di Damiano Palano


Proprio queste domande hanno condotto a riscoprire un vecchio saggio dal sociologo danese Svend Ranulf, Indignazione e psicologia della classe media, pubblicato originariamente nel 1938 e ora tradotto in italiano dall’editore Medusa (pp. 229, euro 18.50). Scritto in una delle fasi più buie della politica europea, il testo di Ranulf si configura per molti versi come un tentativo di comprendere il successo del nazionalsocialismo, considerato come esempio paradigmatico del meccanismo dell’«indignazione morale». La tesi di Ranulf è che l’«indignazione morale» - ossia la «tendenza disinteressata a infliggere punizioni» - sia particolarmente radicata fra i ceti medi. Per molti versi, questa idea non fa che sviluppare la spiegazione che Max Scheler aveva dato del risentimento: un atteggiamento mentale dovuto alla sistematica repressione di emozioni proprie di ogni essere umano, come l’invidia, la malizia, la gelosia, il rancore. Infatti, l’«indignazione morale» è per Ranulf la caratteristica di un gruppo sociale che forza i propri membri a «un grado eccezionalmente alto di auto-limitazione» e dunque alla «frustrazione dei loro desideri naturali». E proprio da questa forzata «repressione degli istinti» scaturiscono l’«indignazione morale», il risentimento, la disponibilità a infliggere punizioni disinteressate verso individui o gruppi sociali.
Per molti versi, Indignazione e psicologia della classe media si inserisce in un filone che comprende anche testi come Fuga dalla libertà di Erich Fromm e Psicologia di massa del fascismo di Wilhelm Reich. Alla base di tutte queste ricerche sta infatti un certo modo di guardare alla connessione fra la società e la psicologia individuale. In altre parole, la psicologia del singolo viene concepita come il riflesso della struttura della società, o, meglio, della struttura familiare, dell’educazione, della morale di un gruppo. E, a dispetto di qualche motivo di interesse, anche la ricerca di Ranulf – peraltro appesantita da alcune discutibili scelte metodologiche – non può che replicare gli stessi limiti di questa impostazione. Ricercando delle cause patologiche, questa prospettiva non può infatti che ritrovare invariabilmente i tratti della ‘malattia’ nei movimenti politici e nei gruppi sociali che studia. Ma, soprattutto, cedendo a un facile determinismo sociale, diventa in fondo incapace di cogliere la specificità di fenomeni culturali inevitabilmente complessi.
Damiano Palano
Questo testo è apparso, con un titolo diverso, su "Avvenire" del 22 settembre 2012.