giovedì 31 maggio 2018

Gianfranco Miglio sulle tracce della «Humana Respublica». Pubblicato dall'editore Nino Aragno un libro inedito






di Damiano Palano

Esce in questi giorni per i tipi di Nino Aragno, il volume di Gianfranco Miglio, Le origini e i primi sviluppi delle dottrine giuridiche internazionali pubbliche nell'età moderna (pp. 195, euro 20.00). Si tratta della tesi di laurea, finora inedita, discussa nel 1940 dall'allora giovane studioso all'Università Cattolica. Il testo è preceduto da una Presentazione di Lorenzo Ornaghi e da un'introduzione di Damiano Palano che ricostruisce gli inizi del percorso scientifico di Miglio e da cui è tratto il brano seguente. Questa anticipazione è apparsa su "Avvenire" mercoledì 30 maggio 2018. 


La mattina di sabato 15 giugno 1940, la prima pagina del «Corriere della Sera» salutava trionfalmente l’ingresso delle truppe tedesche a Parigi, titolando a caratteri cubitali: «La bandiera del Reich sventola sull’Eliseo e sulla Torre Eiffel». Poco più sotto, il quotidiano milanese non tralasciava di ricordare ai lettori le «vittoriose azioni aeree e navali italiane», e segnalava inoltre – indicando su una mappa dell’Europa e dell’Africa settentrionale i principali teatri del conflitto – come Le Havre e il Nord della Francia fossero ormai caduti sotto il pieno controllo tedesco. Solo cinque giorni prima, il 10 giugno, dichiarando dinanzi alla folla assiepata a Piazza Venezia che era scoccata l’ora delle «decisioni irrevocabili», Benito Mussolini aveva annunciato la dichiarazione di guerra a Francia e Regno Unito, e dunque l’ingresso dell’Italia nel Secondo conflitto mondiale, al fianco dell’alleato tedesco. […] In quella stessa mattina, così cupa per le sorti del Vecchio continente, il ventiduenne Gianfranco Miglio si recava nella sede di piazza Sant’Ambrogio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore per discutere la propria tesi di laurea in Giurisprudenza, dal titolo, piuttosto altisonante, Le origini e i primi sviluppi delle dottrine giuridiche internazionali pubbliche nell’età moderna. I documenti conservati presso l’Archivio dell’Università Cattolica […] non consentono di ricostruire né l’andamento della discussione, né in quali termini il relatore della tesi, Giorgio Balladore Pallieri, presentò il lavoro dello studente. Ma quasi certamente la commissione rimase favorevolmente impressionata dall’elaborato e dalla personalità del giovane Miglio, che in effetti ottenne il massimo dei voti (centodieci e lode), concludendo così nel modo migliore, oltre che nel più breve tempo possibile, il proprio percorso universitario.
Il programma delineato dal titolo della tesi, oltre che dall’indice del lavoro, annunciava un’ampia ricostruzione della genesi storica del diritto internazionale moderno, a partire dalla nascita e dai primi sviluppi dell’ordine giuridico della Christiana Respublica nell’alto Medioevo, fino alla formazione del moderno ordine interstatale, tra il XVI e il XVII secolo. Molto probabilmente gli sviluppi politici, il clima della mobilitazione generale e la prospettiva per Miglio – come per tutti i giovani della sua generazione – di essere chiamato a sostenere in prima persona lo sforzo bellico dovettero consigliare la chiusura anticipata del lavoro. Benché sviluppasse compiutamente la ricostruzione relativa alle dottrine medioevali, alla nascita e al consolidamento della Christiana Respublica, l’elaborato svolgeva infatti solo in parte il programma originario promesso dal titolo, fermandosi in realtà ben prima della soglia della modernità. Ciò nondimeno il giovane laureando non esitava a presentare alla commissione, insieme alla parte svolta, l’intero progetto, anteponendo all’elaborato – oltre a una suggestiva epigrafe groziana – un’Avvertenza diretta a chiarire come l’accelerazione degli eventi internazionali e l’ingresso in guerra dell’Italia avessero interrotto la stesura del testo. […]




Tornare a rileggere oggi quel testo – rimasto inedito per i quasi ottant’anni trascorsi dalla sua stesura – consente di ricostruire un tassello importante della formazione intellettuale di Gianfranco Miglio. Accostarsi nuovamente alla vecchia tesi di laurea dello studioso comasco appare infatti interessante innanzitutto perché contribuisce a chiarire quale fosse la sensibilità con cui lo studioso, sviluppando in modo originale le indicazioni del maestro Balladore Pallieri, puntava a indagare le trasformazioni delle dottrine giuridiche internazionalistiche nel passaggio dal Medioevo alla prima età moderna. Ma forse è meritevole di attenzione soprattutto perché di fatto quel testo, con l’indice dell’intero lavoro (e dunque anche della parte non svolta) e il prezioso catalogo di autori rilevanti per la storia delle dottrine internazionalistiche medievali, rappresenta – insieme al saggio sul Defensor pacis di Marsilio da Padova e al volume sulla controversia intorno ai limiti del «commercio neutrale» svoltasi tra Giovanni Maria Lampredi e Ferdinando Galiani, entrambi pubblicati nel 1942 – l’unica traccia rilevante del progetto Humana Respublica, cui il giovane Miglio attese per diversi anni e che fu poi abbandonato. Quel progetto si proponeva infatti di ricostruire le tappe storiche e i diversi tentativi di edificare un ordine giuridico internazionale in grado di limitare il ricorso alla guerra come strumento di risoluzione delle controversie. Dopo la fine del conflitto mondiale, probabilmente anche per il delinearsi del nuovo equilibrio delle Guerra fredda, Miglio però abbandonò la grande ricerca sulla Humana Respublica (per la quale aveva già accumulato una notevole mole di materiali) e accantonò anche gli interessi internazionalistici, che sarebbero tornati al centro delle sue ricerche solo quarant’anni dopo. La ricostruzione della genesi delle dottrine giuridiche della Christiana Respublica e l’esame delle trasformazioni della dottrina della «guerra giusta» svolti nella tesi di laurea rimangono così il documento forse più significativo di quella fase giovanile di riflessione. E la sua rilettura – che viene ad arricchire il panorama già disponibile degli scritti scientifici e politici dello studioso comasco – consente, se non proprio di gettare una nuova luce sul suo itinerario, comunque di interpretare in modo più compiuto la stessa logica di un percorso che nel corso dei decenni lo avrebbe condotto a interrogarsi sui caratteri specifici dell’esperienza politica occidentale, sulla struttura originaria del rapporto di «obbligazione politica» e sull’esistenza delle inflessibili «regolarità» dei fenomeni politici, prima di volgersi – a partire dagli anni Ottanta – al campo dell’«ingegneria costituzionale» e all’elaborazione di modelli istituzionali di impronta neo-federalista.

Damiano Palano

martedì 29 maggio 2018

Giulio Sapelli e il "dittatore" Monti nel lungo inverno europeo



di Damiano Palano

Indicato per alcune ore come possibile premier di un governo formato da M5s e Lega, Giulio Sapelli conduce da diversi anni una lettura critica della linea politica europea e del ruolo internazionale dell'Italia. Questa recensione, dedicata al suo libro "L'inverno di Monti", è apparsa sei anni fa, nel maggio 2012, sul sito dell'Istituto di Politica - Rivista di Politica online. 

Per motivi piuttosto comprensibili, nel corso del XX secolo il termine ‘dittatura’ ha smarrito, almeno nel linguaggio comune, il significato originario, ed è passato a indicare semplicemente un regime autoritario guidato da una personalità più o meno carismatica, in cui i cittadini sono privati delle libertà civili e dei diritti politici. È invece proprio al significato classico della ‘dittatura’ – e cioè alla magistratura riconosciuta e disciplinata all’interno dell’assetto costituzionale della repubblica romana, utilizzata in circostanze eccezionali, per la necessità di fronteggiare un nemico esterno, ma soprattutto per sedare le rivolte della plebe e i disordini interni – che ricorre Giulio Sapelli in un suo recente pamphlet per descrivere lo spirito del governo presieduto da Mario Monti, fortemente voluto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e sostenuto da una delle più ampie maggioranze della storia repubblicana italiana. In effetti, il governo di Monti – proprio come la dittatura romana – nasce dalla necessità ‘eccezionale’ di fronteggiare non le armi di un esercito nemico o sedizioni interne, bensì l’assedio dei mercati finanziari. Se sul ruolo effettivamente giocato dal governo ‘tecnico’ sarà possibile esprimere un giudizio solo nel momento in cui saranno chiari gli esiti di questa operazione, Sapelli, nel suo L’inverno di Monti. Il bisogno della politica (Guerini e Associati, pp. 73, euro 8.00), esprime invece una valutazione molto critica non tanto sull’esecutivo, quanto sulla filosofia che ne ha ispirato la formazione. In sostanza, Sapelli critica la convinzione del principale artefice del governo Monti, ossia del Presidente della Repubblica, che, ricercando una soluzione ‘tecnica’, avrebbe rinunciato a percorrere una strada realmente ‘politica’, l’unica in grado di offrire uno sbocco significativo alla situazione critica del Paese.
Al di là di una simile valutazione, l’analisi di Sapelli è estremamente interessante perché colloca l’attuale crisi politica ed economica italiana al culmine di una stagione che ha rotto con un tratto caratterizzante della storia unitaria del Paese. In effetti, la tesi alla base dell’intera lettura di Sapelli è che la storia d’Italia sia sempre stata «un intreccio di storia nazionale e internazionale» (p. 9): in altre parole, in tutti i momenti cruciali della storia italiana i destini del Paese non si decidono solo per effetto di dinamiche puramente interne, ma – come in occasione dell’unificazione, della presa di Roma, o del passaggio a un regime democratico dopo la Seconda guerra mondiale – sempre in una costitutiva interazione con quanto avviene al di fuori dei confini. Qualcosa di simile avviene naturalmente anche per la Germania, le cui sequenze storiche seguono per molti versi specularmente quelle italiane. Ma questo cammino parallelo si interrompe bruscamente con il 1989, perché da quel momento – scrive Sapelli - «la Germania ritrova la sua temuta centralità economica e trasforma l’unione monetaria europea in una vittoria pacifica sul continente» (p. 13). E perché, in quello stesso momento, l’Italia rompe l’intreccio tra nazione e internazionalizzazione che aveva contrassegnato il proprio cammino più che secolare.
A ben vedere, secondo Sapelli l’intreccio tra nazionale e internazionale non è mai stato particolarmente virtuoso sotto il profilo economico, e anzi è stato spesso ‘vizioso’, nel senso che spesso ha comportato attacchi alla posizione dell’Italia nella catena internazionale della divisione del lavoro, e dunque lo smantellamento di quelle attività che consegnavano potenzialmente all’Italia risorse competitive rilevanti. Sapelli si riferisce, per esempio, agli attacchi sferrati contro Adriano Olivetti dalla Fiat e da Mediobanca, o alla vicenda umana e politica di Enrico Mattei, oltre che al recente smantellamento della siderurgia a ciclo integrale e della chimica etilenica. Pur all’interno di questa costante connotazione ‘viziosa’ del rapporto fra ‘nazionale’ e ‘internazionale’, Sapelli intravede però una cesura netta nella storia repubblicana recente. «Il governo e il sistema emerso con Berlusconi alla metà degli anni Novanta del Novecento» - secondo Sapelli – ha infatti segnato «una profonda cesura con il nesso tra storia nazionale e storia internazionale», perché in questo caso «il versante nazionale ha prevalso su quello internazionale» (p. 21). Le cause di una simile inversione di rotta scaturivano sia dal contesto politico globale, e cioè dal disorientamento immediatamente successivo alla caduta dell’Urss, sia dalla consunzione del sistema dei partiti e di quella sorta di regime cleptocratico che fu la ‘Prima Repubblica’ degli anni Ottanta. Ma, insieme a questo, a innescare la rottura del nesso fra nazione e internazionalizzazione furono le caratteristiche di quel blocco sociale che si coagulò intorno a Forza Italia e al suo leader. «Si scontrava», scrive Sapelli, «il modello fondato sulla piccola impresa e sul lavoro in frantumi […] con il legame internazionale subalterno, non solo sul piano economico, maturato in lunghi decenni. Il mercato unico europeo mascherò tale a-sincronia, ma non poté farlo a lungo. Proprio il rapporto con la Germania non poteva che portare la differenza dei modelli di crescita a uno scontro irreversibile» (p. 25). Per quanto il legame fra nazione e internazionalizzazione continuasse a sopravvivere formalmente, garantito dal progetto dell’unificazione monetaria, in realtà sul versante politico si delineava una frattura profonda, che rifletteva d’altronde la specificità di un modello di crescita e di un blocco sociale che non poteva che risultare – nella propria stessa ossatura – strutturalmente ‘anti-tedesco’: «che cosa hanno a che fare gli attori economici che un tempo vivevano di svalutazioni competitive ora impossibili, con il sistema economico-sociale tedesco? Si tratta di piccole e piccolissime imprese (che sono un patrimonio meraviglioso di virtù del lavoro, di creatività, di amore per le persone che in forma dipendente in essa lavorano), di proliferazione di lavoro autonomi, ma anche di precarietà del lavoro, di lavoro nero, di aumento dei differenziali di crescita fra Nord e Sud, di espansione dell’illegalità mafiosa nonostante la lotta condotta da segmenti importantissimi dello stato contro di essa, di evasione fiscale» (p. 32). Contro questo blocco sociale doveva prendere forma un altrettanto magmatico blocco, formato da un numero esiguo di grandi attori economici internazionalizzati, e sorretto dal Pd, dalle formazioni centriste, e persino dai sindacati dei lavoratori, i quali proseguivano così una trasformazione già avviata negli anni Settanta, destinata a indebolire sempre più il legame con il mondo operaio. Ed è per tutti questi motivi così che veniva allora a rovesciarsi, secondo la lettura di Sapelli, la relazione fra classe operaia e ceti medi: in effetti, mentre quelli che lo storico definisce come «ceti medi parassitari» si spostavano politicamente verso il centro-sinistra, la classe operaia (e i gruppi legati alle attività produttive) si orientavano verso il polo «antipolitico». Ma la contrapposizione fra questi due blocchi sociali, alla base del sistema della ‘Seconda Repubblica’, doveva fatalmente essere travolta dalla crisi economica, la quale peraltro si limitava a portare al pettine tutti i nodi aggrovigliati di un ventennio. In particolare, la piccola impresa, uno dei vettori storici dello sviluppo economico italiano, in un quadro segnato dalla rigidità monetaria non risultava più in grado di produrre crescita. Mentre, al tempo stesso – e questo è un punto su cui Sapelli insiste con forza – lo Stato, l’unico attore in grado di offrire una spinta propulsiva all’economia – veniva privato di qualsiasi risorsa d’azione, per effetto di un’azione combinata di delegittimazione politica e di appropriazione delle risorse pubbliche condotta dalla classe politica. Come sintetizza Sapelli a questo proposito: «quella macro-rigidità si accompagna a un fanatismo istituzionale e ideologico liberistico, che impedisce a un nuovo capitalismo monopolistico di stato di costituirsi come vettore supplente e sussidiario a favore di quella debolezza prima evocata. Questa è stata la conseguenza più nefasta della cleptocrazia delle classi politiche e del loro neo-patrimonialismo: hanno distrutto lo stato amministrativo e ne hanno fatto lo stato dei partiti e l’hanno spogliato delle sue prerogative imprenditoriali, spoliazione in cui non a caso si è distinto più di tutti Romano Prodi e il suo blocco di potere: di quello stato, che un tempo era uno stato imprenditore e virtuoso, non è rimasto più nulla» (pp. 36-37). E benché i governi presieduti da Berlusconi cerchino di ricostruire un legame fra nazionale e internazionale, la politica italiana risulta fallimentare sotto questo profilo perché si mostra del tutto incapace di cogliere con realismo la partita in atto in Europa. Ciò risulta evidente – nella lettura di Sapelli – soprattutto nel rapporto con la Francia: se per riequilibrare il modello economico europeo centrato sulla fisionomia dell’economia tedesca l’Italia avrebbe dovuto cercare di costruire un asse con Parigi (e dunque concedere qualcosa, in termini di acquisizione di risorse italiane), in realtà si è proceduto nel senso opposto. E, così, si è rafforzata proprio la guida tedesca dell’Unione, fatale per la fragile struttura imprenditoriale italiana.
Il superamento di un simile stallo richiederebbe, per Savelli, una svolta radicale, sia sul piano interno, sia su quello internazionale. Innanzitutto, a livello europeo l’unico modo di uscire realmente dalla crisi consisterebbe nel passare da una politica deflattiva e una politica inflattiva, e dunque in una netta riduzione della rigidità monetaria. Ma ciò richiederebbe una complessiva ridefinizione anche degli equilibri politici interni, ed è invece su questo punto che il severo giudizio di Sapelli coinvolge la «dittatura» di Monti. «Il professor Monti», scrive Sapelli, «è la quintessenza della morte dell’ideologia. È il superamento della medesima nel mondo iper-uranico della foresta pietrificata delle idee, ma nel contempo è l’esponente del blocco poliarchico italico organicamente europeo» (p. 55). Inoltre, la «dittatura» di Monti riflette «una situazione di condizionamenti a cui è sottoposto il potere parlamentare da parte di un potere non parlamentare ma misto, tecnocratico-parlamentare» (p. 57). Il punto è però che questa dittatura non pare avere alcuna realistica possibilità di fronteggiare una situazione segnata dal progressivo allontanamento degli Usa dal teatro europeo, oltre dall’assenza di qualsiasi baricentro. «Tutto è instabile, tutto rischia di rovinarci addosso. E proprio in questa situazione il Presidente della Repubblica Italiana pensa di sortire da essa con una sorta di imitazione delle dittature romane» (p. 67). Invece di ricercare una soluzione ‘politica’, Napolitano ha imboccato la strada ‘tecnica’, e «la conseguenza di questo rifiuto della soluzione politica è stata non soltanto l’aumento della sofferenza sociale, ma l’emergere di una ‘crudeltà istituzionale’ sino a oggi inusitata» (p. 70).

È forse ancora troppo presto per giudicare l’operato del governo Monti, anche se è probabile che molte delle attese che l’opinione pubblica ha nutrito nei confronti di questo esecutivo finiranno con l’essere deluse, per il semplice fatto che si trattava di attese irrealistiche. D’altronde, il governo presieduto da Monti finirà con l’essere ricordato come una sorta di governo Badoglio: un governo in fondo privo delle possibilità di rovesciare una situazione irrimediabilmente compromessa, eppure in qualche misura indispensabile per salvare almeno un minimo della credibilità perduta dinanzi ai partner europei. In questo senso, le critiche indirizzate a Napolitano appaiono forse eccessive, non tanto perché il Presidente della Repubblica non abbia più di qualche responsabilità nell’aver indirizzato la soluzione della crisi politica (e forse anche nell’aver tardato a prendere atto dello stallo), quanto perché sarebbe stato realisticamente molto difficile riuscire a imboccare davvero la strada indicata da Sapelli con le forze politiche presenti oggi in Parlamento, senza pagare al tempo stesso il prezzo di una totale perdita di fiducia presso gli altri paesi dell’Unione. Ciò nondimeno, il quadro analitico delineato da Savelli appare largamente convincente, a dispetto della sua drammaticità, e forse sarebbe indispensabile partire proprio dagli elementi che segnala per ripensare al ventennio del ‘post-Tangentopoli’. Sarebbe infatti necessario prendere atto che proprio nel quadro definitosi nel passaggio fra il 1992 e il 1994 si sono gettate le basi del declino italiano, un declino che in quel momento non era scontato, ma che la combinazione di alcuni fattori ha reso in fondo inevitabile. In effetti, proprio le privatizzazioni della metà degli anni Novanta e la demolizione dell’amministrazione pubblica, condotte sotto il velo delle suggestive formule della ‘liberalizzazione’, della ‘semplificazione’, di un ‘federalismo’ (presunto), dell’efficienza meritocratica, si sono combinate con l’accettazione di un quadro europeo destinato a soffocare l’economia italiana, nella convinzione – ai limiti della criminale ingenuità – che per favorire la competitività del Paese fosse sufficiente trasformare intere generazioni di giovani in un esercito di precari a vita.

Probabilmente, il potere seduttivo della ‘tecnica’ – inevitabile contrappasso per un Paese che ha consegnato per decenni il proprio destino a professionisti del ‘dilettantismo politico’ – è ormai destinato a un rapido logoramento, i cui segni sono d’altronde già piuttosto visibili. E, in questo senso, è davvero difficile non riconoscere un fondamento all’invocazione della politica formulata da L’inverno di Monti, perché in effetti la «dittatura» dei ‘professori’ può soltanto rappresentare un rimedio a una crisi eccezionale, ma non può certo indicare la strada per un nuovo assetto costituzionale. Guardando all’odierno panorama italiano, è però difficile individuare anche soltanto i contorni di una possibile nuova costituzione materiale, che non rifletta la condizione magmatica della società italiana di oggi. Senza dubbio, assisteremo a quella ridefinizione dell’offerta politica che molti auspicano, e che segnerà la conclusione dell’ingloriosa parabola della ‘Seconda Repubblica’. Ma in una società ridotta a ‘mucillagine’, priva di qualsiasi fiducia e lontana da qualsiasi progettualità, è molto difficile capire ‘cosa’ e ‘chi’ davvero potranno rappresentare i nuovi partiti. E, soprattutto, è difficile anche solo immaginare quale nuovo soggetto possa avere la forza – sul piano interno, e su quello internazionale – per affrontare davvero la prospettiva di un declino che appare come sempre più irrimediabile.

Damiano Palano

martedì 22 maggio 2018

La fiducia distribuita non ha bisogno delle istituzioni? Un libro di Rachel Botsman



 Di Damiano Palano


Questa recensione al volume di Rachel Botsman, Di chi possiamo fidarci? Come la tecnologia ci ha uniti e perché potrebbe dividerci (Hoepli, pp. 328, euro 22.90), è apparsa su "Avvenire" il 19 maggio 2018.

Poco più di vent’anni fa il politologo americano Robert D. Putnam pubblicò un articolo dedicato ai mutamenti intervenuti nel modo in cui gli americani giocavano a bowling. All’inizio degli anni Novanta il numero delle persone che si dedicavano a questa disciplina risultava essere cresciuto rispetto al passato. Ma mentre negli anni Sessanta e Settanta si giocava a bowling all’interno di leghe sportive, nel corso del tempo era diventata un’attività individuale. Anche se il tema poteva apparire futile, per Putnam quella trasformazione era la spia di un processo ben più generale, che consisteva nel progressivo logoramento della tradizione civica propria della società americana. In altre parole, si stava sgretolando quella tradizione di civismo che Tocqueville aveva celebrato nell’Ottocento e che era alla base della partecipazione dei cittadini alla vita comunitaria. Le cause erano da individuare nel mutamento della composizione familiare e nell’aumento del tempo trascorso davanti alla tv, oltre che in altre dinamiche. Ma le conseguenze, ammoniva Putnam, erano allarmanti anche per lo stato della democrazia. Perché le istituzioni politiche possono funzionare in modo efficiente proprio in presenza di una solida base di civismo, e cioè quando esiste un solido capitale sociale di fiducia.

Le ipotesi di Putnam hanno aperto un dibattito sterminato. Qualcuno ha innanzitutto obiettato al politologo che non tutte le forme di capitale sociale risultano necessariamente benefiche per il rendimento delle istituzioni. Mentre altri si sono chiesti se i mutamenti tecnologici non possano anche contribuire a rigenerare il capitale sociale di fiducia ereditato dal passato. Ed è proprio questa l’idea sviluppata da Rachel Botsman nel suo libro Di chi possiamo fidarci? Come la tecnologia ci ha uniti e perché potrebbe dividerci (Hoepli, pp. 328, euro 22.90). Anche per Botsman – esperta delle conseguenze che le trasformazioni tecnologiche producono sull’economia – la fiducia è un ingrediente fondamentale per la buona riuscita di quasi ogni attività sociale ed economica. Come scrive, si tratta di una «relazione ottimistica con l’ignoto», ossia di quella molla che consente agli individui di avviare attività incerte, nella convinzione che avranno un esito positivo. Ma il punto è che la fonte da cui deriva la nostra fiducia nel corso del tempo si è modificata. Nel passato la fiducia era soprattutto locale, nasceva cioè dalla conoscenza diretta dei propri simili ed era perciò fatalmente legata alla piccola dimensione della comunità urbana. In seguito, con lo sviluppo dell’economia mercantile, è diventata istituzionale: prodotto cioè di grandi e autorevoli organizzazioni, capaci di svolgere un ruolo di intermediazione ma anche di garantire l’affidabilità dei singoli attori o il valore di una banconota. Oggi invece, proprio grazie alle tecnologie, la fiducia tende a essere distribuita. Non discende cioè dall’alto verso il basso, ma segue un percorso inverso. Se la crisi finanziaria globale ha sancito infatti l’esplosione della sfiducia nei confronti delle istituzioni finanziarie e politiche, sta gradualmente conquistando terreno la fiducia distribuita, in cui è l’interazione – e non un’autorità che sta al di sopra di tutti – a consolidare la reputazione e l’affidabilità di ciascun operatore. Naturalmente gli esempi che vengono considerati da Botsman sono eBay, BlaBlaCar o Airbnb, e cioè piattaforme che funzionano proprio perché sono riuscite a superare l’ostacolo della diffidenza verso gli estranei, non grazie alla creazione di un’autorità che regola le transazioni, ma mediante un meccanismo di reciproco controllo.

Senza dubbio il libro ha il merito di chiarire come funziona oggi la fiducia distribuita. Ma l’idea di un superamento dalla fiducia istituzionale – che Botsman d’altronde non sposa fino in fondo – rischia di essere fin troppo ingenua. Come ci mostrano le cronache, anche nel web esistono asimmetrie di potere sempre più evidenti. Le grandi piattaforme su cui si svolgono le nostre transazioni non sono luoghi ‘neutrali’, ma hanno proprietari che possono utilizzare le informazioni di cui dispongono tendenzialmente anche per modificare il comportamento degli utenti, senza però assumersi alcuna responsabilità. E non possiamo escludere che anche le piattaforme possano essere investite da ondate di sfiducia. Ciò significa dunque che le istituzioni – in primo luogo quelle politiche – avranno ancora un ruolo nell’ostacolare la concentrazione di potere digitale. Ma anche che avranno il compito di impedire che la fiducia distribuita rimanga vittima del proprio successo.


Damiano Palano

giovedì 17 maggio 2018

Call for papers Sisp 2018 - Due Panel: "Democrazia e ri-definizioni. La teoria politica e il «malessere» della teoria democratica" e "Grandi capi e pessimi leader. È possibile valutare la qualità della classe politica?"




Ancora per alcuni giorni (fino al 23 maggio) è possibile avanzare proposte di paper per il Convegno della Società Italiana di Scienza Politica che si terrà a Torino nel settembre 2018.

Possono inviare proposte sia gli iscritti sia i non iscritti alla Sisp. In ogni caso, è necessario utilizzare la piattaforma mysisp.

Si segnalano di seguito due panel, rispettivamente inseriti nella sezione Teoria politica e nella sezione "(Mal)governo e qualità della classe politica"



Panel 2.8 Democrazia e ri-definizioni. La teoria politica e il «malessere» della teoria democratica

Chair: Damiano Palano e Giulio De Ligio

La teoria politica e il «malessere» della teoria democratica Chair: Damiano Palano Nel corso del XX secolo le diagnosi intorno alla ‘crisi’, al ‘declino’ e alla ‘trasformazione’ della democrazia hanno rappresentato una sorta di vero e proprio genere della letteratura politica e politologica. Nelle diverse stagioni del «secolo breve» (e a seconda della specifica prospettiva d’osservazione), sono però notevolmente mutati i fattori dipinti come ‘cause’ principali della «crisi». Nell’ultimo quarto di secolo le voci che, con toni più o meno allarmati, hanno iniziato a segnalare una nuova «crisi» delle istituzioni democratiche si sono fatte comunque piuttosto insistenti. Proprio mentre il numero complessivo dei regimi democratici cresceva in modo significativo e mentre il principio democratico sembrava avere definitivamente sbaragliato i suoi storici avversari ideologici, molti osservatori – da prospettive anche molto diverse – hanno cominciato a intravedere nelle trasformazioni contemporanee i segnali di uno ‘svuotamento’ delle istituzioni democratiche. In termini fortemente polemici, Sheldon Wolin ha per esempio definito la democrazia americana come un «totalitarismo rovesciato», e Colin Crouch ha individuato la tendenza dei sistemi politici occidentali a spostarsi verso un assetto «post-democratico». Charles Tilly ha proposto l’idea di una tendenza alla «de-democratizzazione», mentre Peter Mair ha formulato l’ipotesi di una progressiva ‘depoliticizzazione’ delle democrazie occidentali (e in particolare di quelle dei paesi membri dell’Ue). Ma attorno al «malessere democratico» è cresciuto un dibattito sterminato, che è si interrogato soprattutto sul rischio che processi complessi – e in larga parte ‘strutturali’ – vadano obliterare le garanzie «procedurali» della democrazia, tanto da ‘svuotare’ la forma democratica di qualsiasi sostanza politica. Queste ipotesi suggeriscono cioè che gli elementi ‘minimi’ della democrazia competitiva – di solito individuati nel dibattito politologico, a partire da Schumpeter, Dahl, Sartori – non siano sufficienti a garantire la democraticità del sistema, impotenti a controllare gli autentici processi decisionali. In modo ancora più radicale, alcune voci sostengono invece che quegli stessi elementi di base siano addirittura sottoposti a un processo di lenta – ma non invisibile – erosione. In altre parole, tendono proprio a chiedersi se le «promesse non mantenute» della democrazia, di cui parlava Norberto Bobbio più di trent’anni fa, non siano divenute così tante, e così rilevanti, da aver del tutto snaturato i caratteri dei regimi occidentali contemporanei. Nella domanda che pone il dibattito si nasconde certo anche una vibrata polemica contro l’ennesimo ‘tradimento’ della democrazia, e cioè contro l’abbandono (più o meno consapevole) dei valori che alimentano l’aspirazione alla democrazia. Ma nel dibattito non difficile riconoscere anche un nodo più che intricato, che attiene direttamente alla stessa descrizione ‘realistica’ di quanto avviene all’interno di un regime democratico. Le voci che affollano il contemporaneo dibattito sulla «crisi» della democrazia svolgono infatti anche una critica che considera l’esistenza di una competizione fra élite politiche per la conquista del voto popolare come un criterio eccessivamente limitato per la definizione della democrazia. Al tempo stesso, pongono – seppur solo in filigrana – anche una domanda ulteriore, che viene a mettere in questione la stessa pretesa di «realismo» che, fin dalle origini, contrassegna la teoria competitiva della democrazia. Una domanda che, in sostanza, punta a chiedersi se la formazione di nuove élite transnazionali, la trasformazione dei partiti, lo sviluppo della comunicazione politica e l’insieme dei processi di globalizzazione non vengano a ‘svuotare’ le istituzioni democratiche postbelliche a tal punto da determinare una loro modificazione strutturale, capace di alterare la stessa struttura genetica del regime democratico e di condurre a qualcosa di diverso, a una condizione inedita di «postdemocrazia». Il panel intende inserirsi in questa discussione sul «malessere della democrazia» ponendo una domanda specifica, centrata non tanto sulla rilevazione empirica degli elementi che testimonierebbero la «crisi», quanto sulla stessa definizione teorica della «democrazia». La domanda di fondo è se la definizione ‘classica’ (o ‘neo-classica’) della «democrazia», elaborata nel corso del Novecento, non richieda di essere approfondita e aggiornata, per tenere conto di ulteriori elementi, ed eventualmente in quale direzione. L’obiettivo del panel è dunque quello di sollecitare contributi alla discussione sul «malessere» della teoria democratica. In particolare, sono sollecitati paper che si concentrino, anche problematicamente e criticamente, su questi aspetti: - la discussione teorica sulla «democrazia», i suoi fondamenti valoriali, i suoi elementi distintivi, le sue trasformazioni; - il dibattito teorico sulla «crisi della democrazia» e i suoi aspetti critici; - il dibattito teorico sui concetti di «postdemocrazia», «de-democratizzazione», «de-politicizzazione» delle istituzioni democratiche.  



Chair: Damiano Palano

Una cospicua letteratura ha da molti anni sottolineato come le tendenze legate ai fenomeni di “personalizzazione” e“presidenzializzazione” dei sistemi politici occidentali abbiano inciso anche sull’organizzazione interna dei partiti, rafforzando il ruolo dei leader e in generale degli organi direttivi rispetto alla base e all’organizzazione diffusa sul territorio. Pur con significative differenze, non potendo disporre di solide identificazioni e del riferimento a chiare coordinate ideologiche, i diversi partiti che calcano le scene delle nostre democrazie – siano essi riconducibili al “catch-all-party”, al “cartel party”, al “partito personale”, al partito “mediale” o ad altre formule – fanno d’altronde dell’immagine dei loro leader la principale risorsa simbolica e comunicativa. Al tempo stesso, le rilevazioni sulla percezione della classe politica testimoniano come, in pressoché tutte le democrazie occidentali, la fiducia nei confronti di chi occupa cariche politiche sia estremamente bassa e come il ceto politico sia considerato quasi invariabilmente come incapace, inadeguato e corrotto. Il paradosso per cui i nostri sistemi politici, pur nutrendosi del carisma di “grandi capi”, sono contrassegnati da una sfiducia pressoché generalizzata nei confronti di leader percepiti come “pessimi”, pone una questione teorica significativa, che riguarda la stessa possibilità di valutare la “qualità” della leadership politica? Per capire se davvero la percezione di avere di fronte una classe politica “mediocre” è fondata, sarebbe infatti necessario disporre di criteri per stabilire i meriti e i demeriti del personale politico. Si dovrebbero inoltre individuare specifiche aree operative e determinati obiettivi rispetto a cui valutare l’efficacia (o inefficacia) dell’azione del ceto politico. E, infine, si dovrebbe chiarire se la “qualità” della classe politica vada valutata sulla base dell’etica della “responsabilità” o della “convinzione”. Questo panel intende sollecitare contributi che ‘prendano sul serio’, dal punto di vista teorico o empirico, il problema della valutazione della classe politica, senza limitarsi a recepire il “senso comune” intorno allo scarso livello dell’attuale classe politica, ma, al tempo stesso, senza rinunciare all’obiettivo di “valutare” la sua “qualità”. Sono più in particolare sollecitati contributi che prendano in considerazione questi aspetti: - la possibilità di valutare la “qualità” della classe politica; - la relazione tra “qualità” della classe politica e organizzazione partitica; - la relazione tra “qualità” della classe politica e processo democratico; - l’influenza che i meccanismi di selezione hanno sul profilo della classe politica. 

La risorsa del gratuito contro le disparità globali. Un volume di Mario Giro




di Damiano Palano

Questa recensione del volume di Mario Giro La globalizzazione difficile. Ridisegnare la convivenza al tempo delle emozioni (Mondadori Università, pp. 154, euro 12.00), è apparsa su "Avvenire".

Nel 2005, in un libro che riscosse un certo successo, Thomas Friedman scrisse che il mondo nel ventunesimo secolo sarebbe diventato «piatto». La globalizzazione avrebbe cioè progressivamente ridotto le distanze (non solo geografiche) tra paesi poveri e paesi ricchi, mentre le nuove tecnologie avrebbero consentito di superare tutte le vecchie barriere culturali e temporali che dividevano le varie aree del pianeta. A poco più di dieci anni sappiamo che le cose sono quantomeno più complicate. Non ci sono dubbi sul fatto che le trasformazioni tecnologiche stiano davvero abbattendo le distanze. E probabilmente la globalizzazione economica è davvero un processo inarrestabile, nonostante i segnali di ‘chiusura’ degli ultimi tempi. Ma continua ad apparire davvero troppo ottimistica l’idea che l’«appiattimento» del mondo consenta di superare le barriere culturali (e politiche).
Forse si può trarre anche questa lezione dal volume di Mario Giro, La globalizzazione difficile. Ridisegnare la convivenza al tempo delle emozioni (Mondadori Università, pp. 154, euro 12.00). 
Esperto di Africa, Islam e mediazioni, Giro – che ha ricoperto l’incarico di viceministro degli Affari Esteri nel governo Gentiloni – riflette infatti sulle molte increspature che rendono il mondo unificato dalla tecnologia molto meno ‘piatto’ di quanto si confidava alcuni anni fa. Alcuni rilevanti segnali di crisi attraversano d’altronde anche le democrazie mature. Se il sistema occidentale dopo il 1989 ha avuto il sopravvento nei confronti dell’avversario sovietico, il nuovo ciclo – osserva l’autore – finisce paradossalmente col premiare l’Asia, e questa evoluzione imprevista innesca in Europa e Stati Uniti una spirale di sfiducia, depressione e paura. Non si tratta però di un’eccezione. La fine delle ideologie, delle grandi narrazioni e dei grandi progetti di trasformazione ci lascia in una condizione di «spaesamento», che spinge talvolta alla ricerca di un’«autenticità» inevitabilmente illusoria. Inoltre, secondo Giro – che sviluppa in questo senso alcune intuizioni del politologo Dominique Moïsi – la fine delle ideologie apre la strada all’avvento delle culture, delle identità e delle emozioni. In altre parole, la globalizzazione, se certo per un verso ‘appiattisce’ il mondo, dall’altro innesca reazioni, che si alimentano – ben più che a ideologie chiaramente definite – a emozioni, destinate a tradursi in atteggiamenti politici. Tra cui ovviamente soprattutto la paura, che diventa cultura del disprezzo nei confronti dell’altro e che in Europa si concentra prevalentemente sugli «stranieri», anche se – a ben vedere – è «straniero» tutto quello che sembra minacciare il nostro stile di vita. Un altro aspetto della reazione emotiva alla globalizzazione è il «presentismo», il ripiegamento verso tutto ciò che è legato a un presente rassicurante. Ma il presentismo implica anche il rifiuto della politica, dei suoi tempi e delle sue modalità di mediazione. E intrecciandosi con l’aumento delle diseguaglianze economiche, non può che andare a indebolire la democrazia e a depotenziarne la stessa idea proprio nel cuore dell’Occidente.

Anche se è molto lontano dalle raffigurazioni ottimistiche della globalizzazione che si moltiplicavano alcuni anni fa, il discorso di Giro non è pessimista. Pur attraversando con realismo le increspature del mondo globalizzato, rifiuta infatti decisamente le seduzioni del declinismo. Individua anzi un percorso possibile, rivolto principalmente verso la gratuità. «In una società dove tutto si scambia, si monetizza, si banalizza, niente alla fine sembra veramente importante». Mentre è proprio la gratuità a rappresentare un antidoto. Perché solo «il gratuito, ciò che è inutile all’apparenza, che è inammissibile, può condurre ad una reazione, una contraddizione». Ovviamente la gratuità non è qualcosa che, pur ‘calcolato’, non viene fatto pagare. È piuttosto «un dono che non si calcola», che si sottrae cioè a qualsiasi logica utilitarista. E nella «globalizzazione difficile», secondo Giro, proprio lo spazio del ‘gratuito’ – uno spazio che ovviamente le istituzioni non possono né creare né alimentare – rappresenta un’enorme risorsa. Capace anche di rispondere alla richiesta generale di legami di un mondo spaesato e solo all’apparenza sempre più ‘piatto’.

Damiano Palano

martedì 15 maggio 2018

Sulla destra di una volta. Un articolo di Claudio Giunta a partire dal "Destra" a cura di Corrado Fumagalli e Spartaco Puttini



di Claudio Giunta

Questo pezzo è apparso sul "Domenicale" del "Sole 24 Ore" il 22 aprile 2018 ed è ora disponibile sul blog di Claudio Giunta.

La Fondazione Feltrinelli raccoglie in questo volume [Destra], curato e introdotto da David Bidussa, sette saggi sui movimenti e i partiti di destra in Italia. Il saggio d’apertura di Marco Tarchi riflette sulla pertinenza, nel panorama politico attuale, della dicotomia destra/sinistra, e sull’eterogeneità dei gruppi politici che si raccolgono nell’area chiamata ‘destra’. Il saggio di Piero Ignazi fa la storia della trasformazione del principale partito di destra nel corso del secondo Novecento, dal MSI ad Alleanza Nazionale quindi, negli anni Zero, all’alleanza-dissoluzione nel Popolo della libertà di Berlusconi. Quelli di Andrea Mammone e di Pietro Castelli Gattinara sono dedicati alle nuove organizzazioni di destra nate o consolidatesi in seguito alla svolta di Fiuggi (Forza Nuova, Casa Pound, Movimento sociale fiamma tricolore); quello di Manuela Caiani riferisce della propaganda dei movimenti di estrema destra in internet; quello di Damiano Palano riflette sulla nozione di populismo; quello di Corrado Fumagalli, infine, pone e risolve un interrogativo ben preciso, se sia o meno opportuno ammettere nel dibattito anche «il discorso di incitamento all’odio», cioè permettere – da liberali conseguenti – che anche gli odiatori parlino: alla radio, in TV, sui giornali, nelle piazze (la conclusione, pur dubitosa, è che bisogna «lasciare i razzisti liberi di esprimersi […], perché restrizioni e limitazioni non fanno che nascondere l’odio»: conclusione che sembra implicitamente rivolgersi anche a chi, nei mesi scorsi, voleva non solo zittire ma «mettere fuori legge», tout court, un movimento a cui era stato concesso di portare propri candidati alle elezioni).

Materiali molto eterogenei, come si vede, ed è un bene che sia così perché, illuminato da prospettive diverse, l’oggetto – le idee e la prassi della destra – si comprende meglio: Destra è un libro utile anche per il lettore che non sia politologo di professione. Ma la disparità di prospettive è anche disparità di linguaggio e di tono, e qui si genera forse qualche stridore: tra, per esempio, l’approccio scientificamente oggettivo di Tarchi o di Ignazi, e quello invece fortemente valutativo, schierato, anzi addirittura indignato di altri contributori. Esempi: «Si e assistito, negli ultimi decenni, a un processo di rimozione collettiva della realtà fascismo e antifascismo. In altri termini, il paese ha vissuto una sorta di ‘revisione giornaliera del passato’ […]. Un paese il quale, nonostante abbia inventato la parola fascismo dopo la prima guerra mondiale e conosciuto il primo regime di destra, non sia fondamentalmente in grado di fare i conti con il suo passato autoritario e xenofobo accettando partiti che si richiamano a quell’esperienza storica o non condannano la figura di Benito Mussolini». Dell’indignazione si fa sempre volentieri a meno, tanto più in sede scientifica (e del resto sarà lecito affacciare l’ipotesi opposta, e cioè che in questi anni non si sia fatto altro che speculare molto vacuamente su ‘fascismo e antifascismo’, a un buon secolo di distanza dalla nascita di quell’antinomia: «Dopo esserci liberati del fascismo, noi dobbiamo ora cercare di superare anche l’antifascismo» – questo è Ignazio Silone, ottobre 1945).

Il libro esce adesso, ma i contributi sono stati scritti nei mesi scorsi, perciò al lettore resta la domanda intorno a come le categorie impiegate dai contributori reggano a questi mesi di campagna elettorale, e al terremoto del 4 marzo. Per esempio: «In generale si può forse distinguere […] un populismo di destra – contrassegnato dalla delegittimazione dei partiti, dalla mobilitazione nei confronti degli immigrati, nella resistenza delle comunità locali contro il processo di unificazione europea e contro gli effetti della globalizzazione – da un populismo di sinistra, che invece si concentra sulla contrapposizione contro le élite economico-finanziarie».

È davvero una distinzione plausibile? Non sono ormai caratteristiche ampiamente trasversali? Non è, la diffidenza nei confronti delle élite (tutte le élite, non solo economiche ma anche culturali), un tratto condiviso dal populismo che si origina a destra? E non è, la difesa delle piccole patrie e il rifiuto della globalizzazione, un tratto peculiare anche del populismo che si origina a sinistra? «Chi l’ha detto che essere di sinistra significa essere per l’immigrazione? Essere di sinistra vorrebbe dire, Marx e Gramsci docunt, essere dalla parte dei lavoratori» (Diego Fusaro a L’aria che tira, 17.3.2018, col bel latino dei diplomati al liceo classico). E, populismo a parte, è la stessa distinzione tra destra e sinistra che scolora e si perde a mano a mano che le grandi opzioni ideologiche lasciano spazio alla politica politicienne (quella per cui, per esempio, è indifferente allearsi con il PD o con la Lega, ciò che conta è prendere il potere). Tarchi discute le polarità argomentate da Bobbio (tra eguaglianza e ineguaglianza), da Laponce (tra immanente e sacrale), da Cofrancesco (tra emancipazione e tradizione), ma al termine di questa rassegna conclude: «Quel che ci pare certo e che, nelle attuali condizioni, la costruzione di un paradigma puro che sappia polarizzare grandi antitesi costitutive di destra e sinistra rischia di essere un interessante ma astratto esercizio di erudizione intellettuale, che poco ha a che vedere con le dinamiche che attraversano la realtà». I concetti sono vischiosi, così è probabile che questo esercizio di erudizione intellettuale – o di narcisismo – continuerà a lungo, non foss’altro perché è un buon modo per assecondare il nostro congenito settarismo, risparmiandoci la fatica di pensare e di fare delle distinzioni. Forse la polarità davvero significativa, nei prossimi anni, sarà quella tra amici o nemici della società aperta, o meglio ancora quella – culturale prima che politica – tra liberali e antiliberali. In Italia, a occhio e croce, forse il trenta percento contro il settanta, forse meno.


Destra, a cura di Corrado Fumagalli e Spartaco Puttini, introduzione di David Bidussa, Milano, Fondazione Feltrinelli.

Pensare l'Europa: democrazia e federalismo. Una discussione con Paolo Bellini, Giangiacomo Valle e Damiano Palano alla "Festa della Filosofia" 2018 di Alboversorio - Alla Società Umanitaria di Milano, mercoledì 16 maggio



mercoledì 16 maggio, h 18:00 
Società Umanitaria, Via S. Barnaba 48, MILANO


Paolo Bellini
Damiano Palano e 
Giangiacomo Vale

Pensare l’Europa: democrazia e federalismo”




Da Domenica 22 Aprile a Domenica 17 Giugno 2018 - dalle ore 18:00
Provincia di Milano

La Festa della Filosofia
IX Edizione – 2018
Pensare il Potere 

La Rassegna

Saranno coinvolti i Comuni di Arese, Baranzate, Bovisio Masciago, Cesano Maderno, Cesate, Lainate, Milano, Rho, Senago, Solaro, e le Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Vita-Salute San Raffaele di Milano e dell’Insubria di Varese-Como, e la Società Umanitaria di Milano.
Tutte le conferenze sono a ingresso libero.
 
Il Tema
Dopo il grande successo della scorsa edizione, dedicata al tema “Paure e speranze dell’Occidente”, la rassegna prosegue con l’affrontare alcuni dei temi più pregnanti della filosofia politica.
“Pensare il potere”, titolo scelto dagli organizzatori per l’ampio richiamo e per le diverse possibilità di indagine che si profilano all’interno di un così ampio e attuale dibattito, sarà il filo conduttore delle singole conferenze, che saranno volte ad indagare, grazie all’intervento di alcuni dei più importanti filosofi italiani contemporanei e docenti universitari di alto livello, le varie sfaccettature indissolubilmente legate al concetto di potere. L’attualità di temi quale lalegittimazione del potere, la sovranità, la democrazia, il confronto tra Oriente e Occidente è alla base della scelta del titolo “Pensare il potere”, con l’intento di offrire spazi di dibattito eapprofondimento culturale alla cittadinanza. Oltre ai filosofi già coinvolti nel corso delle edizioni precedenti (Umberto Galimberti, Vito Mancuso, Massimo Donà e Stefano Zecchi) interverranno quest’anno personaggi di grande rilievo nel dibattito della filosofia politica italiana, tra cui: Sandro Chignola sul rapporto tra biopotere e biopolitica (Cesate, 13 maggio, h 18:00 c/o Biblioteca);  Antimo Cesaro, Sebastiano Maffettone e Paolo Bellini sul rapporto tra potere, democrazia e tolleranza (Rho, 18 maggio, h 20:45 c/o CentRho), etc.
La chiusura della rassegna sarà affidata all’Imam Pallavicini in dialogo con il giornalista Armando Torno sul tema “Ripensare il potere: Oriente e Occidente” (Cesano Maderno, 17 giugno).

I Relatori
Gli incontri culturali, che negli anni precedenti hanno registrato un’affluenza media di 13.000 presenze annue, saranno affidati a filosofi e personalità di spicco della cultura italiana quali:Paolo Bellini; Paola Biavaschi; Claudio Bonvecchio; Massimo Cacciari; Antimo Cesaro; Sandro Chignola; Mario Conetti; Marco Cuzzi; Pierre Dalla Vigna; Luca Daris; Massimo Donà; Giulio Facchetti; Umberto Galimberti; Giorgio Galli; Gianmarco Gaspari; Giuseppe Girgenti; Sebastiano Maffettone; Vito Mancuso; Massimo Marassi; Roberto Mordacci; Damiano Palano; Yahya Sergio Yahe Pallavicini; Gianfranco Pellegrino; Quirino Principe; Roberta Sala; Armando Savignano; Fabrizio Sciacca; Erasmo Silvio Storace; Armando Torno; Giangiacomo Vale; Alessandra Vicentini; Stefano Zecchi.

Gli incontri alla Società Umanitaria di Milano
A partire da quest’anno la Festa della Filosofia avrà in programma alcune conferenze presso la Società Umanitaria, fortemente volute dagli organizzatori e rese possibili grazie alla preziosa collaborazione del Professor Claudio Bonvecchio, Vicepresidente della Società Umanitaria (nonché già membro del comitato scientifico della Festa della Filosofia). In linea con la sua “opera per l’elevazione intellettuale e  morale dei cittadini”, l’Umanitaria declinerà il tema del potere dando spazio a tre incontri dedicati ad alcuni dei temi più pregnanti della contemporaneità attraverso tre incontri: “Il Potere della Poesia” con Quirino Principe; “Pensare l’Europa: democrazia e federalismo” con Paolo Bellini, Damiano Palano e Giangiacomo Vale; “Potere e decadenza dell’Occidente” con Marco Cuzzi e Armando Torno.

Le Giornate della Filosofia a Cesano Maderno
La rassegna si concluderà con “Le giornate della Filosofia di Cesano Maderno” (16-17 giugno), iniziativa voluta dal Professor Massimo Cacciari e che si svolge all’interno della cornice del Centro Culturale Europeo presso il Palazzo Arese Borromeo di Cesano Maderno con ilpatrocinio dell’Università Vita-Salute San Raffaele.

Il concerto
Nella giornata di domenica 13 maggio (presso la Biblioteca di Cesate, ore 18), l’intervento filosofico di Sandro Chignola sarà accompagnato da un concerto di pianoforte del maestro Luis Aguirre Zerega, che eseguirà due Sonate di W.A. Mozart.

I Patrocini
La Festa della Filosofia è organizzata da AlboVersorio con il patrocinio di: Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Università degli Studi dell’Insubria di Varese e Como, Università Vita-Salute San Raffaele, Società Umanitaria di Milano, e con la collaborazione dei Comuni aderenti.

Il Programma completo de La Festa della Filosofia
www.festadellafilosofia.it

Anteprima, con Giorgio Galli
“Il potere delle multinazionali”
domenica 22 aprile, h 18:00 - Villa Sioli, Via S. Bernardo 7, SENAGO

Apertura, con Quirino Principe (introduce: Claudio Bonvecchio)
“Il potere della poesia: sull’enigma del tempo oltre il tempo”
mercoledì 2 maggio, h 18:00 - Società Umanitaria, Via S. Barnaba 48, MILANO
 
Stefano Zecchi
“Il potere dell’arte”
sabato 5 maggio, h 17:30 - Auditorium L’Ariston, L.go Vittorio Veneto 17/21, LAINATE
 
Pierre Dalla Vigna e Luca Daris
“Il potere della rivoluzione”
domenica 6 maggio, h 18:00 - Biblioteca Comunale, Via Piave 5, CESATE
 
Giulio Facchetti e Massimo Marassi
“Il potere delle parole”
sabato 12 maggio, h 18:00 - CentRho, Piazza S. Vittore 22, RHO
 
Sandro Chignola
“Biopotere e biopolitica”
domenica 13 maggio, h 18:00 - Biblioteca Comunale, Via Piave 5, CESATE
A seguire: concerto di pianoforte con il Maestro Luis Aguirre Zerega (musiche di W.A. Mozart)
 
Paolo Bellini, Damiano Palano e Giangiacomo Vale
“Pensare l’Europa: democrazia e federalismo”
mercoledì 16 maggio, h 18:00 - Società Umanitaria, Via S. Barnaba 48, MILANO
 
Antimo Cesaro e Sebastiano Maffettone (modera: Paolo Bellini)
“Potere, democrazia e tolleranza”
venerdì18 maggio, h 20:45 - CentRho, Piazza S. Vittore 22, RHO
 
Vito Mancuso
“Il potere di pensare”
sabato 19 maggio, h 17:00 - Palamedia, via Tolmino 40, BOVISIO MASCIAGO
 
Massimo Donà
“Il potere e i suoi paradossi”
domenica 20 maggio, h 18:00 - Sala Polivalente del Centro Civico, via Monviso 7, ARESE
 
Claudio Bonvecchio e Mario Conetti
“Il potere della magia e dell’esoterismo”
domenica 27 maggio, h 18:00 - Villa Sioli, Via S. Bernardo 7, SENAGO
 
Marco Cuzzi e Armando Torno (modera: Claudio Bonvecchio)
“Potere e decadenza dell’Occidente”
mercoledì 30 maggio, h 18:00 - Società Umanitaria, Via S. Barnaba 48, MILANO
 
Gianmarco Gaspari e Alessandra Vicentini
“Il potere del gioco, della fiaba e della letteratura”
venerdì 8 giugno, h 20:45 - Anfiteatro, P.zza Falcone, BARANZATE
 
Umberto Galimberti
“Il potere dell’inconscio”
sabato 9 giugno, h 17:30 - Auditorium L’Ariston, L.go Vittorio Veneto 17/21, LAINATE
 
Paolo Bellini e Gianfranco Pellegrino
“Comunicazione, potere e nuove tecnologie”
domenica 10 giugno, h 18:00 - Villa Kewenhüller Borromeo d’Adda, via Mazzini 60, SOLARO
 
Tavola rotonda, con Paolo Bellini, Roberta Sala, Fabrizio Sciacca ed Erasmo Silvio Storace
“Potere e linguaggi della politica“
sabato 16 giugno, h 18:00 - Sala Aurora, Via Borromeo 41, CESANO MADERNO
 
Massimo Cacciari e Armando Savignano
“Potere e utopie: Don Chisciotte e la filosofia contemporanea”
sabato 16 giugno, h 21:00 - Auditorium Paolo e Davide Disarò, Corso della Libertà, CESANO MADERNO

Tavola rotonda, con Paola Biavaschi, Giuseppe Girgenti e Roberto Mordacci
“Migrazioni e scontro di civiltà”
domenica 17 giugno, h 18:00 - Sala Aurora, Via Borromeo 41, CESANO MADERNO
 
Yahya Sergio Yahe Pallavicini e Armando Torno
“Ripensare il potere: Oriente e Occidente”
domenica 17 giugno, h 21:00 - Auditorium Paolo e Davide Disarò, Corso della Libertà, CESANO MADERNO

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tel.: 0239525370

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