giovedì 26 maggio 2011

Il romanzo della Milano criminale. A proposito di un libro di Paolo Roversi



di Damiano Palano

Nella declinazione italiana del noir, la dimensione prevalente – e per molti versi caratterizzante – è quella ‘provinciale’, ma non nel significato spregiativo che questo termine può assumere. Il noir italiano, nelle sue migliori (e forse paradigmatiche) espressioni, è infatti centrato sulle atmosfere e sui personaggi della ‘provincia’, o comunque su centri che sono chiaramente connotati, ed è caratterizzato dall’uso dei dialetti o da determinati luoghi che fanno da sfondo – non puramente occasionale – alle vicende. Non è solo il caso di Sciascia o di Camilleri, ma anche quello di Fruttero & Lucentini, o, per risalire fino ai rami più nobili del giallo italiano, al Pasticciaccio di Gadda, in cui l’uso dei dialetti diventa ben più che una semplice scelta stilistica. In questo contesto, Milano tende invece a essere qualcosa di diverso, e proprio per questo viene a occupare nella storia del noir italiano un ruolo ben preciso. Senza dubbio, la Milano che fa da scenario ai romanzi di Renato Olivieri è, in gran parte, una Milano ‘provinciale’, una Milano ritratta ‘alla maniera’ di Simenon, i cui luoghi ricordano spesso la Parigi malinconica di Maigret. Ma, in generale, Milano ha rappresentato per il noir italiano qualcosa di diverso. Milano ha raffigurato infatti non la ‘provincia’, bensì l’espressione paradigmatica della ‘metropoli’: la versione italiana della giungla d’asfalto in cui si muovono balordi, criminali, prostitute, spacciatori, in cui non esistono più le regole morali della vecchia malavita e in cui i legami con la città e con la sua tradizione sono di fatto persi, recisi dall’immigrazione e dalla trasformazione urbana. 
Tra i primi a cogliere questa trasformazione fu, come si sa, Giorgio Scerbanenco, che nei romanzi e nei racconti scritti nella seconda metà degli anni Sessanta, seppe scorgere tutte le potenzialità narrative del nuovo milieu metropolitano. Ma, se si presta fede a un resoconto forse non troppo affidabile, pare che Scerbanenco avesse improvvisamente intuito cosa poteva offrire il capoluogo lombardo alla letteratura di genere non leggendo le pagine della cronaca nera, ma in una sala cinematografica, davanti ai fotogrammi di Banditi a Milano. Tramutando la cronaca in narrazione, il film di Carlo Lizzani, basato sulla vicenda della cosiddetta banda Cavallero, mostrava che in fondo la Milano di fine anni Sessanta non era poi troppo diversa dalla Chicago di Al Capone, o che, quantomeno, i tempi dei ladri di polli erano finiti da un pezzo. Negli ultimi anni di vita, con i quattro romanzi della serie dedicata all’ex medico Duca Lamberti, interrotta prematuramente nel 1969, Scerbanenco, oltre a fissare alcuni dei cardini del noir italiano, ritraeva una Milano divenuta improvvisamente centro di una criminalità nuova, completamente diversa da quella del passato. Era lo stesso Duca Lamberti a chiarire la portata di questo passaggio, quando in Traditori di tutti diceva: «C’è qualcuno che non ha ancora capito che Milano è una grande città… Non hanno ancora capito il cambio di dimensioni, qualcuno continua a parlare di Milano come se finisse a Porta Venezia, o come se la gente non facesse altro che mangiare panettoni e pan meino. Se uno dice Marsiglia, Chicago, Parigi, quelle sì che sono metropoli, con tanti delinquenti dentro, ma Milano no, a qualche stupido non dà la sensazione della grande città, cercano ancora quello che chiamano il colore locale, la brasera, la pesa e magari il gamba de legn. Si dimenticano che una città vicina ai due milioni di abitanti ha un tono internazionale, non locale, in una città grande come Milano arrivano sporcaccioni da tutte le parti del mondo, e pazzi, alcolizzati o semplicemente disperati che si fanno affittare una rivoltella, rubano una macchina e saltano sul bancone di una banca gridando: Stendetevi tutti per terra, come hanno sentito che si deve fare».
I romanzi di Scerbanenco non riuscirono a creare un vero e proprio genere, e il noir italiano sarebbe diventato un genere di successo molto più tardi. Ma tra i primi lettori di Scerbanenco ci furono senz’altro registi straordinari, come Duccio Tessari e soprattutto Fernando Di Leo, che introdusse nel cinema di genere italiano un modo particolare di intendere il noir, oltre che un modo particolare di guardare a Milano. Senza dubbio, Di Leo ha impresso un’orma profonda nel cinema popolare italiano, collaborando per esempio alla sceneggiatura di classici dello ‘spaghetti western’, come Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più o Una pistola per Ringo. Ma Di Leo, come regista, ha soprattutto inciso sul nuovo modo di intendere il cinema noir, influenzando non solo i film degli anni Settanta o il cinema di Quentin Tarantino, ma anche le nuove generazioni di scrittori degli anni Ottanta e Novanta. Di Leo fu infatti tra i primi a comprendere come anche in Italia fosse finalmente possibile avviare una produzione noir capace di riflettere, in presa diretta, i mutamenti, rileggendo così in chiave originale i modelli narrativi che arrivavano dagli Stati Uniti. Anche per Di Leo, Scerbanenco rimase una fonte di ispirazione fondamentale. E, sicuramente, tra i film tratti da romanzi e racconti del grande scrittore di origine ucraina, quelli firmati da Di Leo sono i più originali e riusciti. I ragazzi del massacro (1969) restituisce il mondo di Scerbanenco molto di più quanto non facciano gli altri film ispirati al ciclo del medico-investigatore Duca Lamberti, come La morte risale a ieri sera (1970) di Duccio Tessari, un film noto anche con il titolo I milanesi ammazzano al sabato, e Il caso «Venere privata» (1969) di Yves Boisset. Ma non certo perché sia più fedele al testo: in realtà il film di Di Leo si discosta in diversi punti dal romanzo. Si tratta piuttosto di una vicinanza ‘stilistica’, della capacità di rendere, anche in modo crudo, il mondo della criminalità milanese. E tutto questo è ancora più evidente in Milano calibro 9, dove Scerbanenco offre solo una suggestione, perché, a ben vedere, il film di Di Leo – forse il suo film più famoso e originale – riprende solo molto marginalmente alcuni racconti del volume omonimo.
Da un certo punto di vista, Milano calibro 9 avvia la stagione del ‘poliziottesco’, perché precede, seppur di poco, film come La polizia incrimina… la legge assolve di Enzo G. Castellari e La polizia ringrazia di Steno. Ma, senza dubbio, sono proprio i film di Fernando Di Leo – in particolare, I ragazzi del massacroMilano calibro 9 e La mala ordina – a fissare una certa idea di Milano, come capitale di una nuova malavita, in cui emerge il ‘lato oscuro’ del boom, della crescita economica, del passaggio dall’Italia rurale a quella industriale e consumista. Proprio quell’idea di Milano che sarebbe stata uno degli ingredienti del successo del cinema poliziesco italiano. Un successo arricchito in seguito dai film ‘milanesi’ di Umberto Lenzi, come Milano rovente e il classico Milano odia: la polizia non può sparare, di Sergio Martino, come Milano trema: la polizia chiede giustizia e Morte sospetta di una minorenne, oltre che da molti altri titoli, in cui sovente la trama specificamente poliziesca andava a tingersi di colori politici. Ma un aspetto quantomeno singolare è che quei film non si limitavano a ‘registrare’ una trasformazione, a dare una veste artistica – forse distorta – a un mutamento che avveniva ‘dentro’ la società italiana. In qualche misura, infatti, quella cinematografia retroagiva sulla percezione della società. Non solo perché alcuni di quei film – ma non certo tutti, e neppure la maggior parte – propalassero una paura più o meno ingiustificata, strizzando l’occhio a giustizieri connotati politicamente. Bensì perché quei film, che adattavano scenari e trame del western al contesto contemporaneo, suggerivano anche (e forse imponevano) una certa immagine della ‘nuova’ malavita. Tanto che gli aspiranti gangster delle periferie italiane finivano col competere con i loro modelli cinematografici. Replicando (o tentando di replicare) nella realtà – come in un interminabile gioco di specchi – quanto avevano visto sul grande schermo.
Da allora, Milano è diventata una sorta di riferimento obbligato – se non certo l’unico – per il noir italiano. Forse uno scenario qualche volta poco ospitale, perché Scerbanenco e Di Leo hanno finito col costituire precedenti ingombranti. Ma, comunque, uno scenario in grado di registrare i mutamenti della società italiana e del suo mondo criminale. Ed è proprio a questa Milano che è dedicato il nuovo romanzo di Paolo Roversi, Milano criminale (Rizzoli, pp. 432, euro 18.00). Un romanzo che ripercorre le vicende della malavita milanese nel pieno della trasformazione sociale, che si avvia alla fine degli anni Cinquanta e che arriva fino al principio degli anni Settanta, quando ormai il panorama è cambiato e Milano è diventata – o almeno viene percepita – come una vera metropoli. Oggi, forse, Milano non viene più intesa come una metropoli, sia perché il suo ruolo di locomotiva dell’economia nazionale si è offuscato, sia perché le sue classi dirigenti hanno perso quella visione, quella capacità progettuale, che avevano ancora negli anni Settanta e Ottanta, sia perché, infine, del mito della vecchia ‘capitale morale’ è rimasto ben poco. Ma Paolo Roversi – che viene dalla provincia – può guardare ancora alla città della Madonnina come alla mitica Milano del boom, come al centro pulsante della vita economica del paese, in cui esplodono tutte le contraddizioni della modernità. E probabilmente anche per questo nelle sue pagine si percepisce un persistente alone romantico.
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L’eterno revival. Il mondo impolitico di Walter Veltroni (e altri frammenti sulla memoria italiana)






giovedì 19 maggio 2011

Lo Stato è tornato?

di Damiano Palano


In molti paesi occidentali la crisi economica globale ha per molti versi invertito una tendenza che durava almeno da quasi trent’anni. Dinanzi ai fallimenti del mercato, gli Stati sono infatti tornati a giocare un ruolo diretto nella sfera economica. Naturalmente ciò non ha comportato (e probabilmente non comporterà in futuro) un ritorno al «dirigismo» degli anni Cinquanta e Sessanta. E, d’altro canto, i governi occidentali – a cominciare da quello statunitense – hanno presentato questi interventi come misure del tutto straordinarie, determinate dalla necessità di preservare proprio l’economia di mercato. La crisi ha però messo in luce anche un fenomeno nuovo, che Ian Bremmer, nel suo La fine del libero mercato, definisce come «capitalismo di Stato». Con questa espressione, Bremmer – presidente di Eurasia Group, una società di consulenza sul rischio politico, e autore di testi come La curva J. La bussola per capire la politica internazionale (Egea) – non si riferisce naturalmente a una rinascita di economie pianificate di tipo sovietico, ma a un fenomeno diverso, la cui rilevanza aumenterà probabilmente nei prossimi decenni. Il capitalismo di Stato è in sostanza una versione aggiornata del vecchio mercantilismo, in cui le risorse economiche vengono utilizzate dalle leadership nazionali con finalità prevalentemente politiche. In questo tipo di assetto, lo Stato ha senz’altro un ruolo egemone in campo economico, ma le imprese pubbliche convivono con imprese private. È una forma di capitalismo, ma una forma in cui «l’attore economico dominante e i mercati vengono usati anzitutto a scopi politici». In altre parole, non si tratta di un ritorno verso economie pianificate, ma solo del controllo politico di economie dinamiche e in crescita costante.
Secondo l’analisi di Bremmer, il capitalismo di Stato nasce più o meno alla fine degli anni Novanta, e dunque molto prima della crisi globale del 2008. La sua manifestazione più evidente è l’affermazione sul mercato mondiale di imprese di nuovi tipo: aziende di proprietà pubblica o strettamente allineate agli interessi della leadership politica del loro paese, come le messicane Cemex e Pemex, le brasiliane Vale e Petrobras, le cinesi National Petroleum Corporation, Petro China, Sinopec e China Mobile. In gran parte, la loro logica operativa si differenzia da quella delle tradizionali imprese multinazionali, perché nel loro caso il management non risponde agli azionisti, ma più o meno direttamente ai referenti politici. Ciò che forse è ancor più significativo è però che il loro ruolo nel mercato mondiale sia cresciuto in modo massiccio e sia destinato ad aumentare ulteriormente nel prossimo futuro.
Non sempre il capitalismo di Stato implica un controllo totale sull’economia. Più spesso, l’autorità politica influisce sulla dinamica economica attraverso una molteplicità di strumenti. In prevalenza, il capitalismo di Stato utilizza grandi società pubbliche che operano nel campo del petrolio e del gas. Per avere un’idea del ruolo che giocano queste aziende è sufficiente ricordare che oggi i tre quarti delle riserve globali di greggio sono in mano a società petrolifere nazionali, come per esempio la russa Gazprom, la cinese Cnpc, l’iraniana Nioc, la venezuelana Pdsva o la brasiliana Petrobras, mentre le multinazionali private, prese nel loro complesso, producono soltanto il 10% del gas e del petrolio del mondo. L’ascesa delle compagnie pubbliche è un fenomeno recente, legato soprattutto all’incremento del prezzo del petrolio registrato negli ultimi dieci anni. I governi dei paesi produttori (come Russia, Nigeria, Venezuela, Libia, Angola, Algeria) hanno progressivamente disincentivato gli investimenti stranieri nel campo energetico e si sono invece diretti verso un ruolo più attivo dello Stato nelle attività estrattive. Ma le imprese pubbliche giocano un ruolo chiave anche in altri settori, e in questo caso gli esempi più significativi provengono dalla Cina, dove enormi aziende pubbliche operano nel campo della distribuzione dell’energia elettrica, nel settore automobilistico e in ambito finanziario. Inoltre, i capitalismi di Stato si servono anche dei ‘campioni nazionali’, ossia di imprese che rimangono in mani private ma che possono contare sul sostegno attivo del governo per conquistare una posizione dominante nell’economia nazionale. Infine, uno strumento estremamente importante per i capitalismi di Stato è costituito dai fondi sovrani: fondi gestiti direttamente dei governi, che vengono utilizzati per investire i surplus di liquidità, oltre che, soprattutto, per perseguire obiettivi politici.
Naturalmente, la formula «capitalismo di Stato» rischia di essere forse troppo riduttiva. Bremmer individua infatti i segnali (più o meno pronunciati) di una svolta in questa direzione in paesi fra loro molto diversi, non solo come Cina, Russia, Arabia Saudita, ma anche come Messico, Brasile, Venezuela, Algeria, Egitto, Ucraina e India. Ciò nonostante è difficile non riconoscere nel fenomeno individuato da Bremmer una tendenza reale, che presenta anche notevoli fattori di rischio. La crescita economica dei capitalismi di Stato è d’altronde tutt’altro che priva di aspetti problematici, e in questo senso il caso cinese è di per sé significativo. Ma, anche al di là delle peculiarità dello sviluppo della Cina, è comunque difficile pensare che il fabbisogno energetico non cresca ulteriormente nel prossimo futuro, ed è dunque molto improbabile che le risorse – economiche e politiche – di quei paesi che esportano gas e petrolio non subiscano un ulteriore incremento. Il capitalismo di Stato continuerà perciò a rappresentare una realtà importante almeno per alcuni decenni. Non sancirà certo un ritorno all’economia pianificata o la ‘fine della globalizzazione’. Ma probabilmente ci mostrerà un altro volto della globalizzazione. E riporterà ancora una volta sulla scena proprio quello Stato di cui molti osservatori avevano prematuramente diagnosticato la morte.


Damiano Palano

Ian Bremmer, La fine del libero mercato. Chi vincerà la guerra tra lo Stato e le imprese?, Gruppo 24 Ore, pp. 289, euro 25.00.




Una versione parzialmente diversa di questo testo è apparsa su "Avvenire" del 30 aprile 2011.

mercoledì 18 maggio 2011

La società dentro la fabbrica. A proposito di alcune inchieste recenti





di Damiano Palano

«Come il Romanzo, Dio, l’Ideologia, come diversi altri protagonisti della storia e del processo di civilizzazione» – scriveva Edmondo Berselli in un saggio del 1990, ripubblicato in apertura al recente L’Italia nonostante tutto (Il Mulino, Bologna, 2011) – «a un certo punto la classe operaia muore, e questa volta non c’è né un Musil né un Nietzsche o un Aron a redigerne l’atto di morte» (ibi, p. 19). A un certo punto infatti – in una data che può essere agevolmente fissata il fatale 14 ottobre 1980, in coincidenza con la ormai proverbiale «marcia dei quarantamila», la sfilata dei quadri della Fiat per le strade di Torino – la classe operaia italiana muore. Quello che era stato il soggetto ‘centrale’ della società – simbolicamente e culturalmente, molto prima che economicamente – svanisce nel brevissimo arco di alcuni mesi, sprofondando nell’oblio. E anche in questo caso, l’ironia di Berselli riusciva a fotografare le sequenze (e i luoghi comuni) di un passaggio epocale: «Conta poco che i cinque milioni di persone che in Italia ne fanno parte continuino imperterriti o rassegnati a vivere e faticosamente a produrre: all’inizio degli anni Ottanta lo spirito del tempo decide l’estinzione di massa di un soggetto sociale e politico che aveva avuto una funzione cruciale nel miracolo economico e nella recessione, nei racconti collettivi e nelle realtà quotidiane. Come per la scomparsa dei grandi erbivori, l’impatto di un asteroide alieno, un radicale cambiamento climatico, l’apparizione di concorrenti più agguerriti nella struggle for life, oppure tutti questi fenomeni messi insieme, determina la scomparsa della specie. Così come si estinguono i dinosauri, il Cipputi in simbiosi con il tornio o la catena di montaggio, svanisce rapidamente dalle percezioni della struttura psicologica collettiva: e con lui svaporano l’orgoglio operaio e le mitologie del potere che si illudeva di avere guadagnato: anzi, conquistato, secondo l’enfasi del lessico sindacale. Si dileguano conflittualità e assenteismo, consigli di fabbrica e ruolo di supplenza politica, sindacati e striscioni, manifestazioni e slogan» (ibidem). 
Ovviamente, il 14 ottobre del 1980 (o due giorni più tardi, quando si concludeva l’occupazione di Mirafiori, con la firma di un accordo che sanciva di fatto la capitolazione del fronte sindacale dinanzi alle posizioni aziendali) non scomparivano improvvisamente (e irreversibilmente) gli operai italiani. Più semplicemente, il soggetto chiave di un immaginario politico svaniva dal dibattito pubblico, dalle riflessioni culturali e dal linguaggio dei principali partiti. Si dissolveva cioè un’iconografia, che non coincideva affatto con la materiale «condizione operaia», ma che rimandava piuttosto alle mitizzazioni della «classe operaia» alimentate nel corso del Novecento dal marxismo italiano e dai partiti della sinistra storica. Un’iconografia che per decenni aveva offerto alle istituzioni del movimento operaio il riferimento insostituibile per una retorica volta a giustificare le più differenti scelte politiche, e sempre più sganciata dalla realtà delle trasformazioni produttive. Ma che, improvvisamente, attorno al principio degli anni Ottanta, smarriva ogni capacità evocativa. «Da allora in poi» – ha scritto Giovanni De Luna – «è stato come se gli operai si fossero congedati dal protagonismo politico pur continuando, ovviamente, a esistere nella realtà. Scomparvero dai media e scomparvero dalla politica. Furono i morti della Thyssen (il 6 dicembre 2007) a riaccendere l’attenzione di un’opinione pubblica assetata da emozioni. E gli operai impararono a fare della loro disperazione una forma di lotta» (G. De Luna, Come mai, come mai son tornati gli operai?, in «TuttoLibri – La Stampa», 9 aprile 2011, p. VI).
Improvvisamente, a trent’anni dai «trentacinque giorni» di Mirafiori, gli operai sono tornati a occupare le prime pagine dei giornali e ad attirare l’attenzione dell’informazione televisiva. Il ‘duello’ fra Sergio Marchionne e gli operai degli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori ha riacceso antiche dispute e, inevitabilmente, ha visto contrapporsi, più che argomentazioni serie, luoghi comuni consolidati da decenni, privi di sostanziali riscontri fattuali, eppure straordinariamente efficaci. Ma, al di là del risultato dei referendum sugli accordi «separati» conclusi dai vertici aziendali con una parte del fronte sindacale, questo ‘duello’ ha riportato per qualche giorno al centro di un dibattito pubblico sempre più sclerotizzato le problematiche del lavoro e dello sviluppo industriale italiano. E, soprattutto, ha riportato al centro della discussione – in realtà solo per un attimo – la necessità di considerare, al di fuori delle semplificazioni, delle celebrazioni postume, delle riviviscenze retoriche, la realtà della condizione dei lavoratori.
Per approssimare una simile sfida, possono essere utili alcuni testi apparsi recentemente: Matteo Gaddi, Lotte operaie nella crisi. Materiali di analisi e di inchiesta sociale, Punto Rosso, Milano, 2010, Antonio Sciotto, Sempre più blu. Operai nell’Italia della grande crisi, Laterza, Roma – Bari, 2001, Fondazione Centro per la Riforma dello Stato (Gruppo Lavoro), Nuova Panda schiavi in mano. La strategia Fiat di distruzione della forza operaia, DeriveApprodi, Roma, 2011. Si tratta infatti di testi che cercano di approntare i materiali per un lavoro di «inchiesta» capace di colmare il vuoto di conoscenze e riflessioni creatosi nell’ultimo trentennio. L’obiettivo che accomuna questi volumi viene sintetizzato da Sciotto, proprio in apertura a Sempre più blu, quando osserva che, prima di impegnarsi in teorizzazioni sulla classe operaia, sul suo declino e sul suo futuro, è necessario ricostruire un profilo aggiornato dei lavoratori dell’industria. «Dietro la tuta blu» – scrive Sciotto – «ci sono persone, uomini e donne con desideri, bisogni, aspirazioni. Ma anche aspirazioni, e soprattutto, – per molti – grossi problemi economici, acuiti dalla crisi che il nostro paese sta attraversando in questi ultimi anni» (p. VII). Conoscere la realtà di questa condizione significa, in altre parole, superare una coltre di luoghi comuni, ma anche ricostruire la fisionomia di un modo di intendere se stessi – come singoli, e come parte di una comunità operaia – spesso abissalmente distante dalla vecchia immagine della «classe operaia» e scettico verso la visione novecentesca del conflitto sociale. Un modo di percepire se stessi che non preclude necessariamente forme di azione collettiva, ma che, senza dubbio, mostra spesso, rispetto ai repertori tradizionali, uno scarto nei tempi, nei modi, negli obiettivi.
Almeno implicitamente, l’istanza dell’«inchiesta» operaia non può non evocare una serie di precedenti illustri, che rimandano soprattutto alla tradizione dell’«operaismo» italiano. Fin dal primo numero dei «Quaderni rossi», uscito quasi mezzo secolo fa, nel settembre del 1961, l’idea di un’inchiesta sui lavoratori delle grandi fabbriche rappresenta un motivo fondamentale, costantemente ripreso nelle varie stagioni dell’operaismo e del post-operaismo, anche se declinato in molteplici direzioni. Non soltanto perché, di volta in volta, l’obiettivo della ricerca militante si sposta su soggetti differenti e su nuovi spezzoni della forza lavoro, ma anche perché l’ottica, il metodo e le ipotesi di fondo risentono di orientamenti sempre più distanti. D’altronde, anche nella stessa esperienza dei «Qr», l’imperativo dell’«inchiesta» – pur esplicitato chiaramente come necessità politica – trova solo una parziale realizzazione, non tanto per le difficoltà organizzative di un lavoro del genere, quanto per le divergenze politiche e teoriche che travolgono il gruppo dopo il 1962. A dispetto delle fratture e delle opposte opzioni d’indagine, la parola d’ordine dell’inchiesta introduce però una vera e propria rottura metodologica rispetto alla tradizione più consolidata del movimento operaio e alla concezione terzinternazionalista dell’organizzazione (e del rapporto fra partito e sindacato): una rottura che implica che ogni progetto organizzativo debba principalmente confrontarsi con i mutamenti intervenuti nella «composizione della classe» – e, cioè, sia nel profilo tecnico della forza lavoro, sia nella struttura ‘soggettiva’ della classe operaia – adeguandosi a queste trasformazioni (con maggiore o minore autonomia, a seconda dei casi).
Ovviamente, non si tratta di un’ipotesi facilmente applicabile nell’Italia di oggi. E non soltanto, perché oggi è molto più difficile (se non proprio impossibile) individuare un soggetto produttivo che goda di un potenziale – simbolico, politico, economico – paragonabile a quello della classe operaia degli anni d’oro dello sviluppo fordista. Ma (e una simile difficoltà non deve essere trascurata) anche perché l’«inchiesta» operaia – pur nelle differenti modalità in cui era stata concepita, proprio in quegli anni, da Ranziero Panzieri, Romano Alquati o Vittorio Rieser – richiedeva ovviamente l’esistenza di una serie di presupposti indispensabili, come una ramificata struttura sindacale e politica all’interno dei singoli stabilimenti, la chiara percezione, da parte degli operai, delle finalità dell’indagine, e, addirittura, almeno in alcuni casi, una diretta partecipazione dei lavoratori all’indagine (che, per questo motivo, Alquati si spingeva a definire come «conricerca»). Proprio tali elementi sono oggi difficilmente riproducibili, per motivi che rimandano alle trasformazioni generali delle società occidentali, ma anche alla modificazione sostanziale intervenuta nel rapporto fra sindacati e lavoratori, persino nei settori tradizionalmente più sindacalizzati. E le inchieste non possono dunque che prendere atto di una simile condizione, procedendo spesso per approssimazioni e fermandosi, in qualche caso, alla semplice (non per questo meno utile) registrazione di una cronaca.
Pur pienamente consapevole delle difficoltà, è proprio alla tradizione dell’«inchiesta» che si richiama Matteo Gaddi, nel suo Lotte operaie nella crisi, un volume che, fin dal titolo, riecheggia scopertamente il tema al centro del primo fascicolo dei «Quaderni rossi». Mentre il primo numero della rivista fondata da Panzieri poneva al centro la dinamica dello «sviluppo» e l’impatto del «neo-capitalismo», oggi Gaddi deve invece dirigere altrove lo sguardo, e non può che riferirsi all’impatto della «crisi» sul mondo del lavoro. I materiali proposti da Gaddi costituiscono infatti il resoconto di un intervento svolto dall’autore in una serie di realtà di fabbrica segnate dalle tensioni della crisi, spesso dalla tangibile minaccia di forti riduzioni del personale o addirittura di smantellamento degli impianti.
Ben consapevole della difficoltà di un’inchiesta adeguata ai mutamenti in atto, Gaddi presenta questi materiali solo come il primo tassello di un lavoro ancora da sviluppare, anche perché, nell’ultimo decennio almeno, a dispetto della proclamata urgenza di un ritorno all’inchiesta, questo terreno di indagine è rimasto sostanzialmente (se non completamente) inesplorato. Al di là di ogni lettura politicista (che il volume evita saggiamente, nella consapevolezza della fase interlocutoria che stiamo vivendo), le pagine di Gaddi offrono una testimonianza estremamente importante sotto almeno tre profili. In primo luogo, sono importanti perché affrontano un insieme di casi estremamente eterogenei, dai quali non tende a emergere l’adozione, da parte delle controparti coinvolte, di strategie sempre comparabili, perché in effetti – a seconda del tipo di azienda, delle esperienze precedenti, delle modalità in cui si presenta la crisi – vengono utilizzati schemi operativi e modelli rivendicativi molto diversi, e in ogni caso non riconducibili a un’unica matrice. In secondo luogo, questi materiali sono interessanti perché forniscono una concreta esemplificazione della diversa disponibilità mostrata dai lavoratori a imboccare e sostenere la strada del conflitto: una disponibilità (o indisponibilità) qualche volta sorprendente, e peraltro non sempre spiegabile con il semplice riferimento alle precedenti tradizioni di lotta. Infine, sono utili perché aiutano a considerare le strategie che si sono rivelate più utili, se non decisive, per affrontare le vertenze (con le ovvie implicazioni in termini di comunicazione e circolazione delle rivendicazioni).
Cercando di ricostruire il ‘punto di vista operaio’ (ma senza concedere nulla all’oleografia della vecchia e nuova «classe operaia»), i materiali raccolti da Gaddi analizzano la situazione di aziende del Centro Nord, operative in diversi settori, che vanno, per esempio, dalla Montefibre e dalla ex-Ineos di Marghera, alla Tenaris di Dalmine, alla Frattini di Seriate, all’Ideal Standard di Brescia, all’Igc di Cuneo e alla Azimut Benetti della provincia di Torino, passando (con una più rapida ricognizione) per i distretti del tessile-abbigliamento-calzaturiero e per il distretto della ceramica. La scelta è stata compiuta sulla base di due considerazioni principali: in primo luogo, per il forte impatto che la crisi aziendale produce sulla realtà locale; in secondo luogo, per l’esperienza attivata dai lavoratori. Inoltre, come sintetizza Vittorio Rieser nella Prefazione al volume, le aziende considerate si differenziano anche sotto il profilo del tipo di proprietà (sono infatti controllate da multinazionali, industriali o finanziarie, estere o italiane, oppure imprese familiari molto cresciute). E queste differenze, insieme a quelle del settore in cui operano le singole aziende, si riflettono sulle scelte adottate, oltre che sulla risposta fornita dai lavoratori.
Ricostruendo la genesi della ‘crisi’, le strategie aziendali e la risposta da parte dei lavoratori, l’inchiesta – mediante un’analisi di tipo ‘qualitativo’ – cerca di adottare la prospettiva dei lavoratori, la cui voce viene assunta da Gaddi come punto di partenza (anche se non come unico dato): questi lavoratori sono, è bene precisarlo, lavoratori iscritti al sindacato, con un certo livello di politicizzazione, e spesso componenti delle Rsu. Ciò nondimeno, gli elementi che emergono aiutano a ricostruire un quadro importante. «Nessuno», scrive infatti Rieser, «vede la crisi aziendale come pura ‘manovra del padrone’ e neanche come puro frutto di non ben precisati ‘errori del padrone’» (ibi, p. 8), perché il discorso dei lavoratori intervistati individua con precisione i limiti delle strategie aziendali. A questo proposito, due punti importanti scaturiscono soprattutto dalle tracce di inchiesta proposte. Il primo riguarda gli obiettivi rivendicati dai lavoratori, il secondo il rapporto con la ‘politica’, o, meglio, con il livello istituzionale, costituito non tanto dalle istituzioni pubbliche, quanto dalle organizzazioni sindacali e da ciò che rimane delle strutture partitiche di riferimento. Sotto il primo profilo, sintetizza Rieser: «gli obiettivi e le proposte non si limitano a una generica ‘difesa del posto di lavoro a tutti i costi’. Questa difesa si collega a ipotesi di correzioni strategiche aziendali o di scelte politiche industriali. [...] Tutto ciò si collega, spesso, alla difesa del ‘patrimonio professionale accumulato’, non solo individuale ma collettivo – che viene considerato, tra l’altro, un fattore importante di competitività» (ibi, p. 8). In un simile quadro, diventa un obiettivo consapevolmente perseguito dai lavoratori quello di costruire un coordinamento fra stabilimenti di una medesima azienda (un coordinamento non sempre facile da realizzare, soprattutto quando sono coinvolte realtà di paesi stranieri). Sotto il secondo profilo, i rapporti con la ‘politica’ appaiono piuttosto chiari, anche se articolati: «anche nel caso di queste ‘avanguardie’ si conferma, da un lato, il riferimento al sindacato come fondamentale strumento di difesa dei lavoratori, dall’altro una diffidenza verso ‘la politica’ – che erano emerse anche da altre inchieste. Il sindacato può venire criticato (più spesso le critiche sono rivolte a Cisl e Uil, ma non poche anche alla Cgil), ma continua ad essere visto come uno strumento dei lavoratori. Verso ‘la politica’, invece, non si nutre alcuna fiducia; anche se, nel caso di questi lavoratori particolarmente ‘impegnati’, ciò non si traduce in una generica chiusura ‘qualunquista’: quando si parla di proposte politiche concrete (ad es. leggi regionali contro le delocalizzazioni) l’interesse e la disponibilità si ridestano» (ibi, p. 9).
Come si è detto, l’inchiesta svolta da Gaddi si presenta consapevolmente come il primo frammento di un lavoro ancora da compiere, come la prima traccia su cui iniziare a elaborare un’ipotesi di ricostruzione. Per questo, l’intento dichiarato non è ‘accademico’, non certo perché i materiali non forniscano degli elementi utili di conoscenza, ma perché tali elementi sono finalizzati a una visione ‘politica’, all’elaborazione di un progetto che ponga la ricostruzione delle figure tecniche e soggettive della «composizione di classe». In questa prospettiva, è ovvio che le piste di un possibile approfondimento del lavoro sono molteplici, sia perché risulterebbe molto utile oltrepassare lo spazio dell’inchiesta-lampo (per di più condizionata da una dura vertenza), sia perché alcune realtà molto importanti, lasciate in ombra in questa fase (i distretti, le filiere produttive), presentano dinamiche complesse, che richiedono un’analisi articolata. Ma proprio in questa direzione possono essere lette le considerazioni di Gaddi, sintetizzabili in alcuni punti, su cui la ricerca successiva dovrebbe concentrarsi in modo privilegiato: a) il ruolo effettivo e potenziale di organismi di coordinamento spontaneo e autonomo dei lavoratori, sia a livello di fabbrica, sia a livello di territorio (questo motivo, infatti, risulta tanto più significativo, quanto più la richiesta di democrazia sindacale torna frequentemente nelle inchieste); b) il rapporto fra lavoratori direttamente occupati nelle aziende e quelli precari o di ditte che operano in appalto; c) la diversa logica delle delocalizzazioni (verso paesi poveri o verso la Germania e i paesi del Nord Europa); d) il ruolo dei manager, spesso senza autonomia decisionale, estranei all’azienda e con funzioni prevalenti di mediazione nelle vertenze; e) l’uso degli ammortizzatori, con cui non solo si scaricano a livello sociale i costi della crisi aziendale, ma con cui, soprattutto, si riescono a imputare a fattori esterni e incontrollabili le difficoltà aziendali; f) le possibilità di reimpiego della forza lavoro espulsa (possibilità di fatto assente in molte realtà, sia per il tipo specifico di lavoratore, sia per il quadro economico); g) infine, la valutazione dei contratti che chiudono le vertenze, non solo per il risultato che raggiungono nell’immediato, ma anche per le capacità di mobilitazione e contrattazione che possono innescare nel futuro.
Naturalmente, ognuno di questi punti offre margini per un potenziale ancoraggio organizzativo, e proprio in questo senso Gaddi sembra riprendere – ma senza inutili estremismi e superflue venature romantiche – il motivo dell’inchiesta come metodo di riarticolazione politico-organizzativa. Al di là di un simile obiettivo, c’è però anche un interesse conoscitivo forte che affiora – forse anche come interrogativo – da questi materiali. Ed è soprattutto la domanda intorno alla struttura materiale e soggettiva della forza lavoro del Nord: la domanda intorno alla percezione del lavoro e dell’identità professionale, tecnica, politica, da parte di questi lavoratori; la domanda sul rapporto con le varie articolazioni della ‘politica’, comprese le relazioni con le organizzazioni esistenti, la fiducia (o la sfiducia) nei confronti delle istituzioni, la capacità e la volontà di utilizzare (magari strumentalmente) il sindacato, l’interesse a trovare canali di mediazione e mobilitazione nella società e, persino, fuori dal territorio di riferimento. Non si tratta – e questo emerge piuttosto chiaramente dal discorso di Gaddi – di evocare o suggerire quelle scorciatoie organizzative che in questi ultimi anni hanno sovente tentato di occultare l’assenza di progettualità politica. E non si tratta neppure di ridurre l’inevitabile ‘autonomia’ del terreno politico (o, meglio, dei vari livelli politici), affidando compiti di sintesi a una ‘spontaneità’ mitizzata, che rischia solo di rappresentare l’ennesima variante della retorica antipolitica. Piuttosto, si tratta di ripensare – ancora una volta – il rapporto fra ‘economia’ e ‘politica’, o, meglio fra la struttura materiale della forza lavoro contemporanea e le sue reali e potenziali modalità di espressione politica. È probabilmente all’interno di questa problematica che gli appunti raccolti da Gaddi, presentandosi quasi nella forma di una stenografia militante, contribuiscono a ricostruire efficacemente i chiaroscuri e le ambivalenze della situazione odierna.
Proprio in direzione di uno sviluppo ulteriore dell’indagine presentata nel volume (relativa al 2009, e dunque alla fase acuta di una crisi oggi tutt’altro che superata), procedono alcuni materiali successivi, pubblicati sui primi numeri della rivista «Progetto lavoro». In particolare, con l’obiettivo di impostare un ampio lavoro di inchiesta (non solo sui lavoratori dell’industria), Gaddi torna ad alcune indicazioni di Panzieri, chiarendo come – fuori da ogni dilatazione teorica e politica – debba essere intesa l’inchiesta. «Non si tratta» – scrive in questo senso – «di un’attività che richiede grandi competenze tecniche, specialisti e complicati questionari. Si tratta soprattutto di saper parlare alla gente senza pensarci portatori di verità assolute e di metterla in condizione di dire quel che vive, che pensa e vorrebbe fare» (in «Progetto lavoro», n. 4, 2011, p. 55). Ovviamente, l’inchiesta viene collocata all’interno – o, meglio, alla base – di un progetto politico, ma ciò che forse è più rilevante in questo discorso è l’idea che la frammentazione odierna del mondo del lavoro non costituisca, di per sé, un ostacolo insormontabile alla costruzione di processi di mobilitazione collettiva. A ben vedere, osserva Gaddi, la frammentazione del mondo dei lavoratori e la stessa dispersione sul territorio sono condizioni già ampiamente conosciute nel passato e caratteristiche di una lunga fase dell’economia italiana; e, soprattutto, sono condizioni che non hanno necessariamente comportato una paralisi delle ipotesi ricompositive. D’altronde, non è la struttura tecnica dell’organizzazione del lavoro che può ‘determinare’ esiti in un senso o nell’altro, e proprio in questo senso Gaddi richiama la nozione di ricomposizione politica di Alquati, che «ha il pregio di evitare ogni determinismo su base tecnologica, andando all’insieme dei comportamenti, dei bisogni, delle pratiche di conflitto di masse e di gruppi concreti, che come tali non vivono solo nella fabbrica o nell’ufficio ma sono dentro a ‘reti’ di rapporti antropologici, culturali, politici, spesso di lunga lena storica» (ibi, p. 56). Ed è proprio qui che la necessità dell’inchiesta si apre – più o meno esplicitamente – alla dimensione soggettiva dei lavoratori. Una dimensione che – seguendo Erik Olin Wright (come propone di fare, per esempio, Rieser: cfr. «Progetto Lavoro», n. 4, 2011, pp. 52-54) – attiene sia alle preferenze effettivamente espresse, sia alla stessa percezione delle alternative possibili e alla cognizione delle conseguenze delle scelte eventualmente adottate. Una dimensione che, dunque, non può non chiamare in causa questioni complesse come il rapporto con la politica (con i partiti e con le istituzioni), come le relazioni con le organizzazioni chiamate a rappresentare gli interessi dei lavoratori, e, infine, l’immaginario (politico e sociale) che contribuisce a definire le aspettative e i bisogni, oltre che a indirizzare ogni richiesta potenziale. Ed è ovviamente quest’ultimo il nodo più intricato da sciogliere.
Per molti versi, è proprio il grande interrogativo sull’immaginario che fa da sfondo al viaggio nel mondo del lavoro operaio compiuto da Sciotto. Naturalmente, Sempre più blu si pone obiettivi molto diversi da quelli perseguiti dal libro di Gaddi, e in effetti si profila come un utile approfondimento giornalistico su quegli aspetti della condizione operaia contemporanea che, quasi senza eccezioni, non trovano spazio sulla stampa. I temi centrali sono comunque soprattutto due: in primo luogo, i mutamenti nella condizione soggettiva dei lavoratori e, dunque, le diverse modalità con cui si risponde alle difficoltà della crisi e della stessa condizione di lavoro; in secondo luogo, le forme conflittuali e le loro trasformazioni rispetto al passato novecentesco. Sotto il primo profilo, Sciotto si sofferma per esempio – con una rappresentazione impressionistica, ma non per questo meno efficace – sulla vita quotidiana di operai e operaie, mettendo in luce, fra l’altro, una realtà di discriminazioni di genere che spesso non trova visibilità né rappresentanza. Ma, com’è ovvio, è soprattutto l’impatto economico della crisi sul vissuto dei lavoratori dell’industria a restituire il dato di un impoverimento sostanziale, che è anche il risultato di una dinamica di più lungo periodo, avviata almeno al principio degli anni Novanta. La conseguenza è comunque che oggi la gran parte degli operai dell’industria non sembra più appartenere – come ancora pochi anni fa – al ceto medio, perché presenta piuttosto il profilo classico dei working poors, con una relativa riduzione dei consumi e una costante instabilità, che talvolta – in caso di imprevisti, divorzi, cassa integrazione – finisce con l’indirizzare verso il lavoro nero o persino verso il ricorso ai centri Caritas. Si tratta, in ogni caso, di scelte individuali, perché, di fatto, il singolo risponde alle difficoltà, al disagio, con strategie che non coinvolgono né l’insieme dei colleghi, né il sindacato. E, com’è prevedibile, si tratta anche di strategie individualistiche che finiscono talvolta per porre il singolo dinanzi alla propria solitudine e a una condizione che viene, così, percepita come fallimentare. Da questo punto di vista, Sciotto ricostruisce, per quanto possibile, i dettagli della terribile contabilità dei suicidi riconducibili alla crisi economica: suicidi che non hanno coinvolto solo operai, ma che possono essere intesi come il riflesso, più che come un sintomo, di una condizione emotiva diffusa e del modo – quasi esclusivamente individuale – di affrontare le difficoltà economiche. Si tratta, come scrive Sciotto, del «grido di aiuto di chi non riesce a trovare un’uscita»: «è doloroso dover elencare tutti questi casi così tristi, così privati. Ma forse è l’unico modo per rendere un aspetto della crisi economica, dell’essere oggi operaio – ma anche imprenditore – che in qualche maniera dice di una solitudine sempre più diffusa nella società. Tanti operai sembrano non credere più nell’azione collettiva, nel sindacato, nella lotta insieme agli altri per rivendicare i propri diritti: si sentono abbandonati e vedono come unico sbocco, quello di farla finita» (p. 44).
All’interno di questo quadro, i giovani sembrano mostrare una specificità di comportamenti, che configura una netta cesura rispetto al passato. «La gran parte di loro» – osserva infatti Sciotto – «non vede più la propria professione come una forma di emancipazione dalla famiglia per iniziare una vita autonoma, magari per creare un nuovo nucleo familiare e migliorare socialmente: molti raccontano di vedere il lavoro in fabbrica come un puro ripiego, un posto di passaggio da cui vorrebbero fuggire il più presto possibile, evadere come una prigione. Ma non intravedono un futuro alternativo, un post» (ibi, pp. 88-89). La cesura non sta ovviamente – come potrebbe far pensare una memorialistica eccessivamente celebrativa – nel fatto che in passato, a differenza di oggi, il lavoro operaio era inteso in termini positivi, anche se non si può dimenticare che l’ingresso in fabbrica, per quanti provenivano dalle campagne, veniva percepito come un miglioramento, come un progresso (anche a dispetto della durezza del lavoro industriale). La cesura sta piuttosto nel venir meno del tessuto identitario e solidaristico che in qualche modo caratterizzava la «comunità operaia», perché le nuove generazioni sembrano contrassegnate invece da un atteggiamento molto diverso, e molto simile a quello sperimentato al di fuori della fabbrica. «Un certo disincanto e un distacco dal lavoro e dai colleghi, dal sindacato, una forma di apatia e di disinteresse, di individualismo, che poi si traduce in scelte di vita e abitudini sociali comuni a tanti altri ragazzi che in una linea di montaggio non hanno mai messo piede: annullando il senso dell’indossare una tuta blu. Alla fine chi è operaio e chi non lo è si scoprirà ragionare allo stesso modo: mentre in passato, al contrario, esisteva una forte e spiccata identità, un senso di appartenenza a questa categoria sociale e del mondo del lavoro» (ibi, p. 89). L’ingresso degli stupefacenti in fabbrica – testimoniato da un’inchiesta di Loris Campetti, relativa agli impianti della Fiat di Melfi e della Sevel di Chieti – pare rientrare proprio in questa logica, perché il ricorso alla droga, come risposta alla durezza del lavoro e come tentativo individualistico di fuga da una condizione opprimente, rappresenta l’ingresso dentro la fabbrica di modalità di comportamento provenienti dalla società. «In questo le differenze tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’ la fabbrica si annullano: i ragazzi seguono gli stessi modelli sociali dentro e fuori. La noia del vivere in provincia, la discoteca come unica evasione nel week-end, i modelli competitivi, basati sulla bellezza e il sesso facile, persino il consumo disinvolto di droga da parte dei cosiddetti ‘vip’, veicolati dalla televisione» (ibi, p. 91).
Ovviamente, il viaggio di Sciotto non si ferma alla registrazione del disagio, ma cerca anche di puntare lo sguardo sulla trasformazione delle strategie e delle tattiche conflittuali sperimentata in questi anni. E il punto di avvio non può che essere offerto dagli operai dell’Insee di Milano, perché la loro ferma volontà di opporsi alla chiusura dello stabilimento, abbarbicandosi per giorni, nell’estate del 2009, in cima a un carroponte, è stata in seguito replicata in decine di altri contesti, sebbene spesso con risultati diversi. Il motivo principale delle molte ‘imitazioni’ successive risiede ovviamente nel successo degli operai dell’Insee, che effettivamente sono riusciti non solo a impedire la chiusura, ma anche a ottenere un cambio negli assetti proprietari e un completo mutamento nelle decisioni sul futuro dell’impianto. Ma, oltre a questo, c’è anche un’altra componente, che consiste nella strategia conflittuale adottata dagli operai dell’Insee: una strategia conflittuale che consente di richiamare l’attenzione sulla vertenza mediante una ‘spettacolarizzazione’ della protesta, ma senza gli strumenti classici del repertorio della protesta operaia novecentesca. «Oggi gli operai cercano prima di tutto che si accenda una telecamera: poi, se la mobilitazione è potente, a ruota arrivano anche i politici. E il sindacato, se all’inizio magari è troppo ‘timido’, li appoggia con maggiore convinzione. Ma fondamentale diventa il sostegno di qualcosa che sta fuori dalle forze organizzate, tipiche del secolo scorso» (ibi, p. 4). «Per questo», scrive Sciotto, «i nuovi operai, se fanno conflitto con il padrone – e in questo si rivelano ancora molto ‘classici’ – ci tengono a stringere amicizia, invece con la società», nel senso che evitano azioni ‘aggressive’, per privilegiare forme di mobilitazione che riescano ad attirare il sostegno della società. Sarebbe però un errore generalizzare e confidare eccessivamente nelle possibilità di questi nuovi strumenti di protesta. Il caso della Insee, da questo punto di vista, è emblematico, perché gli operai protagonisti di quella vertenza, oltre ad avere un’età media piuttosto avanzata (e dunque un passato di partecipazione attiva), potevano disporre di un eccezionale livello di conoscenza degli impianti e delle lavorazioni, tanto da poter portare avanti la produzione per diversi mesi senza la presenza (o, meglio, con l’opposizione) della direzione aziendale. All’opposto, la vertenza degli operai della Vilnys di Porto Torres – protagonisti di una mobilitazione di grande successo mediatico come l’allestimento dell’«Isola dei cassintegrati», su cui Sciotto si sofferma a lungo – non ha prodotto risultati, a dispetto della visibilità che ha ottenuto. E, così, «la ‘spettacolarizzazione’, il gioco, l’apparire sembrano prendere il sopravvento, e la lotta mediatica può ritornare indietro e colpirti come un boomerang: magari tutti parlano di te e diventi pure famoso, ma non è detto che la vertenza si risolva» (ibi, p. 31).
Se i conflitti di Pomigliano d’Arco e Mirafiori costituiscono la tappa d’arrivo del percorso di Sciotto, è proprio da qui che prende avvio il discorso di Nuova Panda schiavi in mano, un discorso che articola un’analisi più ampia sul ruolo della forza lavoro nel capitalismo globalizzato e, in particolare, sul destino della classe operaia. L’indagine, realizzata da un gruppo di ricercatori coordinati dalla Fondazione Centro per la riforma dello Stato, non si limita infatti a un puro resoconto della vertenza innescata dalla dirigenza Fiat sugli insediamenti di Pomigliano e Mirafiori, ma cerca di collocare questa dinamica all’interno di un quadro complessivo, sulle tendenze dell’industria automobilistica, sul ruolo che la Fiat potrà avere nel futuro mercato dell’auto e, infine, sul rilievo che gli stabilimenti italiani potranno avere a seguito di queste trasformazioni.
In primo luogo, l’analisi è volta a esaminare (e a smantellare) l’obiettivo dichiarato al cuore del progetto Fabbrica Italia, che consiste in un volume di sei milioni di vetture all’anno. Un simile obiettivo non può che scontrarsi con il dato di fatto, difficilmente contestabile, della sovracapacità produttiva dell’intero settore automobilistico: una sovracapacità che, ovviamente, non è stata determinata dall’esplosione della crisi finanziaria del 2008, ma che ha finito con l’emergere proprio in conseguenza delle sue ricadute. La sovracapacità produttiva è infatti cresciuta a partire dagli anni Ottanta, ma le imprese hanno potuto aggirarne le implicazioni beneficiando degli effetti positivi della finanziarizzazione: in altre parole, le imprese manifatturiere hanno fatto ricorso in modo crescente al mercato borsistico, riuscendo così a ottenere introiti significativi, ma, com’è ovvio, diventando sempre più dipendenti proprio dall’andamento del mercato finanziario. Per un altro verso, alla crescente finanziarizzazione delle attività manifatturiere si è accompagnata una sorta di «concentrazione senza centralizzazione», ossia una dinamica per cui «a un’elevata concentrazione di capitale corrisponde un’organizzazione dell’impresa senza centralizzazione, come si riflette nell’organizzazione della fabbrica modulare e nella lean production, basata su un ricorso massiccio alle esternalizzazioni» (ibi, p. 46). Naturalmente, a questo tipo di concentrazione hanno fatto seguito anche, in alcuni casi, nuovi investimenti, finalizzati a occupare nuovi mercati e a espellere (tendenzialmente) i rivali. E il risultato, dunque, è stata una crescita della capacità produttiva, occultata, ma non certo risolta, dalla dinamica della finanziarizzazione. «Il sistema» – scrivono così i ricercatori del «Gruppo lavoro» – ha retto fino a quando il mercato finanziario è stato in grado di far percepire a livello di massa un enorme ‘effetto ricchezza’, sia sul versante del valore di borsa delle imprese, sia – soprattutto – su quello dell’indebitamento privato, il credito al consumo. Lo scoppio della crisi finanziaria ha agito su tre livelli: non solo ha bruciato il valore di mercato delle imprese dell’automotive, ma ha anche reso più difficile l’accesso al credito per i consumatori. Infine, la diffusione della crisi dalla finanza all’economia reale ha fatto crollare la domanda di acquisto, facendo emergere in maniera ancor più forte la questione della sovracapacità del settore» (ibi, pp. 46-47). Dinanzi a questo dato, Fiat sembra adottare due strategie complementari, e solo all’apparenza contraddittorie: «da un lato procede alla distruzione dal capitale fisso legato agli impianti ritenuti dall’azienda non più ristrutturabili», mentre, dall’altro, «punta a realizzare investimenti su singoli stabilimenti ritenuti ancora strategici», che, però, «per mantenere i livelli di profitto attesi devono essere ‘riformati’» (p. 50). Ciò impone, secondo l’analisi del «Gruppo Lavoro», la necessità di trasformare stabilimenti caratterizzati da una forza lavoro altamente sindacalizzata e con una notevole tradizione di mobilitazioni alle spalle in una sorta di new founded Greenfield, in cui esistano quelle condizioni che di solito si trovano in aree prive di un passato industriale (ossia, in primo luogo, di una scarsa capacità conflittuale). In passato, la Fiat aveva utilizzato questa strategia in «prati verdi» come Melfi, in cui, al principio degli anni Novanta, venne impiantato lo stabilimento della Fiat Sata, e in cui furono sperimentati nuovi sistemi di organizzazione della produzione improntati al modello toyotista. La scelta imboccata dalla Fiat con l’accordo di Pomigliano sembra preludere invece a una nuova strategia, che consiste nel ricreare le condizioni del Greenfield, in vista di un incremento della produttività conseguito principalmente attraverso un’intensificazione dei ritmi di lavoro. Ovviamene, il presupposto di questa strategia è la decisione della Fiat di «ricollocare complessivamente l’azienda e poi tutto il settore dell’auto in Italia, verso i gradini più bassi della gerarchia della valorizzazione del capitale – all’interno dell’industria dell’auto – a livello mondiale» (p. 56). Una decisione che pare confermata, per esempio, dal progetto di destinare Pomigliano alla produzione della Nuova Panda e dallo spostamento della produzione della Lo (un’auto che dovrà sostituire la Musa e l’Idea, prodotte a Mirafiori) nello stabilimento serbo di Kragujevac (a seguito di un consistente stanziamento pubblico, finalizzato a incentivare l’insediamento di imprese capaci di trasferire «alta tecnologia»).
In effetti, il progetto di Fabbrica Italia passa soprattutto da una riorganizzazione del lavoro, già avviata con l’introduzione del World Class Manufacturing (Wcm), un metodo mutuato dalle fabbriche giapponesi del settore auto, che prevede la collaborazione degli operai ai fini di un costante miglioramento del processo produttivo, della riduzione degli sprechi e dei tempi morti. L’elemento chiave del Wcm è ovviamente l’attiva partecipazione da parte dei lavoratori, una partecipazione che viene incentivata con campagne motivazionali, ma che si accompagna – non senza paradossi – all’intensificazione del controllo gerarchico. Per questo motivo, sebbene il Wcm condivida con il taylorismo l’obiettivo della scomposizione delle operazioni e dell’eliminazione dei tempi morti, presenta però caratteri originali. Si tratta, in sostanza, di «un mix innovativo tra i tradizionali meccanismi di controllo e gerarchia propri della fabbrica fordista, e i principi più recenti di autonomia e partecipazione operaia così come sono stati metabolizzati nella cultura aziendale Fiat» (ibi, p. 69); e, dunque, di una strategia che «si propone di convertire le culture conflittuali – in particolare quelle sindacali – attraverso la costruzione di un senso comunitario e cooperativo di fabbrica» (ibi, p. 70). Ma è proprio su questo terreno che si delineano le prime difficoltà. Gli effetti conseguiti dagli incentivi alla partecipazione, che si registrano nella prima fase di attuazione del Wcm a Pomigliano, vengono neutralizzati nel periodo della cassa integrazione e si indeboliscono ulteriormente nel corso della primavera 2010, quando la vertenza sulla produzione della Nuova Panda (con il culmine del referendum) fa riemergere i contorni classici del conflitto tra lavoratori e impresa.
Al cuore dell’iniziativa aziendale, c’è soprattutto la richiesta di crescente flessibilità, una flessibilità definita dallo stesso Marchionne come «bestiale». Anche in questo caso, non si tratta di una novità, perché, in effetti, dopo il fallimento del progetto di fabbrica «iper-automatizzata» degli anni Ottanta, la Fiat si volse, già al principio degli anni Novanta, al toyotismo della Qualità totale, il cui ingrediente fondamentale era – insieme alle idee della «fabbrica integrata», della «produzione snella», della partecipazione – proprio la crescente flessibilizazione della forza lavoro. Ma il piano indicato da Marchionne per Pomigliano, analizzato in profondità dal «Gruppo Lavoro», punta ulteriormente in questa direzione, investendo in particolare gli orari di lavoro (soprattutto gli straordinari) e la mobilità interna. L’esigenza di fondo è, in questo senso duplice: «ridurre i costi economici della produzione, aumentando la produttività e la rapidità d’adattamento al mercato», ma anche «ridurre i costi politici dello sfruttamento, garantendosi così una maggiore governabilità del sito» (p. 94). Inevitabilmente, queste due istanze si intrecciano e risultano quasi costantemente affiancate nelle diverse misure considerate dal «Gruppo Lavoro»; come, d’altronde, la richiesta di mobilità indirizzata alla forza lavoro si stringe da vicino all’apertura di spazi di discrezionalità notevoli da parte della direzione, nel senso che, come sempre avviene (e come d’altronde viene testimoniato dal caso del complesso logistico di Nola, divenuto ben presto una sorta di ‘sito-confino’), «l’assegnazione delle mansioni può diventare un premio di fedeltà nei confronti dell’azienda o un meccanismo punitivo a fronte di atteggiamenti conflittuali e ostili» (p. 107). E tutto ciò insieme all’utilizzo, già largamente sperimentato, di lavoratori a tempo determinato accanto ai lavoratori a tempo indeterminato (con i prevedibili effetti sugli uni e sugli altri).
È in questo contesto, che si colloca la battaglia innescata dalla Fiat sul modello contrattuale, una battaglia che trova un precedente nell’accordo interconfederale del 15 aprile 2009, ma che ovviamente procede ben oltre, perché punta al superamento dello stesso contratto nazionale. La strategia passa, com’è noto, dalla costituzione di una newco per Pomigliano, secondo una linea che, in generale, prevede che ogni stabilimento di assemblaggio sia legato a una specifica società (una soluzione, peraltro, già adottata, nel 1978, per la Sevel di Atessa, creata con il gruppo francese Psa, e, nel 1993, per la Sata di Melfi, creata con l’appoggio di tutte le forze sindacali e con l’obiettivo di contrattare le condizioni di lavoro senza partire dall’applicazione dell’insieme degli accordi aziendali già operanti). Si tratta, in questo caso, della medesima strategia che è stata adottata anche per Mirafiori, e che prevede l’uscita di Fiat da Confindustria. Gli obiettivi sono proprio l’abbandono del contratto nazionale e la costruzione di un nuovo sistema di relazioni sindacali, con il corollario – non certo irrilevante – di una trasformazione del ruolo stesso del sindacato, chiamato a spostare il baricentro della propria azione dal conflitto e dalla contrattazione alla gestione di un welfare sostitutivo. Ovviamente, a dispetto degli esiti del referendum di Pomigliano e di Mirafiori, non si tratta certo di obiettivi così semplici da raggiungere, non solo per l’opposizione dei lavoratori, ma anche perché non si possono trascurare né l’incidenza dei vincoli giuridici e costituzionali (per esempio in materia di diritto di sciopero), né le stesse resistenze istituzionali, all’interno del mondo confindustriale e all’interno dei sindacati.
Se gli esiti reali sono dunque ancora piuttosto incerti, anche qualora si voglia concedere un credito rilevante al progetto Fabbrica Italia, l’obiettivo principale dell’inchiesta del «Gruppo Lavoro» rimane probabilmente quello di squarciare il velo della retorica che impedisce di scorgere la posta in gioco nei conflitti industriali dell’Italia di oggi. Si tratta in sostanza – come scrivono in particolare Michela Cerimele e Alfredo Saad-Filho nell’introduzione al volume – di scardinare il principio stesso attorno a cui ruotano gran parte delle discussioni sul futuro industriale, il principio secondo cui «la globalizzazione è ineluttabile» e non «resta che adeguarsi» (ibi, p. 10). Ovviamente, con questo Cerimele e Saad-Filho non intendono certo sostenere che la globalizzazione non esista, perché in effetti si tratta di tendenze che caratterizzano l’economia mondiale dell’ultimo trentennio, ma puntano piuttosto a mostrare come, dietro il fatalismo, si nasconda soprattutto l’esigenza che «la definitiva brutalizzazione del lavoro e della società tutta divenga socialmente accettabile» (ibi, p. 11). Un’esigenza che riguarda il lavoro degli operai dell’industria e che coinvolge anche gli altri settori. Ma anche un’esigenza che, posta in questi termini, non è così ineluttabile come, quasi invariabilmente, viene sostenuto.
Al termine dell’Introduzione, Cerimele e Saad-Filho, evocano il livello politico, non tanto per reclamare un intervento da parte delle istituzioni, quanto per segnalare come un fattore negativo – non solo nel caso di Pomigliano – sia stato rappresentato dall’assenza di una costruzione effettivamente ‘politica’ della protesta. «È mancato», scrivono in questo senso, «un discorso, politico per l’appunto, che facesse proprie le ragioni di quegli operai e provasse a ritessere le fila della protesta a un livello più generale, coagulando altri segmenti del lavoro e altre soggettività intorno a un progetto comune» (ibi, p. 32). Ed è proprio attorno a questa esigenza che ruota anche l’intervento di Mario Tronti, Berlinguer a Pomigliano, posto in appendice al volume (ibi, pp. 151-164). Ovviamente Tronti non intende alludere a un rilancio dell’ipotesi dell’«autonomia del politico», almeno nei termini in cui quest’ultima era stata configurata negli anni Settanta. La formula «Berlinguer a Pomigliano» – una formula forse non troppo azzeccata, ma che riecheggia il «Lenin in Inghilterra» e il «Marx a Detroit» del vecchio operaismo – intende alludere piuttosto alla necessità di una forza politica che sia in grado in buttare «sul tavolo da gioco la carta di un atto di potenza, capace di egemonia» (p. 164). Ma – e Tronti ne è ben consapevole – non è sufficiente il volontarismo. E, soprattutto, non può essere sufficiente la riesumazione di formule rituali, che possono certo conservare una forza simbolica, ma che sono destinate a scontarsi con la realtà di un mutamento radicale.
C’è d’altronde, nell’intervento di Tronti, un passaggio che richiederebbe un approfondimento. «Forse», scrive Tronti, «dire “fabbrica e società” non basta più, bisogna cominciare a dire “fabbrica e mondo”» (ibi, p. 156). E, in effetti, la questione cruciale si pone proprio in questi termini. Rispetto a ciò che era l’intuizione di fondo del Tronti degli anni Sessanta, si tratta di mutare i termini della vecchia dicotomia di «fabbrica» e «società». Ma, probabilmente, la semplice sostituzione della «società» con il «mondo», e cioè con un’economia globalizzata e finanziarizzata, rischia di risultare fuorviante e di indirizzare la discussione verso una concezione paralizzante della ‘resistenza’ dei lavoratori. Forse, diventa invece necessario tornare a scavare – e forse a invertire – il rapporto problematico tra la «fabbrica» e la «società», cercando di cogliere la configurazione che assume oggi e abbandonando alcuni schemi che rischiano di diventare controproducenti.
Quando, sul secondo fascicolo dei «Quaderni rossi», pubblicava il suo articolo su La fabbrica e la società, Tronti poneva le basi di quello che sarebbe diventato l’«operaismo» italiano: in quel saggio era esposta infatti, per la prima volta in modo esplicito, l’idea secondo cui la pressione della forza lavoro costituisce la «componente essenziale dello sviluppo capitalistico», perché proprio la conflittualità operaia alimenta lo sviluppo delle forze produttive. Ma, al tempo stesso, Tronti delineava anche un’immagine delle relazioni tra fabbrica e società che avrebbe pesato a lungo, perché tendeva a rappresentare lo sviluppo del capitalismo nei termini di una crescente estensione dalla fabbrica al fuori della dimensione puramente «empirica» dell’officina, e, dunque, nei termini di una diffusione della fabbrica verso la società. Com’è noto, Tronti non avrebbe tratto le implicazioni teoriche di questo passaggio, e avrebbe continuato a restringere i confini della «classe operaia» ai lavoratori «produttivi» del settore industriale. Lo schema della diffusione della fabbrica nella società avrebbe avuto però una grande fortuna, e in qualche misura continua ad averla anche oggi. Quello schema tendeva a fornire della società un’immagine in larga parte semplicistica, soprattutto quando si limitava a presentare la «società» come il luogo del consumo, in opposizione irriducibile alla «fabbrica», come sede della produzione e del conflitto. Se una simile dicotomia poteva reggere, teoricamente e politicamente, nella fase ascendente del «fordismo», dinanzi alla crisi di quell’assetto economico–sociale – come notava già Sergio Bologna negli anni Settanta – doveva rivelarsi invece un’arma sempre più spuntata. E, probabilmente, continua a suggerire anche oggi una visione quantomeno riduttiva dei mutamenti degli ultimi trent’anni. Quando Alberto Asor Rosa – riecheggiando proprio il Tronti degli anni Sessanta – scrive per esempio che «quel che si verifica e si modella nel lavoro produttivo allargato […] il giorno dopo te lo ritrovi nei rapporti sociali, nelle forme e nei programmi della politica, nei valori da perseguire o da rigettare e, alla fine, nelle nuove regolamentazioni giuridiche del sociale» (Il lavoro nell’era senza Cristo, in «il Manifesto», 16 ottobre 2010), finisce infatti con l’adottare uno schema in assoluto ritardo su una trasformazione di cui la strategia della Fiat di Marchionne rappresenta una delle conseguenze (anche se non certo la conseguenza definitiva).
Ciò non significa che le due dimensioni – la fabbrica e la società, o la fabbrica e il mondo – non debbano essere considerate congiuntamente, ma significa piuttosto riconoscere come le relazioni fra i due ambiti siano soggette a mutamenti notevoli, accompagnino – e aiutano a spiegare – i mutamenti ‘dentro’ la fabbrica (o, meglio, dentro il «processo di produzione immediato»). Si tratta, in altre parole, di comprendere che – in determinate fasi storiche e politiche – la dimensione della fabbrica, intesa come dimensione specifica delle produzione, è in grado di configurarsi anche come sede di identità collettive, di elementi comunitari, di appartenenze e, va da sé, di conflitti, che riescono anche a ‘fuoriuscire’ dai cancelli, reali o metaforici, per ‘contagiare’ l’insieme della società. Ma si tratta anche di comprendere che, in altre fasi, la fabbrica finisce invece con l’inglobare quanto proviene dalla società, in termini di valori, identità, comportamenti. Ed è piuttosto evidente che gli elementi di conoscenza proposti dalle inchieste operaie di oggi sembrano confermare l’esistenza di una realtà molto più simile a questa seconda opzione. I dati che riguardano il consumo di stupefacenti fra i giovani operai di Melfi o di Chieti – dati che ovviamente devono essere considerati nel loro effettivo valore, senza cedere alle semplificazioni – non testimoniano tanto (o soltanto) di un disagio specificamente operaio, quanto della ‘importazione’ all’interno della fabbrica di scelte di vita e di abitudini che provengono dall’esterno, e che sono proprie di determinati strati giovanili. E un’idea analoga – e forse ancora più rilevante – può essere desunta dai materiali raccolti da Gaddi, che mostrano come, persino in stabilimenti e aree che hanno alle spalle tradizioni conflittuali importanti, in alcuni casi addirittura storiche, l’identità operaia risulti estremamente debole, così come la propensione all’azione collettiva (non necessariamente conflittuale) – di fatto erosa nel corso di un ventennio di passività e di delega alle organizzazioni sindacali – e la fiducia nelle possibilità di un’azione rivendicativa comune, cui si ricorre solo nei casi più estremi. Tutto ciò non deve autorizzare l’idea fatalista della fine del conflitto, o l’idea che il tramonto della ‘vecchia’ classe operaia sia accompagnato anche dall’irreversibile declino di identità collettive capaci di mobilitazione. Ma certo deve indurre a ricercare, dentro quel mutevole rapporto, dentro i meccanismi che lo caratterizzano in una determinata fase storica, le tracce di possibili percorsi aggregativi e vertenziali.
La trasformazione dei rapporti tra fabbrica e società risulta d’altronde soprattutto da altro aspetto, che il caso di Pomigliano mostra efficacemente, sia perché qui il territorio riesce a sostenere la comunità operaia e le sue rivendicazioni, sia perché la strategia aziendale punta recidere tale legame, creando le condizioni di un new Greenfield. Ma non si tratta di un’eccezione limitata al sito campano, perché – a ben vedere – in questa dinamica si coglie in maniera quasi esemplare un elemento cruciale del nuovo assetto sociale ed economico, ossia la graduale erosione dei livelli del lavoro socialmente necessario, secondo una sorta di ‘accerchiamento’ dei vecchi luoghi della produzione e delle sedi in cui risulta maggiormente consolidato il potenziale di rigidità. Molte analisi hanno infatti rilevato una crescita del saggio di profitto, a partire dagli anni Novanta, conseguita in assenza di una ripresa del processo di accumulazione (o in presenza di un’accumulazione completamente diversa dal passato). In sostanza, una simile crescita è avvenuta grazie a misure di intensificazione dei ritmi di lavoro, di allungamento della giornata lavorativa, di sfruttamento di lavoro non pagato. E il presupposto è consistito in quel processo che, con una metafora, può essere identificato con la costruzione di New Enclosures, con la creazione di ‘nuove recinzioni’ che, come nell’Inghilterra del Cinque e Seicento, hanno di fatto eliminato – o disseccato – i ‘terreni comuni’, le risorse comuni ereditate dalla golden age postbellica e dal ciclo di mobilitazione degli anni Sessanta e Settanta, e, insieme, anche le «economie morali» che registravano (e a loro volta legittimavano) rapporti di forza, tradizioni conflittuali, modelli organizzativi e uno specifico assetto di welfare. Si tratta di un processo ovviamente complesso, che non ha un’unica matrice, procede seguendo percorsi eterogenei e trova sostegno in molteplici forze sociali e politiche. Ma, in larga parte, procede non tanto dalla fabbrica verso la società, quanto dalla società verso la fabbrica, sia premendo all’esterno della fabbrica (o dell’area del lavoro dipendente a tempo indeterminato) mediante la diffusione di regimi contrattuali atipici e del «lavoro autonomo di seconda generazione», sia giungendo dentro la fabbrica stessa, attraverso l’indebolimento (e la vera e propria rottura) degli argini tenuti in piedi dalla struttura tecnica e soggettiva della forza lavoro industriale.
Da questo punto di vista, nel cammino dalla società dentro la fabbrica non è difficile ritrovare una delle caratteristiche ricorrenti di ciò che può essere definito come «biocapitalismo», e che consiste nella crescente ‘individualizzazione’ del rapporto lavorativo e della tutela della sicurezza. Per questo, la finanziarizzazione non è solo una dinamica che guida il capitalismo globale e che indirizza le scelte di investimento (e di disinvestimento), ma è anche una dinamica che incide direttamente sulla vita quotidiana degli individui; a partire dagli anni Novanta, come ha scritto Stefano Lucarelli, la finanziarizzazione (soprattutto nelle forme del consumo finanziato dall’indebitamento privato) diventa – oltre che una soluzione pressoché obbligata per il singolo lavoratore – «una pratica di controllo sociale, che sussume all’interno del processo di valorizzazione la vita, diffondendo l’ideologia degli effetti ricchezza per annichilire la conflittualità esercitabile non solo sui salari, ma anche sui contenuti e sulle modalità di produzione e riproduzione» (La finanziarizzazione come forma di biopotere, in Crisi dell’economia globale, a cura di A. Fumagalli e S. Mezzadra, Ombre corte, Verona, 2009, p. 115). E non si tratta di un meccanismo che incide solo su quanti stanno ‘al di fuori’ della fabbrica. In una traccia di inchiesta sulla Tenaris di Dalmine, proprio Lucarelli ritrova per esempio, dentro l’esperienza di questi lavoratori, «alcune caratteristiche delle logiche dello sfruttamento presenti nel nostro capitalismo», «un modo di produzione in cui le logiche finanziarie dettano i tempi della de-costruzione del lavoro, ma anche delle singole esistenze: l’iper-lavorismo di manager e professionisti della comunicazione e l’intermittenza e la precarietà che troviamo (in forma crescente) anche fra gli operai della siderurgia» (Tenax 2008-10 (voci nella crisi alla Tenaris Dalmine), Questipiccoli, Ascoli Piceno, 2010, p. 51).
Dopo la conclusione della vertenza di Mirafiori, Marco Revelli ha sostenuto che il significato del duello fra la dirigenza Fiat e gli operai della Fiat va ben oltre il puro riflesso mediatico dell’evento. «Nel breve percorso tra Pomigliano e Torino, tra l’estate e l’inverno di questo 2010 di passioni tristi», ha scritto Revelli, «è emerso il profilo della nuova natura del conflitto sociale: il suo essere sempre di meno contrapposizione localizzata tra i fattori della produzione – tra capitale e lavoro, appunto come teoria e pratiche novecentesche ci avevano insegnato – e sempre di più tensione dirompente e tendenzialmente devastante, tra flussi e luoghi». Una contrapposizione, in larga parte nuova, «tra le dinamiche di un capitale mobile, liquido, ubiquo dentro le derive lunghe dei flussi finanziari e un lavoro inchiodato – potremmo dire ‘imprigionato’ – nella coriacea materialità dei propri luoghi, delle proprie fabbriche, dei propri insediamenti produttivi» (M. Revelli, Il territorio e gli operai, in «Il Manifesto», 27 gennaio 2011, p. 1). E, soprattutto, una contrapposizione che richiede modalità di mobilitazione nuove rispetto al passato, un sostegno – non puramente, ma anche simbolico – da parte dei territori, perché, osserva Revelli, «senza l’intervento di una società pronta a difendere la propria coesione, i diritti dei propri cittadini, la validità delle proprie regole, i valori della propria comunità – senza questo ruolo nuovo che potrebbe restituire alla politica il suo onore perduto – la ‘furia del dileguare’ dei flussi è destinata a piegarli» (ibi, p. 10).
Forse la contrapposizione fra l’economia dei luoghi e l’economia dei flussi (su cui si è soffermato a lungo Aldo Bonomi, da ultimo in Sotto la pelle dello Stato. Rancore, cura, operosità, Feltrinelli, Milano, 2010) può apparire poco convincente. Ma individua comunque un dato sostanziale: un dato che certo non annulla la dimensione di fabbrica – come vorrebbe la vulgata mediatica – ma che certo ne riconfigura la collocazione. Il punto sta però nel non limitarsi a proiettare la vecchia dicotomia fabbrica/società dentro la nuova contrapposizione  fabbrica/mondo, o luoghi/flussi. Non si tratta di negare l’immagine dei flussi, di considerarla come un puro riflesso ideologico, o di contrapporre semplicisticamente (e volontaristicamente) i luoghi ai flussi. Forse, si tratta invece di ‘vedere’ dentro quei flussi gli elementi di ‘parzialità’. Si tratta, per così dire, di mettere in questione l’immagine di flussi irrimediabilmente contrapposti ai luoghi, ricostruendo una mappa del «mondo» visto dal basso, e ritrovando la fabbrica – per quanto possibile – dentro quei flussi all’apparenza immateriali e incontrollabili. Non è certo un compito facile. Ma, probabilmente, è proprio questa la strada che le nuove inchieste dovranno percorrere.

Damiano Palano


Antonio Sciotto, Sempre più blu. Operai nell’Italia della grande crisi, Laterza, Roma – Bari, 2001, pp. 148.
Matteo Gaddi, Lotte operaie nella crisi. Materiali di analisi e di inchiesta sociale, Punto Rosso, Milano, 2010, pp. 296.
Fondazione Centro per la Riforma dello Stato (Gruppo Lavoro), Nuova Panda schiavi in mano. La strategia Fiat di distruzione della forza operaia, DeriveApprodi, Roma, 2011, pp. 164.













venerdì 13 maggio 2011

Cosa resta della «meritocrazia»? L’analisi di un mito contemporaneo sulle pagine di «Paradoxa»




di Damiano Palano

La storia della parola «meritocrazia» è senz’altro piuttosto singolare. La sua nascita può essere collocata con precisione, perché il termine venne proposto per la prima volta in The Rise of the Meritocracy. 1980-2033. An Essay on Education and Equality, un testo di Micheal Young pubblicato nel 1958 (Thames and Hudson, London) che ebbe anche una traduzione italiana (L’avvento della meritocrazia. 1870-2033, Comunità, Milano, 1962). Benché Young fosse uno scienziato sociale, The Rise of the Meritocracy era una sorta di romanzo fantascientifico che, collocandosi in una tradizione avviata in Inghilterra da autori come H.G. Wells, Aldous Huxley e naturalmente George Orwell, descriveva un’immaginaria società del futuro fondata sul «merito». Come Il mondo nuovo o 1984, anche The Rise of the Meritocracy era una ‘distopia’, perché si basava sulla descrizione non di un regime virtuoso, bensì di un regime totalitario e opprimente. A differenza degli scenari ritratti da Huxley e Orwell, ciò che rendeva terrificante il regime immaginario del futuro non erano né la trasformazione degli esseri umani in passivi consumatori, né la gestione totalitaria del potere da parte di uno Stato capace di sorvegliare i cittadini in tutti i momenti della loro vita. A connotare il dispotismo immaginato da Young era invece la trasformazione del «merito» nella base dell’ordine sociale. The Rise of Meritocracy era infatti una sorta di fittizio saggio storico, in cui l’autore, fermamente convinto della superiorità della società meritocratica, ne ripercorreva le origini e gli sviluppi, a partire dai primi passi, collocati già alla fine dell’Ottocento, fino alla realizzazione, avvenuta più o meno in coincidenza con la Seconda guerra mondiale. In primo luogo, i progressi nella misurazione dell’intelligenza avevano condotto alla progressiva critica dell’egualitarismo, mentre le esigenze della competizione internazionale avevano spinto lentamente verso l’introduzione dei principi meritocratici. In base a tali principi, la popolazione era suddivisa, fin dalla più giovane età, in categorie diverse, secondo il valore del Q.I., e dunque indirizzata verso percorsi educativi e lavorativi differenziati. Col tempo, la meritocrazia aveva comportato l’abolizione della scuola dell’obbligo, ma anche il tramonto del movimento socialista e dei sindacati. Inoltre, con l’affinamento dei metodi di valutazione del «merito», si erano anche evitati i rischi di misurazione disancorati dall’attitudine all’impegno. E, proprio lungo questa via, si era giunti ad affinare il criterio alla base della società meritocratica:

«L’intelligenza combinata con lo sforzo costituiscono il merito (I + S = M). Il genio pigro non è un genio. È proprio qui che i datori di lavoro hanno dato il loro contributo alla causa del progresso. L’“organizzazione scientifica del lavoro”, di cui furono pionieri Taylor, i Galbraith e Bedaux, ha reso possibile la misurazione dello sforzo. L’arte della misurazione del lavoro è diventata una scienza, con la conseguenza che le retribuzioni possono essere valutate e collegate allo sforzo in maniera più precisa» (ibi, p. 103).

Ma la società dominata dal «merito», o meglio dalla «meritocrazia», non era affatto immune dai rischi di crisi. Al contrario, lo storico cui Young faceva descrivere l’avvento del regime meritocratico scriveva mentre, in un immaginario 2034, iniziava a prendere forma un nuovo movimento di protesta, alimentato proprio dalle classi subalterne e spalleggiato da una minoranza dissidente dell’élite dominante. Tanto che, si chiedeva all’inizio del proprio trattato, se «il 2034 ripeterà il 1789 o semplicemente il 1848» (ibi, p. 25). Dopo una lunga disamina, la conclusione cui giungeva lo studioso del 2034 sembrava escludere i rischi di una rivoluzione, o anche l’eventualità di un radicale sommovimento. «Gli ultimi cento anni», affermava il sostenitore della meritocrazia, «hanno assistito ad una vastissima ridistribuzione dell’intelligenza tra le classi della società, con la conseguenza che le classi inferiori non hanno più la forza per portare a fondo la loro rivolta» (ibi, p. 193). A condannare ogni speranza di rivolta era, in fondo, proprio l’inferiorità intellettuale degli strati sociali subalterni, destinata a essere abbandonata da quelle frazioni dell’élite che temporaneamente, per effetto di una delusione del tutto contingente, si erano staccate dalla classe dominante. Proprio alla conclusione del trattato – e mentre si avvicinava l’imminente scadenza del maggio 2034, in cui era prevista una grande mobilitazione del movimento populista – lo storico formulava perciò una previsione piuttosto netta:

«questa gente declassata non potrà mai essere che una minoranza eccentrica – i populisti, come forza politica, non sono mai stati altro che questo – perché l’élite viene trattata con tutto il riguardo che si può desiderare. Senza un grammo di intelligenza nel cervello, le classi inferiori sono minacciose non più di quanto possa esserlo una plebaglia, anche se talvolta fanno il muso, e si mostrano volubili e un po’ imprevedibili. Se le speranze di alcuni dei primi dissidenti si fossero realizzate, e i ragazzi brillanti provenienti dalle classi inferiori fossero rimasti in seno a queste, per insegnare, per ispirare e per organizzare le masse, avrei un racconto da esporre. Ma i pochi che ora propongono una misura così radicale sono in ritardo di cent’anni. Questa è la previsione che mi propongo di verificare quando, nel prossimo maggio, andrò ad ascoltare i discorsi che verranno fatti dalla grande tribuna di Peterloo» (ibidem).

Il testo del narratore di The Rise of Meritocracy però si fermava qui. E Young – con una nota a pie’ pagina di sulfurea ironia – scriveva, simulando l’intervento dell’editore: «Poiché l’autore di questo saggio è stato ucciso anch’egli a Peterloo, gli editori, con rincrescimento, non hanno potuto sottoporgli le bozze del manoscritto per quelle correzioni che forse avrebbe voluto apportargli prima della pubblicazione. Il testo, anche nella sua ultima parte, è stato lasciato esattamente come egli lo scrisse. I fallimenti della sociologia sono illuminanti quanto i suoi successi» (ibidem).
Se la nota conclusiva faceva trapelare l’intento dell’intera opera di Young, i lettori successivi non sono stati sempre così arguti come lo scrittore inglese probabilmente auspicava. E così, qualcuno ha dimenticato di leggere quella piccola nota a piè di pagina, finendo col travisare completamente il significato della distopia. Tra questi lettori distratti, deve essere probabilmente annoverato anche Roger Abravanel, autore di Meritocrazia. Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto, pubblicato dall’editore Garzanti nel 2008, con una prestigiosa prefazione di Francesco Giavazzi. Come nota Mario Tesini nel numero 1/2011 di «Paradoxa», Abravanel incorre in un equivoco non da poco, dato che il suo testo è interamente centrato sul «merito» e sul valore positivo della «meritocrazia». «Piuttosto incredibilmente» - osserva infatti Tesini - «egli mostra di fraintendere completamente il senso del libro di Michael Young, assai spesso citato non solo in relazione all’origine del vocabolo, ma anche come una difesa, tutt’al più problematica, della meritocrazia: della quale, come si è visto, esso costituisce una denuncia implacabile. La forzatura del testo (in passato perfettamente inteso da interpreti tra loro assai diversi come Raymond Aron e Christopher Lasch) appare veramente curiosa. In modo del tutto arbitrario, ad esempio, in luogo dell’unico narratore se ne ravvisano due, in conflitto tra loro: con il risultato che la dimensione filosofica e sociale di Rise of Meritocracy, ed il suo stesso valore letterario, congiuntamente svaniscono» (Meritocrazia, merito e storia del linguaggio politico, in «Paradoxa», 2011, n. 1, p. 66).
Ma l’infortunio di Abravanel non è certo isolato. Non soltanto perché in Italia al termine di «meritocrazia» si è fatto ricorso quasi costantemente, nell’ultimo mezzo secolo, senza alcun riferimento né al nome di Young, né alle specifiche motivazioni che spinsero a coniare l’espressione. Ma anche perché non si tratta di una deformazione soltanto italiana, se è vero che lo stesso Young, in uno dei suoi ultimi interventi, nel 2001, sentì l’esigenza di protestare contro l’uso che della «meritocrazia» faceva l’allora Primo ministro britannico Tony Blair: un uso che, evidentemente, distorceva completamente lo spirito di The Rise of Meritocracy, tramutando, in modo del tutto acritico, la «meritocrazia» nel tassello di un’ideologia antiegualitaria (cfr. M. Young, Down with Meritocracy, in «The Guardian», 29 giugno 2001).
Negli ultimi anni, le celebrazioni della meritocrazia sono diventati l’inevitabile luogo comune con cui corredare gli attacchi alle diverse ‘caste’ che bloccherebbero lo sviluppo dell’Italia e che sarebbero la causa più profonda del suo declino economico. A ben vedere, però, in poche occasioni si è cercato di esaminare con un minimo di serietà cosa c’è, realmente, dietro il «merito» invocato a gran voce dagli alfieri della meritocrazia. Quando lo si è fatto, i risultati sono stati piuttosto deludenti, se non proprio sconcertanti (come nel caso della vibrante difesa di Abravanel, per cui il pilastro della meritocrazia è la misurazione «oggettiva» del merito). E, così, è inevitabile che un esame accurato delle ipotesi delineate dai sostenitori della meritocrazia abbia finito con lo svelare soltanto un inestricabile viluppo di luoghi comuni, ingenuità e asserzioni ideologiche (cfr. per esempio M. Boarelli L’inganno della meritocrazia, in «Lo straniero», n. 118, 2010).
In fondo, è proprio questo il risultato che emerge anche dal numero di «Paradoxa», interamente dedicato a Merito e Uguaglianza, che, oltre all’editoriale di Laura Paoletti (Le molte facce del merito), raccoglie interventi di Vittorio Mathieu, Francesco D’Agostino, Pietro Grilli di Cortona, Lucetta Scaraffia, Luigi Cappugi, Stefano Semplici, Mario Tesini, Marcello Ostinelli e Francesca Rigotti. L’istanza da cui parte il fascicolo di «Paradoxa» è una riabilitazione del merito. Come scrive la curatrice Paoletti, «ci siamo interrogati sul ‘merito’, muovendo dalla ferma convinzione che sia urgente e indispensabile farne un principio fondante del nostro tessuto civile e politico, avvilito da ben altri criteri e logiche di promozione sociale» (p. 8). Ma il risultato si allontana da un’esaltazione acritica del «merito», a proposito del quale in effetti molti autori sottolineano, in vari modi, l’impossibilità di qualsiasi misurazione ‘oggettiva’.
Non mancano – ed è comprensibile – alcuni tentativi di difendere il merito. In questo senso, vanno per esempio le caute osservazioni di Grilli di Cortona, che individua in particolare una netta contrapposizione fra il merito, che si applica al singolo individuo, e i benefici assegnati ai gruppi e ai loro componenti. «Quali sono le sfide quotidiane al merito e alla meritocrazia?», si chiede infatti. E Grilli di Cortona le ritrova nella minaccia costituita dai benefici (o dai privilegi) assegnati alle collettività, che finiscono con l’appiattire i meriti e i demeriti individuali. «Il merito», scrive, «viene penalizzato ogni qualvolta la dimensione individuale è sostituita da quella collettiva: l’individuo ottiene qualcosa non in virtù dei suoi meriti personali, ma in virtù della sua appartenenza ad un gruppo, ad un insieme di persone che condividono qualche caratteristica comune. In questo modo la rappresentatività di gruppi e categorie diviene prioritaria rispetto al criterio del merito individuale grazie all’assegnazione di quote» (Significato e ruolo sociale del merito: alcune riflessioni, p. 31). E, secondo Grilli di Cortona, i criteri possono essere molti, tanti quanti possono essere i modi in cui i ‘gruppi’ si formano e vengono riconosciuti (politico-culturali, di genere, di residenza, di età, risarcitori, parentali, ideologici).
Ben più convinta, è la difesa di Lucetta Scaraffia, che si scaglia in particolare contro la tradizione culturale italiana, cui è estranea la valorizzazione del merito che invece contrassegna le società anglosassoni. Come scrive, a questo proposito: «l’Italia, governata per secoli dalle piccole corti – spesso rette da dinastie straniere – o addirittura da potenze straniere, ha visto sempre scegliere le sue élites in base alla vicinanza e all’obbedienza al potere piuttosto che al merito. È quindi un’antica abitudine, molto radicata soprattutto nelle regioni del paese che non hanno conosciuto una rivoluzione industriale autoctona» (L’antimeritocrazia italiana, p. 36). Le condizioni per l’affermazione di una società meritocratica sono infatti diverse da quelle che hanno a lungo caratterizzato l’Italia (e molti fra i suoi territori): «il merito infatti può essere riconosciuto a una sola persona, non a un gruppo né a una famiglia», e, perciò, «la meritocrazia come sistema di selezione può affermarsi solo in società democratiche e di economia liberale, società in cui è avvenuta una rivoluzione industriale che ha visto il formarsi di una élites di imprenditori che ha avuto successo per meriti professionali» (ibi, p. 37). Va da sé, allora, che nel codice genetico italiano sia sempre stata inscritta una vocazione alla «antimeritocrazia». Questa vocazione è stata arginata dalla «scuola liberale», ossia dall’istruzione nata dall’intervento dello Stato con la Legge Coppino, che impose la scuola elementare obbligatoria, e con la scuola media unificata, negli anni Sessanta. Ma l’«antimeritocrazia» ha ripreso vigore – secondo il ragionamento di Scaraffia – a seguito dell’ondata di egualitarismo innescata dal Sessantotto:

«La crisi della nostra scuola, soprattutto quella secondaria, ha determinato quindi la quasi totale scomparsa di quella tendenza alla selezione meritocratica che la scuola liberale in qualche modo aveva diffuso, creando le condizioni per la sua esistenza. Oggi, che tutti sono promossi, che i titoli di studio non hanno più valore, è più facile che, nel selezionare, la meritocrazia lasci il passo ad altre forme di selezione, di tipo clientelare. Ma nessuno sembra preoccuparsene e, quando si parla di necessarie riforme della scuola secondaria, sono evocate solo la necessità di rendere la scuola più vicina alla vita moderna, di rinnovare le forme didattiche: non si parla mai di ripristinare la severità necessaria ad una selezione meritocratica e chi lo fa – come ha provato la Gelmini – viene subito costretto al silenzio nello sdegno generale. Il nostro sistema scolastico è stato ridotto così da una serie di interventi – avvenuti nei decenni post-sessantotto – finalizzati a garantire all’interno della scuola una totale eguaglianza fra gli insegnanti e gli alunni» (ibi, p. 38).

Quando Scaraffia evoca «una serie di interventi» che hanno condotto alla «totale eguaglianza fra gli insegnanti e gli alunni», intende l’abolizione delle note di merito e di demerito agli insegnanti (con cui i presidi riuscivano a influire sulla carriera e sulla destinazione del corpo docente), oltre che alla eliminazione della facoltà di utilizzare la «bocciatura» da parte degli insegnanti. Ma, al di là di questi elementi (che certo andrebbero valutati con maggiore attenzione), non è difficile individuare nel ragionamento un ‘cortocircuito’, se non una patente contraddizione logica. È infatti piuttosto singolare che, dopo aver sostenuto che l’«antimeritocrazia» italiana ha profonde radici culturali e storiche, e aver enunciato nettamente che una reale meritocrazia può esistere solo «in società democratiche e di economia liberale, società in cui è avvenuta una rivoluzione industriale che ha visto il formarsi di una élites di imprenditori che ha avuto successo per meriti professionali», l’unico modo per conseguire la meritocrazia sia individuato nell’intervento politico dello Stato: sia nel caso delle leggi che introducono l’istruzione obbligatoria, sia nel caso degli interventi con cui il Ministro dell’Istruzione impone – o cerca di imporre – agli insegnanti l’adozione di misure disciplinari. Si tratta, senza dubbio, di un ragionamento piuttosto interessante, perché la montagna della società aperta, delle «società democratiche», dell’«economia liberale», finisce col partorire il topolino dell’intervento dello Stato. Un topolino che, peraltro, può anche assumere il volto inquietante di un despota, non solo custode, ma anche legislatore e giudice della moralità pubblica. E un topolino la cui unica vocazione – a dispetto delle dichiarazioni di liberalità – diventa quello di raddrizzare il ‘legno storto’ della società, i suoi ‘vizi’, le sue ‘distorte’ tradizioni culturali.
Ovviamente, Scaraffia è ben consapevole – e non può non esserlo – della portata distruttiva della contraddizione che si annida nel suo discorso. E proprio per questo evoca, proprio in conclusione al suo intervento, la necessità di «una vera rivoluzione culturale, che ci porti non solo ad accettare finalmente la selezione meritocratica come necessità sociale, ma anche a ridiscutere i criteri con cui il merito viene giudicato» (ibi, p. 41). In questo senso, la polemica è diretta contro l’egualitarismo, contro «il mito della ‘scuola di tutti’», e, più o meno direttamente, contro i miti propalati dal Sessantotto. Anche in questo caso, non si tratta affatto di motivi nuovi, ma, alcuni anni fa, hanno incontrato una nuova fortuna, principalmente perché furono utilizzati nella campagna per le elezioni presidenziali da Nicholas Sarkozy. Allora, i numerosi estimatori italiani di quello che di lì a poco sarebbe diventato il nuovo Presidente francese ne accolsero con entusiasmo il vigore polemico. E, così, anche in Italia – soprattutto nei mordaci interventi di Giuliano Ferrara – riprese forza la ormai più che quarantennale battaglia culturale contro il Sessantotto e i suoi miti, ossia contro l’eguaglianza a tutti i costi, il relativismo morale, la rilassatezza dei costumi, il completo pregiudizio del merito individuale, sacrificato sull’altare di una desolante omologazione: tutti elementi che – secondo questi critici – avrebbero corroso la tempra austera e il rigore morale del popolo italiano, condannandolo al declino economico, al progressivo allontanamento dai livelli di eccellenza. Naturalmente, non si trattava di argomentazioni che potessero essere prese troppo sul serio, fondate com’erano – piuttosto evidentemente – su luoghi comuni, più che su dati di fatto. Ma è comprensibile che questo tasto, e cioè che l’idea di «una vera rivoluzione culturale», per utilizzare le parole di Scaraffia, abbia oggi perso molto del proprio mordente. Anche perché quei medesimi entusiasti sostenitori del ritorno al rigore morale e agli austeri costumi dei padri hanno preso a rivolgersi – dopo solo qualche mese – alla gaudente esaltazione del libertinismo (mostrandosi così, ancora una volta, come tenaci, consapevoli e irriducibili alfieri di un nichilismo assoluto).
Una serie di preziose osservazioni vengono anche da Stefano Semplici, che mette in guardia contro alcuni rischi che si celao nell’opzione meritocratica. Uno di questi è che «il migliore in termini di performance […] può sempre approfittare della sporgenza delle sue capacità per soddisfare il suo interesse e le sue ambizioni personali piuttosto che l’interesse comune» (Capaci «e» meritevoli, p. 48). Ma, ancora più rilevante, è la questione che sta a monte della ripartizione dei meriti, ossia la questione – già ben chiara ad Aristotele – per cui una ripartizione ‘giusta’ dei meriti «non basta a superare le divisioni su quel che vada considerato appunto come il merito da premiare, in assoluto o in paragone ad altri» (ibi, p. 49). Quest’ultimo non è d’altronde un nodo di poco conto. È, anzi, il vero e proprio convitato di pietra di tutti i dibattiti sulla meritocrazia. Perché, in fondo, chi parla di meritocrazia ha un’idea ben precisa di quale sia il merito da premiare, mentre – ed è questo il punto centrale – nessun merito è ‘oggettivamente’ percepibile, e tantomeno ‘misurabile’, se, a monte, non sta una decisione – che è anche ‘politica’ – su cosa, in una determinata società, sia meritevole e cosa invece non lo sia. Ma dire che questa decisione sia ‘politica’ non significa affermare che si tratti, sempre, di una decisione imposta dallo Stato: più semplicemente, significa solo che si tratta di decisioni che riflettono le relazioni di potere esistenti all’interno di un determinato gruppo sociale. Questo comporta anche che, all’interno di una società, si possa arrivare a far coincidere il merito con il successo di mercato, ossia che, per esempio, il successo economico di un imprenditore sia inteso come testimonianza dei suoi meriti, che lo stipendio milionario percepito da un calciatore sia percepito come la giusta ricompensa del suo merito sportivo, o che – per giocare sul filo del paradosso – la popolarità del vincitore di un reality show sia concepita come il giusto riconoscimento dei meriti conseguiti nell’arricchimento della vita sociale e culturale di un paese.
Ma è proprio nelle aporie del discorso meritocratico che affondano il coltello i due interventi di Mario Tesini e Francesca Rigotti. Tesini ricostruisce in particolare una sorta di storia dell’idea di meritocrazia e, soprattutto, dell’idea del merito. Si tratta di una storia che ha radici lontane, ma che subisce un’accelerazione improvvisa con la Rivoluzione francese e con la travolgente ascesa di Napoleone, un’ascesa cui tutto l’Ottocento avrebbe continuato a guardare come a un modello di riconoscimento del merito. L’obiezione principale che Tesini rivolge contro l’«ideologia» meritocratica è pero costituita soprattutto dalla sua funesta ingenuità, un’ingenuità che finisce col trascurare la ‘relatività’ del merito, ossia la complessità delle strade che conducono, nelle diverse società, a definire ‘cosa sia’ il merito, prima ancora che a misurarlo:

L’ideologia meritocratica (a differenza ovviamente dei ragionevoli tentativi di valorizzazione dei meriti, come umanamente percepibili e convenzionalmente valutabili), costituisce – proprio in quanto ideologia – una radicale negazione della Storia: in una parola della realtà e della complessità dell’esperienza umana. Sarebbe forse ingiusto pensare che sempre sia dettata da una mera logica di dominio mascherata di forma scientifiche. Ma anche se in buona fede, anche se originata dalla shakesperiana indignazione per lo ‘scherno’ che i meritevoli assai spesso subiscono, l’aspirazione meritocratica alimenta una pretesa eccessiva. Essa cade nel vizio costruttivistico e perfettistico di chi non riconosce il carattere inevitabilmente relativo, condizionato, in definitiva storico di ogni istituzione sociale. Nel suo uso retorico – e con la consapevolezza che di tale uso si tratta – il richiamo al valore del merito come criterio orientativo (troppo a lungo penalizzato, in particolare nel contesto italiano) può essere non solo legittimo avere una funzione positiva pratica: nel senso di una provocazione intellettuale utile. A volerne fare invece un pre-requisito scientifico e un parametro di valutazione oggettiva, riconducibile a valori quantificabili, certificabili e infine fondativi di un nuovo ordine sociale (e morale), sarebbe più facilmente l’incubo della distopia (dell’utopia negativa) descritta da Michael Young a prevalere; non l’utopia ottimistica e a volte troppo interessata degli attuali ideologi di un impossibile, e forse neppure auspicabile, potere del merito (Meritocrazia, merito e storia del linguaggio politico, pp. 66-67).

Le argomentazioni di Francesca Rigotti imboccano un’altra direzione, in un intervento il cui titolo - «Contro il merito» - rimanda esplicitamente al celebre Conto il metodo di Paul K. Feyrabend. Probabilmente quest’ultimo, osserva Rigotti, non avrebbe lesinato critiche al merito e alla meritocrazia, perché in fondo aveva levato una protesta tutt’altro che conciliante contro la prosopopea della ‘Scienza’ e di quelle élite che elevano «la propria concezione del mondo a criterio universale dell’umanità», che chiamano verità «l’ideologia dominante dei conquistatori» e che accampano «il diritto di misurare con tale criterio la felicità, le sofferenze, i desideri di altri». In realtà, però, Rigotti svolge un discorso che segue solo in parte Feyerabend. Piuttosto, si rivolge contro il mito del merito, quel mito in virtù del quale il merito «deciderebbe con equità e purezza della attribuzione di posizioni di prestigio e ben pagate, e prima ancora dell’accesso a luoghi di istruzione privilegiati che conducono a carriere di responsabilità lautamente retribuite e socialmente riconosciute». In sostanza, quel mito secondo cui «il merito sarebbe un criterio pulito, giusto ed equo per l’attribuzione e la distribuzione dei beni predetti, invocato da sinistra e da destra a sostituire i biechi criteri basati su eredità, corruzione, nepotismo» («Contro il merito», p. 83). E, partendo dal presupposto di un forte egualitarismo, la tesi di Rigotti sostiene, in estrema sintesi, che proprio l’egualitarismo non è conciliabile «con principi che richiedono e giustificano diseguaglianza e privilegi come il principio del merito» (ibidem). Più specificamente, Rigotti punta a smantellare quelle posizioni filosofiche che criticano l’egualitarismo mostrando come esso sia frutto dell’«invidia» sociale, o sia insensibile invece nei confronti della responsabilità individuale. Ma chiunque – osserva Rigotti – sa bene che non si può parlare della responsabilità pensando che tutta la responsabilità del ‘merito’ o del ‘de-merito’ sia solo una questione individuale, che sia solo il risultato delle scelte compiute dal singolo nel corso della sua vita. «Tutti sappiamo anche solo intuitivamente che così non è, come sappiamo che nascere in un certo stato, da una certa famiglia che ti segue a scuola, ti fa imparare le lingue e apprezzare la musica, nonché crescere in un ambiente che non ti distrugge bensì riesce a darti fiducia in te stesso, è importante per le scelte che sarai in grado di compiere in futuro» (ibi, p. 89). Non è dunque casuale che chi si muove contro le rivendicazioni dell’egualitarismo tenda anche a ridurre al minimo le influenze ambientali e familiari sulla formazione individuale. Se si parla di una dotazione originaria, che ciascun individuo riceverebbe in sorte dalla natura, ha dunque davvero senso parlare di merito? Ovviamente, no. E proprio qui si intravede il reale significato che la retorica meritocratica assegna al merito, in realtà misurato non in base alle capacità o agli sforzi dei singoli individui, ma in base ai risultati ottenuti sul mercato. In corrispondenza di questo snodo, si divaricano nettamente il merito (inteso come l’efficienza di mercato) e l’uguaglianza, concepito come principio di giustizia volto a premiare gli sforzi compiuti dai singoli, sulla base delle loro specifiche dotazioni. Come scrive Rigotti a questo proposito:

«Le leggi del mercato si disinteressano sovranamente degli sforzi meritori e guardano solamente ai risultati, così come non si interessano alle storie che producono merito o giustizia, ma soltanto alle vendite del prodotto finito. Alle leggi del mercato non importa un bel niente se il risultato deriva da merito attivo o da dotazione passiva: vogliono persone che rispondono ai requisiti richiesti dal momento o imposte da mode e bisogni, veri o falsi, e sono disposte a pagarle profumatamente senza alcun riguardo nei confronti di attività o passività del ‘merito’. Il fatto è che bisogna distinguere chiaramente tra leggi del mercato e giustizia e dire che le leggi del mercato che stabiliscono una concorrenza tra individui con doti diseguali e impari vocazioni allo sforzo non sono giuste. Il problema dell’ideologia è quello di confondere efficienza della società e giustizia resa all’individuo. Una società che discrimina i suoi membri meno brillanti incoraggiando solamente i dotati (di nome prestigioso, intelligenza, fortuna, buona volontà ecc.) a intraprendere carriere di privilegio, raggiungerà forse una buona efficienza produttiva ma trascurerà la giustizia dovuta al singolo» (ibi, pp. 92-93).

Oltre a tutti questi limiti, che si nascondono dentro la seducente prospettiva di una società meritocratica, Rigotti non può fare a meno di soffermarsi su una realtà d’altronde evidente a tutti, e cioè su quella che definisce, eufemisticamente, «una strana ambivalenza» propria delle nostre società di mercato:

«benché inneggino al mercato e all’eccellenza indipendenti da eredità, nepotismo e corruzione, esse mostrano di fatto una spiccata tendenza a accettare e a promuovere l’«ereditarietà delle cariche», fenomeno particolarmente evidente nel campo della politica, dello sport e dell’intrattenimento. Come si comporta di fatto una società che predica l’illibatezza della meritocrazia? Favorisce e incrementa, in Italia, in Svizzera, in Europa come oltreoceano, dinastie di politici, giornalisti, sportivi e sportive, cantanti, attori, registi e intrattenitori di vario genere, crogiolandosi nella pratica del nepotismo. Non affliggerò il lettore con lunghi elenchi dinastici, soprattutto perché tali dati nulla aggiungono alla prospettiva teorica, se non la constatazione di una contraddizione tra l’enunciazione della adesione a principi meritocratici e la messa in pratica di principi nepotistici, che conferma il sospetto che spesso si confondono efficienza della società e leggi del mercato con criteri di giustizia. E se la giustizia e il mercato collidono?» (ibi, p. 93).

È difficile non concordare con Rigotti, quando sottolinea la «strana ambivalenza» per cui quanti proclamano l’esigenza di adottare i principi meritocratici, si affidano quasi invariabilmente alle pratiche del nepotismo. Ed è anche difficile non riconoscere la fondatezza del ragionamento intorno alla contrapposizione fra un merito inteso come criterio di efficienza di mercato e i principi di eguaglianza. Ma, forse, il riferimento di Rigotti al mercato – e cioè a un merito che si definisce in base ai criteri di mercato, alle esigenze di «efficienza della società» – richiede qualche approfondimento. Quantomeno, per evitare di adottare, più o meno implicitamente, un’immagine romantica del mercato, in larga parte, se non sostanzialmente contraddetta dalla realtà del mercato, e, soprattutto, dalla realtà del mercato del lavoro delle società contemporanee. Ma, per farlo, è forse necessario tornare a ragionare proprio sul ‘contenuto’ del merito.
Nella sua difesa del merito, Scaraffia scrive: «il concetto di uguaglianza […] si è sempre dimostrato nella pratica nemico della meritocrazia: lo conferma anche la storia dei regimi socialisti, dove l’obbedienza politica ha sostituito ogni forma di selezione per merito» (L’antimeritocrazia italiana, p. 39). Nei regimi socialisti, in sostanza, il merito viene del tutto oscurato da un elemento diverso, ossia dall’obbedienza. «La dittatura», scrive infatti Scaraffia, «in ogni sua forma, significa totale conformismo, che, specie se obbligatorio, è stato sempre il nemico più accanito del merito» (ibi, p. 39). Naturalmente, Scaraffia coglie un punto quantomeno condivisibile quando sostiene che l’obbedienza è un criterio fondamentale per ogni dittatura. Ma il suo ragionamento diventa molto meno nitido sia quando individua un’opposizione insanabile fra l’obbedienza e il merito, sia quando ritiene – più o meno esplicitamente – che le democrazie liberali, a differenza delle dittature in cui viene ricompensata solo l’obbedienza, siano in grado di premiare il merito.
Dal primo punto di vista – come dimostrano anche diversi saggi contenuti nel fascicolo – parlare di merito significa solo stabilire un criterio con cui assegnare una retribuzione, che può essere positiva (un premio) oppure negativa (un castigo). Ma parlare di merito, in generale, non significa affatto indicare il contenuto specifico della qualità da premiare. Proprio perché il merito – come si è detto – è una costruzione sociale, perché i criteri con cui definire il merito, e con cui misurarlo, sono sempre l’esito di un processo sociale complesso, che ovviamente risente dei rapporti di potere, e che può essere influenzato da altre componenti. Pertanto, il ‘merito’ può assumere volti molto diversi. In una società militare, il merito è dato principalmente dalla virtù militare, con tutte le dimensioni che la storia ci mostra. All’interno di un’organizzazione criminale, il merito viene invece definito, per esempio, dall’abilità di compiere rapine, di eseguire omicidi su commissione, oltre che dalla capacità di resistere alle intimidazioni delle autorità giudiziarie e di polizia senza rivelare nulla su complici e mandanti. Nel campo dello sport, il merito viene definito in base ad altri criteri, che ovviamente rimandano – più che alla capacità in senso stretto – ai risultati ottenuti in occasione di competizioni agonistiche. Come tutti questi casi dimostrano abbastanza efficacemente, il merito non ha di per sé un contenuto, e il fatto di evocare la necessità di una meritocrazia non può in alcun modo aggirare il problema di chiarire ‘cosa sia’ il merito, a meno di non voler far passare i criteri di ‘merito’ come qualcosa di ‘naturale’, di indipendente dalle relazioni di potere, dal contesto sociale. Un’obiezione, in questo caso, potrebbe chiamare in causa l’esempio dell’«uomo di genio», capace di creare dal nulla qualcosa di nuovo. Ma si tratta di un’obiezione poco significativa, se ci poniamo in una prospettiva storica che consideri, per esempio, l’evoluzione dell’idea di ‘autore’ e di ‘artista’, o che prenda in considerazione i motivi per cui un singolo può essere premiato in quanto dotato di facoltà straordinarie.
Il secondo assunto di Scaraffia – quello che contrappone le dittature alla democrazia – richiama invece l’attenzione su un altro punto. Innanzitutto, ci si potrebbe chiedere se sia proprio così corretta l’idea che la democrazia, a differenza delle dittature, premi il merito e non l’obbedienza. Ma, da questo punto di vista, Grilli di Cortona – accordandosi in fondo con il senso comune – invita ad abbandonare soverchie illusioni, quando osserva: «la politica non è quasi mai meritocratica: tra i principi di base della politics (che definisce processi e procedure per la conquista e l’esercizio del potere), il merito è importante ma non è al primo posto»; e questo dato di fatto, continua, «probabilmente, non è del tutto estraneo alle crisi cicliche di sfiducia vissute dalla politica, con la conseguenza di periodiche attribuzioni di fiducia a forme diverse di competenza, la conoscenza, la scienza, l’esperienza» (Significato e ruolo sociale del merito, p. 27).
A ben vedere, però, non si può essere del tutto ingenerosi nei confronti dei politici che riescono a ottenere risultati. In qualche modo, anche un aspirante leader che riesce a essere eletto dimostra, sul campo, di avere qualche merito. Perché dimostra di avere quelle abilità, quelle attitudini, quelle caratteristiche che gli elettori premiano: l’abilità oratoria, la ricchezza, l’eleganza, un’elevata provenienza sociale, un passato prestigioso alle spalle, una sapiente capacità di gestire la propria immagine televisiva, un’arguzia preziosa nei talk-show, o forse persino la reputazione di una competenza tecnica. Ovviamente, si potrebbe obiettare, «questi non sono ‘meriti’», «i cittadini non sono in grado di giudicare realmente il ‘merito’ degli aspiranti governanti», «gli elettori si fanno deviare da immagini spesso distorte, da reputazioni che poco hanno a che vedere con la realtà». In obiezioni di questo tipo, però, non è difficile intravedere il disprezzo di Platone verso la massa, il dispregio verso il giudizio superficiale del demos, il disgusto verso l’insipienza della plebe e gli inganni dei demagoghi. Ed è scontato che la soluzione che scaturisce da queste obiezioni non potrebbe essere altro che l’intervento di un’autorità superiore: l’intervento, cioè, di una sorta di ‘controllore’ – forse non necessariamente dispotico, ma certamente autoritario – che fissi il ‘contenuto’ del merito e i criteri con cui misurarlo. Ma, com’è ovvio, in questo caso ci si allontanerebbe in modo irrimediabile dalla democrazia e dai principi liberali, per approdare a una gestione autoritaria, che, comunque, non svaluterebbe in sé il merito, ma attribuirebbe un altro significato al merito.
Questo insieme di considerazioni conduce però al rapporto fra merito e obbedienza. Infatti, non è affatto così scontato – come sembra ritenere Scaraffia – che il merito sia incompatibile, o irrimediabilmente opposto, all’obbedienza. Perché, in effetti, il contenuto specifico del merito può anche consistere nell’obbedienza. In una società in cui viene premiato il rispetto del dovere – e tutte le società umane non possono fare a meno del rispetto del dovere (anche se muta storicamente il contenuto ‘morale’, ‘sociale’ e ‘politico’) – il merito viene ad avvicinarsi notevolmente all’obbedienza. «Il rispetto del dovere», scrive per esempio Mathieu, «può anche ridursi a obbedire al comando del più forte, in vista della sanzione positiva, o, più spesso, negativa (pena) che egli può irrogare» (La meritocrazia come postulato, p. 13). Così, quel difetto che Scaraffia attribuisce alle dittature – e in particolare all’Urss – è in realtà un carattere presente più o meno in tutti i gruppi umani: e ciò significa non soltanto che l’obbedienza è indispensabile a ogni organizzazione, ma anche che l’obbedienza è sovente trasformata in una virtù, o forse persino nella virtù più elevata, la quale viene fatta coincidere per intero con il merito. Pertanto, ritenere che molti politici contemporanei non siano selezionati in base al merito, ma in base all’obbedienza, è logicamente scorretto, semplicemente perché, all’interno dell’organizzazione in cui essi operano, il criterio principale con cui vengono stabiliti i ‘meriti’ individuali possono anche coincidere (e spesso di fatto coincidono) con l’obbedienza, l’aderenza alla disciplina di partito, l’abnegazione, la capacità di difendere la linea anche quando vi sono forti motivi di disaccordo. Quegli stessi principi che definiscono il merito nei corpi militari, che – come diceva il vecchio motto dell’arma dei Carabinieri – sono «usi obbedir tacendo e tacendo morir». Ma l’obbedienza non è una virtù solo in campo politico. E, da questo punto di vista, è forse da prendere in esame con maggiore attenzione l’idea di Rigotti secondo cui il merito, nelle società contemporanee, viene a coincidere principalmente con «l’efficienza di mercato».
Quando evidenzia la netta contrapposizione fra i principi egualitari di giustizia e il principio di un merito che, in realtà, coincide solo con l’efficienza di mercato, Rigotti coglie un punto importante. Un punto che può essere ulteriormente sviluppato, per evitare di pensare all’efficienza al mercato in termini eccessivamente romantici. In effetti, l’efficienza assume un carattere diverso a seconda del tipo concreto di lavoro cui ci si riferisce. Per esempio, nel caso di un singolo artigiano, che produce individualmente un manufatto e che lo porta sul mercato, l’efficienza chiama in causa la sua perizia tecnica e – va da sé – anche la sua velocità nel produrre un determinato bene. In altri termini, in questo caso si può forse dire che sia effettivamente il ‘mercato’ a sancire l’efficienza del singolo operatore. Ma, ovviamente, si tratta di un esempio che riesce ben poco a cogliere la realtà del lavoro contemporaneo. D’altronde, anche nel settore manifatturiero, dal momento in cui entra in campo una cooperazione lavorativa complessa, che assegna al singolo lavoratore un compito estremamente specializzato (e spesso standardizzato), la relazione tra efficienza e mercato diventa molto meno diretta. E proprio per questo vengono introdotti altri criteri (principalmente i tempi fissati dalla direzione) per stabilire se il singolo sia più o meno efficiente: ma, ovviamente, si tratta di un’efficienza che ha un rapporto non tanto con l’effettivo risultato sul mercato (il quale dipende da molti altri fattori, come la qualità del prodotto, le campagne pubblicitarie, la capacità di innovazione, ecc.), quanto con il piano della produzione stabilito dal vertice aziendale. Senza addentrarsi in disamine troppo complesse, è scorretto affermare che qui il rapporto fra efficienza e merito viene meno: piuttosto, si può affermare che efficienza e merito coincidono del tutto con la disciplina, ossia con la disponibilità del singolo a sottoporsi interamente alle direttive e ai tempi stabiliti dal vertice della gerarchia aziendale (con tutto ciò che comporta la disciplina di fabbrica, in termini di sanzione dei comportamenti conflittuali).
Ma il quadro cambia ancora – e cambia notevolmente – quando dal terreno della produzione materiale ci si sposta ad altri settori, come quelli che caratterizzano d’altronde gran parte delle economie ‘post-industriali’. Misurare l’efficienza del singolo è molto complesso, se non impossibile, in un’organizzazione burocratica. In questi casi, i criteri che fissano il merito, e il demerito, non possono che assumere contorni arbitrari, non possono cioè che imporre come regola di misurazione dell’efficienza una serie di convenzioni: convenzioni che risentono naturalmente dei rapporti di potere o delle ‘mode’ organizzative, che possono anche trovare un legittimazione ‘scientifica’; convenzioni che mutano nel tempo (anche per effetto delle sollecitazioni esterne, che rimandano, più o meno direttamente, anche al ‘mercato’), ma che, nondimeno, rimangono ‘convenzioni’. Convenzioni che si suppone – almeno da parte dei vertici – siano in grado di produrre vantaggi di qualche genere, e che si basano non tanto sull’effettivo risultato di mercato, quanto su un’ipotesi convenzionale, cioè sull’assunto ipotetico che si tratti davvero di qualcosa di ‘efficiente’. Un simile discorso diventa ancora più complicato quando chi deve stabilire la regola ‘convenzionale’ non ha alcuna relazione con un – anche lontanissimo – risultato di mercato, ma ha invece obiettivi differenti (come avviene nel caso delle amministrazioni pubbliche, in cui gli obiettivi possono essere la conquista del voto, la visibilità, la costruzione di un’immagine di rigore e di efficienza, la manipolazione delle risorse pubbliche, la gestione clientelare della forza lavoro, ecc.). Ed è ulteriormente più intricato nel caso di tutti quei lavori che coinvolgono una dimensione relazionale di qualche genere, come avviene non solo nei lavori di cura, ma anche in tutti quei lavori che implicano un’attività di vendita e la costruzione di relazioni. In simili lavori, che in un’economia dominata dai servizi sono sempre più rilevanti, misurare il merito – inteso nei termini di efficienza di mercato – diventa un’operazione che richiede inevitabilmente il ricorso ad altri criteri (e la simulazione degli effetti dell’efficienza di mercato).
A ben vedere, d’altronde, in tutti i lavori relazionali – anche in quelli che hanno un rapporto diretto con il mercato, e soprattutto più o meno in tutti i lavori ‘intellettuali’ che caratterizzano il cosiddetto ‘capitalismo cognitivo’ – le attitudini cruciali richieste al lavoratore hanno d’altronde poco a che fare con il livello del Q.I., che Young considerava il pilastro della società meritocratica. In tutti questi lavori, la meritocrazia tende avvicinarsi a una sorta di ‘meretrocrazia’, perché i criteri che fissano il ‘merito’ diventano molto simili a quelli che contrassegnano, più o meno da sempre, il mercato della prostituzione, e perché diventa sostanzialmente impossibile scindere il ‘merito’ e l’‘efficienza’ da attitudini – cui di solito non si attribuisce un valore positivo – come l’adulazione, la dissimulazione, il servilismo. Il ‘merito’, allora, non coincide con l’‘efficienza’, o almeno coincide con l’efficienza solo se si intende quest’ultima – al di là di ogni romanticismo – come la disponibilità ad adeguarsi alla convenzione arbitraria che sta alla base dell’organizzazione del lavoro. E, dunque, si devono includere nell’efficienza del singolo lavoratore anche elementi come il servilismo nei confronti della direzione, la compiacenza, la delazione. Tanto che, forse, possiamo ritrovare la più nitida rappresentazione della meritocrazia non nella distopia di Young, ma in una delle scene finali di Una vita difficile, il vecchio film di Dino Risi. La scena in cui Silvio Magnozzi, il giornalista interpretato da Alberto Sordi, propone un’inchiesta sui braccianti al commendator Bracci, il losco proprietario del giornale per cui lavora. Con il ghigno del grande Claudio Gora, il commendatore – come è facile ricordare – non si limita a bocciare la proposta e a dare del cretino al proprio segretario. Ma, una volta di più, rammenta a Magnozzi la primaria regola che ogni lavoratore deve seguire. Quella stessa regola che, probabilmente più di ogni apologo e più di ogni affilata argomentazione, continua a svelarci l’autentico significato della meritocrazia: «Dimentichi di avere delle idee personali e faccia soltanto quello che le dico io!».

Damiano Palano