi e di conflitto aperto. Produce prevalentemente opere «impegnate», che parlano di guerra: civile, interna, locale – ciascuna può essere l’indizio di una peggior difficoltà futura, l’inizio di un collegamento che mette in contatto tra loro situazioni che – se si sommassero – potrebbero avere conseguenze devastanti per l’intero mondo. Viviamo in un sistema politico internazionale completamente dis-fatto. Si può dire che ciò che ha avuto valore per 5 secoli ha perso ogni consistenza e capacità ordinatrice: senza ciò, ci si può avvicinare al precipizio. Senza regole, si perde ogni strumento di «irreggimentazione» delle tensioni.
Se Guernica è dunque la più straordinaria e affascinante prova della capacità dell’arte di sconfiggere la guerra, almeno nel cuore e nella mente di milioni di persone, l’arte di oggi assume (nuovamente) la funzione profetica di chi minaccia terribili sventure se non si provvederà a disinnescare i conflitti presenti ma anche a svuotare le contraddizioni emergenti che si trasformeranno, altrimenti, in nuove sciagure. Da Picasso a domani: un ciclo completo di storia – vorremmo che nessuno ne proclamasse la conclusione. Sarà l’arte a salvare il mondo? Non sappiamo la risposta, ma certamente per impegnarci nel riflettervi una condizione deve essere assolta: conoscere la guerra, capirla, studiarla, valutarne l’importanza rispetto alla strutturazione di ciascuno dei mondi che abbiamo conosciuto e potrebbero arrivare. Solo così potremo chiudere anche alle arti di contribuire alla comprensione e all’abolizione della violenza.

(da Luigi Bonanate, La vittoria di Gernika. Dalla guerra civile spagnola alla guerra civile mondiale, Aragno, 2017)

giovedì 5 ottobre 2017

Lo stallo catalano e la debolezza della politica



di Damiano Palano


Questa nota sul referendum per l'autodeterminazione della Catalogna è apparsa su Cattolica News il 5 ottobre 2017.


Ottant’anni dopo il tragico bombardamento di Guernica, la prova di forza a cui assistiamo tra la Generalitat catalana e il governo di Madrid torna a far aleggiare sulla Spagna le ombre del passato. Ogni paragone con il dramma della guerra civile rimane ovviamente – e fortunatamente – fuori luogo, eppure la sensazione di molti è che con il referendum di domenica si sia messo in moto un processo molto difficile da controllare.

Nella ricostruzione delle ragioni che hanno portato allo stallo di questi giorni sono state ampiamente ricordate le profonde radici culturali e le motivazioni economiche alla base dell’indipendentismo catalano. E in effetti si tratta di aspetti che non possono essere trascurati. L’identità culturale e linguistica catalana ha radici che affondano nella storia spagnola, oltre che in un movimento intellettuale e politico consolidatosi a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e passato attraverso la lunga stagione della dittatura. La conquista dell’autonomia linguistica del catalano – di cui durante il franchismo era proibito l’utilizzo – è stata anche per questo una bandiera nella lotta contro Madrid. La rivendicazione di una maggiore autonomia fiscale rappresenta inoltre da decenni un punto critico dei rapporti con lo Stato spagnolo. Pur gestendo scuola, ospedali e polizia locale, il bilancio catalano dipende infatti dai trasferimenti del governo centrale. E se i suoi cittadini pagano in tasse ogni anno circa 60 miliardi, la Generalitat ne riceve dallo Stato circa 50. L’inizio del conflitto con Madrid parte in effetti proprio da queste due rivendicazioni. L’affiancamento del catalano al castigliano e una più consistente autonomia nella gestione del gettito fiscale sono il cuore del nuovo Statuto varato nel 2006 dalla Generalitat, nel quale la Catalogna viene definita come una “nazione”, seppur operante nel quadro dello Stato spagnolo. Il testo ottiene l’approvazione del Parlamento di Madrid, allora a maggioranza socialista, seppur con qualche sensibile attenuazione. Ma il punto di rottura si ha solo nel 2010, quando la Corte costituzionale, intervenendo sul ricorso promosso dal Partito Popolare di Rajoy (allora all’opposizione), di fatto riscrive lo Statuto, eliminando in larga parte l’autonomia fiscale e negando al catalano il medesimo rango della lingua castigliana. Da allora inizia il lungo braccio di ferro tra Barcellona e Madrid, passato per la grande manifestazione indipendentista dell’11 settembre 2012 e dal sondaggio consultivo del 9 novembre 2014 (in cui il l’80% dei votanti, pari però solo al 30% degli aventi diritto, si esprime a favore dell’indipendenza).

La bocciatura da parte della Corte costituzionale dello Statuto del 2006 spiega però solo in parte la dinamica degli ultimi anni. E soprattutto non spiega interamente perché le formazioni catalaniste siano passate nell’arco di pochi anni dalle tradizionali posizioni autonomiste a rivendicazioni esplicitamente indipendentiste. Un fattore tutt’altro che secondario è infatti la crisi che coinvolge in tutta Europa i partiti tradizionali e che porta al successo nuove formazioni, un po’ sbrigativamente chiamiate spesso “populiste”. La virata verso l’indipendentismo può infatti essere pienamente compresa solo all’interno di questo quadro.

A partire proprio dal 2010, lo scoppio della bolla immobiliare, l’esplosione della disoccupazione e i tagli al welfare sanciti prima dal governo Zapatero e poi dal governo Rajoy alimentano un clima di sfiducia e risentimento nei confronti della classe politica, che porta alla nascita di nuove forze “anti-casta” come Podemos e Ciudadanos. Anche Convergéncia i Unió (CiU), la coalizione per decenni alla guida della Generalitat e principale espressione dell’autonomismo catalano, finisce però con l’essere minacciata dal nuovo clima, se non altro perché il suo leader storico, Jordi Pujol, viene coinvolto in vari scandali giudiziari. Per far fronte a questa situazione CiU e il suo nuovo leader Artur Mas iniziano, in occasione delle elezioni autonomiche del 2012, a virare verso posizioni indipendentiste. E, contemporaneamente, incomincia ad aumentare nell’opinione pubblica anche il sostegno al progetto indipendentista.

In vista delle elezioni del settembre 2015, seguendo la nuova onda, si modifica il quadro del sistema politico catalano. Anche per effetto del terremoto politico che sta sconvolgendo la Spagna e la stessa Catalogna (dove a Barcellona le elezioni amministrativa vedono l’affermazione di una coalizione di sinistra radicale vicina a Podemos), Convergéncia i Unió si divide in due componenti: una contraria a ogni ipotesi secessionista (Unió Democratica de Catalunya), l’altra, Convergència Democràtica de Catalunya, guidata da Mas e a capo di una coalizione indipendentista, Junts pel Sí (JxSí), che comprende anche Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), un partito repubblicano di centro-sinistra. Nel complesso le forze indipendentiste ottengono il 47% dei suffragi, ma riescono a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi. Il governo si forma comunque solo dopo mesi di trattative, grazie al sostegno di una formazione di sinistra radicale catalanista come Candidatura d’Unitat Popular (Cup), decisiva con i suoi 10 seggi per sostenere una maggioranza. E a tenere faticosamente insieme questo fronte tanto eterogeneo – che va dalla destra fino all’estrema sinistra – è proprio un programma che promette di giungere all’indipendenza entro un anno e mezzo.

Il nuovo governo della Generalitat, guidato da una figura minore come Carles Puidgemont (preferito al troppo ingombrante Mas), risulta però estremamente debole, costantemente minacciato dalla difficile convivenza delle componenti che lo sostengono.  Ed è in fondo anche la fragilità delle leadership alla guida oggi sia della Catalogna sia della Spagna a spiegare la dinamica di questi giorni. Per un verso la fragilità della coalizione che sostiene Puidgemont – e che trova la propria ragion d’essere solo nella prospettiva dell’annunciata indipendenza – chiarisce infatti l’accelerazione del referendum di domenica. Ma, per l’altro, la debolezza del governo Rajoy, formatosi dopo le elezioni del 26 giugno 2016 (vinte dal PP, ma senza maggioranza), spiega la posizione di netta chiusura a ogni dialogo da parte di Madrid. Perché l’atteggiamento duro del governo spagnolo certo ha contribuito a rafforzare le posizioni degli indipendentisti in Catalogna. Ma, polarizzando la discussione tra “unionisti” e “indipendentisti”, ha probabilmente irrobustito nel resto del Paese la popolarità (tutt’altro che solida) di Rajoy, che può erigersi in questo modo a salvaguardia dell’unità dello Stato e della Costituzione democratica. Probabilmente, proprio puntando sulla “catalano-fobia” cresciuta negli ultimi anni in Spagna, Rajoy è riuscito ad arginare la crisi di consensi del Pp, dovuta anche ai numerosi scandali che hanno colpito il partito. E questo atteggiamento di chiusura ha favorito, a partire dal 2011, lo spostamento su posizioni fortemente critiche nei confronti degli autonomisti dello stesso Partito socialista (che anche per la sua contrarietà al referendum catalano non aveva trovato un accordo con Podemos per la formazione di un governo dopo le elezioni del dicembre 2015).

La logica dello scontro potrebbe rivelarsi alla fine difficile da gestire per entrambi i contendenti. Ma i margini di dialogo sembrano ormai davvero ridotti al minimo. Dopo il discorso del re Filippo e l’annuncio dell’imminente dichiarazione di indipendenza da parte di Puidgemont, lo scenario più probabile rimane l’intervento da parte di Madrid, con lo scioglimento del Parlamento della Generalitat, l’indizione di nuove elezioni e probabilmente l’arresto dei leader catalanisti.

Molti osservatori – tra cui lo stesso Puidgemont, ma anche il leader di Podemos Pablo Iglesias – hanno invocato nei giorni scorsi un ruolo di mediazione da parte dell’Unione europea. Non tanto perché l’Europa possa entrare in una questione che, evidentemente, rientra tra gli affari interni dello Stato spagnolo. Quanto perché probabilmente proprio questa strada rimane l’unica per attenuare lo scontro, per riportare i contendenti sul binario del dialogo, per evitare che, sull’onda della contrapposizione e della tensione emotiva di questi giorni, si giunga a decisioni irrevocabili. E forse anche per evitare il rischio che l’incertezza politica scateni il panico sulle piazze finanziarie del Vecchio continente. Ma è tutt’altro che scontato che l’Europa di oggi – lacerata da molte linee di divisione – trovi davvero la forza per rispondere a una crisi nata da due debolezze e per gestire uno stallo politico dalle conseguenze difficilmente prevedibili.


Damiano Palano

lunedì 2 ottobre 2017

Il mondo in disordine.Dieci incontri per leggere la politica globale. All'Università Cattolica di Brescia (da ottobre 2017)




Dopo più di un quarto di secolo dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, il mondo è ancora molto lontano da quel «nuovo ordine» che sembrava dovesse nascere dalle ceneri della Guerra fredda. Dopo il 2001 gli scenari di crisi non hanno anzi cessato di estendersi. La politica di potenza ha fatto nuovamente la propria comparsa nel Vecchio continente e persino le stabili alleanze ereditate dalla fine della Seconda Guerra Mondiale mostrano qualche segno di logoramento. Ma le linee di crisi si estendono soprattutto al di fuori dell’Occidente, alimentando guerre civili, diffondendo la logica del terrore e facendo riaffiorare addirittura l’incubo dell’olocausto nucleare. Tanto che, come ha ricordato in più occasioni Papa Francesco, sembra di assistere a una «guerra mondiale a pezzi». Come dobbiamo interpretare questi conflitti? Sono espressione dello «scontro delle civiltà» descritto oltre vent’anni fa da Samuel Huntington? Oppure sono la conseguenza dell’emergere di un sistema internazionale multipolare, nel quale si affacciano nuovi protagonisti? E quale futuro dobbiamo attenderci da un mondo in cui l’Occidente non occupa più il centro?

Sono questi alcuni degli interrogativi affrontati nel ciclo Un mondo in disordine. Dieci incontri per leggere la politica globale, che si svolgerà presso l’Università Cattolica di Brescia a partire dal prossimo mese di ottobre fino ad aprile 2018. Gli incontri – introdotti da Damiano Palano e Andrea Plebani – vedranno la partecipazione di autorevoli studiosi di differente orientamento disciplinare e saranno rivolti, oltre che agli studenti, anche a un pubblico interessato ad approfondire la conoscenza dei principali nodi della politica contemporanea.
Ad aprire il ciclo sarà, mercoledì 11 ottobre 2017, una lezione di Luigi Bonanate, pioniere in Italia degli studi di Relazioni Internazionali e noto soprattutto per le sue ricerche sulle trasformazioni del sistema globale e sui mutamenti della guerra. Ottant’anni dopo, discutendo con Antonello Calore (Università di Brescia) e Francesco Tedeschi (Università Cattolica), Bonanate tornerà al bombardamento di Guernica del 1937 e al grande dipinto dedicato a quella tragedia da Pablo Picasso per riflettere non solo sui rapporti tra arte e guerra, ma anche per riconoscere in quel passaggio cruciale l’anticipazione della guerra civile globale di oggi.
Nel secondo incontro, martedì 24 ottobre, Emidio Diodato, professore di Scienza politica presso l’Università per Stranieri di Perugia, rifletterà sull’«enigma» della politica estera italiana in un secolo e mezzo di storia unitaria. A discutere la lettura di Diodato, introdotta da Mario Taccolini (Università Cattolica), saranno Carlo Muzzi («Giornale di Brescia») e Damiano Palano (Università Cattolica)
Nel terzo incontro, martedì 31 ottobre, Gianluca Pastori e Mireno Berrettini, docenti della Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica, stileranno un bilancio provvisorio dell’amministrazione di Donald Trump, a un anno dall’elezione del nuovo presidente, nel tentativo di capire quali sono stati (e quali prevedibilmente saranno) i principali mutamenti nel ruolo internazionale degli Stati Uniti.
Nel quarto appuntamento, mercoledì 8 novembre, Corrado Stefanachi, politologo dell’Università degli Studi di Milano, discuterà con Andrea Locatelli (Università Cattolica) delle trasformazioni della geopolitica americana e, adottando una prospettiva di lungo periodo, si soffermerà soprattutto sul paradosso di una potenza all’apparenza «invulnerabile» eppure «insicura».
Nel quinto incontro, martedì 14 novembre, Raul Caruso (Università Cattolica) illustrerà i cardini di un’«economia della pace». In particolare Caruso, tra i principali esponenti italiani di una «scienza della pace», mostrerà quali sono le cause economiche che possono favorire i conflitti e indicherà anche una serie di proposte che – incidendo sul contesto in cui gli Stati e gli individui si trovano a operare – siano in grado di ridurre i conflitti e la corsa agli armamenti.
Nel sesto appuntamento del ciclo, mercoledì 22 novembre, Andrea Plebani (Università Cattolica) Paolo Maggiolini (Università Cattolica), Alessia Melcangi (Università di Firenze) e Alessandro Quarenghi (Università Cattolica), discuteranno delle relazioni tra nazionalismo e religione nel mondo contemporaneo. L’attenzione sarà in particolare rivolta al Medio Oriente, con l’obiettivo di chiarire quale ruolo gioca il nazionalismo in molti dei conflitti che negli ultimi anni hanno investito quella regione.
Il 29 novembre, in occasione del settimo incontro del ciclo, sarà la volta di Massimiliano Trentin (Università di Bologna), che discuterà insieme ad Andrea Plebani e Michele Brunelli (Università Cattolica) dell’organizzazione del cosiddetto «Stato islamico» in Medio Oriente, ma anche della minaccia che esso rappresenta per l’Europa.
Martedì 27 febbraio 2018, nell’ottava tappa del ciclo, Massimiliano Panarari, docente di Comunicazione politica alla Luiss di Roma ed editoralista di diverse testate, parlerà del ruolo della manipolazione nella politica novecentesca. Partendo da un suo libro recente e discutendo con Gabriele Colleoni («Giornale di Brescia»), tornerà al grande laboratorio della Prima guerra mondiale, per mostrare come proprio le necessità belliche abbiano fatto nascere la propaganda moderna, utilizzata in seguito dai regimi totalitari e dalla comunicazione politica contemporanea.
Nel nono appuntamento, martedì 20 marzo 2018, Enrico Fassi (Università Cattolica) ripercorrerà, insieme ad Andrea Plebani, i diversi tentativi dell’Unione europea di sviluppare una politica estera nel Mediterraneo e nelle regioni orientali. E, insieme ai successi, mostrerà come molte delle speranze nutrite negli anni Novanta del secolo scorso si siano infrante e richiedano dunque nuove soluzioni.
Nell’ultimo appuntamento, venerdì 20 aprile 2018, Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni Internazionali all’Università Cattolica, Direttore dell’Aseri (Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali) ed editorialista di «Panorama», «Sole 24 Ore» e «Avvenire», rifletterà sulle grandi sfide che investono oggi il sistema internazionale. Discutendo con Nicola Pasini (Università degli Studi di Milano), prenderà in esame tutte le e tendenze che indeboliscono le istituzioni internazionali sorte alla fine della Seconda Guerra Mondiale e che sembrano rendere sempre più difficile contenere le aspirazioni di vecchi e nuovi protagonisti.
  
   

Programma

Primo incontro
Mercoledì 11 ottobre 2017 - ore 15.00
Da Guernica alla guerra civile globale

Introduce Damiano Palano
Intervengono Luigi Bonanate (Università di Torino), Antonello Calore (Università degli Studi di Brescia) e Francesco Tedeschi (Università Cattolica)

A partire dal volume di L. Bonanate, La vittoria di Gernika, Aragno, 2017


Secondo incontro
Martedì 24 ottobre 2017 – ore 15.00
Qual è il posto dell’Italia?
L’enigma della politica estera italiana (ieri, oggi, domani)

Introduce Mario Taccolini
Intervengono Emidio Diodato (Università per Stranieri – Perugia), Carlo Muzzi («Giornale di Brescia») e Damiano Palano (Università Cattolica)

A partire dal volume di E. Diodato – F. Niglia, Italy in International Relations: The Foreign Policy Conundrum, Springer, 2017


Terzo incontro
Martedì 31 ottobre 2017 – ore 15.00
Effetto Trump? Gli Stati Uniti un anno dopo

Introduce Damiano Palano
Intervengono Gianluca Pastori (Università Cattolica) e Mireno Berrettini (Università Cattolica)

A partire dal volume di Massimo de Leonardis (a cura di), Effetto Trump? Gli Stati Uniti nel sistema internazionale fra continuità e mutamento, «Quaderni di Scienze Politiche», n. 12, 2017


Quarto incontro
Mercoledì 8 novembre 2017 – ore 15.00
L’impero fragile. Le trasformazioni della geopolitica americana

Introduce Damiano Palano
Intervengono Andrea Locatelli (Università Cattolica) e Corrado Stefanachi (Università degli Studi di Milano)

A partire dal volume di C. Stefanachi, America invulnerabile e insicura, Vita e Pensiero, 2017


Quinto incontro
Martedì 14 novembre 2017 – ore 15.00
Quale economia per la pace?

Introduce Damiano Palano
Interviene Raul Caruso (Università Cattolica)

A partire dal volume di R. Caruso, Economia della pace, Il Mulino, 2017


Sesto incontro
Mercoledì 22 novembre 2017 – ore 14.30
Nazionalismo e religione nel mondo contemporaneo

Introduce Andrea Plebani
Intervengono Paolo Maggiolini (Università Cattolica), Alessia Melcangi (Università degli Studi di Firenze) e Alessandro Quarenghi (Università Cattolica)

A partire dal volume di Paolo Maggiolini - Marco Demichelis (a cura di), The Struggle to Define a Nation. Rethinking Nationalism in the Contemporary Islamic World, Gorgias, 2017


Settimo incontro
Mercoledì 29 novembre 2017 – ore 14.30
L’ultimo califfato?

Introduce Andrea Plebani
Intervengono Massimiliano Trentin (Università di Bologna), Michele Brunelli (Università Cattolica)

A partire dal volume di Massimiliano Trentin (a cura di), L' ultimo califfato. L'organizzazione dello Stato islamico in Medio Oriente, Il Mulino, 2017


Ottavo incontro
Martedì 27 febbraio 2018 – ore 15.00
La guerra dell’informazione e il potere della manipolazione

Introduce Damiano Palano
Intervengono Massimiliano Panarari (Luiss – Roma) e Gabriele Colleoni («Giornale di Brescia»)

A partire dal volume di M. Panarari, Poteri e Informazione. Teorie della comunicazione e storia della manipolazione politica in Italia (1850-1930), Le Monnier, 2017.


Nono incontro
Martedì 20 marzo 2018 - ore 15.00
L’Europa e il mondo
L’Unione europea alla ricerca di una politica di vicinato

Introduce Damiano Palano
Intervengono Enrico Fassi (Università Cattolica), Andrea Plebani (Università Cattolica)


Decimo incontro
Venerdì 20 aprile 2017 – ore 15.00
La fine dell’ordine internazionale

Introduce Damiano Palano
Partecipano Vittorio Emanuele Parsi (Università Cattolica - Aseri) e Nicola Pasini (Università degli Studi di Milano)





domenica 1 ottobre 2017

Lo strano caso della rappresentanza. Il classico di Hanna Pitkin pubblicato da Rubbettino, con una prefazione di Alessandro Pizzorno



di Damiano Palano


Questa recensione al volume di Hanna Fenichel Pitkin, Il concetto di rappresentanza (Rubbettino), è uscita su "Avvenire" il 29 settembre 2017. 


Eletto al Parlamento nel collegio di Bristol il 3 novembre 1774, Edmund Burke tenne ai propri elettori un discorso destinato a essere ricordato come un momento di svolta nella storia della rappresentanza politica. «Esprimere un’opinione è diritto di tutti gli uomini», affermava Burke. Per questo un rappresentante avrebbe sempre dovuto tenere nel debito conto le opinioni dei concittadini. Ma avvertiva anche che «istruzioni e mandati» erano cose «sconosciute alle leggi di questa terra». In altre parole, il rappresentante non era in alcun modo vincolato a tutelare gli interessi dei suoi patrocinatori o del suo collegio. Il suo obiettivo doveva essere piuttosto l’interesse nazionale. Perché, come scriveva in un passaggio famoso, «il Parlamento non è un congresso di ambasciatori d’interessi diversi e l’un all’altro ostili», ma è «un’assemblea deliberativa di una unica Nazione, con un solo interesse, quello dell’intero». In quel modo Burke esplicitava il principio alla base del divieto di mandato imperativo, che sarebbe stato fissato in molte carte costituzionali, ma che sarebbe stato oggetto di ricorrenti contestazioni. Ed esplicitava anche un presupposto della nostra concezione della democrazia, che si basa infatti sull’idea che determinati organi istituzionali ‘rappresentino’ l’intera «nazione», e dunque che in Parlamento sieda – benché sia materialmente assente – il «popolo sovrano».
Le vie attraverso cui si giunse a questa concezione (specificamente moderna) sono state studiate da diverse prospettive. Ma un solido punto di riferimento è costituito senza dubbio dal Concetto di rappresentanza di Hanna Fenichel Pitkin, finalmente pubblicato da Rubbettino, con un’introduzione di Alessandro Pizzorno, a mezzo secolo dalla sua uscita negli Stati Uniti (pp. 393, euro 25.00). L’idea di fondo di Pitkin è che non sia possibile giungere a una definizione univoca della rappresentanza politica. In linea generale, scrive, «nella rappresentanza ciò che non è letteralmente presente è considerato presente in un senso non letterale». Ma il punto problematico è che le modalità con cui viene resa presente una cosa assente, oltre che gli stessi soggetti che la considerano tale, cambiano a seconda del contesto e degli utilizzi del concetto. Il fatto stesso che siano state date definizioni tanto diverse – per cui la rappresentanza è intesa come stare al posto di oppure agire per, ma anche come rappresentanza descrittiva e simbolica – non è inoltre il frutto di distorsioni ed errori, ma il segnale che ci sono divergenze sostanziali sul modo di concepirne il significato. Ed è allora indispensabile considerare l’idea della rappresentanza da varie angolature, esplorando il contesto nel quale viene modificata e ricostruendo le motivazioni che di volta inducono delle correzioni. 
Nel volume, insieme alla prefazione di Pizzorno, è inserito anche un testo in cui Pitkin, a molti anni distanza, tornando sulla sua vecchia ricerca, riconosce che la critica di Rousseau aveva colto un punto debole nel funzionamento della rappresentanza. «Nonostante ripetuti tentativi di democratizzare il sistema rappresentativo, il risultato prevalente», scrive, «è stato che la rappresentanza ha soppiantato la democrazia invece di porsi al suo servizio». «I nostri governanti si sono trasformati in un’élite autoreferenziale che governa – o, meglio, amministra – masse di persone passive o individualistiche», mentre «i rappresentanti non agiscono come agenti del popolo, ma semplicemente in sua vece». Non si tratta di una critica molto diversa da quella inalberata da quanti vedono nella classe politica solo una «casta» di parassiti. Ma Pitkin non ritiene che la soluzione consista nel sostituire una nuova democrazia diretta alla vecchia democrazia rappresentativa, o che alle elezioni debba essere preferito il sorteggio. Nel solco di Hannah Arendt ritiene piuttosto che la rappresentanza democratica sia possibile solo se poggia su una robusta rete di democrazia diretta a livello locale. Perché, come scrive, solo «partecipando attivamente alla vita locale, le persone imparano il vero significato della cittadinanza».


 Damiano Palano