venerdì 25 febbraio 2022

Contro lo «scetticismo democratico» la soluzione viene dal basso. Un manifesto di Charles Taylor, Patrizia Nanz e Madeleine Beaubien Taylor


di Damiano Palano

Questa segnalazione del volume Charles Taylor, Patrizia Nanz e Madeleine Beaubien Taylor, Una nuova democrazia. Come i cittadini possono ricostruirla dal basso (Il Margine, pp. 97), è apparsa su quotidiano "Avvenire" il 24 febbraio 2022.

Nel discorso tenuto a Atene in occasione del viaggio apostolico del dicembre 2021, Papa Francesco ha fatto proprie le parole con cui San Gregorio di Nazianzo aveva celebrato la città greca, «aurea e dispensatrice di bene». Parlando dai luoghi in cui nacque l’idea occidentale di democrazia, ha anche formulato una diagnosi sullo stato odierno dei sistemi politici occidentali. Riconoscendo la tendenza verso un «arretramento della democrazia», Francesco ha innanzitutto accolto la lettura proposta da molti politologi contemporanei. E, in secondo luogo, ha sottolineato come sia soprattutto una minaccia ‘interna’ a corrodere le istituzioni democratiche. «In diverse società, preoccupate dalla sicurezza e anestetizzate dal consumismo», ha osservato, «stanchezza e malcontento portano a una sorta di ‘scetticismo democratico’», alimentato anche «dalla distanza dalle istituzioni, dal timore della perdita di identità, dalla burocrazia». Molte ricerche hanno infatti messo in luce il declino (apparentemente irreversibile) della fiducia riposta dai cittadini nella classe politica e nelle istituzioni. I partiti e i leader «populisti», che negli ultimi anni hanno mietuto voti, sono spesso riusciti a capitalizzare a loro favore la sfiducia contro la «casta» e le élite. Ma l’impossibilità di mantenere le promesse ha invariabilmente finito col generare una sorta di corto circuito. E nuove delusioni hanno fatto crescere ulteriormente lo scetticismo nei confronti della politica.

Naturalmente sarebbe ingenuo pensare che soluzioni semplici – come quelle spesso indicate dai leader «populisti» – siano in grado di invertire la rotta. Uno sguardo realistico impone infatti di riconoscere che le nostre istituzioni sono investite (e saranno investite sempre più nei prossimi anni) da sfide economiche, tecnologiche e ambientali dalla portata troppo ampia perché si possa pensare a rimedi palingenetici. Anche l’ipotesi di un rafforzamento del potere decisionale degli esecutivi potrebbe essere fuorviante. E un contributo potrebbe invece venire proprio dall’intensificazione della partecipazione. Questa è per esempio la proposta che viene avanzata in Una nuova democrazia. Come i cittadini possono ricostruirla dal basso (Il Margine, pp. 97), un volumetto firmato dal filosofo Charles Taylor insieme con Patrizia Nanz e Madeleine Beaubien Taylor. L’idea alla base del libro – che è per molti versi una sorta di manifesto per un rinnovamento politico che parta dalle comunità locali – è che le democrazie occidentali si trovano dinanzi a due problemi interconnessi: per un verso, i rappresentanti eletti non sono in grado di individuare le politiche più efficaci; per l’altro, evitano di prendere decisioni drastiche perché temono di perdere il sostegno dei loro elettori. Al fondo di entrambe le questioni si trova l’erosione dei canali organizzati di trasmissione degli interessi, che consentivano in passato la formazione delle domande e il loro trasferimento verso le forze politiche. Se spesso, per risolvere tale scollamento, si è pensato al rinvigorimento dei partiti, i tre estensori del manifesto puntano invece sulle comunità locali. «Solo se valorizziamo e rinvigoriamo la democrazia dalla base, la cittadinanza si chiarirà le idee riguardo a che cosa chiedere o a quale futuro immaginarsi per la propria comunità o regione», scrivono infatti. In questa chiave, nel libro vengono presentati soprattutto degli esempi virtuosi di comunità locali che, in Europa e in Nord-America, sono state in grado di sperimentare soluzioni per superare le conseguenze della de-industrializzazione. Il punto che viene sottolineato non è però relativo al tipo di risposta offerta alla deindustrializzazione, bensì all’arresto dell’erosione dei legami comunitari e al rafforzamento dell’identità e dell’orgoglio della comunità. La discussione e la partecipazione – prima ancora che produrre soluzioni – ricostituiscono cioè il senso stesso dell’azione collettiva, come presupposto per avanzare richieste ai rappresentanti politici. Naturalmente non tutti gli esempi presentati in Una nuova democrazia sono replicabili. E gli ostacoli al raggiungimento degli obiettivi non sono trascurabili. Ma si tratta di esperienze su cui vale la pena meditare. Perché è davvero probabile che la strada per ricostituire le fragili basi dei nostri sistemi politici passi anche da ciò che resta delle nostre comunità.

giovedì 24 febbraio 2022

Filosofia politica, a lezione dal vivente. Roberto Ciccarelli intervista Roberto Esposito

di Roberto Ciccarelli

Questa intervista di Roberto Ciccarelli a Roberto Esposito è apparsa sul quotidiano "Il Manifesto" .

Lei ha definito il titolo del suo libro, «Immunità comune», un paradosso. Per quale motivo?

Questa espressione si riferisce all’incrocio che oggi, forse per la prima volta, si va profilando tra due concetti logicamente contrari come quelli di comunità e immunità. Da qui il suo carattere apparentemente paradossale.

Finora i sistemi immunitari, presenti in tutte le società ma anche nei nostri stessi corpi, definivano una sorta di zona protetta, sul piano medico o giuridico, rispetto ai rischi della vita comune. Con la pandemia l’intera comunità mondiale esige di essere salvaguardata dal virus con la vaccinazione. Naturalmente questa possibilità è tutt’altro che prossima, anzi fortemente contrastata da interessi acquisiti, ma almeno l’esigenza è stata enunciata, perfino dai capi di governo.

 

La gestione della pandemia fatta da parte dei governi, e non solo da quelli italiani, ha puntato tutto sull’immunizzazione, cioè il vaccino. Perché ritiene questa politica «rischiosa»?

Va intanto detto che è stata necessaria. Nessuna società potrebbe sopravvivere a lungo senza sistemi immunitari – per esempio senza un apparato giuridico. Tanto più in fase di pandemia. Una certa dose di immunizzazione è inevitabile. Si tratta di vedere quale e quanta. Come nel corpo umano, in cui un eccesso di difesa immunitaria può provocare malattie autoimmuni, anche nella società un’immunizzazione eccessiva produce disfunzioni insostenibili per regimi democratici. Oltre un certo periodo lo stato d’emergenza può scivolare in uno stato d’eccezione, con danni irreparabili per un regime democratico.

 

Cosa risponde a chi, come Giorgio Agamben e a tutti quegli interpreti che sostengono che questa democrazia immunitaria altro non sia che una forma di «dittatura sanitaria» ispirata a uno «stato di eccezione permanente»?

Che non bisogna confondere stato d’emergenza e stato d’eccezione. Mentre il primo nasce da una necessità oggettiva – come una pandemia – il secondo deriva da una volontà soggettiva di stravolgere l’ordinamento. Certo, anche la definizione di «stato di necessità» richiede una valutazione soggettiva, ma è ben visibile la differenza tra un terremoto e un colpo di stato. Del resto il più grande giurista italiano del Novecento, Santi Romano, vede nella necessità una delle principali fonti del diritto.

 

Come mai i filosofi sembrano essere più attratti dalla denuncia del ruolo dello Stato contro l’individuo e meno dal fatto che gran parte del mondo non ha i vaccini?

Perché l’anti-istituzionalismo è stato parte integrante della grande filosofia novecentesca. Da Marcuse a Foucault, si è immaginato che libertà ed istituzioni siano necessariamente opposte. Ciò presuppone una nozione puramente individualistica o anarchica di libertà. Certo, in più di un caso le istituzioni hanno svolto un ruolo regressivo. Ma situare la libertà solo fuori, o contro, le istituzioni, ha finito per rendere impolitici i movimenti radicali, provocando un ulteriore irrigidimento delle istituzioni. Oggi è necessario coniugare radicalismo e realismo. Non cercare la liberazione dalle, ma nelle, istituzioni, attraverso una dinamica, anche conflittuale, che privilegi il movimento istituente sull’istituito.

 

Certamente, in Foucault il rapporto con le istituzioni è più critico e sfumato. Tornando all’attuale dibattito italiano, è quasi o del tutto assente ogni riferimento all’economia e alla critica del capitalismo. Come mai sono pochi i filosofi che hanno sottolineato il fatto che il virus sia una delle conseguenze delle monoculture animali e dell’agribusiness?

Perché la cultura umanistica è scarsamente consapevole dell’intreccio inevitabile tra politica, economia ed ecologia. Il riferimento decisivo alla natura, nell’età dell’antropocene, comincia solo adesso a emergere nella riflessione filosofica. Eppure il rapporto tra natura, storia e tecnica è parte integrante del pensiero novecentesco. Oggi è necessario fare un salto di qualità nella direzione che lei indica, riflettendo sulla connessione tra biopolitica e bioeconomia. Al momento mancano grandi progetti di ricerca sull’intreccio profondo tra questione sanitaria e questione ambientale. Questo è esattamente il compito della nuova generazione di filosofi.

 

Non crede che la grande difficoltà della filosofia politica rispetto al Covid discenda anche dal fatto che la biopolitica sia interpretata quasi esclusivamente con concetti giuridico-politici e non anche quelli che relazionano il vivente, il politico e la scienza?

Assolutamente sì. Ma il paradigma di immunizzazione richiama da vicino l’ambito biologico. La filosofia politica ha parecchio da imparare dal funzionamento dei sistemi viventi e dal corpo umano in particolare. Nel libro ho cercato di mostrare come la scienza biologica, e in particolare immunologica, abbia a lungo subito l’influenza della filosofia politica nel rappresentare il sistema immunitario come un semplice apparato di difesa nei confronti degli agenti esterni. Non è un caso se la pandemia viene spesso descritta attraverso metafore militari. Eppure da tempo la ricerca immunologica ha modificato l’interpretazione dell’immunità, per esempio riscoprendo il ruolo decisivo della «tolleranza immunitaria». È ora che la filosofia politica ripensi in questa chiave anche i sistemi immunitari della società.

 

Si parla raramente del ruolo dei tagli alla sanità, alla scuola e al «Welfare» che hanno aggravato la pandemia e della necessità di un loro rilancio. Come mai?

In verità c’è chi ha riflettuto sulla connessione tra crisi economica e crisi sanitaria, ormai sempre più intrecciate. È evidente che la pandemia colpisce soprattutto i meno protetti socialmente. Ed è sotto gli occhi di tutti la responsabilità di chi ha smontato la sanità pubblica in Occidente. Quanto alla scuola, tra qualche anno ci accorgeremo delle conseguenze nefaste dell’interruzione della didattica in presenza per quasi due anni.

 

Raramente ci si sofferma sul fatto che i più colpiti dalle conseguenze mortali del virus siano stati gli anziani, i poveri o, negli Stati Uniti, gli afroamericani. La filosofia ha perso i contatti anche con l’analisi critica del potere, del razzismo e delle classi?

Che gli anziani siano stati particolarmente colpiti solo apparentemente è una risultante biologica del fatto che sono oggettivamente più fragili o già malati. Sulla strage nelle Rsa, nel primo anno di pandemia, le istituzioni, soprattutto regionali, hanno una fortissima responsabilità. I neri americani sono da sempre vittime designate non solo delle malattie, ma di tutte le crisi ecologiche. C’è una netta implicazione classista in quanto è successo. Non solo nella diffusione del contagio, ma anche nelle cure che sono state date. Chi potrebbe immaginare che Trump o Berlusconi siano stati curati come cittadini comuni?

 

Nel suo libro c’è una polemica su una parziale, e astiosa, interpretazione della biopolitica e, in generale, contro Michel Foucault che ne è stato un ispiratore. Per quale ragione?

Perché è una polemica spesso pregiudiziale, proprio nel momento in cui il paradigma di biopolitica ha dimostrato una potenza euristica inconfutabile. Sostenere che non viviamo in regimi biopolitici, o meglio immunopolitici, oggi è quasi incredibile, visto quello che ci circonda ogni parte. L’immunizzazione è diventata la nostra nuova forma di vita, sul piano reale come su quello simbolico. Questa diffidenza deriva dal fatto che la categoria di biopolitica è stata a volte intesa in chiave metafisica, come una categoria trans-storica, quando invece nessuno più di Foucault l’aveva storicizzata.

 

Quando parla di una «politica che sappia fare valere le istanze liberatorie contro gli interessi consolidati», a cosa si riferisce di preciso?

A una politica che ricostruisca il Welfare smontato dal neoliberalismo, senza per questo farsi sedurre dalle sirene sovraniste. A un modello economico e sociale radicalmente rinnovato sul piano della produzione e della distribuzione. A un ritorno di centralità della battaglia politica che forzi il blocco neutralizzante al quale i nostri regimi sono sottoposti dal dominio della tecnocrazia. A una società che ridia alla cultura, adesso mortificata, il ruolo di volano produttivo ed innovativo.

domenica 13 febbraio 2022

Il futuro della politica. Un testo inedito di Gianfranco Miglio dal nuovo numero della “Rivista di Politica” (4/2021)



di Gianfranco Miglio

Questo testo è tratto da uno dei contributi di Gianfranco Miglio che sono pubblicati sul nuovo numero della “Rivista di Politica”, interamente dedicato allo studioso comasco a vent’anni dalla scomparsa. Nel fascicolo – intitolato «La passione del realismo. Gianfranco Miglio (1918-2001)» – sono ospitati saggi di Damiano Palano, di Michele Gimondo e di Matteo Bozzon e Giovanni Comazzetto, rivolti ad alcuni aspetti della riflessione Miglio, oltre a una ricca sezione in cui sono proposti testi inediti o ripubblicati lavori dimenticati, che offrono elementi preziosi per ricostruire un itinerario intellettuale più articolato di quanto si sia spesso pensato. Il testo che segue è tratto da una conferenza tenuta nel 1989.

[…] È tempo che io chiarisca un po’ quelle che sono le mie vedute circa il possibile avvenire. La premessa è che tutti i cambiamenti dei sistemi istituzionali, nella storia dell'animale-uomo, sono venuti da innovazioni tecnologiche: è l'innovazione tecnica che guida e comanda le mutazioni dei nostri modelli generali politici. Da quando si inventò la scrittura, [da quando] si destabilizzò un intero assetto basato sulla trasmissione privilegiata orale delle norme e cadde l'aristocrazia greca classica (quello che chiamiamo l'ordinamento nobiliare), fino ad arrivare alla più vecchia rivoluzione industriale, che inventò la fabbrica, rendendo possibili tutta una serie di valori che noi abbiamo innalzato sugli altari come se fossero verità assolute (il solidarismo, l’egalitarismo ecc., che non erano altro che ‘sottoprodotti’ della prima rivoluzione industriale dell'atelier, della fabbrica, della catena di montaggio, della massificazione), e fino ai giorni,  sono i cambiamenti tecnici che guidano e determinano gli assetti in cui si trovano gli uomini. È precisamente quello che sta accadendo i giorni nostri: la straordinaria accelerazione del macchinismo e l’automazione nei processi di trasmissione delle informazioni (perché di questo si tratta) promettono di cambiare tutto il panorama in cui si muoverà la generazione futura. Difficilmente noi fermiamo l'attenzione su questo punto, [cioè] che questo mutamento potenzia straordinariamente il singolo. Non solo sta distruggendo una figura su cui si basa la maggior parte delle nostre ideologie, la classe operaia: il lavoratore delle fabbriche sostituito dall'automa. Ormai il robot è diventato il segno del nostro avvenire, le grandi fabbriche, il grande lavoro di serie fra cinquant'anni sarà tutto robotizzato. Insomma, questo determina la caduta degli ideali egalitari-solidaristici tipici della fabbrica e della società paleo-industriale. Ma, soprattutto, questo cambiamento potenzia l'individuo. Potenzia le possibilità del singolo soprattutto perché gli permette di fare a meno dei suoi simili. Valendosi delle macchine, oggi un imprenditore – ed ecco perché l'imprenditoria tende a essere di dimensioni modeste, magari federata e coordinata ma di dimensioni modeste – può convertire le sue attività, può chiudere e aprire senza il vero problema di pensare al destino di coloro che lavorano con lui. Io metto in contrapposizione la grande fabbrica della prima fase della rivoluzione industriale con lo snello atelier della società postindustriale, caratterizzato proprio dall'uso dei computer, cioè dell'automazione dell'informazione. Avere sempre meno bisogno dei propri simili: è questa la vera molla che scatena il privato nella società dei nostri tempi. Io non mi commuovo affatto ai successi della signora Thatcher o del presidente Reagan, ma constato semplicemente che questi sono soltanto accidenti storici, manifestazioni collaterali storiche, neanche poi tanto importanti di questo movimento verso il privato e verso l'individuale.

Tutto questo cosa comporta? Comporta il ‘ritrarsi’ del pubblico, il ridursi del pubblico. […] Il singolo individuo tende a risolvere i suoi problemi per conto suo, e cercherà sempre più di trovare la soddisfazione delle sue esigenze, usando il contratto. Noi stiamo rientrando in una grande età del contratto-scambio. Già ci sono, per chi segue tali fenomeni, una grande quantità di aspetti rilevanti. […] Ma quello che interessa è qui vedere come l'automazione dell'informazione potrebbe incidere sui pilastri dello Stato moderno nella fase che ne abbiamo conosciuto, in modo specifico, nello stadio rappresentativo. Io mi limito a fermare la mia attenzione su due aspetti che sono i più evidenti, i e anche i più facili a considerarsi.

Il primo riguarda il ruolo dell’aiutantato burocratico.
Tutti sappiamo che la dannazione dei grandi organismi è quella della servitù nei confronti dello sviluppo burocratico. Nel Settecento noi collochiamo l’idea secondo cui i grandi organismi sono destinati a corrompersi (Montesquieu, Gibbon, ma c'è anche qualche grande autore prima di Montesquieu, prima di questi uomini Settecento: già nel Seicento certi passi di Naudé anticipano). Secondo questa idea, quando l'organismo diventa grosso – e i nostri sistemi politici, pensavano questi autori, sono di grandi dimensioni – ecco la tabe, l’infezione, oggi diremmo il virus dell'apparato burocratico. È il destino che comincia con gli imperi che Weber chiamava ‘di magazzino’, simboleggiati dallo scriba del Louvre, lo scrivano che bene riassume la figura del burocrate, e che arriva fino alle colossali burocrazie dei nostri ordinamenti. Tutto questo da dove veniva? Veniva dal bisogno di raccogliere le informazioni, classificarle, immagazzinarle, poi andare a riprenderle, elaborarle e farne strumento per l'azione di chi governa. Tutto questo diventa sempre più opera delle macchine. Ci sarà sempre meno bisogno del burocrate. (Io dico queste cose nella città in cui io vorrei sempre portare i miei allievi ad assistere all'uscita dai ministeri, a una certa ora,
quando un fiume di funzionari esce da questi portoni e rappresenta bene la visione dello Stato burocratico, della struttura burocratica. Tutto questo è un panorama che, secondo una modesta previsione, è destinato, se non a scomparire, [a scomparire quasi del tutto]. Rimarranno soltanto coloro che saranno in grado di porre domande estremamente intelligenti
alle macchine di gestione dell'informazione [a rimanere]. […]

Ma ancora più significativo è l'impatto dell'innovazione tecnica costituita semplicemente dall’automazione dell'informazione che incide sul rapporto rappresentativo. E così spiego al mio amico Mongardini perché io credo che la rappresentanza sia un'istituzione prossima ad uscire dalla nostra storia. Quando e come è nata la rappresentanza? Ho cercato di farne la storia e mi rimane sempre un po’ di nostalgia [per il progetto incompiuto] di utilizzare tutta la massa di materiale che ho raccolto e che vorrei tradurre in un'interpretazione e una serie di ipotesi molto più soddisfacenti, almeno per me, di quelle che ho già fatto a suo luogo. Ridotta all'osso, l'invenzione del rappresentante non è nata dai rappresentati: tutta la storia della rappresentanza insegna che i rappresentanti li hanno inventati coloro che governavano, dai missi Dominici ai maîtres des requêtes, fino all'investitura data agli amministratori locali chiamati a fare, come poi si dirà, da procuratores dei governati, agli Stati generali, che vengono costruiti dai governanti. Sono loro che hanno bisogno – ecco il punto cruciale – di sapere quali sono i bisogni, le esigenze, i vizi, la ‘caricabilità’ (cioè la capacità di sopportazione dei sacrifici da parte dei governati). E il rappresentante a poco a poco – quando comincia a gestire in proprio il potere, esautorando il principe (ed è l’età in cui nascono i parlamenti) – diventa il tramite fra governanti e governati, con funzione di informazione. Non per caso noi quasi non riusciamo più a concepire una prova elettorale che non sia legata a un programma, che non sia cioè legata a un «che fare» e a una richiesta: «vi propongo di votarmi, io andrò a portare i vostri interessi, ecc., farò presente allamministrazione, a chi governa, quali sono questi bisogni». L’innovazione nel campo tecnico dell'informazione sta distruggendo queste esigenze, o meglio sta soddisfacendo in maniera radicalmente diversa questa esigenza. […] E questo cosa significa? Significa che allora non è più necessario il rappresentante: la figura del rappresentante perde la sua base. Si può dire: ma resisterà! Certo, ci vorrà tempo, perché il parlamentare cambi mestiere, perché si trovi un'altra base. È un po’ il problema di ritrovare il titolo con il quale erogare le rendite politiche e creare i seguaci più o meno fedeli: anche qui, l'uso dei sondaggi d'opinione è destinato a permettere a chi governa di sapere esattamente cosa pensano i governati, e soprattutto – badate bene – di saperlo indipendentemente da quell'azione deformativa che esercita una campagna elettorale, o l'organizzazione di una prova che porti alle urne (il dibattito infatti fa sì che, colui che era entrato in questa fase con certe idee ne esca generalmente con le idee confuse e ‘violentate’, in relazione gli interessi dei più abili persuasori che si fanno strada nella mischia elettorale).

Questo testo è tratto da "Rivista di Politica" (4/2021)

mercoledì 9 febbraio 2022

Alla luce della rielezione di Sergio Mattarella. Un intervento di Alfio Mastropaolo


di Alfio Mastropaolo

Questo articolo è apparso sul blog della rivista "Il Mulino".

 Risparmiamoci lo scandalo. È andata secondo copione. In piena e democratica coerenza coi rapporti di forza tra i partiti, coi tratti di ciascuno di essi e col costume politico prevalente. È il copione cui ci ha abituato l’esecutivo Draghi ogni qualvolta assume qualche decisione: laboriose mediazioni, qualcuno che abbaia per alzare il prezzo, mediazione risolutiva del capo del governo. Le misure adottate non sono mai granché, ma questo passa il convento. Stavolta, dopo qualche maldestra manovra per smarcarsi, si è addivenuti alla soluzione più ovvia. Spiace per il fracasso sul tema dell’elezione di una donna. Ma è dubbio che le donne ci contassero. Sono abituate a simili esibizioni. 

Ai partner della maggioranza serviva una figura che nessuno potesse esibire come trofeo. Poteva essere Draghi, ma Mattarella evitava l’imbarazzo di reinventarsi un esecutivo. Si potevano risparmiare le manovre maldestre, ma per chi scrive la democrazia ci ha guadagnato. Nessuno è perfetto: ma Mattarella è un galantuomo, è stato un presidente impeccabile, ha mostrato gran cura per gli interessi del Paese, specie delle sue parti più deboli, è affezionato ai principi scritti in Costituzione, che sono la sua cultura. Disdegna le interpretazioni creative. Mattarella è un galantuomo, è stato un presidente impeccabile, ha mostrato gran cura per gli interessi del Paese, specie delle sue parti più deboli, è affezionato ai principi scritti in Costituzione, che sono la sua cultura

Non meno ovvio è stato il seguito. Cioè le reazioni. La prima ha denunciato lo spettacolo «indegno» offerto dalle forze politiche. Molti soffrono di memoria corta. I franchi tiratori stanno nella norma: il voto segreto li eccita da sempre. Anzi, la reiterazione della conferma, dopo il precedente Napolitano, ha avuto tutt’altro e più pacifico significato. Quella fu frutto di due imboscate e di una disputa interna al partito maggiore. Qui la conferma è nata da un’intesa, seppur tormentata, entro la maggioranza. 

Dopo l’ovvia denuncia dello spettacolo, non meno ovvia era la richiesta di riforme istituzionali, qualcuna chiesta perfino in corso d’opera. Sù, l’abbiamo capito, le riforme servono ad avvantaggiare qualcuno e a fregare qualcun altro. Sono un diversivo spuntato. Altri invece hanno sollevato grande allarme per lo stato del nostro regime democratico. Sarebbe l’ennesima conferma dell’involuzione autoritaria. In realtà la conferma di Mattarella è avvenuta nel pieno rispetto delle regole. Era nell’ordine delle cose possibili. Per ragioni enunciate da Mattarella stesso, era sconsigliabile. Ma questo è stato l’esito permesso dai rapporti di forza in Parlamento. Come rientra nelle regole la presenza di Draghi a Palazzo Chigi. Può non piacere, ma non è un colpo di Stato tecnocratico, o dell’alta finanza. È prova della debolezza delle forze politiche. È questa l’involuzione, che si manifesta da lungo tempo.

Tra le denunce di rito una sottolinea la bassa qualità del personale politico. Difficile negarla, ma non riguarda solo l’Italia. Le capacità selettive del regime rappresentativo, quali che siano le sue forme, sono modeste. Si butti un’occhiata a Westminster o al Congresso. La selezione dipende molto dalle circostanze. Tutti i Paesi hanno vissuto un dopoguerra di rendita: entro la classe politica c’era un nucleo selezionato dall’opposizione al fascismo, dalla guerra, dalla ricostruzione. Sopravvissuto a prove terribili. A lungo ha dato un tono a tutto il resto. Senza esagerare, perché le polemiche sono iniziate prestissimo.

Per quali ragioni, da ultimo, le classi politiche sono tutte così decadute? Il ragionamento è complicato e pure incerto. Ma contano i valori dominanti nella società. Se sono il profitto privato e il successo elettorale a ogni prezzo, se la politica è un business come tanti, gli effetti sono inevitabili. Questo non esime dal riflettere sui meccanismi di selezione. 

Il meccanismo più chiacchierato è il regime elettorale. Che ha certo considerevole influenza sull’andamento della contesa politica. Ma ne ha molto meno sul reclutamento dei politici, visto quanto si osserva altrove. L’attuale regime andrebbe modificato perché ingiusto e distorsivo. Le liste bloccate rendono i leader di partito padroni della rappresentanza parlamentare, che poi magari si ribella. Si dice che a introdurre la proporzionale e le preferenze si darebbe più ascolto al Paese e i candidati sarebbero indotti a interagire di più con gli elettori. Forse, ma non è detto. Le campagne elettorali sono oggidì condotte per via mediatica e lo sarebbero anche quelle condotte dai candidati. Fatalmente prevarrebbero i più dotati di risorse finanziarie: proprie o dei loro non disinteressati danti causa. Come sappiamo, altri rimedi tentati per migliorare la selezione (primarie e piattaforma Rousseau) non hanno dato gran frutto.Il regime elettorale ha considerevole influenza sull’andamento della contesa politica, ma ne ha molto meno sul reclutamento dei politici, visto quanto si osserva altrove. L’attuale regime andrebbe modificato perché ingiusto e distorsivo

Questo rinvia alla questione dei media. L’elezione del presidente della Repubblica – e la campagna presidenziale – l’hanno confermato. Il loro imperativo è l’audience e l’audience pretende spettacolo. Già solo per questo i media (in sinergia con la politica) avvelenano il discorso pubblico e polarizzano la contesa, disorientando gli elettori. In più, sono in larga parte in mano a grandi potentati privati. Niente d’inedito. I media senza regole sono una minaccia per tutti i regimi democratici: molto insegna l’America, ma anche in Gran Bretagna hanno svolto un’azione devastante. In Francia un miliardario che detiene una posizione egemone su tv e editoria è l’ispiratore dell’operazione Zemmour. Visto che sull’autodisciplina dei media non c’è da contare, servirebbe qualche regola. Che metta in dubbio le concentrazioni proprietarie e promuova, anche a spese della collettività, il massimo pluralismo informativo. Già tuttavia si avverte la fiera indignazione degli alfieri del libero mercato. La proprietà privata è la più sacra di tutte le libertà e la concorrenza in più perfetto dispositivo di selezione. 

Un’altra invocazione di rito è: ci vorrebbero i partiti. Come rimedio anzitutto alla scarsa qualità del personale politico. Già, perché gli attuali partiti sono agenzie di marketing, tutto business e poca democrazia. Servirebbero, si dice, partiti aperti ai cittadini, luoghi di riflessione e discussione, entro cui maturino competenze e capacità di governo, evitando magari il ricorso ai tecnici per ovviare a questi limiti. Se non che, i partiti sono macchine complicate e non s’improvvisano. E poi bisogna intendersi. Una volta erano grandi istituzioni protettive. Per ottenere consenso, proteggevano gli elettori, talvolta in forme discutibili. Ma, comunque sia, li proteggevano. Si radicavano nella società, presidiavano il territorio, colmavano lo spazio con le autorità pubbliche. Era loro interesse suscitare interessi diffusi, farsi portavoce di vasti gruppi sociali. Questa era la loro forza. Col tempo sono divenuti macchine iperprofessionalizzate, verticistiche e hanno trovato più conveniente usare i media anziché estenuarsi sul campo. È la loro debolezza. Ma si potrebbe mai tornare al passato? I media hanno favorito la rappresentanza usa e getta: si sollevano temi in vista della prossima campagna elettorale. Che le aspettative siano disattese poco importa. Al prossimo giro si solleveranno altri temi. Invocare il ritorno dei partiti è un altro diversivo.La politica democratica è a un’impasse. Le succede di tanto in tanto. Ha il difetto congenito di fondarsi su una società plurale e di doverla ricucire. L’impresa è ardua

In conclusione. La politica democratica è a un’impasse. Le succede di tanto in tanto. Ha il difetto congenito di fondarsi su una società plurale e di doverla ricucire. L’impresa è ardua. La tentazione di tagliar corto, reprimere la pluralità, presidenzializzare ed esternalizzare la politica agli esperti e al mercato è congenita. La politica, perfino nei regimi autoritari, negozia senza posa con la pluralità che concorre a produrre. I regimi democratici lo fanno permettendo a qualche parte politica, o coalizione di parti, di prendere provvisoriamente – e limitatamente – il sopravvento. È stata però sciagurata la scelta, pur se democraticamente assunta, di togliere le briglie al capitalismo, che ha consentito ai potentati economici d’imporsi stabilmente. Sono loro che comprimono la pluralità, oscurano il conflitto sociale e alimentano il risentimento antipolitico. 

Il conflitto sociale sembra sparito. Ma è solo stato reso invisibile entro una società a dir poco concitata. La frustrazione, la sensazione di abbandono, il disprezzo di cui sono fatte oggetto alcune fasce sociali, perché meno abbienti e meno istruite, la precarizzazione esistenziale che si accompagna a quella occupazionale, hanno già prodotto reazioni scomposte da parte degli elettori, che non migliorano il tenore della vita pubblica. Che nessuno si preoccupa di prevenire, ma semmai strumentalizza. Lì sta il problema, non nella rielezione di Mattarella, che nulla ha di patologico. Patologia sono i temi fondamentali che nel discorso di giuramento lui ha implacabilmente inventariato. È lo stato della società sottomessa al mercato e ignorata dalla politica. Sanno davvero di beffa gli applausi dei parlamentari, gli osanna della stampa e pure la proposta – ma guarda! – di discutere quell’inventario in Parlamento. 

martedì 8 febbraio 2022

Gli scritti politici di Aristotele. Una discussione con Massimo Cacciari, Damiano Palano e Federico Leonardi (mercoledì 2 marzo, ore 17.30)



 Mercoledì 2 marzo - ore 17.30

Gli scritti politici di Aristotele

Una discussione sul volume di Aristotele, "Scritti politici", a cura di Federico Leonardi (Rubbettino 2021)

Con

Massimo Cacciari

Federico Leonardi

Damiano Palano


Università Cattolica

Largo Gemelli 1 - 20123 Milano

Aula CRIPTA Aula Magna


sabato 5 febbraio 2022

"La passione del realismo". Riletture e inediti nel nuovo numero della "Rivista di Politica" dedicato a Gianfranco Miglio


A vent'anni dalla scomparsa di Gianfranco Miglio, la "Rivista di Politica" dedica un nuovo numero  monografico 4/2021) allo studioso comasco. Nel fascicolo articoli di Damiano Palano, di Matteo Bozzon e Giovanni Comazzetto, di Michele Gimondo rileggono da varie prospettive le ricerche e le ipotesi di Miglio. 

Ad arricchire il numero è inoltre una ricca miscellanea di scritti, tra cui alcuni interventi inediti e testi del tutto dimenticati di uno studioso che non esitava a collocarsi nella tradizione del realismo politico e che soprattutto inquadrava la propria teoria nella traiettoria della "politologia concettuale" di Max Weber e di Carl Schmitt.

 


Sommario 

Dossier: gianfranco miglio vent’anni dopo (2001-2021)

Gianfranco Miglio (1918-2001). La passione del realismo Damiano Palano

«La legge del più forte». Gianfranco Miglio e la politica internazionale Damiano Palano

All’ombra dello Stato? La costituzione del ‘politico’ in Miglio e Schmitt Matteo Bozzon – Giovanni Comazzetto

La caccia grossa. L’origine della politica nella riflessione di Gianfranco Miglio Michele Gimondo

 

Archivio del realismo politico: miscellanea migliana

Ciò che attendiamo dagli alleati e ciò che loro daremo (1945) Gianfranco Miglio

La realtà nazionalista (1945) Gianfranco Miglio

L’Europa perduta (1946) Gianfranco Miglio

L’Europa immortale (1946) Gianfranco Miglio

La riforma delle Regioni fondamento del nuovo Stato (1949) Gianfranco Miglio

La sua città (1949) Gianfranco Miglio

Il problema dell’Europa (1952) Gianfranco Miglio

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mercoledì 2 febbraio 2022

Lo psicodramma dei grandi elettori e la fine della “Seconda Repubblica”



di Damiano Palano

Questo commento è apparso su "Secondo Tempo" e, in una versione parzialmente diversa, sul "Giornale di Brescia" il 2 febbraio 2022.

Benché i tempi della dialettica parlamentare siano oggi guardati per lo più con disprezzo da un’opinione pubblica abituata alla politica “istantanea” delle dichiarazioni e dei tweet, in questa settimana il Parlamento è in realtà tornato a essere quello che è stato per una parte importante della sua storia. Non tanto perché i grandi elettori abbiano fatto sentire la loro voce contro i vertici dei partiti, quanto perché l’emiciclo di Montecitorio è diventato ancora una volta – seppur con le limitazioni rese necessarie dalla pandemia – una sorta di grande teatro, in cui le forze politiche hanno avuto la possibilità di dare una rappresentazione rituale alle loro specifiche posizioni, alle trattative con le parti avverse, ai compromessi raggiunti con fatica, alle lacerazioni interne. E proprio sulle tavole di questo palcoscenico nazionale abbiamo assistito alla presa d’atto di ciò che, in fondo, ognuno sapeva in cuor suo fin dall’inizio, ma che nessun leader politico aveva avuto la forza o il coraggio di pronunciare ad alta voce.

Ciò che lo psicodramma di Montecitorio ha rappresentato in modo eclatante non è infatti la crisi di una o più leadership, anche se la tentazione di questi giorni è quella di stilare classifiche di “vincitori” e “vinti”. Le giornate dell’elezione del Presidente hanno per molti versi segnato la fine di ciò che giornalisticamente abbiamo definito “Seconda Repubblica”: quell’assetto politico sorto all’indomani delle elezioni del 1994, contrassegnato dalla sostanziale scomparsa di un centro politicamente autonomo e dalla contrapposizione tra due coalizioni, destinate a competere secondo una logica tendenzialmente bipolare. Il bipolarismo era già entrato profondamente in crisi con le elezioni del 2013, perché l’ingresso sulla scena del Movimento 5 Stelle aveva conferito al sistema un profilo tripolare, ulteriormente rafforzatosi nel 2018.  Ma quell’inedito assetto tripolare non ha condotto, negli ultimi quattro anni, a un nuovo bipolarismo. Ha semplicemente contributo a demolire le coalizioni di “centro-destra” e di “centro-sinistra”, nonostante quelle categorie abbiano continuato a essere utilizzate dagli stessi leader politici. E se la ricollocazione dei pentastellati potrebbe assomigliare davvero a una sorta di riedizione del ‘vecchio’ “centro-sinistra” ulivista, la divaricazione rispetto alle dinamiche reali è invece apparsa clamorosa sul versante della coalizione di “centro-destra”: benché nel 2018 la Lega abbia formato una coalizione di governo con il Movimento 5 Stelle, separandosi dagli alleati storici, e benché dal 2021 sostenga insieme a Forza Italia quel governo Draghi di cui Fratelli d’Italia è di fatto l’unica opposizione, i leader di questi partiti non hanno esitato – contro ogni evidenza – a proclamare la salda unità della coalizione. Dimostrando una strabiliante ostinazione nel difendere una di quelle che Max Nordau avrebbe forse incluso tra le «menzogne convenzionali» del nostro tempo, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno così per quattro anni quasi ossessivamente ribadito l’unità del centro-destra, senza avere il coraggio di riconoscere pubblicamente ciò che era evidente a tutti e che lo psicodramma andato in scena a Montecitorio ha plasticamente messo in luce dinanzi all’opinione pubblica, dapprima con la rinuncia di Silvio Berlusconi a correre per il Colle, poi con la lacerazione tra Salvini e Meloni.

L’esito cui si è giunti nella serata di sabato potrebbe apparire come un segnale di stabilità del quadro politico, o quantomeno come una manifestazione del desiderio di continuità condiviso da larga parte della classe politica. In realtà, è ormai piuttosto evidente che le cose stanno molto diversamente. E i tredici mesi che ci attendono prima della fine naturale della legislatura saranno quantomeno turbolenti, minando la stabilità del governo Draghi e incidendo sui rapporti interni alle singole forze politiche. Come era facile prevedere, dopo l’elezione del Presidente, il quadro politico entrerà infatti in rapido movimento. Superata la boa della scelta del nuovo inquilino del Colle, tutte le forze politiche inizieranno a guardare alle elezioni del 2023. Qualcuno dei partiti che sostiene l’esecutivo cercherà di sfilarsi dalla maggioranza, o quantomeno tenterà di differenziare la propria posizione. Al tempo stesso, sfumata l’ipotesi di vederlo al Quirinale, Mario Draghi diventerà per le forze di centro un riferimento politico, di cui rilanciare il ruolo ben oltre la fine della legislatura. Non mancheranno inoltre rese dei conti all’interno delle singole formazioni. Ma è probabile che il vero oggetto della discussione, destinato a influire sulle geometrie politiche, sarà la revisione della legge elettorale. Sarà infatti in gran parte l’esito di quel dibattito a chiarire se, nell’interminabile “transizione” italiana, le coalizioni che abbiamo conosciuto tramonteranno definitivamente, o se conosceranno una nuova vita, magari in contenitori rivisitati. Trent’anni di esperienza dovrebbero comunque averci persuaso che i sistemi elettorali non posso davvero risolvere problemi dalle radici profonde. E, per quanto possano favorire (a certe condizioni) la “governabilità”, non sono in grado di sopperire né al deficit di cultura politica, né alla carenza di classe dirigente di cui il sistema politico italiano soffre da un trentennio e di cui lo spettacolo degli ultimi giorni ha in fondo fornito solo l’ennesima conferma.

Damiano Palano

martedì 1 febbraio 2022

Conte, Di Maio e l’ambiguità di Grillo. Un'intervista a Damiano Palano da "Formiche.net"


Intervista di Federico Di Bisceglie

Questa intervista è apparsa su "Formiche.net" il primo febbraio 2022. 

C’è già chi vaticina sia la fine del Movimento 5 Stelle per come lo abbiamo conosciuto fino a ora. Lo spartiacque è stato l’elezione del Presidente della Repubblica. Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, rispettivamente ministro degli Esteri il primo e capo dei pentastellati il secondo, sembra abbiano giocato due partite differenti quando si tratta del Quirinale. Ormai è una lite su tutti i fronti, e per capire le frizioni di queste ultime settimane occorre fare un passo indietro. Perché sono “il frutto di lacerazioni che partono da lontano”, sostiene Damiano Palano, politologo e direttore del dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, in una conversazione con Formiche.net.

Professore, come si suole dire, vecchie ruggini? 

Si, sono malumori che si trascinano da almeno quattro anni. In una prima fase acuite dall’alleanza con la Lega, poi con il cambio di orizzonte con il Pd nel secondo governo Conte. La ferita, a oggi, è davvero profonda.

Si rimarginerà?

È difficile fare questa previsione. Peraltro in un contesto nel quale la figura di Grillo gioca un ruolo assolutamente ambiguo in questa sorta di “diarchia” che si è creata fra Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

Ambigua in che senso?

Nel senso che il fondatore del Movimento da un lato ha sostenuto l’operazione Draghi e il successivo governo, segnando l’epilogo dell’esperienza di colui che avrebbe dovuto incarnare il rilancio del Movimento stesso. Salvo però, in questa fase, sostenerlo in chiave anti-Di Maio.

Nello scontro fra i dioscuri pentastellati, chi trionferà?

Conte appariva molto “affidabile” alla guida del governo del Paese. Appare molto meno credibile e assai poco incisivo come leader di partito. D’altra parte Luigi Di Maio ha operato una vera e propria palingenesi ridisegnandosi come quintessenza dell’establishment. In questo modo è riuscito a costruirsi un’immagine e una cerchia di persone fedelissime che lo supportano. Detto questo, la vedo una difficile prospettiva quella di tentare il rastrellamento, anche solo di un quarto, dei voti che prese il Movimento 5 Stelle alle scorse elezioni politiche.

In questo scenario vulcanico, fa capolino anche Di Battista. 

Lui ha conservato, in questi anni, una forma di purezza. Si è coltivato una rete di persone che l’ha seguito, ha incrementato la sua popolarità e la sua opinione, seppur da outsider, ancora conta. Sicuramente è più vicino all’ex premier che a Di Maio, tuttavia non penso rientrerà nel Movimento. Chiaramente, per i dimaiani, una presenza così ingombrante è difficile da mandar giù.

Al Pd, in ottica di alleanza, converrebbe che trionfasse la parte “governista” di Di Maio o la parte “movimentista” incarnata da Conte?

I dem si dovrebbero staccare dal Movimento e ripensarsi come partito egemone dell’area di centrosinistra. Specie se la direzione è quella di un cambio di legge elettorale in salsa proporzionale.

Permane tuttavia il problema delle alleanze. 

Se rimane questa legge elettorale è chiaro che occorrerà lavorare di coalizione. E dunque per forza l’asse coi 5 Stelle andrà rinsaldato. Anche se è evidente che questa alleanza convenga più ai pentastellati che al Pd. La formula dell’Ulivo 4.0 non funziona. Ad ogni modo i prossimi mesi chiariranno tante cose.

Che scenario prevede?

Che la Lega si stacchi dal governo, poco prima dell’inizio dell’estate. Così, le forze residue si ritroveranno di fatto a essere una nuova coalizione.

Forza Italia col centrosinistra?

Forza Italia è l’enigma. Pur rimanendo nel centrodestra, non ha nulla a che spartire con Lega e Fratelli d’Italia. Per cui, è possibile che Draghi diventi il punto di riferimento di una sorta di “grosse koalition” per i moderati. Di centrodestra e centrosinistra.