martedì 29 novembre 2011

Ritorno a Pechino. "Cina" di Henry Kissinger



di Damiano Palano

Nell’aprile del 1971, la nazionale americana di tennis-tavolo fu invitata a tenere alcune partite amichevoli in Cina, e per la prima volta, in quell’occasione, un gruppo di cittadini statunitensi varcò i confini della Repubblica Popolare Cinese. Per segnalare la portata dell’evento, molti giornali parlarono della «diplomazia del ping-pong». In realtà, non fu però soltanto lo sport a riavvicinare Cina e Stati Uniti, dopo più di vent’anni di un isolamento cominciato con la presa del potere da parte dei comunisti, nel 1949. Gli Usa non avevano infatti riconosciuto come legittimo il governo della Repubblica Popolare e avevano a lungo considerato la Cina come un nemico, da contrastare indirettamente o anche da fronteggiare direttamente, come in occasione della guerra di Corea. Ma la situazione cambiò radicalmente al principio degli anni Settanta, quando motivazioni differenti indussero Mao Zedong il presidente americano Richard Nixon a tentare un riavvicinamento fra i due Stati. Ebbero inizio fitte trattative in gran parte segrete, che raggiunsero il punto più eclatante nella visita di Nixon a Pechino, un evento che, agli occhi del mondo, sanciva ufficialmente un mutamento nei rapporti sino-americani. E che, soprattutto, era destinato ad avere esiti dirompenti sugli equilibri della Guerra fredda.
Protagonista di quelle trattative diplomatiche fu, da parte americana, l’allora Segretario di Stato Henry Kissinger, che oggi ricostruisce le tappe del riavvicinamento in Cina (Mondadori, pp. 514, euro 22.00). In questo corposo volume, Kissinger ripercorre naturalmente la sequenza delle trattative con Pechino, le motivazioni che spinsero Nixon a quel passo e, infine, gli incontri con Mao e Zhou Enlai. Ma il libro non è semplicemente una raccolta di memorie, perché in realtà Kissinger esamina le relazioni sino-americane con un’ottica di lungo periodo, che punta anche lo sguardo verso il futuro. 
D’altronde, l’interesse di Kissinger per la Cina nasce anche dall’inquietudine cresciuta, nel mondo occidentale, sul ruolo internazionale che assumerà Pechino nei prossimi decenni. Da questo punto di vista, Kissinger non sposa le tesi più allarmistiche, che reputano sia ormai imminente una sorta di nuova ‘Guerra fredda’ e una rapida escalation delle tensioni fra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare. Ma, d’altro canto, non ritiene neppure che l’ascesa cinese non sia destinata a produrre conseguenze rilevanti sull’ordine internazionale. 
Proprio alla conclusione del volume, Kissinger affronta proprio la questione della rivalità fra Washington e Pechino. E, in particolare, la considera alla luce della rivalità fra Gran Bretagna e Germania che, ai primi del Novecento, trascinò in guerra il Vecchio Continente. Senza dubbio, ci sono alcune analogie. Londra era allora il centro di un impero in declino, così come oggi gli Stati Uniti sono una potenza egemone la cui supremazia appare sempre più insidiata, sotto il profilo economico, tecnologico e persino militare. Inoltre, la Germania, a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, divenne un avversario estremamente temibile e la sua ascesa appariva inarrestabile, come oggi appare inarrestabile la crescita cinese, destinata a mutare gli assetto consolidati nel Pacifico. 
Il risultato, osserva Kissinger, potrebbe consistere effettivamente in un’escalation delle tensioni simile a quello che portò alla Prima guerra mondiale. Qualora Stati Uniti e Cina iniziassero a costruire in Asia alleanze finalizzate a fronteggiarsi reciprocamente, le conseguenze diventerebbero infatti estremamente rischiose. In altre parole, Washington e Pechino entrerebbero in una situazione di «conflitto strategico», una situazione in cui la flessibilità diplomatica viene azzerata e in cui si consolida un vero e proprio bipolarismo ‘rigido’. E, soprattutto, una situazione in cui la politica estera viene percepita da tutti i principali soggetto come un gioco a somma zero: come un gioco in cui l’unico modo per ottenere dei vantaggi diventa imporre delle perdite agli avversari.
Benché Kissinger ritenga possibile uno sviluppo del genere, non ritiene né – ovviamente – che sia in qualche modo augurabile, né che sia inevitabile. E, per questo, l’ex Segretario di Stato sostiene che «la politica americana dovrebbe fare tutto il possibile per prevenire uno sviluppo del genere». Per quanto ci siano motivi forti di attrito da entrambe le parti, l’impegno degli Usa dovrebbe dunque consistere nell’evitare di ‘irrigidire’ il sistema in una contrapposizione bipolare, puntando invece a consolidare ciò che definisce come «co-evoluzione». Secondo quanto scrive Kissinger, la co-evoluzione rappresenta un assetto in cui «entrambi i paesi perseguono i loro imperativi nazionali, cooperando quando possibile e regolando le loro relazioni in maniera da ridurre al minimo i conflitti». In altre parole, dunque, una situazione in cui «nessuna delle due parti sottoscrive tutti gli obiettivi dell’altra, né presuppone una totale identità di interessi, ma entrambe cercano di individuare e sviluppare interessi complementari».
Naturalmente, Kissinger è ben consapevole del fatto che molte incognite rendano il percorso verso la ‘coe-voluzione’ quantomeno piuttosto accidentato. Si tratta di incognite che attengono a divergenze economiche e più strettamente politiche. Ma l’incognita principale è rappresentata dalla paura. Mentre Pechino teme che Washington voglia contenere l’ascesa cinese, gli Usa temono che la Cina voglia conquistare un ruolo egemone cacciandoli dall’Asia. Proprio per questo, il vero rimedio che Kissinger propone è quello suggerito dai vecchi realisti: la diplomazia. Solo rapporti diplomatici consolidati possono contribuire a diradare la nebbia circa i reali obiettivi delle altre potenze, a comprenderne le motivazioni e a ridurre – almeno in parte – la paura nei loro confronti. E, dunque, solo la diplomazia può evitare il rischio che il sospetto degeneri nella minaccia e che le tensioni diventino ingovernabili.

Damiano Palano

Lo scandalo dell'eguaglianza. Appunti sull'itinerario teorico di Jacques Rancière. Sul numero 3/2011 di "Filosofia politica"



Esce in questi giorni il numero 3/2011 di "Filosofia politica". Nel fascicolo, dedicato alla 'crisi del soggetto' nella filosofia politica contemporanea, è compresa anche una nota critica su Jacques Rancière:




Damiano Palano, Lo scandalo dell'egugalianza. Alcune note sull'itinerario teorico di Jacques Rancière

The scandal of equality. Some notes on the theoretical route of Jacques Rancière
by Damiano Palano


In this article, the author argues that 1968 represents a fundamental turning point in the theoretical route of Jacques Rancière. In particular, according to the author, the critique of Louis Althusser’s marxist Structuralism, developed around the May”, presents, at germinal level, all the elements of Rancière’s reflection. Particularly, the discovery of the “word of the masses”, the basis of the critique to Althusser, is even the starting point of the following critique to the Western image of politics. Finally, the article suggests that Rancière’s deconstruction, in spite of many merits, also shows a basic limitation, relating to the distinction between ‘politics’ and ‘police’.





http://www.mulino.it/rivisteweb/scheda_articolo.php?id_articolo=35645




venerdì 25 novembre 2011

Il potere dello spazio: il ritorno della geopolitica nei libri di Mario Losano e di Emidio Diodato



di Damiano Palano

(questo articolo è apparso sul sito dell'Istituto di Politica)

Un aneddoto racconta che quando, negli anni Settanta, Henry Kissinger inviò al Washington Post un pezzo sulla ‘geo-politica’ americana, il redattore pensò si trattasse di un refuso, e che lo studioso intendesse in realtà parlare di una ‘ego-politica’. Per quanto la storiella non sia troppo attendibile, dà comunque un’idea della sinistra fama che ha accompagnato la ‘geopolitica’, bandita dall’accademia occidentale per il suo legame con la Geopolitik nazista almeno fino al termine della Guerra fredda.
Questo legame effettivamente esiste, ed è ricostruito accuratamente da un recente volume di Mario G. Losano, La geopolitica del Novecento. Dai Grandi Spazi delle dittature alla decolonizzazione (Bruno Mondadori, pp. 322, euro 25.00). «La geopolitica» – ha scritto Lucio Caracciolo, recensendo proprio il volume di Losano – «è di moda. Questo termine, impiegato a vanvera per significare tutto, rischia di non significare nulla. Eppure per quasi mezzo secolo, tra la fine della seconda guerra mondiale e la fine della guerra fredda, parlare di geopolitica era tabù. Attraverso un cortocircuito interpretativo, una disciplina diffusa almeno dall’inizio dello scorso secolo venne identificata con i totalitarismi, in specie con il nazismo. Il più famoso fra i geopolitici novecenteschi, Karl Haushofer, fu sbrigativamente identificato come ispiratore dell’espansionismo hitleriano. La geopolitica come dottrina del Terzo Reich. Dunque impresentabile dopo il suo catastrofico tramonto. Nel mondo bisecato della guerra fredda, il ragionamento geopolitico soccombeva al determinismo ideologico binario: Est/Ovest, Male/Bene, comunismo/liberalismo» (L. Caracciolo, Così la geopolitica ci fa capire il mondo, in «la Repubblica», 31 maggio 2011, p. 65).
Al di là delle declinazioni dirette verso la legittimazione di politiche espansioniste, ci fu anche una riflessione approfondita sulle risorse spaziali del potere. E, soprattutto, lo stesso Carl Schmitt si concentrò con intensità negli anni Trenta proprio sulla nozione di ‘grande spazio’, oltre che sulla strutturale contrapposizione fra ‘Terra’ e ‘Mare’, iniziando a elaborare quella riflessione sulle dimensioni spaziali del potere che avrebbe condotto, dopo la fine della guerra, alla stesura del Nomos der Erde, senza dubbio una delle opere più importanti di tutta la teoria politica del Novecento. La dottrina geopolitica elaborata da Karl Haushofer dopo la Prima guerra mondiale ebbe però effettivamente un’influenza sulla politica estera del nazismo e, in generale, sulla cultura tedesca degli anni Venti e Trenta. La teoria dei ‘Grandi Spazi’ e il concetto (molto più ambiguo) di ‘Spazio Vitale’ registrarono inoltre un enorme successo anche al di fuori dei confini tedeschi. Così sorsero rapidamente varianti nazionali della disciplina, spesso incoraggiate dai regimi autoritari.
In Italia, secondo la ricostruzione svolta da Losano, la geopolitica ebbe precursori, come il generale Giacomo Durando, a metà dell’Ottocento, e cultori piuttosto entusiasti, come Giorgio Roletto ed Ernesto Massi, fondatori della rivista «Geopolitica» (destinata peraltro a chiudere la propria breve parabola in soli tre anni, dal 1939 al 1942), oltre che un personaggio dal profilo piuttosto indefinibile come Giorgio Douhet, studioso – negli anni Venti e Trenta – delle trasformazioni prodotte sulla guerra dal mutamento tecnologico (e soprattutto dall’aeronautica) e «cinico teorico del bombardamento strategico» (M. Losano, La geopolitica del Novecento, cit., p. 173).
Infine, Losano dedica due ricchi capitoli alla geopolitica coltivata in Spagna e in Portogallo, dall’Ottocento fino alla caduta dei regimi autoritari. Il motivo dell’interesse per la geopolitica da parte delle dittature degli anni Trenta, su cui si concentra gran parte dell’attenzione di Losano, nasceva soprattutto dall’obiettivo di ridisegnare l’assetto definito a Versailles: «Se il diritto internazionale è lo strumento con il quale le grandi potenze soddisfatte e dominanti organizzano lo spazio geografico, la geopolitica» – ha scritto Vittorio Parsi a questo proposito – «rappresenta la sfida lanciata dalle potenze insoddisfatte e revisioniste. Alle argomentazioni che si basano sulla forza statica del diritto, sulla consacrazione di ciò che è e sulla sua trasformazione sacrale, la geopolitica oppone un’organizzazione dinamica, quasi prospettica, dello spazio, che quasi sembra contestare l’esistente in nome del possibile» (V.E. Parsi, I mari sono più forti dei dittatori, in «TuttoLibri – La Stampa», 29 ottobre 2011, p. V).
Ovviamente, Losano è ben consapevole che la geopolitica non è connessa in modo necessario con tentazioni imperiali o espansioniste, né con l’idea del Lebensraum. Il suo sguardo sulla geopolitica del Novecento è però fortemente influenzato da questo nesso, che finisce col proiettarsi – quantomeno come rischio – anche sugli sviluppi odierni della riflessione. Nelle pagine introduttive, scrive infatti: «Niente è più realistico della scena del film di Chaplin, Il grande dittatore, in cui Hitler danza usando il mappamondo come una palla. Sembrava un’allegoria; invece nello studio di Hitler c’era proprio un grande mappamondo come nel film: ma, ad ammonimento per chi gioca con il mondo, quel globo mostra oggi i fori aperti dalle baionette dei soldati sovietici. Niente è più realistico della ‘neolingua’ del Grande Fratello, usata da Orwell in 1984 per formulare gli slogan senza senso del ‘bispensiero’ dittatoriale: ‘La guerra è pace; la libertà è schiavitù; l’ignoranza è forza’. Quegli slogan non sono un artificio letterario: nelle pagine seguenti si vedrà che ‘autodeterminazione’, ‘sovranità’, ‘amicizia’, ‘prosperità’ possono significare anche il loro esatto contrario. La jprossimità di una certa geopolitica alle dittature portò, nel dopoguerra, all’ostracismo di tutta la geopolitica. Da qualche anno, però, la geopolitica è uscita dalla quarantena postbellica ed è tornata ad essere studiata come un settore specializzato della geografia generale. Ricostruirne la storia più recente aiuta, da un lato, a riprendere il filo di un discorso scientifico ma anche, dall’altro, a mettere in guardia contro le possibili degenerazioni di questa disciplina: quando politici e militari ricompaiono con le masse geografiche sotto il braccio è sconsigliabile distrarsi» (ibi, pp. 1-2).
La storia della geopolitica inizia però prima di Haushofer, e, soprattutto, non si può ridurre questo intero campo di studi – che pone al centro la relazione fra spazio e potere – alla parziale declinazione che ne diede il nazismo. Per molti versi, questa riflessione – come spiega Emidio Diodato in Che cos’è la geopolitica (Carocci, pp. 127, euro 10.50) – nasce infatti  negli ultimi decenni dell’Ottocento, con lo svedese Rudolf Kjellen (1848-1922), con l’ammiraglio statunitense Alfred Thayer Mahan (1840-1914) e con il geografo britannico Halford John Mackinder (1861-1947). E sono proprio Mahan e Mackinder a fissare le coordinate di un nuovo modo di pensare il mondo. La geopolitica è infatti un prodotto della fine delle scoperte geografiche e procede dalla consapevolezza che il pianeta è ormai destinato a essere ‘unificato’ sempre più strettamente dalle nuove tecnologie di trasporto e comunicazione. Per questo – è la tesi di Diodato – la geopolitica può davvero essere considerata come la ‘scienza del globale’: la scienza che pensa – per la prima volta – il mondo come un’unità, come un insieme di parti in costante relazione (a questo proposito cfr. anche il suo testo Il paradigma geopolitico, Meltemi, Roma, 2010). Se la vecchia tradizione europea aveva concepito la politica internazionale come il regno dell’equilibrio di potenza, fra Otto e Novecento lo sguardo si sposta invece sulle grandi masse continentali. E, dunque, come suggeriva Mahan, sul rapporto fra ‘Terra’ e ‘Mare’, fra potenze terrestri e potenze marittime.
Nei primi decenni del Novecento, la fortuna della geopolitica fu sollecitata anche dal timore che la Germania – grazie alle strade ferrate – potesse conquistare stabilmente l’Eurasia, o meglio quella regione che Mackinder definiva Heartland, il ‘cuore della terra’: un’area che si riteneva decisiva per il controllo della politica mondiale. L’unico modo per contrastare l’ascesa della potenza terrestre tedesca appariva allora un’alleanza fra le due grandi potenze atlantiche, Stati Uniti e Impero britannico. E, d’altronde, sebbene nel corso del tempo Mackinder avesse rivisto le proprie posizioni, proprio l’atlantismo rimane il principale progetto geopolitico anche durante la Guerra fredda. Non è però casuale che l’interesse per la geopolitica sia rinato dopo il 1989. Da quel momento diventa chiaro che la mappa del mondo costruita sul conflitto tra Usa e Urss diventa quasi inservibile. E per questo diventa anche indispensabile tornare a riflettere sul rapporto fra il potere e lo spazio: uno spazio inteso non solo in termini geografici, ma anche come insieme di rappresentazioni.
Rispetto agli anni Settanta del Novecento, oggi la situazione è notevolmente mutata, e il successo del termine che il redattore del Washington Post considerava solo un refuso è diventato tale da offuscare lo stesso significato del concetto. Questi anni di successo, ha scritto Caracciolo, «hanno generato una varietà di correnti teoriche di impronta accademica che, non rinunciando alla pretesa scientifica, mancano di cogliere il tratto insieme analitico e pragmatico del ragionamento geopolitico, contribuendo a banalizzare un termine troppo speso» (L. Caracciolo, Così la geopolitica ci fa capire il mondo, cit., p. 65).
Anche alla luce della scarsa chiarezza che segna l’utilizzo del concetto, è estremamente utile la «bussola» fornita da Diodato, che riconduce la riflessione geopolitica a due elementi principali: «al fatto che ogni comunità nazionale si trova in una particolare località geografica o territorio», e «al fatto che ogni comunità nazionale è il prodotto dell’ambiente complessivo di cui è parte, ossia di una struttura di potere che coincide con il mondo intero e, quindi, poggia su una certa configurazione spaziale» (E. Diodato, Che cos’è la geopolitica, cit., p. 20). Con questa delimitazione ovviamente il problema non è affatto risolto, ma piuttosto viene definito il campo problematico dell’indagine geopolitica, che Diodato esprime con la metafora di una «torre» di livelli e concetti: alla base della torre stanno le immagini geopolitiche popolari proprie di ciascuna comunità nazionale; al gradino superiore le tradizioni geopolitiche nazionali (diffuse e consolidate dai think tanks che si occupano di politica estera); su un livello più in alto gli attori e gli agenti geopolitici; e, infine, proprio sulla cima della torre, si trova la conformazione geopolitica del mondo, con la condizione spazio-temporale in cui agiscono i protagonisti della politica internazionale.
Proprio quest’ultimo gradino è ovviamente quello più difficile da salire, o, per meglio dire, quello più difficoltoso per quegli studiosi che intendano innalzare una torre davvero simile, sotto questo profilo, alla biblica torre di Babele. Una simile impresa richiede quantomeno – almeno al principio del XXI secolo – di comprendere quale sarà il prossimo destino dell’egemonia americana. Se la geopolitica del Novecento è stata segnata dall’ascesa degli Stati Uniti, è infatti piuttosto scontato che oggi il dibattito – ricostruito nei suoi snodi principali da Diodato – sia dedicato alle dimensioni geopolitiche del declino americano e dell’ascesa cinese. Ma naturalmente la riflessione geopolitica contemporanea non può evitare di interrogarsi anche sul futuro di quello che è stato per secoli il centro del mondo, chiedendosi se l’Europa possa diventare davvero uno ‘spazio’ politico, o se non sia invece condannata a discendere definitivamente dal palcoscenico della politica globale. Diodato dedica infatti l’ultimo capitolo del suo volume proprio al Vecchio continente, sia pur in una stretta connessione con le trasformazioni globali. E proprio a questo proposito Diodato ha il merito di segnalare un punto importante, sovente soggetto a equivoci e fraintendimenti, che concerne il rapporto – tutt’altro che di opposizione – fra geopolitica e globalizzazione. «Non si capisce» – scrive Diodato – «perché mai la geopolitica debba essere posta in contrasto con la globalizzazione, quando l’analisi geopolitica è sempre stata la quintessenza di una vera prospettiva globale. Semmai è vero che, nell’ottica della geopolitica, la distribuzione ineguale del potere può divenire il presupposto per trasformare l’anarchia internazionale in ordine politico» (ibi, p. 99). Lo spazio continua infatti a rimanere una risorsa di potere per gli Stati, ma subisce una trasformazione nel corso del processo di globalizzazione, e il potere inizia per questo a passare dal controllo dei flussi economici e comunicativi che attraversano il pianeta. Proprio per l’attenzione posta sulla problematica relazione fra il potere e lo spazio – materiale e immateriale, ‘naturale’ e ‘immaginato’ – «l’approccio geopolitico», come scrive Diodato, può rivelarsi straordinariamente «utile a decifrare l’attuale complessità del mondo» (ibi, p. 8). E, probabilmente, anche per scoprire quanto sta scritto nel destino del Vecchio continente.

Damiano Palano
Mario G. Losano, La geopolitica del Novecento. Dai Grandi Spazi delle dittature alla decolonizzazione, Bruno Mondadori, Milano, 2011, pp. 322, euro 25.00.

Emidio Diodato, Che cos’è la geopolitica, Carocci, Roma, 2011, pp. 127, euro 10.50.

Vedi anche:
La scienza del globale
Dai Grandi spazi alla decolonizzazione, la geopolitica del Novecento secondo Losano (di Emidio Diodato)





lunedì 21 novembre 2011

Il nuovo odio per la democrazia. Uguaglianza, politica e biopolitica (a proposito di Jacques Rancière) 3/4



di Damiano Palano

segue da
Il nuovo odio per la democrazia 1/4
Il nuovo odio per la democrazia 2/4



3. Politica come democrazia

La riflessione dedicata da Rancière all’«odio per la democrazia» si inserisce all’interno del fitto dibattito sulle ‘trasformazioni’ della democrazia, o, meglio, sull’avvento della «post-democrazia» contemporanea, che, secondo Colin Crouch, per esempio, rappresenta il polo verso cui si stanno gradualmente – ma incessantemente – spostando i sistemi politici occidentali: un polo in cui le forme e i presupposti di fondo della democrazia liberale (le elezioni, i diritti di associazione e le libertà di espressione del pensiero) sono mantenuti, ma nel quale però viene delineandosi una sorta di «nuova classe dominante, politica ed economica», detentrice non solo di ricchezza e potere, ma anche di un ruolo politico privilegiato (C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma – Bari, 2003). Al tempo stesso, il suo volume si innesta, più in generale, nella discussione sulla tesi della (presunta) «fine della politica». Nel corso degli ultimi due decenni, questa tesi – che ha peraltro alle spalle una tradizione piuttosto consolidata - è stata infatti declinata in molte direzioni, che, per esempio, hanno presentato, la «fine della politica» come corollario della «fine della Storia», come sviluppo della vecchia tesi della «fine delle ideologie», come effetto delle dinamiche di globalizzazione e della vittoria del mercato, ma anche come portato del tramonto della classe operaia novecentesca, delle capacità regolative dello Stato o della stessa implosione della politica moderna. Inevitabilmente, l’idea della «fine della politica» è stata accompagnata anche da critiche severe, che, per esempio, ne hanno messo in questione i presupposti fatalistici, comuni d’altronde a gran parte delle analisi svolte sulla globalizzazione, o il fondamento sostanzialmente ideologico, volto a rimuovere – e a spostare in una sfera non politica – la realtà dei conflitti emergenti. Ed, evidentemente, la riflessione di Rancière sull’«odio per la democrazia» si colloca proprio all’interno di questo filone critico, che mette in luce la ‘depoliticizzazione’ dei sistemi politici occidentali, la formazione di nuove oligarchie e la rimozione del conflitto dalla dinamica politica. Ciò che caratterizza il contributo di Rancière è però il suo impianto teorico, e cioè proprio la peculiare associazione genetica fra democrazia e politica che alimenta la sua critica.
Proprio quella singolare associazione, all’apparenza disinvolta, è in realtà il risultato di un percorso affascinante, che ha condotto Rancière a rileggere le origini della filosofia politica occidentale e a ripensare il fondamento contraddittorio del fenomeno politico. Allievo di Louis Althusser, Rancière partecipò negli anni Sessanta alla stesura di Lire le Capitale, ma fu anche tra i primi a delineare una decisa critica dei presupposti teorici del marxismo strutturalista francese. A partire dagli anni Ottanta, ha iniziato a volgere la propria attenzione alla storia della filosofia politica, pubblicando testi come La Nuit des prolétaires (Fayard, Paris, 1981), Le philosophe et ses pauvres (Fayard, Paris, 1983), Le Maître ignorant (Fayard, Paris, 1987 ; trad. it. Il maestro ignorante, Mimesis, Milano, 2008), Les Noms de l’histoire (Seuil, Paris, 1992; trad. it. Le parole della storia, Il Saggiatore, Milano, 1994), Traversées du nihilisme (Osiris, Paris, 1993), Aux bords du politique (La Fabrique, Paris, 1998), Mallarmé o la politica della sirena (Clueb, Bologna, 2000, Id.), Les scènes de peuple (Hourlieu, Lyon, 2003), La favola cinematografica (Ets, Bologna, 2006), ma, soprattutto, proponendo una riflessione di cui La Mésentente. Politique et Philosophie, (Galiliée, Paris, 1995 ; trad. it. Il disaccordo. Politica e filosofia, Meltemi, Roma, 2007) è il risultato principale.
Come ha notato Beatrice Magni nella presentazione alla traduzione italiana di La Mésentente, il sentiero seguito da Rancière mostra alcune analogie con quello di Hannah Arendt, perché anche lo studioso francese rifiuta l’espressione «filosofia politica». A differenza dell’autrice di Vita activa, però, Rancière si muove su un piano differente, «sottolineando il paradosso di una filosofia che, nel momento stesso in cui ‘va affermando a gran voce il suo ritorno e un rinnovato vigore’, cade nell’oblio del suo oggetto medesimo: progetto della filosofia, dopo il trauma platonico conseguente alla morte di Socrate, sarebbe quello di espellere da sé, appunto, la mésentente rappresentata dalla politica, ‘oggetto’ ormai impuro e scandaloso, da tenere, quindi al di fuori dello spazio filosofico» (B. Magni, Pensare la politica sotto il regno della divisione: l’itinerario eretico di Jacques Rancière, in J. Rancière, Il disaccordo, cit., pp. 7-15, specie p. 9). La polemica di Rancière nei confronti della «filosofia politica» non è d’altro canto rivolta soltanto al passato, perché proprio le pagine iniziali del Disaccordo si indirizzano criticamente verso il «ritorno» della filosofia politica, un ritorno che coincide con la scomparsa del suo stesso oggetto. Nel momento in cui la filosofia ritrova «i luoghi propri della deliberazione e della decisione sul bene comune, le assemblee in cui si discute e si legifera, le sfere dello Stato in cui si decide, le giurisdizioni supreme atte a verificare la conformità delle deliberazioni e delle decisioni alle leggi fondamentali della comunità», si assiste a un processo paradossale, per cui, «in questi stessi luoghi, va diffondendosi l’opinione disincantata che c’è poco da deliberare, che le decisioni si impongono da sé, e che il ruolo specifico della politica si traduce quindi soltanto in un adattamento puntuale alle esigenze del mercato mondiale e nell’equa ripartizione dei profitti e dei costi di tale adattamento» (J. Rancière, Il disaccordo, cit., p. 18). Ma è proprio da questo paradosso – in cui si incontrano e divergono filosofia e politica – che Rancière prende le mosse per una rilettura delle origini della filosofia politica occidentale.
Sulla scorta della propria visione della politica, Ranciére rifiuta ovviamente l’equivalenza fra democrazia e rappresentanza. La democrazia rappresentativa contemporanea – osserva – è solo un’evoluzione del sistema rappresentativo inizialmente fondato sul privilegio delle élite, ed è solo una forma di funzionamento dello Stato. Al contrario, «democrazia significa appunto che le forme giuridico-statali non si fondano mai su un’unica logica» (ibi, p. 66). Ciò non implica, però, che la democrazia sia indifferente alle forme istituzionali:

«Vuol dire che il potere del popolo è sempre al di qua o al di là di esse. Al di qua, perché quelle forme non possono funzionare senza riferirsi in ultima analisi a quel potere degli incompetenti che fonda e nega il potere dei competenti, a quella uguaglianza che è necessaria al funzionamento stesso della macchina della disuguaglianza. Al di là, perché le forme che inscrivono questo potere sono continuamente riassorbite, attraverso il gioco della macchina di governo, nella logica ‘naturale’ dei requisiti per governare, nella logica cioè dell’indistinzione fra pubblico e privato» (ibi, p. 67).

Nel discorso di Ranciére, il venir meno di un ordine naturale innesca un conflitto permanente fra la logica della polizia e la logica della politica. All’interno della sfera pubblica, sono cioè destinate a scontrarsi due logiche antitetiche: da un lato, la logica della polizia tende a restringere la sfera pubblica e a fondare la legittimità del rapporto di comando (poggiando sulla ‘competenza’, o su altri elementi), mentre la logica della politica – agendo dal basso – non può che mettere in questione proprio quel confine che punta a escludere l’individuo ‘qualunque’ fuori dalla sfera pubblica. Per questo motivo, politica e democrazia vengono a essere in fondo la stessa cosa. Entrambe coincidono, infatti, con il potere ‘disordinante’ del demos, che è in grado di mettere in discussione la legittimità dell’esclusione e di imporre l’allargamento della sfera pubblica, la sfera di ciò che può essere discusso. Mentre la logica della polizia «privatizza continuamente l’universale, lo riconduce continuamente a una ripartizione del potere fra nascita, ricchezza e ‘competenza’», la logica della politica (e della democrazia) risiede nell’«azione di soggetti che, lavorando sull’intervallo fra le identità, riconfigurano le distribuzioni del pubblico e del privato, dell’universale e del particolare» (ibi, p. 75). Come scrive Rancière:

«La democrazia, allora, ben lungi dall’essere la forma di vita degli individui votati alla propria felicità privata, è il processo di lotta contro questa privatizzazione, il progresso di allargamento di quella sfera. Allargare la sfera pubblica non significa – come sostiene il discorso che si dice liberale – richiedere lo sconfinamento crescente dello stato nella società. Significa lottare contro quella ripartizione fra pubblico e privato che assicura il duplice dominio dell’oligarchia nello stato e nella società» (p. 68).

In altre parole, come Rancière osserva in Politica della letteratura, la democrazia non coincide né con una forma di regime politico, né con il risultato di un’azione politica volta a eguagliare le condizioni sociali dei cittadini, bensì con la stessa dinamica – resa possibile, a sua volta, dall’eguaglianza degli individui – che rompe un ordine simbolico, e dunque anche un ordine politico costituito:

«La democrazia, infatti, non determina di per sé alcun regime espressivo particolare. Essa infrange invero qualsiasi logica determinata di rapporto tra l’espressione e il suo contenuto. Il principio della democrazia non è il livellamento – reale o presunto – delle condizioni sociali. Non è una condizione sociale, bensì una rottura simbolica: la rottura di un ordine determinato di relazioni tra i corpi e le parole, tra i modi di parlare, i modi di fare, i modi di essere» (J. Rancière, Politica della letteratura, in Id., Politica della letteratura, Sellerio, Palermo, 2010, p. 21).

Se la democrazia scaturisce dal fatto dell’eguaglianza, e se coincide con la politica, contrapposta alla polizia, l’autentica trasformazione che coinvolge oggi i regimi politici occidentali è allora – e non può essere diversamente – una sorta di de-politicizzazione. La post-democrazia, dunque, non deve essere intesa nei termini in cui ne parla Crouch, ossia come una forma di regime in cui rimangono in vigore le forme della democrazia liberale, ma in cui il popolo, la sua partecipazione e le sue organizzazioni (partitiche e sindacali) abbandonano la scena. O, meglio, anche per Rancière sono ben visibili questi elementi, perché osserva, per esempio, che, di fatto, «viviamo in uno stato di diritto oligarchico, cioè in uno stato in cui il potere dell’oligarchia è limitato dal duplice riconoscimento della sovranità popolare e delle libertà individuali» (J. Rancière, L’odio per la democrazia, cit., p. 89). Il punto, però, non è tanto questo, quanto l’affermazione di una cultura del consenso che esclude non solo il conflitto, ma anche il dissenso radicale. Già alla metà degli anni Novanta, nella Mésentente, Rancière definiva questa condizione come una «postdemocrazia», un termine con cui indicava il paradosso in virtù del quale vige, «sotto il nome di democrazia, la pratica consensuale di annullamento delle forme dell’agire democratico» (J. Rancière, Il disaccordo, cit., p. 115). In sostanza, la «postdemocrazia» è quella specifica forma di organizzazione politica segnata da «un ragionevole accordo di individui e gruppi sociali, i quali avrebbero compreso che la conoscenza del possibile e la discussione tra pari rappresentano, per ogni parte, un modo di ottenere il risultato ottimale – e preferibile al conflitto – che l’oggettività contingente dei dati permette di sperare» (ibidem). In questo quadro istituzionale, scriveva Rancière, era rimossa la stessa possibilità del conflitto, ossia la radice della politica:

«La post-democrazia è la pratica governamentale e la legittimazione concettuale di una democrazia del post demos, una democrazia che ha eliminato l’apparenza, il resoconto e il conflitto del popolo, ed è dunque riducibile al solo gioco dei dispositivi statali e delle mediazioni tra energie e interessi sociali. La post-democrazia non è una democrazia che ha trovato nel gioco delle energie sociali la verità delle forme istituzionali. È una modalità di identificazione, tra i dispositivi istituzionali e la disposizione tra parti e parti della società, capace di far scomparire il soggetto e l’agire tipici della democrazia. Si identifica con la pratica e la riflessione intorno a un completo adeguamento tra le forme dello Stato e lo stato delle relazioni sociali (ibidem)». 

La post-democrazia è dunque, per Rancière, soprattutto una ‘depolitizzazione’, che punta a escludere la possibilità che il demos venga a mettere in discussione la ‘ripartizione costituita del sensibile’, o a mutare i confini tra pubblico e privato. Un aspetto cruciale della post-democrazia è allora quella «cultura del consenso che ripudia gli antichi conflitti, abituando a oggettivare senza passione i problemi che a corto e a lungo termine le società incontrano, a chiedere soluzioni agli esperti e a discuterle con i rappresentanti qualificati dei grandi interessi sociali» (J. Rancière, L’odio per la democrazia, cit., p. 91). Ma, quando allude alla ‘depolicitizzazione’ del dibattito pubblico, Rancière non può che pensare al ruolo che un determinato sapere ‘tecnico’ – quello dell’economia – ha conquistato:

«La lunga degenerazione e l’improvviso crollo del sistema sovietico, come pure l’indebolimento delle lotte sociali e dei movimenti di emancipazione, hanno permesso l’insediamento di una visione dominante che è il frutto della logica del sistema oligarchico. Secondo questa visione c’è un’unica realtà, che non ci lascia la scelta di interpretare e ci chiede soltanto risposte adeguate e sempre uguali, quali che siano le nostre opinioni e le nostre aspirazioni. Questa realtà si chiama economia: in altri termini, l’illimitato del potere e della ricchezza. Si è visto come sia difficile che questo illimitato fornisca il principio del governo. Ma, se solo si riesce a dividere in due il problema, allora lo si può risolvere, e questa soluzione può dare al governo oligarchico quella scienza regia che finora ha cercato invano. Se, infatti, si presuppone l’illimitazione del movimento della ricchezza come la realtà imprescindibile del nostro mondo e del suo futuro, spetta ai governi, desiderosi di gestione realista del presente e di previsione ardita del futuro, eliminare il freno che gli ostacoli esistenti all’interno degli stati nazionali oppongono al suo libero sviluppo. Viceversa, però, poiché non ha limiti e non si occupa della sorte particolare di questa o quella popolazione, di questa o quella frazione di popolazione sul territorio di questo o quello stato, spetta ai governi di questi stati limitarlo, sottomettendo l’incontrollabile e ubiquitaria potenza della ricchezza agli interessi della popolazione» (ibi, pp. 93-94).

Naturalmente, il punto non sta tanto – almeno in questo caso – nella lettura delle trasformazioni economiche proposta da Rancière, quanto nel fatto che il filosofo francese coglie, proprio nello spazio definito tra l’eliminazione dei limiti nazionali all’espansione del capitale e la necessità di sottomettere questa espansione alle esigenze nazionali, i contorni di una nuova scienza di governo che esclude del tutto il popolo. In sostanza, la nuova «scienza regia» definisce gli obiettivi che governi (di destra o sinistra) sono tenuti a perseguire, mentre al popolo non è assegnato alcun ruolo significativo, perché lo stesso equilibrio instabile fra popolo e governo, tra tensione popolare ed esigenze di governabilità, che ancora contrassegnava i sistemi politici occidentali fino agli anni Settanta, viene definitivamente meno. «L’alleanza oligarchica della ricchezza e della scienza esige oggi tutto il potere ed esclude che il popolo possa ancora dividersi, moltiplicarsi» (ibi, p. 95). Anche se – e Rancière lo sottolinea – le tracce del ‘dissenso’ tornano puntualmente a riaffiorare in tutti quei sintomi cui vengono dati, di volta in volta, i nomi di ‘antipolitica’, disaffezione, contestazione, populismo. In modo diverso, tutti questi fenomeni non fanno che riproporre proprio la critica della «scienza regia», e dunque non fanno che mettere in questione la ‘misura’ stessa sulla base della quale le scelte pubbliche vengono compiute e giustificate. Ma è anche per questo che la disaffezione – come nel celebre caso della bocciatura del referendum francese sulla Costituzione europea – viene imputata all’«ignoranza», all’assenza di «fede» nella scienza regia. Ed è così per sfuggire ai rischi di una critica iconoclasta della «fede», che i governi - assecondando la loro naturale «compulsione a sbarazzarsi del potere e della politica» - spostano progressivamente i centri da cui promanano le decisioni a un livello sovra-nazionale:

«Dichiarandosi semplici gestori delle ricadute locali e della necessità storica mondiale, i nostri governi si industriano a eliminare il supplemento democratico. Inventando istituzioni sovra-statali, che non sono stati a loro volta e che quindi non sono responsabili di fronte a nessun popolo, i nostri governi realizzano il fine immanente alla loro stessa pratica: depoliticizzare le questioni politiche, sistemarle in luoghi che non lasciano spazio all’invenzione democratica di luoghi polemici. Così gli stati e i loro esperti possono intendersela tranquillamente fra loro» (ibi, p. 98).

Quando allora, in nome dei precetti della «scienza regia», tecnici e responsabili di governo condannano come ‘populiste’ quelle posizioni che mettono in discussione il carattere inevitabile delle decisioni politiche, mostrano quello che davvero sta al fondo del nuovo «odio per la democrazia». L’accusa di populismo, infatti, «consente di interpretare ogni movimento che lotta contro la depoliticizzazione condotta in nome della necessità storica come la manifestazione di una frazione retrograda della popolazione o di un’ideologia sorpassata» (ibi, p. 104). E, secondo una logica del tutto coerente, mentre attaccano l’insaziabile voracità dell’homo democraticus, finiscono con l’assegnare proprio al cittadino, alla sua ignoranza, al suo egoismo, le responsabilità del trionfo del regno della merce. Nella sua nuova declinazione, l’«odio per la democrazia», nel momento stesso in cui espelle la politica, trasforma la democrazia nell’«eufemismo per indicare un sistema di dominio che non si vuole più chiamare con suo nome» e nel «nome del soggetto diabolico che viene al posto di quel nome cancellato», ossia in un «soggetto composito in cui sono equiparati l’individuo che subisce questo sistema di dominio e quello che lo denuncia» (ibi, p. 107). E, allora, congiungendo questi elementi, il nuovo «odio per la democrazia», non diversamente in fondo dal vecchio, ma con accenti inediti, può scagliarsi contro una figura insaziabile di consumatore di merci e spettacolo:

«È con i loro tratti combinati che la polemica disegna il ritratto-robot del democratico: giovane e imbecille consumatore di popcorn, di reality-show, di safe sex, di servizi sanitari, di diritto alla differenza e di illusioni anticapitalistiche o no global. In lui gli accusatori trovano ciò di cui hanno bisogno: il colpevole assoluto di un male irrimediabile. Non un piccolo colpevole, ma un grande colpevole che non soltanto è la causa dell’impero del mercato, a cui chi accusa si adegua, ma anche della rovina della civiltà e dell’umanità» (ibi, p. 107).

Nella logica che sostiene l’«odio della democrazia», diventa anche necessario rileggere la stessa dinamica storica che conduce alla democratizzazione, o quantomeno al trionfo del regime liberademocratico. E, in questo senso, secondo Rancière, la rivoluzione che taglia in due la storia europea diventa lo sterminio degli ebrei perpetrato dal regime nazionalsocialista nel corso della Seconda guerra mondiale. Ma, confrontandosi con le tesi provocatorie esposte da Jean-Claude Milner (Les penchants criminels de l’Europe démocratique, Lagrasse, Verdier, 2003), Rancière sostiene anche che, per dar corpo effettivamente a questa tesi, è necessario rileggere lo stesso sterminio degli ebrei, sottraendone la responsabilità al nazionalsocialismo. «L’ideologia nazista non è una causa adeguata» (J. Rancière, L’odio per la democrazia, cit., p. 109), perché si tratta soltanto di un’ideologia ‘reattiva’, mentre la vera responsabilità va assegnata a quella medesima logica che sostiene la democrazia, e che sta al fondo della psicologia volubile e insaziabile dell’homo democraticus: la soppressione del «governo pastorale», la fine del regime della filiazione, la soppressione delle differenze ‘naturali’, l’abbattimento delle gerarchie. In questa lettura – argomenta allora il filosofo – «il nazismo finisce così per diventare la mano invisibile che lavora per il trionfo dell’umanità democratica, sbarazzandola del suo nemico intimo», sbarazzandola cioè del «popolo fedele alla legge delle filiazione» (ibidem).
Ciò nonostante, l’«odio per la democrazia», a dispetto persino del suo successo, non può risolvere la «condizione paradossale della politica», non può cioè offrire una legittimazione così solida da compensare quello che – secondo Rancière – rimane il carattere ineliminabile della politica, la sua «assenza di legittimità ultima». Sebbene possa presentare la «scienza regia» come un insieme di saperi del tutto neutrali e superiori rispetto ai contenuti delle decisioni che il popolo può assumere, e nonostante possa coltivare la «fede» nell’insieme di dogmi che caratterizzano questa «scienza regia», in realtà l’«odio per democrazia» non può eliminare la potenza disordinante della democrazia. Non può, cioè, eliminare la facoltà – specificamente politica – di mettere in questione l’ordine simbolico esistente, perché si tratta di una facoltà inscritta nell’eguaglianza degli esseri umani, nella loro possibilità di nominare la ‘diseguaglianza’. E, in questo senso, l’antidoto all’«odio per la democrazia» è, ancora una volta, la stessa democrazia. Ma non certo, com’è ovvio, la realtà del regime democratico. Bensì «l’azione che strappa continuamente ai governi oligarchici il monopolio della vita pubblica e alla ricchezza l’onnipotenza sulle vite», «la potenza che deve, oggi più che mai, battersi contro la confusione di quei poteri in un’unica legge di dominio» (ibi, p. 115).

(continua)
Damiano Palano



giovedì 17 novembre 2011

Verso un governo tecnico? Le incognite del dopo-Berlusconi


Questa intervista di Carlos Camino a Damiano Palano è stata pubblicata, in forma più breve, nei giorni scorsi sul quotidiano spagnolo “El confidential”. Questo è testo integrale.

Sembra che Mario Monti sarà il nuovo premier di un governo di unità nazionale. Quali possono essere gli scenari politici in Italia con un governo di questo tipo?

L’incognita principale è cosa farà Silvio Berlusconi. La fine del suo governo potrebbe segnare la fine della sua avventura politica. Personalmente, penso che questa eventualità sia molto improbabile. Per molti motivi, Berlusconi non si ritirerà dalla scena politica e, dunque, inizierà a pensare alla prossime elezioni, con la fondazione di un nuovo partito e una campagna martellante. Questa prospettiva però indebolisce molto la forza di un governo guidato da Mario Monti. Ma molto dipende proprio da cosa farà Berlusconi e da cosa succederà dentro il suo partito, il Popolo della Libertà.

Il governo Monti può essere un vero governo di ‘unità nazionale’, una ‘grande coalizione’, solo alla condizione che sia appoggiato da tutte le principali forze politiche: il PDL (con Silvio Berlusconi), l’UDC di Casini e soprattutto il Partito Democratico. Questo governo avrebbe la forza in Parlamento per ‘gestire’ la pressione dei mercati, ma dovrebbe imporre molti ‘sacrifici’: tagli alla spesa sociale, un innalzamento dell’età pensionabile, la riduzione di dipendenti pubblici, un aumento delle tasse (con l’introduzione della legge ‘patrimoniale’). Queste misure sono ovviamente impopolari e dannose sia per il PDL, sia per il PD. Perciò, il governo Monti può realizzare il suo programma di ‘emergenza’ solo con l’appoggio di questi due partiti.

Personalmente, ritengo questo scenario poco probabile perché penso che Berlusconi non appoggerà il governo Monti, o che almeno non lo appoggerà in modo rilevante e senza condizioni: sarebbe troppo ‘costoso’ in vista delle successive elezioni. Penso piuttosto che uscirà di scena per qualche tempo, concedendo un appoggio a Monti, ma senza esporsi in prima persona, fino a che non sarà il momento di lanciare la campagna elettorale.

Gli scenari alternativi così sono due. Scenario A) Il PDL si spacca e una parte consistente appoggia il governo Monti, che si conquista una larga maggioranza in Parlamento, da destra e sinistra: questo governo potrebbe durare in carica fino al 2013, gestendo l’emergenza economica e realizzando la riforma elettorale. In questo caso, il governo avrà due opposizioni: a sinistra, l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro e la sinistra più radicale (guidata da Vendola); a destra, Berlusconi, il suo nuovo partito e la potenza di fuoco del suo impero mediatico, oltre che la Lega. Scenario B) Berlusconi continua a controllare la gran parte del PDL: in questo caso, il governo Monti avrebbe vita molto breve e sarebbe solo una parentesi prima delle elezioni. Si andrebbe a votare così nella primavera del 2012, in una situazione economica molto critica. Il Partito Democratico non avrebbe infatti la forza in Parlamento per sostenere Monti, ma farlo – senza il contemporaneo appoggio del Pdl – significherebbe perdere voti a sinistra (Di Pietro e Vendola). Ma anche questa ipotesi è solo in parte probabile.

Lei pensa vede  figura carismatica che possa godere della fiducia di gran parte del popolo italiano?

In Italia in questo momento ci sono molti leader potenziali. Forse ce ne sono addirittura troppi. Il problema è che il quadro dei partiti è in grande trasformazione. L’uscita di scena di Berlusconi provocherà un grande terremoto, la nascita di nuovi partiti e, probabilmente, la formazione di un nuovo partito di centro (più simile alla Democrazia Cristiana). Ma fino a quando Berlusconi non sarà uscito di scena, nessun leader avrà la forza politica, economica, mediatica per conquistare la leadership nel centro-destra. Inoltre, i partiti di centro (UDC) e quelli di sinistra (PD, IDV e SEL) non sono compatibili dal punto di vista elettorale.


Lei pensa che, dopo che i mercati si saranno calmati con il governo Monti, i nuovi risultati elettorali potranno portare a nuova instabilità e dunque ancora un'altra volta alla sfiducia dei mercati?

Personalmente, ritengo che la situazione sia molto preoccupante. Da un certo punto di vista, penso che il governo Monti – o un altro governo ‘tecnico’ – sarà molto debole, con una maggioranza parlamentare molto incerta. Per questo, potrà forse solo ‘tranquillizzare’ i mercati. Ma non dimentichiamo che le prospettive economiche italiane non sono buone (la crescita stimata per il 2012 è prossima allo 0,1%). Ed eventuali ‘sacrifici’ non miglioreranno la situazione. L’alternativa delle elezioni nel 2012 penso sia probabile, ma altrettanto preoccupante. Andare a votare in questa tempesta finanziaria è un salto nel vuoto per un motivo in particolare: l’attuale sistema elettorale italiano non assicura che ci sia una maggioranza in entrambe le Camere. Nel 2006, il governo Prodi, per esempio, aveva la maggioranza solo alla Camera, ma al Senato doveva affidarsi al voto dei senatori a vita. Oggi, i sondaggi danno un grande vantaggio alla coalizione di centro-sinistra, ma ciò non è molto indicativo. Non sappiamo ancora quali partiti formeranno effettivamente questa coalizione, e con chi deciderà di allearsi il PD. Inoltre, non si può sottovalutare il potenziale della campagna elettorale di Berlusconi, che in queste elezioni getterà tutte le proprie energie residue. Il rischio, dunque, è che le nuove elezioni – se si svolgeranno con questo sistema elettorale – non diano una maggioranza chiara e un governo stabile. E probabilmente la reazione dei mercati a questa situazione sarebbe disastrosa.

mercoledì 16 novembre 2011

Arcana imperii. La ricerca sul 'politico' di Gianfranco Miglio. Sul numero 3/2011 della "Rivista di Politica". In uscita in questi giorni



Esce in questi giorni il numero 3/2011 della "Rivista di Politica". Il fascicolo è interamente dedicato alla riflessione teorica di Gianfranco Miglio, a dieci anni dalla scomparsa, avvenuta nell'agosto 2001.
Il numero della rivista ospita molti materiali, tra cui anche alcuni testi inediti di Miglio, e contributi di Chiara Maria Battistoni, Davide G. Bianchi, Alessandro Campi, Riccardo Cavallo, Stefano B. Galli, Fulco Lanchester, Roberto Marraccini, Marcello Staglieno, Alessandro Vitale.

Nel fascicolo è compresa anche un'analisi della ricerca di Miglio sulle 'regolarità' della politica:
Damiano Palano, Arcana imperii. La ricerca sul 'politico' di Gianfranco Miglio (pp. 15-54).


Ogni fascicolo della "Rivista di Politica" (circa 200 pagine) costa 10.00 euro.
L'abbonamento annuale alla "Rivista di Politica" (4 numero all'anno) costa 30.00 euro.
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mercoledì 9 novembre 2011

La crisi della «democrazia organizzata». A proposito di "La democrazia è una causa persa? Paradossi di un’invenzione imperfetta", un libro di Alfio Mastropaolo


 



di Damiano Palano
La lettera inviata dal Governatore della Banca Centrale Europea al governo italiano nello scorso mese di agosto è diventata rapidamente una sorta di simbolo della condizione delle nostre democrazie, che ci appaiono, sempre di più, come democrazie tenute in scacco dai mercati internazionali e sorvegliate (se non addirittura ‘commissariate’) dalle istituzioni sovranazionali. Così, sembra che ai governi spetti solamente l’esecuzione di decisioni prese altrove e che la volontà dei cittadini diventi solo un fastidioso inconveniente con cui, ogni quattro o cinque anni, ci si deve confrontare. Da questo punto di vista, è quasi paradigmatico che il contenuto specifico della lettera inviata dal Governatore Trichet al Presidente del Consiglio italiano sia stato per lunghi mesi tenuto segreto all’opinione pubblica. Le politiche che quella lettera suggeriva erano piuttosto prevedibili, almeno nei loro contorni generali (dal momento che non faceva che riformulare le indicazioni che le istituzioni finanziarie internazionali prescrivono periodicamente agli esecutivi più o meno di tutti i paesi occidentali). Ma il fatto che il testo della lettera sia rimasto a lungo celato – prestandosi così a mille utilizzi, e destando molte sospettose recriminazioni – è in fondo il simbolo più efficace dalla ‘trasparenza’ così spesso evocata dall’Ue, e così clamorosamente violata. E ancor più significativo è che un organo ‘tecnico’ dell’Unione Europea – un organo ‘neutrale’ rispetto ai singoli governi nazionali, e che dunque dovrebbe mantenersi estraneo alle dinamiche politiche – abbia dettato (o suggerito) misure considerate vitali.
Al di là delle semplificazioni, l’idea di una democrazia ‘svuotata’ dei propri poteri – e di uno Stato privato della propria «autonomia» (più o meno relativa) – coglie effettivamente almeno alcuni tratti delle trasformazioni che nell’ultimo trentennio hanno attraversato i sistemi politici occidentali, proprio perché si connette con le modificazioni dell’economia globale, con la transizione geo-politica in atto e con il mutamento nel ruolo dello Stato: un mutamento per nulla scritto nelle ‘leggi’ del determinismo economico, ma in gran parte conseguenza di decisioni politiche, particolarmente evidenti nel Vecchio continente e nei paesi coinvolti nel processo di integrazione europea. E, così, non è affatto sorprendente che negli ultimi anni, per effetto di queste trasformazioni radicali – e per molti versi irreversibili – si sia consolidata nel dibattito l’idea di una modificazione strutturale delle democrazie occidentali che, sovente, sembra preludere ad una vera e propria ‘crisi’. In un testo recente, Carlo Galli – accantonando la formula ‘crisi’ – ha definito «disagio della democrazia» la condizione in cui si trova oggi l’Occidente rispetto all’ideale della democrazia e alle istituzioni democratiche. Si tratta, secondo Galli, di un disagio duplice: da un lato, «si manifesta con una disaffezione, con un’indifferenza quotidiana per la democrazia che equivale a una sua accettazione passiva e acritica, al rifiuto implicito dei suoi presupposti più complessi e impegnativi» (C. Galli, Il disagio della democrazia, Einaudi, Torino, 2011, pp. 3-4); dall’altro, è anche un disagio strutturale, un disagio che «nasce dall’inadeguatezza della democrazia, dei suoi istituti, a mantenere le proprie promesse, a essere all’altezza del proprio obiettivo umanistico, a dare a ciascuno uguale libertà, uguali diritti, uguale dignità» (ibi, p. 4). A questo disagio – soggettivo e oggettivo – vengono date però risposte diverse, sia perché la lettura delle trasformazioni in atto è differente, sia perché la stessa concezione della democrazia – dei suoi obiettivi, dei suoi fondamenti, dei suoi caratteri distintivi – risulta tutt’altro che riconducibile a un modello unanimemente condiviso. Tra gli osservatori più ‘pessiministi’, Colin Crouch, per esempio, sostiene che ci troviamo ormai in una sorta di ‘post-democrazia’, o che comunque la democrazia occidentale abbia imboccato la fase discendente della propria parabola storica (C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma – Bari, 2003). Massimo L. Salvadori definisce invece i regimi democratici contemporanei come sostanzialmente oligarchici e dominati da «plutocrazie» compatte (M.L. Salvadori, Democrazie senza democrazia, Laterza, Roma – Bari, 2009), in cui soprattutto la dimensione dell’eguaglianza sociale, grande obiettivo delle democrazie postbelliche, diventa sempre meno rilevante (come osserva per esempio N. Tranfaglia, La democrazia è ancora un’utopia?, in «l’Unità», 31 agosto 2011, pp. 40-41). Una visione sostanzialmente simile emerge anche dal quadro delineato, per esempio, da Sheldon Wolin a proposito del sistema politico americano (S. Wolin, Democrazia Spa, Fazi, Roma, 2011), oppure dalla lettura proposta da Wendy Brown, secondo cui nei paesi occidentali è in atto un processo di de-democratizzazione che comporta, fra l’altro, la fusione del potere economico con il potere statale. Altri osservatori, adottando una chiave di lettura meno pessimista, certo riconoscono la realtà di alcune trasformazioni, ma non ritengono né che la fisionomia distintiva della democrazia – ossia l’esistenza di alcune fondamentali procedure – venga colpita in modo rilevante, né che il venir meno di alcuni diritti (in particolar modo dei diritti sociali) configuri qualcosa di più che il semplice riflesso di un mutamento ideologico (cfr. in questo senso il recente fascicolo di «Paradoxa» Quelli che… la democrazia, a proposito del quale rimando alle osservazioni critiche svolte in Il rischio della critica della critica). Ma, anche in quest’ottica, difficilmente possono essere sottovalutate o negate le dimensioni delle sfide che oggi sono poste ai sistemi democratici. Perché – come ha scritto per esempio Ernesto Galli della Loggia, un osservatore tutt’altro che incline a inalberare la bandiera di una democrazia ‘tradita’ dalle promesse del liberismo economico – ciò che oggi appare messo in discussione, prima ancora delle singole politiche pubbliche, o delle linee programmatiche portate avanti dalle diverse coalizioni di governo, è la stessa capacità degli Stati democratici di ‘governare’ i molteplici flussi che attraversano i confini nazionali, o che influiscono sulle risorse a disposizione. La globalizzazione – o, prima di tutto, la sua radice tecnologica, che riduce gli spazi contraendo il tempo –  innesca processi che sfuggono totalmente, o nella massima parte, alla presa del controllo statale. Per utilizzare le parole di Galli della Loggia, la difficoltà che oggi sperimentano le democrazie occidentali «è legata alla ridotta estensione dello spazio statale, al suo restringimento di fatto, dovuto principalmente alla velocità ormai fantastica di ogni genere di comunicazione, vicino ormai al traguardo dell’istantaneità» (E. Galli della LoggiaLa democrazia non è in rete, in «Corriere della Sera», 13 settembre 2010, p. 1 e 34). Proprio per questo, la democrazia si trova – se non del tutto impotente – comunque in larga parte disarmata dinanzi a queste sfide:

«stretto come in una tenaglia dentro una spazialità da un lato dominata dall’immediatezza e dall’altro caratterizzata dalla lontananza, il regime democratico vede oltre modo indebolite le sue antiche possibilità di controllo e di autonomia). Per entrambi i versi vede assottigliarsi i margini della sua sovranità: e tanto più in quanto proprio le sue caratteristiche democratiche, la sua tutela dei diritti individuali e collettivi, rendono sempre più problematica la difesa di quella sovranità. La quale, lungi dall’essere ‘superata’ a favore di inesistenti e fantasmatiche sovranità sovra o internazionali – come credono gli ottimisti – viene semplicemente messa in mora da altre minisovranità al suo interno ovvero, dalle leggi senza volto della tecnologia, che operano nell’interesse esclusivo di sé medesime e/o degli incontrollabili interessi economici (per esempio della finanza o della grande informazione commerciale globale)» (ibidem).

Per comprensibili motivi, in Italia il dibattito teorico sulle trasformazioni della democrazia si è però intersecato con le discussioni sulle sorti della democrazia italiana, sulle ‘promesse non mantenute’ della Seconda Repubblica e del bipolarismo, oltre che sui molteplici conflitti di interesse che rendono quasi inestricabile la trama del potere. Così, la riflessione sul ‘presente’ e sul ‘futuro’ della democrazia è stata spesso declinata in una direzione specifica, che forse ha finito col rendere la matassa ulteriormente intricata, proprio perché ha condotto nel vicolo cieco dell’«anomalia italiana». Nel suo ultimo libro, La democrazia è una causa persa? Paradossi di un’invenzione imperfetta (Bollati Boringhieri, pp. 363, euro 18.00), Alfio Mastropaolo cerca invece di sbrogliare la matassa di questo dibattito, esaminando, uno per uno, i molti fili che si aggrovigliano nell’idea della ‘crisi’ della democrazia, e, soprattutto, inquadrando le trasformazioni dei nostri sistemi politici in un’ottica di lungo periodo, in grado per questo di sfuggire alle scorciatoie teoriche o retoriche e a una prospettiva eccessivamente ‘italo-centrica’.


Un’invenzione umana

Inserendosi in un dibattito ormai piuttosto affollato, il libro di Mastropaolo ha alcuni grandi meriti. Il primo consiste nel rimettere la democrazia ‘con i piedi per terra’, ossia nel ‘demitizzare’ il concetto di democrazia, distinguendo la storia dell’ideale – che percorre la vicenda occidentale con alterne fortune e che si intreccia con le aspirazioni all’eguaglianza politica, giuridica e sociale – dalla concreta realtà delle istituzioni politiche rappresentative. Per molti versi, Mastropaolo, sotto questo profilo, si limita a segnalare un punto che la retorica celebrativa della «fine della Storia» ha finito con l’offuscare, e da cui è stato contagiato – in modo purtroppo non episodico – anche il campo di quanti, per mestiere, studiano le trasformazioni dei sistemi politici. Mentre rifiuta l’immagine che rappresenta la democrazia liberale contemporanea come il punto di arrivo dell’evoluzione politica e ideologica del genere umano, Mastropaolo non offre però soltanto un antidoto al profluvio retorico dell’ultimo ventennio, perché consente anche di considerare la democrazia contemporanea come un ‘prodotto’ storico, risultato di scontri, di conflitti, di soluzioni non sempre preordinate, oltre che come un’«invenzione imperfetta». Ed è infatti proprio l’adozione di questa prospettiva analitica che spinge Mastropaolo a collocare la storia intellettuale e politica della democrazia contemporanea in un quadro articolato, capace di tenere insieme dimensioni diverse.
Prima ancora di formulare previsioni sul futuro della democrazia, Mastropaolo invita infatti alla cautela a proposito del modo di utilizzare la stessa parola ‘democrazia’ e della tentazione di attribuire al regime democratico promesse che non può mantenere. Benché sia una formula straordinariamente evocativa, la ‘democrazia’ – ricorda Matropaolo proprio nelle prime pagine – è un’«invenzione umana e un fatto storico»:

 «Anche se ne ha la pretesa, non è il sommo bene. Non è il destino della specie, né una necessità. Ha avuto un’origine da qualche parte, donde si è largamente diffusa, modificandosi e adattandosi, ed è destinata ad avere una fine. Come per tutti i fatti storici, un largo margine di casualità ne segna nascita, fortuna e traversie» (ibi, p. 7).

Nel corso del tempo, soprattutto dopo la fine del blocco sovietico, la democrazia ha mostrato tutta la sua «smisurata ambizione», diventando «una parola magica, che beneficia di un pregiudizio positivo resistente a qualsiasi riserva e che consacra tutto quanto riveste, che annuncia addirittura l’impegno a trasformare i governati in governanti e quindi ad abrogare il potere» (ibidem). Ma la democrazia non può davvero mantenere l’altisonante promessa di consegnare il potere al popolo e di trasformare i governati in governanti (e anche per questo – come suggerisce Robert Dahl – sarebbe forse più appropriato definire i sistemi politici occidentali come ‘poliarchie’). Al di là della retorica, ciò che chiamiamo ‘democrazia’ è infatti – come scrive Mastropaolo – solo una «tecnologia del potere»:

«Spogliata dei suoi sacri paramenti, la democrazia è null’altro che una tecnologia del potere trattante, utile a coordinare, prescrivere, condizionare, orientare la condotta d’individui e gruppi sociali, quindi a regolare la vita collettiva e a dirimere i conflitti che la agitano. Storicamente si è rivelata in special modo appropriata alle società differenziate e pluralistiche proprie della modernità, ma il nesso non è obbligato: tali società le si è governate anche reprimendo il pluralismo e imponendo il conformismo» (ibi, p. 26).

Mastropaolo non si limita però a spogliare la democrazia dei suoi abiti più solenni, perché mostra anche come qualcosa nell’ultimo trentennio – a dispetto di un’apparente continuità – sia effettivamente cambiato. In primo luogo, secondo il politologo, è infatti cambiato il nostro modo di concepire la democrazia. Se nel secondo dopoguerra, la democrazia viene incardinata nei partiti e nelle organizzazioni sociali, che hanno sia la funzione di aggregare e mediare gli interessi, sia quella di integrare i gruppi nello Stato, a partire dagli anni Ottanta la democrazia tende invece a essere concepita – non solo nel dibattito teorico – come la forma di regime in cui i cittadini designano i loro governanti in elezioni competitive, in modo analogo a quanto fanno i consumatori scegliendo il prodotto preferito tra quelli che offre il mercato. Un simile passaggio – che ovviamene riflette una modificazione nelle relazioni sociali e nei rapporti di forza – viene in parte testimoniato a livello teorico dal contrasto fra i sostenitori di una ‘democrazia sostanziale’ e gli alfieri di una concezione puramente ‘procedurale’ della democrazia: un contrasto che ha radici profonde e che si protrae fino a oggi. Scrive Mastropaolo a questo proposito:

 «Per quanti sforzi di conciliazione si compiano, in sede politica come in sede teorica la controversia tra democrazia formale e sostanziale resta al momento insolubile. Meglio: il proceduralismo prevale. Alla contesa sul significato sono palesemente sottesi un conflitto di valori e una lotta di potere, che sono la stessa cosa. I regimi democratici sorti nel secondo dopoguerra coniugavano, nei loro stessi dettati costituzionali, le due dimensioni, ma l’accordo era provvisorio ed è stato disdetto. I due significati della parola democrazia si sono allontanati, addirittura entrando in collisione. Che non convegna contentarsi della convergenza attorno alla democrazia procedurale, che dovrebbe almeno rendere pacifico il confronto?» (ibi, p. 37).

Anche se, sotto un profilo strettamente teorico, la contrapposizione fra visioni ‘sostanzialiste’ e visioni ‘proceduraliste’ non è risolvibile, Mastropaolo osserva però che la questione, dal punto di vista storico, presenta un paradosso che non può essere sottovalutato:

Il paradosso è che, una volta ridotta la democrazia a procedura, non è affatto scontato che alle sue politiche non sia prescritto alcun contenuto. Anche quando la si vorrebbe addirittura scheletrica, scarnificata da ogni impedimento alla sovranità popolare, ridotta a poche regole e a qualche minimo presupposto, essa è ben in carne. Se la democrazia – procedurale – è un modo per regolare la competizione politica, un contenuto è prescritto alle politiche democratiche anche quando ci si s’impunta a vietarne ogni altro. In teoria la democrazia procedurale consente il welfare e può non consentirlo. Ma, se siamo realisti, la storia non passa invano. Dopo una lunga stagione di attenzione a un certo tipo di misure politiche, rivendicare un  proceduralismo sbrigativo e disseccato implica ufficializzare l’indifferenza della democrazia alle diseguaglianze. Definire democraticamente illegittimo, dopo decenni di Stato sociale, che chi governa si astenga di fronte alla povertà, alla malattia, all’ignoranza, e affidare ogni intervento riparatorio ai governanti in carica, implica riconoscere piena legittimità alle diseguaglianze, non senza vantaggio per i ceti abbienti» (ibi, p. 39).

In altre parole, l’idea che la democrazia debba essere definita soltanto da una serie di procedure non risolve i problemi una volta per tutte, perché non si possono sottovalutare i mutamenti che, nel corso del Novecento, sono avvenuti proprio in ordine alle procedure, e che hanno prodotto non poche conseguenze sulle dinamiche delle democrazie occidentali. Proprio esaminando queste trasformazioni ‘nelle’ procedure, Mastropaolo colloca il mutamento delle democrazie occidentali in un quadro più ampio, che coinvolge i processi economici e gli assetti sociali.



Democrazia e post-fordismo

Nel corso della sua analisi, Mastropaolo individua cinque grandi modificazioni ‘nelle’ procedure. Le prime – l’universalizzazione del suffragio e l’intensificazione dei diritti – avvengono nelle prime stagioni della democratizzazione. Le altre – il ridimensionamento del potenziale di mobilitazione dei grandi numeri, la limitazione del campo di applicazione delle procedure democratiche più restrittive (per esempio, mediante l’istituzionalizzazione delle procedure di governance, o l’introduzione di autorità indipendenti), l’adozione procedure di governo d’emergenza – risalgono invece agli ultimi tre decenni, e accompagnano una trasformazione che innesca la riduzione nella garanzia dei diritti. A questa modificazione nel concetto di democrazia si accompagnano – e si affiancano – anche mutamenti profondi nella società e nei sistemi politici. Ed è proprio a questo livello che è possibile riconoscere il secondo merito dell’operazione di Mastropaolo. La gran parte del dibattito politologico tende infatti a considerare la democrazia – le sue trasformazioni storiche, le tappe della democratizzazione, il rendimento istituzionale, o persino la ‘qualità’ di un regime democratico – come il prodotto di circostanze che stanno ‘al di fuori’ del sistema politico, e che possono riflettersi – più o meno direttamente – sulla dinamica e sull’efficienza delle istituzioni. Per esempio, la ‘cultura politica’ o il ‘capitale sociale’ possono favorire la stabilità o l’efficienza del sistema, una determinata configurazione dell’economia può determinare un assetto economico-sociale che va a incidere positivamente o negativamente sulla vitalità della ‘società civile’ e, dunque, sulle stesse istituzioni democratiche, o, infine, la presenza di fratture nel tessuto culturale di un Paese può rendere più difficile la formazione di esecutivi omogenei e stabili. In ognuna di queste ipotesi – che ovviamente continuano a fornire contributi validi – la connessione fra ‘società’ e ‘politica’ appare – come nella metafora sistemica – come il rapporto che si viene a creare fra l’ambiente e una ‘scatola nera’ in cui si prendono le decisioni politiche: si tende perciò a pensare alla politica, al sistema politico e ai suoi attori, in termini funzionali rispetto all’ambiente sociale e alle sue mutevoli richieste. Col risultato che la ‘politica’ è pensata come un insieme di apparati che sono chiamati a ‘rispondere’, con politiche più o meno appropriate, alle richieste provenienti dalla società, e che invariabilmente appaiono in ‘ritardo’ rispetto ai mutamenti.
Molto probabilmente, è invece più utile adottare uno schema che, pur senza invertire l’ordine dei fattori (e dunque senza evocare l’idea di una politica capace di plasmare la società a propria immagine e somiglianza), consideri i mutamenti del sistema economico-sociale e del sistema politico in parallelo, come dimensioni differenti ma connesse delle relazioni di potere che si producono nella società. Mastropaolo compie proprio un’operazione di questo genere, perché la sua analisi delle trasformazioni che avvengono ‘nelle’ procedure democratiche è inserita nel quadro di un grande processo, che il politologo descrive nei termini di un passaggio cruciale dal «capitalismo organizzato» a un «capitalismo disorganizzato», e cioè all’assetto post-fordista.
Per quanto le modalità con cui il dibattito ha dato conto di questo insieme di processi siano molto differenti, gli elementi di fondo su cui Mastropaolo di concentra sono tre: a) il processo di globalizzazione economica; b) la decadenza dell’azione regolatrice dello Stato; c) la rottura del precedente assetto di relazioni industriali e la modificazione del profilo del lavoro dipendente (ibi, pp. 89-92). Pertanto, la traiettoria seguita a partire dagli Ottanta appare segnata da una logica interna piuttosto coerente:

«Inaugurato da una straordinaria rivoluzione tecnologica, quella dell’informatica, il trentennio postfordista è segnato da una manovra politica fondamentale. Da un lato lo Stato ha rinunciato a difendere l’occupazione, pubblica e privata, e i servizi pubblici, a benefico della crescita economica e dei profitti delle imprese. Da lato opposto, col pieno consenso delle autorità politiche nazionali e sovranazionali, i frutti della crescita, i profitti imprenditoriali, ma anche i risparmi delle famiglie e gli accantonamenti pensionistici, sono stati dirottati nel gorgo della speculazione finanziaria globale. Non tutti i risparmi, ma in misura variabile, e con un grado di consapevolezza diversa da parte degli attori, senza tuttavia sortire significative riduzioni della spesa pubblica, perché altre esigenze erano insorte nel frattempo, né sempre si è ridotta la pressione fiscale, mentre è in genere cresciuto il costo dei servizi. Di contro, tra attività finanziarie e attività produttive si è aperto un drammatico contrasto, a tutto vantaggio delle prime. A ulteriore discapito degli investimenti, dell’occupazione, nonché del benessere dei cittadini e della stessa coesione sociale» (ibi, pp. 93-94).

In parallelo al passaggio dal «fordismo» al «post-fordismo», la transizione alla stagione del «post-materialismo» scava in profondità sotto il terreno dei grandi soggetti della politica. In qualche misura, sembra prodursi un doppio movimento, perché l’azione ‘dall’alto’ – nei processi economici e politici – trova un corrispettivo al livello delle relazioni interpersonali. Così, mentre lo Stato e i partiti perdono (anche per propria decisione) potere di intervento nella sfera economica e sociale, la stessa politica – con i suoi grandi ideali e i suoi miti novecenteschi – viene di fatto logorata da una costante azione di ‘delegittimazione’, proveniente dal ‘basso’, dalla società.
A segnare la tappa di un passaggio d’epoca è – secondo Mastropaolo – il celebre La crisi della democrazia, il rapporto alla Commissione Trilaterale steso da Crozier, Huntington e Watanuki, alla metà degli anni Settanta, perché proprio in quel rapporto il politologo intravede tanto i segnali di una lettura destinata a imprimersi nell’immaginario dei decenni seguenti, quanto l’anticipazione di una serie di linee di intervento politico che, di lì a poco, tutti i governi occidentali avrebbero adottato in modo più o meno coerente (ibi, pp. 140-141). Il rapporto scandiva, secondo Mastropaolo, «il transito dal paradigma democratico di matrice kelseniana a quello postdemocratico, di cui Schumpeter è fondamentale – benché un po’ tradito – ispiratore» (ibi, p. 142). Nel rapporto si possono così trovare le tracce originarie di quella trasformazione che investe le democrazie occidentali: secondo Mastropaolo, si registra una passaggio da un modello ‘kelseniano’ di democrazia – in cui sono fondamentali le procedure, ma in cui esse prevedono per esempio la costante ricerca del compromesso fra le diverse parti della società, un ruolo cruciale da parte dei partiti politici, la rappresentanza politica proporzionale – a un modello ‘schumpeteriano’, all’interno del quale la partecipazione popolare si risolve sempre più nella semplice indicazione del leader, oltre che nella decisione delle sorti della competizione elettorale. Un simile passaggio ha ovviamente i suoi effetti (oltre che alcune sollecitazioni) anche nel dibattito politologico, all’interno del quale la proposta schumpeteriana viene ulteriormente superata ed estremizzata, in una combinazione fatale con gli assunti di un liberalismo economico spesso non immune da deformazioni biecamente ideologiche. E le ricadute sul terreno dell’indagine della scienza politica finiscono con l’incoraggiare spesso l’abbandono di qualsiasi spirito critico e col produrre un’autentica rivoluzione lessicale, su cui Mastropaolo si sofferma, non senza una condivisibile ironia:

«Tutto un dizionario di parole e concetti è caduto in desuetudine: le classi, lo Stato, la solidarietà, l’eguaglianza, il collettivo, il pubblico, l’interesse generale, il bene comune, il collettivo, l’interesse generale, il bene comune, il partito, il lavoro, il compromesso. Al loro posto sono balzati in primo piano l’individuo, il mercato, l’impresa, la governabilità, il profitto, il merito, la leadership, cui da ultimo, quando si sono cominciate ad apprezzare le inefficienze, malgrado tutto, del mercato, e le manchevolezze del nuovo ordine democratico, si sono aggiunti, oltre all’ormai onnipresente società civile, l’identità, il capitale sociale, i legami deboli, i networks, la trasparenza, l’accountability, la sussidiarietà, la governance, il nonprofit, il terzo settore e via di seguito. Non li abbiamo citati neanche tutti, ma c’è di che riempirne un dizionario» (ibi, p. 151). 

Se la «democrazia organizzata» postbellica si reggeva su partiti e organizzazioni degli interessi (associazioni imprenditoriali e sindacati), e se proprio per questo riusciva a ‘organizzare’ la vita collettiva, a partire dagli anni Ottanta proprio questi pilastri si sgretolano gradualmente. Si sgretolano per effetto dei mutamenti economici, ma anche in seguito a quella modificazione ‘culturale’, che allontana i cittadini dai partiti e che favorisce invece la moltiplicazione di mobilitazioni al di fuori dei canali istituzionali della rappresentanza. In realtà, nessuna delle grandi promesse del neo-liberalismo è stata davvero mantenuta, e Mastropaolo segnala per esempio come il livello della spesa pubblica – a dispetto di tanta retorica – non sia diminuito negli ultimi decenni, ma abbia semmai fatto segnare un riorientamento. Inoltre, non è neppure corretto descrivere questo insieme di processi nei termini di una «spoliticizzazione», perché – come scrive - «è politico anche il diverso dosaggio di dispositivi regolativi, così come sono politici i processi di alienazione del settore pubblico dell’economia, nonché le nuove gerarchie del potere stabilitesi nelle società democratiche a seguito dei processi privatizzazione e deregulation e della cessione di cospicue competenze alle autorità sovranazionali» (ibi, p. 167). Infine – e questo è un passaggio estremamente importante – l’apparente ‘declino dello Stato’ ha coperto, in realtà, la crescita della discrezionalità di autorità tecniche, burocratiche e anche politiche (ibi, pp. 167-171), tanto che si è trattato di un processo, al tempo stesso, di ‘spoliticizzazione’ e ‘politicizzazione’, come nel caso emblematico del New Public Management:

"La politicità della burocrazia weberiana è stata negata, ma in compenso è cresciuta la sottomissione formale dei suoi vertici al potere esecutivo. È quest’ultimo che detta gli obiettivi di gestione, che sceglie il management – secondo criteri fiduciari e non senza qualche sospetto di spoil system – e ne verifica i risultati, proiettando su di esso i suoi orientamenti politici. Allontanate le amministrazioni dai partiti, si è soprattutto ristretto il luogo a cui provengono le pressioni della politica, potenziando tali pressioni con l’abbattimento di antiche barriere – il monopolio delle procedure e il rispetto delle norme – che proteggevano, seppur imperfettamente, le ex burocrazie weberiane, oggi riconvertite all’efficienza e alla discrezionalità del management" (ibi, p. 171).

In questo modo, allora, il passaggio verso la ‘post-democrazia’ schumpeteriana non configura affatto quel ‘dimagrimento’ dello ‘Stato panciuto’ di cui hanno parlato molti osservatori – deviati da uno schema liberale, che contrappone meccanicamente ‘Stato’ e ‘mercato’ – bensì una modificazione nella logica di erogazione della spesa pubblica e dell’intervento statale. Una modificazione che non ha certo ‘eliminato’ la politica, ma che ha piuttosto spostato il potere decisionale in un ambito ‘tecnico’:

"Ridisegnando la stateness, si sono volute sottrarre a quest’ultima ampie porzioni di potere, per trasferirle a un’altra politica, fatta dalle authorities, dalle banche centrali, dagli esperti, dagli attori del mercato. Con ciò, un’accanita – e cruciale – partita si è giocata proprio tra gli addetti alla politica, la quale ha tra loro istituito nuove gerarchie e una nuova organizzazione del lavoro" (ibi p. 183).

Le trasformazioni nella stateness sono ovviamente strettamente correlate al mutamento che avviene nel «secondo fondamentale pilastro» della democrazia organizzata, e cioè i partiti, oltre che nella composizione e nel ruolo della classe politica. A questo proposito, sintetizzando i risultati di una sterminata letteratura, Mastropaolo ricostruisce le traiettorie di un processo che inizia a modificare il profilo del partito già a partire dagli anni Sessanta, da quando Otto Kirchheimer prese a intravedere i contorni del catch-all-party. Ma si tratta naturalmente di una dinamica che subisce un’accelerazione a seguito dell’impatto della logica mediatica, che d’altronde – e Mastropaolo lo sottolinea – i partiti stessi incoraggiano, senza essere così del tutto passivi e disarmati dinanzi all’incedere della mediatizzazione (cfr. ibi, pp. 201-203). E, soprattutto, si tratta di un processo che si interseca con quella ‘presidenzializzazione’ strisciante che investe i sistemi politici occidentali e che altera la classica distinzione fra legislativo ed esecutivo. 
A dispetto della reiterata critica mossa ai partiti – e alla «partitocrazia» – di essere soltanto latori di interessi specifici, settoriali, ‘di parte’, la ridefinizione del loro ruolo e della loro fisionomia ha condotto al paradosso di un ritorno in scena, da protagonisti, degli interessi frazionali. «Tra le accuse più frequenti rivolte ai partiti» - scrive Mastropaolo - «c’è quella di veicolare interessi parziali. Anche a prenderla sul serio, e a credere nell’esistenza di un interesse generale, difficile è però negare che se non vi fossero stati partiti in grado di rappresentare gli interessi diffusi e di mobilitare i grandi numeri, alcuni interessi parziali – quelli degli ambienti economici – avrebbero ottenuto un ascolto predominante. Che è quello che da ultimo sta accadendo» (ibi, p. 217). Naturalmente, Mastropaolo si riferisce non soltanto agli interessi economici, ma in generale agli ‘interessi concentrati’. Il punto è però che la pressione di tali gruppi sulle istituzioni di governo non può che crescere proprio contestualmente all’erosione del ruolo di linkage fra cittadini e istituzioni in precedenza assolto dai partiti e dal sistema partitico nel suo complesso. 
Il politologo non esclude che la mobilitazione torni in futuro a essere ‘incapsulata’ all’interno delle organizzazioni partitiche, ma deve prendere atto che oggi non ci sono segnali rilevanti che paiano preludere a una simile eventualità. Anche perché – sottolinea Mastropaolo – i partiti stessi sembrano rimanere soggiogati dal potere suggestivo della «democrazia dello scontento», ossia di quel «racconto di successo» (ibi, p. 220) che rappresenta i cittadini come insoddisfatti, delusi, disincantati rispetto alla democrazia e alla politica. Segnali in questa direzione provengono dal calo della partecipazione alle consultazioni elettorali (benché non manchino controtendenze e nonostante molti studiosi non ritengano simili dati rilevanti per valutare lo stato di salute di una democrazia), dalle differenze fra astensione sistematica e abituale, dall’aumento della volatilità elettorale, o dalle rilevazioni sul clima di opinione, che più o meno in tutti i paesi occidentali fanno registrare da anni un’altissima sfiducia nei confronti della politica. Tutti questi segnali – avverte però Mastropaolo – sono a loro volta la conseguenza di quello stesso mutamento che è andato a colpire i pilastri della «democrazia organizzata». Non si tratta, cioè, esclusivamente di un cambiamento culturale, bensì anche di un cambiamento che gli stessi partiti hanno più o meno implicitamente alimentato: abbandonando la funzione di canalizzatori del dissenso sociale verso determinati obiettivi politici e verso il personale politico (e quantomeno verso una sua parte), gli stessi partiti hanno infatti contribuito a radicare i sentimenti di insoddisfazione e discredito. «A osservare gli attori politicamente rilevanti che gareggiano nel classificare come malessere atteggiamenti e gesti ben più articolati», scrive per esempio Mastropaolo, «appare legittimo il sospetto che la politica stessa si presti a recitare la parte del capro espiatorio di quanto nella società non funziona e d’ogni sorta di malcontento» (ibi, p. 250). In sostanza, il personale politico non solo non ha tentato di rigettare l’accusa rivolta contro la politica, ma ha addirittura trasformato l’antipolitica in una preziosa risorsa retorica. «Per questo, oltre ad abusare imprudentemente dei media e dei sondaggi, senza posa ripetono imprudentemente il racconto del malessere, sebbene ne patiscano l’azione corrosiva», e, «inoltre, verso la politica mostrano essi stessi un atteggiamento non solo critico, ma irriverente, quando non sprezzante» (ibi, p. 251).
Rispetto al quadro postbellico, anche la democrazia contemporanea si basa su un armistizio, benché le clausole siano ben differenti rispetto a quelle del passato. «Se tuttavia nel corso del primo ciclo il mondo del lavoro era ritenuto politicamente troppo forte per rischiare la collisione, nel secondo altrettante energie sono state spese per disperderlo, per naturalizzare le diseguaglianze e per riformulare l’idea stessa di conflitto» (ibi, p. 314). Così, benché sotto il profilo formale non siano intervenute rotture, nella realtà la dinamica appare come nettamente diversa:

«L’armistizio postbellico presupponeva il conflitto di classe e provava a mediarlo. Nell’attuale situazione il conflitto parrebbe scomparso, insieme alle classi sociali. Non ritenendolo più una risorsa politicamente spendibile – anche nelle forme più disciplinate che aveva assunto – l’azione collettiva è stata screditata e riclassificata come spreco e motivo di disturbo. Ma parcellizzare e occultare il conflitto non basta a cancellarlo. Ne mutano semmai forme e direzione. Il conflitto verticale tra classi superiori e classi subordinate non procede dal basso verso l’alto, ma dall’alto verso il basso. Inaspettatamente si è acceso un micidiale conflitto ridistributivo all’incontrario. Il mondo imprenditoriale, i manager pubblici e privati, le professioni autonome, i ceti superiori – l’inventario è impreciso – hanno beneficiato di un’impressionante ridistribuzione di risorse, mentre una sorda conflittualità orizzontale si registra fra le altre classi, le cui straificazioni interne si sono complicate» (ibi, p. 315).

Per effetto dell’azione combinata di questi fattori, nella «democrazia disorganizzata» le oligarchie finiscono col conquistare un ruolo sempre più significativo, e i «piani alti» dei nostri sistemi democratici tendono a diventare sempre più distanti dai ‘piani bassi’. Ai vertici, si assiste – a tutti i livelli di governo – a una presidenzializzazione che consegna il potere decisionale ai leader eletti, sempre meno vincolati dal controllo delle assemblee rappresentative. Alla base, invece, una molteplicità di associazioni e soggetti più o meno connotati politicamente si contende lo spazio della partecipazione. Forse – osserva Mastropaolo – si tratta delle prime tracce di una nuova ‘divisione del lavoro’, e dunque dei primi segnali di ciò che potrà diventare nel futuro la democrazia, in cui le pratiche deliberative potrebbero avere un ruolo significativo (ibi, pp. 335-337). Ma non è neppure da escludere che si tratti di un’involuzione, e, anzi, l’intreccio di tutte queste tendenze è tale da suggerire quantomeno l’ipotesi che la divaricazione fra «piani alti» e «piani bassi» configuri una vera e propria rivincita delle oligarchie e una trasformazione radicale della dinamica democratica. Come scrive Mastropaolo a questo proposito:

«Ciò invita a concludere chiedendosi se la mutazione che ha investito i regimi democratici non sia per caso paragonabile per la sua portata a quella imposta ai regimi rappresentativi dal suffragio universale, salvo che è di segno opposto. Che non sia in atto una rivincita contro quest’ultimo, senza neanche prendersi il disturbo di revocarlo?» (ibi, p. 338).

Il quadro così delineato è quantomeno piuttosto fosco, ma la crisi economica che stiamo vivendo dal 2008 getta un’ombra ancor più sinistra sul nostro futuro. Tanto che Mastropaolo si chiede se davvero la democrazia potrà sopravvivere al declino del benessere materiale, all’aumento delle diseguaglianze sociali, alla crescita del disordine, al mutamento degli equilibri internazionali che le trasformazioni dell’economia mondiale sembrano portarci in dote. Mastropaolo non sposa interamente la tesi della ‘crisi’ della democrazia, e tantomeno l’idea che la democrazia si sia già trasformata in qualcosa di diverso, in un regime autoritario o ‘plutocratico’ travestito di abiti seducenti. Ma, al tempo stesso, riconosce che, dentro il guscio della democrazia contemporanea, si è prodotta una modificazione che autorizza almeno il sospetto che, dietro la continuità formale, dietro la conservazione delle ‘procedure’democratiche (o quantomeno dietro il rispetto di procedure scheletriche), si nasconda di fatto una rottura:

«Ciò, a quanto pare, non autorizza a parlare di lesa democrazia. La democrazia delle regole minime è tollerante e può farsi con tanti mezzi. Democrazia si chiamava quella vigente in precedenza, democrazia seguita a chiamarsi quella attuale. Se non che, cambiata la società, disperse di sicuro simbolicamente e politicamente le classi sociali, riaggiustate, senza bisogno di rumorosi sommovimenti, le regole del gioco, i risultati – o le politiche – sono ben altri e altre le gerarchie statali. E l’homo democraticus plasmato dalla cultura individualista e pro-market, nobilitata dai diritti o tempestata dalla società civile e dal comunitarismo Third way, è ben diverso, sul piano normativo e su quello dei comportamenti sociali, da quello forgiato dalle culture politiche di marca solidarista – socialista e non solo – che avevano contrastato in passato la differenziazione e il pluralismo suscitati dalla modernità e dall’industrializzazione. C’è dunque da domandarsi se l’accanimento con cui si difende l’impiego del medesimo termine serva volutamente a occultare una rottura anziché indicarne una continuità» (ibi, p. 341).

In effetti, nella democrazia odierna, secondo Mastropaolo, si cela proprio il «privilegio di pochi» (ibi, p. 341), e inoltre l’attuale riconfigurazione degli equilibri mondiali fa presagire un’ulteriore abbassamento dei livelli di benessere delle società occidentali, con conseguenze non certo positive sui sistemi politici democratici. Così, il politologo – formulando nelle pagine conclusive una previsione segnata da un certo pessimismo –  si chiede se la democrazia non sia ormai una «causa persa», nel senso in cui ne parlava Edward E. Said, ossia una causa nobile, ma per cui è ormai del tutto inutile combattere: 

«se è consentito all’autore di queste pagine avanzare – alla luce dei valori equipaggiato dei quali anch’egli partecipa al complicato gioco democratico, nonché degli strumenti interpretativi di cui dispone – qualche previsione sullo stato futuro del mondo, la sola che verrebbe di fatto di azzardare, è che la democrazia è una causa persa. Anche se resta una causa nobile. I suoi principi ispiratori – la libertà e il rispetto dell’altro – e la sua ambizione di pacificare il conflitto, di contenere e civilizzare il potere e metterlo al servizio della collettività, sono di alto pregio. Purtroppo, le regole democratiche sono quel che sono, cioè imperfette. Da esse, di per se stesse, è arduo cavare più di tanto. Il resto tocca alla politica che, ultimamente, per gran parte dei governanti si è fatta molto avara» (ibi, p. 345).

Mastropaolo non rinuncia a riconoscere – già nel nostro presente – i segnali di una possibile inversione di rotta. «Se la condizione attuale delle società democratiche – e del mondo intorno ad esse – è come sempre instabile», scrive infatti il politologo, «come sempre non mancano uomini e donne che non solo ragionano e discutono, ma che sono pure disponibili a incantarsi». A dispetto di tutti quei segnali che inducono a previsioni funeste, diventa così possibile concedere almeno uno spiraglio alla democrazia. Anche perché, come conclude, «se l’ottimismo sovente è fatuo, il pessimismo ancor più spesso è ottuso» (ibi, p. 353). 


Democrazia e potere

L’immagine di una democrazia ‘commissariata’ dalla Bce, o la sagoma scheletrica di una politica ‘svuotata’ dal pervasivo potere dei mercati, dicono naturalmente solo una parte della realtà. Non tanto perché – come ha sostenuto per esempio Barbara Spinelli (L’irruzione della realtà, in «la Repubblica», 10 agosto 2011, p. 1) – gli Stati del Vecchio continente abbiano effettivamente e definitivamente rinunciato alla loro sovranità (a meno di non ‘reinventare’ il concetto di sovranità, o di equiparare l’Unione Europea a uno Stato sovrano). Quanto perché proprio una simile rappresentazione finisce col costituire un’attenuante nei confronti dei governi occidentali, i quali – nel momento in cui ritraggono se stessi come semplici esecutori delle direttive delle istituzioni sovranazionali o della volontà un mercato onnipotente e incontrollabile – finiscono di fatto con lo scaricare su altri soggetti ogni responsabilità politica, e prima di tutto la responsabilità di non avere compreso – né ora, né dieci anni fa – la portata della modificazione geo-politica e geo-economica in atto. Il fatto che la rappresentazione di una democrazia ‘svuotata’ dai mercati e di una sovranità insidiata dal potere dell’economia globale sia solo in parte adeguata a comprendere la realtà, non significa però che l’impotenza degli Stati e della politica sia oggi solo l’effetto di una distorsione ottica. Piuttosto, i rapporti fra Stato e mercato, fra politica ed economia, fra la democrazia e ‘globalizzazione’, vanno inseriti in un quadro più ampio, in cui i rapporti economici, gli assetti sociali, le dinamiche istituzionali sono il risultato delle relazioni di potere e del loro mutamento storico. In altri termini – come rileva anche Mastropaolo – persino la democrazia contemporanea può essere considerata come un «armistizio», ma si tratta di un armistizio molto diverso da quello del passato. L’ascesa della finanza e il passaggio a un regime di accumulazione trainato dalla finanza richiedono infatti forme conflittuali radicalmente differenti rispetto alla stagione fordista. In questa transizione, la politica non gioca un ruolo secondario, e non si limita a subire gli effetti della globalizzazione. Gli Stati – e dunque le democrazie occidentali – agiscono con un ruolo di primo piano nel destrutturare l’assetto fordista, e dunque nel superare l’«armistizio» postbellico, per il semplice motivo che questa strada consente – o almeno ha consentito fino a un certo momento – di superare la ‘stagnazione’ e la ‘crisi’ degli anni Settanta. Oggi la fase di ascesa del ‘post-fordismo’ è probabilmente ormai giunta al termine, o quantomeno si sono esauriti i benefici che la finanziarizzazione ha parzialmente consentito, e così si scopre quanto le speranze riposte in una nuova fase di accumulazione fossero in gran parte illusorie. Il punto è però che – dopo questa lunga stagione – sul tappeto non rimane più alcun soggetto capace di esercitare un potere di contrattazione e interdizione all’interno della contrapposizione capitale-lavoro. In altri termini, per quanto esista un nesso fra il lavoro e il capitale finanziario, e dunque fra ‘economia reale’ ed ‘economia finanziaria’, non si tratta di un legame che consente la strutturazione di soggetti conflittuali, e perciò non esistono margini reali per la regolazione delle tensioni sociali. Se da un lato il versante degli interessi imprenditoriali appare frammentato, dall’altro la forza materiale di ciò che rimane del lavoro organizzato, polo cruciale del vecchio assetto fordista, è inadeguata: inadeguata non tanto per pensare il conflitto o per impostare singole vertenze, quanto per ipotizzare una strutturazione del conflitto e una sua regolazione. Così, se l’armistizio che reggeva la democrazia di ieri appare ormai superato in mille direzioni, e se le condizioni interne e internazionali che resero possibile e necessario quell’assetto sono ormai definitivamente tramontate, diventa invece molto difficile ipotizzare se, come e quando si giungerà a un nuovo armistizio. Tanto che risulta impraticabile anche solo pensare quali soggetti potrebbero sedersi al tavolo della tregua (a meno di non credere alle formule rituali della concertazione).
Negli ultimi anni, il dibattito si è spesso soffermato sulle possibilità che offrono le pratiche deliberative. Nel suo recente Democrazie (Il Mulino, Bologna, 2011), Donatella della Porta propone una rassegna di queste posizioni, e soprattutto sostiene che si tratta, forse non di un’alternativa, ma comunque di uno strumento in grado di rispondere alle sfide cui è sottoposta la democrazia liberale rappresentativa. Anche Mastropaolo – come si è visto – prende in considerazione questa ipotesi e valuta persino l’eventualità che l’affermarsi di una sorta di ‘contropotere’ dal basso possa prefigurare un’inedita forma di divisione dei poteri. Ma se nel suo precedente volume La mucca pazza della democrazia (Bollati Boringhieri, Torino, 2005) assegnava a questa ipotesi una maggiore credibilità, oggi pare invece abbandonare alcune delle precedenti speranze. E scrive per esempio che la proliferazione dei fenomeni di ‘auto-organizzazione’ della società civile, mentre punta alla costruzione di spazi di partecipazione oltre i partiti, potrebbe addirittura legittimare l’approfondimento della separazione fra «piani alti» e «piani bassi»:

«Nei regimi democratici tra piani bassi e piani alti il rinnovamento delle procedure ha promosso un singolare processo di dissociazione. Ai piani alti vige la presidenzializzazione, o qualcosa di assimilabile. A loro volta società civile, associazioni, movimenti, istanze deliberative, stake-holders, si disputano accanitamente lo spazio della partecipazione: per la negoziazione spiccia e per la protesta. Solo che ciò avviene prevalentemente ai piani bassi, ma ai piani alti suscita non poco imbarazzo. Potrebbe essere il segno di una divisione del lavoro in via di perfezionamento. La presidenzializzazione semplifica all’estremo l’eterogeneità dei governati intorno al leader da essi eletto. Dal canto opposto, la governance e tutto il resto permettono al popolo – seppur ridotto alle sue parti ritenute politicamente significative – di far sentire le sue tante voci. Il parlamento e il governo locale fanno da riempitivo, seppure non irrilevante, mentre l’atmosfera è impregnata da mille retoriche in contrasto, tra cui quelle dedicate alla trascendenza del collettivo e al protagonismo della cittadinanza. In aggiunta, un po’ di eccitazione antipolitica e pseudopolitica sembra ai governanti così conveniente da promuoverla essi stessi» (A. Mastropaolo, La democrazia è una causa persa?, cit., pp. 337-338). 

A ben vedere, è molto difficile non condividere il pessimismo di Mastropaolo anche a questo proposito. Non certo perché la richiesta di partecipazione da parte della società o la sperimentazione di pratiche deliberative siano fenomeni deprecabili. Ma perché affidare a strumenti di questo tipo le residue speranze di rivitalizzare la democrazia contemporanea rischia di condurre a una disillusione quasi inevitabile. Per molti versi, sarebbe come pretendere di combattere una guerra opponendo truppe male armate di volontari a un esercito di professionisti ben equipaggiati e dotati di ogni ritrovato tecnologico: forse può consentire una resistenza efficace, forse può persino dare la possibilità di spingere sulla difensiva le truppe avversarie, ma non può certo condurre a uno stabile armistizio, non può portare all’affermazione di un reale equilibrio di poteri. E, soprattutto, non può ‘mettere in forma’ i magmatici conflitti del XXI secolo e i soggetti frammentati che nascono nelle reti e nei flussi del capitalismo cognitivo.
Dinanzi a questa situazione non ci sono soluzioni facili, e cadere nella tentazione dell’anti-politica è quasi inevitabile. Probabilmente, le ondate – comprensibili e giustificabili – di sentimenti antipolitici, di disgusto nei confronti del ceto politico, di ‘indignazione’ nei confronti delle istituzioni finanziarie, non possono dare una spinta reale alla definizione di un ‘armistizio’, capace di dare sostanza alla dinamica democratica, ma rischiano persino di legittimare (più o meno implicitamente) derive opposte. E, sotto questo profilo, Mastropaolo ha ricostruito in modo esemplare gli effetti distruttivi che la seduzione dell’anti-politica ha prodotto sul sistema italiano, a partire dalla retorica del «nuovo che avanza» (cfr. A. Mastropaolo, Antipolitica. All’origine della crisi italiana, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2000). L’unica soluzione – ancora una volta – passa per la ‘porta stretta’ della politica: non di una politica che punti a conquistare posti di potere, ma di una politica che possa ‘esprimere’ potere, che sappia ‘mettere in forma’ i conflitti poggiando sulle basi dell’economia postfordista, prima ancora che di definire le condizioni di un nuovo armistizio.
In questa prospettiva, il lavoro degli intellettuali forse non è proprio del tutto inutile come si è pensato in questi anni, in cui la funzione intellettuale si è limitata allo sgomento commento della «mutazione antropologica», della deriva personalistica, del trionfo del più becero edonismo e della trivialità più oscena, quando non si è ridotta a una semplice funzione ornamentale e alla compiaciuta legittimazione di effimere mode culturali e di disastrose avventure politiche. La democrazia d’altronde – e Mastropaolo l’ha scritto in molte occasioni – è anche il risultato del confronto culturale, ossia dello scontro e della contrapposizione fra immagini diverse del ‘dover essere’ della democrazia, dei diritti e della dignità umana. E proprio per questo – si potrebbe dire utilizzando la formula gramsciana, ripresa da Ernesto Laclau e Chantal Mouffe – la democrazia è in fondo una sagoma vuota, riempita dagli esiti della battaglia per la definizione dell’ordine simbolico, e costantemente ridefinita dai conflitti per l’egemonia. Naturalmente, sarebbe fin troppo semplicistico pensare che gli intellettuali e il lavoro sull’ordine simbolico possano davvero mutare gli assetti egemonici e gli equilibri di potere, senza tener conto delle forze materiali che si muovono nei ‘piani bassi’ della società, nella vita quotidiana, nei luoghi e nei flussi del lavoro contemporaneo. Come, d’altronde, sarebbe una furbesca (o ingenua) semplificazione ritenere che la seduzione di qualche nuova ‘narrazione’ del presente possa invertire le sorti di una trasformazione radicale, o arrestare la marcia della «mutazione antropologica». Ma la strada per ripensare alla possibilità di un nuovo armistizio democratico passa anche dalla capacità di coniugare il pensiero con il potere, l’immaginario con l’organizzazione, la visione e la forza. Perché, forse, la salvezza della democrazia dei posteri richiede davvero una sorta di inedito «Principe postmoderno». 

Damiano Palano




Questo testo è ora raccolto in La dissolvenza democratica. Cronache nella crisi, un e-book che raccoglie alcuni posti apparsi sul maelstrom.

Il libro è disponibile anche in formato cartaceo.

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