domenica 15 maggio 2022

«Stato di eccezione», un secolo di equivoci. Un libro di Mariano Croce e Andrea Salvatore


 
di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Mariano Croce e Andrea Salvatore, Cos’è lo stato di eccezione (Nottetempo, pp. 221, euro 16.00), è apparso sul quotidiano "Avvenire" il primo maggio 2022.

Nel 1922, l’allora trentaquattrenne Carl Schmitt diede alle stampe un volumetto sulla dottrina della sovranità dal titolo evocativo (e un po’ criptico) Teologia politica. Non si trattava propriamente di un testo di teoria del diritto, né di una trattazione organica. I quattro capitoli in cui il volume si articolava apparivano infatti legati solo da un filo sottile e ognuno di essi sembrava sviluppare un ragionamento in gran parte autonomo. Nonostante fosse per molti versi un testo meno significativo di quelli che Schmitt avrebbe scritto in quegli stessi anni Venti, quel piccolo libro era destinato a conoscere una fortuna duratura e a introdurre nella discussione nozioni che ancora oggi, un secolo dopo, continuano a orientare l’interpretazione del presente.  Alcune delle frasi roboanti di quel testo erano in effetti destinate a identificare la posizione del giurista e a essere lette in seguito quasi come slogan illustrativi della sua posizione. In quelle pagine si leggeva per esempio: «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati». Ma era probabilmente sull’incipit lapidario del libro che si doveva concentrare l’attenzione dei lettori di Schmitt: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione». In effetti, se all’ambito della «teologia politica» si sono rivolti nel tempo molti studiosi, una fortuna davvero singolare è toccata proprio al concetto di «stato di eccezione». E anche nei due anni di pandemia quella nozione è stata spesso adottata per suggerire l’idea che l’emergenza sanitaria abbia fatto precipitare le società occidentali in una condizione di sospensione del diritto, tale persino da rendere le democrazie contemporanee simili ai regimi totalitari del Novecento.

Il libro di Mariano Croce e Andrea Salvatore, Cos’è lo stato di eccezione (Nottetempo, pp. 221, euro 16.00), si propone innanzitutto di contrastare le letture che riprendono la nozione di Schmitt per interpretare la logica dei provvedimenti emergenziali di oggi. I due studiosi non intendono negare che, a partire soprattutto dall’11 settembre 2001, i provvedimenti di emergenza siano divenuti, sempre più spesso, strumenti operativi ‘normali’, al punto da mettere in discussione la classica divisione dei poteri e il ruolo dei parlamenti. Ma puntano piuttosto a contestare l’utilità del concetto di «stato di eccezione» per classificare e comprendere le odierne disposizioni di emergenza. E si propongono di farlo mostrando come nelle pagine di Schmitt il concetto fosse piuttosto evanescente, tanto da indurre il giurista a liberarsene molto presto, per cercare un fondamento più solido.

In effetti, Croce e Salvatore chiariscono come i saggi raccolti in Teologia politica fossero nati dall’incontro con Max Weber, di cui Schmitt a Monaco aveva frequentato alcuni seminari (oltre che la famosa conferenza sulla politica come «professione»). La frase altisonante sullo «stato di eccezione» è così da intendersi come una sorta di compendio alla riflessione di Weber, relativa in particolare all’idea che la politica sia identificata dal monopolio legittimo della coercizione. Ma la Teologia politica era anche uno dei tanti episodi della polemica di Schmitt contro Hans Kelsen e la sua teoria del diritto. Se per Kelsen era necessario concepire ogni ordinamento giuridico come fondato su una norma di base, per Schmitt era invece indispensabile riconoscerne il fondamento politico. Davvero «sovrano», all’interno di un assetto costituzionale, era dunque il soggetto capace della decisione sovrana, in grado cioè di sospendere le leggi e dichiarare l’«eccezione». Ed era per questo che Schmitt poteva sviluppare la metafora teologica, in cui il sovrano può essere concepito come una divinità in grado di porre le leggi ma di sottrarsi alla loro vigenza.

Nata da un intento polemico, l’idea dello «stato di eccezione», come mettono in luce Croce e Salvatore, apparve però a Schmitt ben presto insoddisfacente. L’idea di un «decisore» sovrano poteva infatti essere utile per chiarire che la politica non era interamente riducibile alle norme, ma lasciava senza risposta quesiti cruciali, relativi per esempio alle condizioni che consentono al «sovrano» di diventare tale o al rapporto tra l’«eccezione» e la norma. Anzi, il giurista di Plettenberg divenne consapevole dei rischi impliciti nella visione decisionista, che tendeva a rappresentare il sovrano come un soggetto capace di imporre con la forza qualsiasi norma. L’espressione «stato di eccezione» non ricompare d’altronde negli scritti successivi. E, per trovare un fondamento più solido, Schmitt abbandonò il decisionismo, approdando a una prospettiva istituzionalista che assegnava al sovrano il compito di ‘proteggere’ il diritto esistente in una comunità.

Nel dibattito successivo proprio questi elementi sono invece stati fraintesi. In particolare, si è letto lo «stato di eccezione» alla luce della concezione del «politico» avanzata da Schmitt. La decisione sull’«eccezione» è stata cioè interpretata come la strategia con cui, grazie alla contrapposizione con un nemico (reale o inventato), un ordine politico può essere rafforzato o costruito. Sulla scorta di quanto scriveva Walter Benjamin in una delle sue tesi sulla filosofia della storia, si è vista così nella proliferazione delle disposizioni emergenziali la conferma dell’ipotesi che lo «stato di eccezione» diventasse la regola. Ma un concetto come quello di «eccezione» si rivela, secondo Croce e Salvatore, una vera e propria lente deformante. Adottando quel concetto, non si è infatti in grado di riconoscere le diverse modalità in cui l’«emergenza» – politica, economica, sanitaria – viene effettivamente affrontata. E si finisce col rimanere imprigionati nelle spire di un concetto claustrofobico, senza riuscire a cogliere, insieme ai rischi, lo spettro di possibilità che l’emergenza talvolta può aprire.

Damiano Palano


 

 

 

venerdì 6 maggio 2022

Cosa succede a Nord? Le trasformazioni politiche delle regioni settentrionali in un convegno a Brescia il 12, 13 e 14 maggio 2022. Con Marco Revelli, Antonella Tarpino, Marco Almagisti, Giuseppe Lupo, Loredana Sciolla, Laura Zanfrini, Paolo Graziano, Anna Sfardini, Marcello Zane, Roberto Cammarata, Andrea Capussela


 Trent’anni fa, al crepuscolo della «Prima Repubblica», esplose (relativamente) inattesa la «questione settentrionale». Dalle regioni del Nord, e soprattutto da alcune aree al centro di un impetuoso sviluppo economico nei due decenni precedenti, iniziò a levarsi un forte vento di protesta, che portò sulla scena una profonda frattura centro-periferia, fino a quel momento priva di interpreti politici. Politologi e scienziati sociali volsero lo sguardo ai territori per comprendere quali fossero le radici della protesta e le motivazioni storiche di una divaricazione a lungo sottovalutata. Negli ultimi decenni la «questione settentrionale» è in larga parte scomparsa dai radar della politica nazionale, mentre altri temi hanno conquistato il centro del dibattito. Al tempo stesso, il legame tra forze politiche e territori è diventato (almeno rispetto al passato) molto più fluido, quasi inafferrabile.

Il convegno La questione territoriale in Italia: Nordovest e Nordest a confronto – organizzato dal Centro Polidemos dell’Università Cattolica e dall’Osservatorio Dane dell’Università di Padova – intende riportare l’attenzione proprio sul rapporto tra politica e territorio, ponendo al centro della discussione una serie di domande e adottando in particolare la prospettiva della «politologia storica». Un primo quesito riguarda innanzitutto la stessa omogeneità interna alle regioni settentrionali. Più che considerare la distanza tra Nord e Sud, i lavori puntano infatti a mettere sotto la lente di ingrandimento le differenze che separano i diversi Nord. Innanzitutto, le differenze tra il Nordovest e il Nordest, ma anche quelle che attraversano ogni singola area territoriale, percorsa al proprio interno da molteplici linee di frattura: linee dalle radici storiche più o meno profonde, che però influiscono ancora oggi su come viene percepito e vissuto il rapporto tra il centro e la periferia, oltre che tra «alto» e «basso», tra «élite» e «popolo».  In secondo luogo, un interrogativo centrale è rappresentato da ciò che resta delle subculture politiche e, in particolare, della vecchia «zona bianca»: l’area subculturale cattolica, compresa tra il Veneto e le regioni orientali della Lombardia (Bergamo e Brescia), contrassegnata fino all’inizio degli anni Novanta dal ruolo egemone della Democrazia Cristiana, ma negli ultimi trent’anni sgretolatasi e contesa da nuove forze politiche. Ulteriori domande che orienteranno le discussioni riguardano inoltre la dotazione di capitale, il patrimonio di «civismo» e la «coesione sociale» delle regioni settentrionali del Paese. Ci sono ancora differenze sostanziali fra «i Nord»? Il patrimonio di «civismo» è intatto, o è stato intaccato dai processi di individualizzazione, dai mutamenti nel profilo produttivo di queste aree, dalle trasformazioni demografiche? E le nostre istituzioni democratiche poggiano ancora saldamente le basi nei reticoli di una forte e vitale società civile?

A discutere di questi temi saranno studiosi che – pur con un orientamento disciplinare differente – hanno approfondito nelle loro ricerche le trasformazioni politiche, economiche, sociali e culturali delle regioni del Nord. Ad aprire i lavori, introdotti da Marco Almagisti (Università di Padova) sarà, giovedì 12 maggio alle ore 15.00, una sessione incentrata sulle grandi traiettorie di mutamento del Nordest e del Nordovest, con le relazioni di Marco Revelli (Università di Torino), autore di numerosi studi sui conflitti sulle trasformazioni politiche nell’Italia contemporanea, Antonella Tarpino (Fondazione Nuto Revelli), che si è occupata negli ultimi anni dei mutamenti nel paesaggio e di come cambia la cultura dei luoghi nel processo di deindustrializzazione, Luca Romano (Local Area Network), che ha studiato i cambiamenti nel mondo del lavoro, e Giovanni Gregorini, storico economico e Direttore del Dipartimento di Scienze storiche e filologiche dell’Università Cattolica, che sottolineerà le tendenze di lungo periodo delle realtà territoriali del Nord Italia.

La seconda giornata, venerdì 13 maggio alle ore 9.30, sarà aperta da Giuseppe Lupo (Università Cattolica), che si dedicherà alle narrazioni soprattutto letterarie del territorio nella trasformazione della società italiana. Allo sviluppo economico e al passaggio a un’economia post-industriale saranno inoltre dedicati gli interventi di Gianluca Toschi (Università di Padova e Fondazione Nordest) e di Marcello Zane (Fondazione Micheletti di Brescia), mentre gli aspetti socio-politici – nella terza e della quarta sessione – saranno al centro delle relazioni di Selena Grimaldi (Università di Padova), Loredana Sciolla (Università di Torino), Matteo Zanellato (Osservatorio Democrazia a Nordest), Paolo Graziano (Università di Padova), Anna Sfardini (Università Cattolica) e Laura Zanfrini (Università Cattolica).

La mattina di sabato 14 maggio, il Convegno sarà infine concluso da una tavola rotonda, moderata da Damiano Palano, Direttore del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica, con la partecipazione di Roberto Cammarata (Università degli Studi di Milano), Andrea Capussela (ricercatore indipendente), Gabriele Colleoni (“Giornale di Brescia”) e Valeria Negrini (Federsolidarietà Lombardia).


La questione territoriale in Italia: Nordovest e Nordest a confronto - Università Cattolica del Sacro Cuore, Brescia, 12-13-14 maggio 2022.

Per informazioni scrivere a: polidemos@unicatt.it

domenica 1 maggio 2022

La democrazia italiana nella crisi. Una discussione con Lorenzo Guerini e Nando Pagnoncelli sulla condizione della politica italiana dopo due anni di "stato di emergenza"



 

Lunedì 2 maggio 2022

ore 10.30

La democrazia italiana nella crisi

Saluti di Guido Merzoni

Introduce e modera Damiano Palano

Partecipano

Lorenzo Guerini, Ministro della Difesa

Nando Pagnoncelli (Ipsos)

Università Cattolica

(Largo Gemelli 1 - Milano)

Aula PIO XI

Un evento organizzato da 

POLIDEMOS - Centro per lo studio della democrazia e dei mutamenti politici

Dipartimento di Scienze politiche dell'Università Cattolica


venerdì 29 aprile 2022

Napoli ‘oltre’ la modernizzazione. Rileggendo Percy Allum




 

Di Damiano Palano

 Percy Allum, politologo britannico da decenni trasferitosi in Italia, è scomparso alcuni giorni fa. Questa recensione al suo volume Napoli punto e a capo. Partiti, politica e clientelismo: un consuntivo (L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2003), apparsa nel 2004 su "Teoria politica", viene qui riproposta come contributo alla rilettura delle sue ricerche sul sistema politico italiano e sulle subculture locali.

Alla fine degli anni Cinquanta, nelle pagine per gran parte autobiografiche di Donnarumma all’assalto, Ottiero Ottieri offriva una quasi paradigmatica raffigurazione delle contraddizioni laceranti, e forse persino insolubili, che l’industrializzazione apriva nel contesto sociale e politico del Mezzogiorno italiano. Agli occhi del selezionatore del personale  protagonista del romanzo, inviato dal Nord in uno stabilimento da poco inaugurato vicino a Napoli, la contrapposizione tra la fabbrica e il panorama in cui essa si insediava acquistava il valore di uno scontro epocale tra modernità e tradizione. Mentre il paese di Santa Maria diventava il simbolo di un ordine sociale premoderno, ‘naturale’ e all’apparenza immobile, la fabbrica assumeva invece i contorni di «un’attrazione fantastica», un «castello illuminato», «un fine, non uno strumento», inducendo da un lato i dirigenti al «colonialismo» e, dall’altro, i nuovi assunti «all’orgoglio della aristocrazia operaia, la quale ancora più che nel nord taglia i legami con la plebe». Come in una sorta di rovesciamento delle speranze e dei timori di Ottieri, La dismissione di Ermanno Rea, dopo più di quarant’anni dalla pubblicazione di Donnarumma all’assalto, eleva invece una vera e propria elegia non solo per tutti i progetti di «industrializzazione» del Mezzogiorno varati nel corso del cinquantennio postbellico, ma anche per quell’ideologia della modernizzazione che ha raffigurato lo sviluppo politico ed economico nei termini di un progressivo affrancamento dai vincoli comunitari e tradizionali. La dismissione dell’Ilva di Bagnoli, un impianto ciclopico nelle sue proporzioni, che negli anni Settanta occupava circa seimila dipendenti, offre in effetti a Rea l’occasione per un malinconico addio al miraggio dell’industrialismo novecentesco, sconfitto dal riemergere dell’«economia del vicolo», di settori produttivi marginali, dell’economia criminale, e, dunque, dal riaffiorare di quegli stessi elementi che negli anni Cinquanta e Sessanta venivano interpretati soltanto come residui di un passato ormai anacronistico o come segnali di un ‘ritardo’ cronico. In qualche modo, come ha scritto Marco Revelli proprio riflettendo sul romanzo di Rea, la fine dell’Ilva viene a rappresentare, «anche dal punto di vista simbolico, la rivincita dell’esternità caotica sul ‘sistema chiuso’ della razionalità industriale», «il ritorno – fino a pochi anni prima impensabile – della ‘cultura del vicolo’ nei luoghi della precisione tecnica, quasi che, cadute le mura della cittadella, il reticolo melmoso ma vitale del disordine urbano tornasse a far valere le proprie pretese anche lì, un po’ come, nei luoghi delle antiche civiltà decadute, la jungla torna a prendere possesso delle rovine, ricoprendole di liane e licheni».

Preziosi elementi per una ricostruzione della ‘sconfitta della modernizzazione’ e della ‘rivincita del disordine’, che hanno avuto come teatro alcune delle regioni meridionali italiane, si trovano ora riuniti in Napoli punto e a capo. Partiti, politica e clientelismo: un consuntivo, recente raccolta dei saggi dedicati al tema da Percy Allum, politologo già autore di alcune tra le più acute ricerche sul contesto politico napoletano. Il volume di Allum, oltre a tracciare un «consuntivo» su un cinquantennio di vita politica, intende stilare anche il bilancio di una più che trentennale ricerca focalizzata sulle dinamiche politiche partenopee e campane, di cui sono testimonianza un volume come Politics and Society in post-war Naples, o come il più recente Il potere a Napoli. Fine di un lungo dopoguerra. Sotto un certo profilo, perciò, Napoli punto e a capo – come d’altronde avverte Allum nelle preziose pagine introduttive – deve essere letto come una sorta di ‘autobiografia’ intellettuale da cui trapelano, al tempo stesso, le disillusioni sui progetti di modernizzazione della politica e dell’economia del Mezzogiorno e alcuni – estremamente significativi – rilievi teorici autocritici. In effetti, il volume non segue soltanto i mutamenti intervenuti sulla scena italiana e partenopea nell’arco di questo non breve periodo, ma evidenzia anche gli aggiornamenti di cui sono state oggetto le categorie analitiche utilizzate e la stessa prospettiva adottata dal ricercatore, concentrandosi in particolare sulle implicazioni prodotte dall’esaurimento delle ipotesi sulla modernizzazione elaborate dalla scienza politica nordamericana negli anni Cinquanta e Sessanta.

I saggi riuniti in Napoli punto e a capo sono suddivisi in due grandi sezioni, dedicate rispettivamente agli «aspetti» e agli «elementi della lotta politica», cui si aggiunge, in una breve appendice, una riflessione sulle vicende processuali di Giulio Andreotti. In alcuni di questi scritti, Allum riprende e sviluppa, secondo specifiche varianti, le tesi di fondo che già avevano costituito il cuore teorico di Potere e società a Napoli nel dopoguerra. Se certo da alcuni di questi saggi trapelano, insieme alle tensioni dei differenti periodi cui risale la loro stesura, anche alcune previsioni fin troppo ottimistiche, che i decenni seguenti non hanno mancato di deludere, le linee portanti della lettura di Allum conservano ancora gran parte della loro validità. Tra gli elementi di maggior interesse rimane ad esempio l’indagine della stratificazione di gruppi sociali che Allum ritiene caratteristica peculiare del contesto partenopeo. La condizione di ex capitale avrebbe infatti favorito la formazione, dopo l’unificazione, di una struttura di classe che, «invece di essere piramidale», sarebbe stata composta da «due blocchi nel senso gramsciano del termine: da una parte i proprietari di piccole, medie e qualche grande impresa, legati ai politici e all’apparato burocratico; dall’altra, il popolino» (p. 29). La profondità del solco esistente tra questi due blocchi sarebbe stata causata dalla debolezza dei ceti con funzioni di mediazione sociale e politica. Nella vecchia capitale del Regno borbonico, infatti, la classe media (benché si distinguesse dal «popolino» e dal vertice sociale, sotto il profilo del livello di vita e del prestigio) risultava economicamente dipendente dalle «élite» cittadine, stabilendo così con queste ultime un legame di alleanza, per così dire, ‘organico’. L’unificazione italiana, senza mutare sostanzialmente il quadro, avrebbe contribuito a marcarne ulteriormente alcuni tratti. Secondo Allum - che riprende in questo caso una tesi risalente almeno a Rosario Romeo - l’unificazione avrebbe determinato una sorta di «compromesso» tra la classe dirigente del Nord e quella del Sud, la quale, accettando i principi liberoscambisti, avrebbe ottenuto «l’appoggio statale per la protezione dei suoi privilegi locali» (p. 40). Gli orizzonti della classe dirigente meridionale sarebbero dunque rimasti centrati sulla dimensione locale, in cui affondavano le radici delle clientele dei notabili. Proprio questo assetto generale, caratterizzato dall’appoggio statale ai notabili finalizzato a mantenere i privilegi locali, avrebbe definito il «sistema meridionale», di cui Allum colloca l’età di massimo fulgore nel cinquantennio compreso tra il 1875 e il 1925. All’indomani della caduta del fascismo e dell’occupazione alleata - a dispetto della necessità di rinnovamento della classe politica, sostenuta dai partiti progressisti e dai meridionalisti più coerenti, come Guido Dorso - il «sistema meridionale» si sarebbe ricostituito, sebbene in forme differenti rispetto a quelle di fine Ottocento.

Dopo la vittoria della Repubblica nel referendum istituzionale del ’46, le élite meridionali avrebbero compreso che lo status quo sarebbe stato conservato soltanto grazie all’appoggio della Democrazia cristiana, anche perché, dopo la scomparsa della monarchia, il Vaticano era rimasto «il più importante canale istituzionale dello status quo nel paese» (p. 51). L’espulsione di socialisti e comunisti dalla coalizione governativa fu compensata così dall’ingresso degli uomini politici liberali del Sud, i quali, secondo Allum, avrebbero concesso agli operatori economici settentrionali «l’assoluto controllo sulla gestione della ricostruzione economica» (e soprattutto dei fondi del piano Marshall), in cambio di un’alleanza politica finalizzata a mantenere l’assetto dei privilegi consolidati nelle regioni meridionali. Un segnale della nuova alleanza tra la Dc e i notabili del Sud sarebbe ravvisabile soprattutto nelle vicende dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, dissolto da De Gasperi grazie a metodi analoghi a quelli utilizzati dal clientelismo tradizionale. Le elezioni del ’48, con la sconfitta del Fronte popolare e la vittoria della Dc, avrebbero iniziato a delineare un assetto analogo a quello descritto da Namier per l’Inghilterra della fine del Settecento. In altre parole, secondo Allum, il quadro, da allora in avanti, avrebbe compreso quattro forze: «un partito permanente di governo, o di ‘corte’, la Democrazia cristiana; un partito di opposizione permanente (il Pci, o il fronte popolare Pci-Psi negli anni Cinquanta); un gruppo di partiti disposti ad appoggiare il governo (i partiti minori di coalizione); un gruppo alternativo di partiti disposti ad appoggiare il governo (i partiti minori all’opposizione della coalizione in essere, ma che sperano di entrare a far parte della successiva)» (p. 55).

All’interno di questo assetto sarebbe maturata anche la ridefinizione del vecchio «sistema meridionale»: se in precedenza la partecipazione al governo aveva rappresentato la via per utilizzare le istituzioni statali al fine di rafforzare la base locale delle clientele, con l’avvento dei partiti organizzati di massa il «sistema meridionale» si sarebbe ricostituito proprio puntando sul livello sempre più decisivo del partito, e cioè della Dc, all’interno della quale, nelle zone meridionali, molti dei vecchi notabili e dei loro seguaci riuscirono rapidamente a conquistare i vertici locali. Nei primi anni del dopoguerra, secondo Allum, si sarebbe profilata una vera e propria «divisione dei compiti fra uomini di governo e operatori economici» (p. 94), nel senso che i primi avrebbero garantito la stabilità politica, mentre i secondi si sarebbero occupati dell’economia e della ricostruzione. Tale equilibrio sarebbe stato raggiunto grazie all’espulsione di Pci e Psi, alla garanzia della «pace sociale in fabbrica», all’organizzazione di un «blocco sociale» anticomunista da parte della Dc, e alla costruzione, in funzione conservatrice, di «una classe media burocratica e parassitaria» (p. 94). Nell’analisi di Allum, proprio quest’ultimo elemento – la spinta a creare un ceto medio «politicamente conformista perché ricattabile» - sarebbe stato particolarmente evidente soprattutto nel Mezzogiorno: «Il qui pro quo di questa linea» - scriveva ad esempio, in un saggio del 1978, anticipando delle ipotesi sulla logica dell’assistenzialismo che negli anni Novanta sarebbero state utilizzate all’interno di una prospettiva differente, seppur non del tutto divergente - «fu una politica di rendita o di sussidi a favore dei ceti medi, portata avanti in tutti i settori: nelle campagne, per mezzo di quegli autentici feudi che sono tuttora la Coldiretti e la Federconsorzi; nella burocrazia, con l’enorme proliferazione degli impieghi pubblici […]; nell’edilizia, con lo scatenamento della speculazione sui terreni e sulle abitazioni di lusso e la spinta verso la realizzazione di opere pubbliche non produttive; infine, con la politica tributaria, che ha favorito i ceti medi, sia professionisti che piccoli imprenditori, artigiani e commercianti (p. 95).

Contestualmente, a livello locale, «a un certo numero di notabili democristiani, per lo più sottosegretari», era lasciata «mano libera nella gestione in prima persona del patronage – cioè la distribuzione delle cariche e degli appalti – nelle loro province locali» (ibidem). Un caso particolare della «ricostituzione del sistema meridionale» sarebbe proprio quello offerto dalle vicende di Napoli, dove le organizzazioni politiche «moderne e di massa» sorte nel periodo della ricostruzione furono estremamente deboli ed incapaci di promuovere una modificazione degli assetti di potere consolidati. Le dinamiche del capoluogo si distinguerebbero però non solo da quelle del resto del Meridione, ma anche da quelle del circondario provinciale. Se infatti nei centri della provincia emersero subito dopo il ’45 i nuovi notabili democristiani, in città la struttura organizzativa della Dc rimase estremamente debole, a fronte, invece, del grande consenso detenuto per quasi un decennio da Achille Lauro. Allum considera però il «laurismo» come uno strumento utilizzato della stessa Democrazia cristiana. La forza di Lauro si sarebbe fondata per gran parte sul sostegno di una sorta di «blocco edilizio», in cui si aggregavano gli interessi di armatori, «imprenditori edili e piccoli appaltatori di lavori pubblici, di speculatori e affaristi», che «sfruttavano il controllo dell’apparato comunale per aggiudicarsi delle concessioni di approvvigionamento e degli appalti pubblici» (p. 197).. La speculazione edilizia degli anni della ricostruzione garantiva inoltre benefici a una vasta manodopera edile, producendo effetti positivi sull’insieme dell’economia cittadina.

Se il decennio di Lauro, agli occhi di Allum, non rappresentava un’eccezione ma una ‘variante’ della più generale logica di ricostituzione del sistema meridionale, anche il «gavismo» - e cioè la fase del predominio sulla scena napoletana di Silvio Gava - viene considerato come la specifica declinazione locale del «doroteismo» democristiano. La trasformazione della Democrazia Cristiana, durante la segreteria di Fanfani (1954-1959), avrebbe dato corpo nel Sud al passaggio verso una nuova forma di clientelismo burocratico, come d’altronde sostenuto anche da Sidney Tarrow in un suo noto lavoro degli anni Sessanta, Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno. Al fine di rafforzare l’organizzazione democristiana e dare autonomia al partito, Fanfani avrebbe puntato a costruire una nuova classe dirigente, grazie a due principali meccanismi: «da una parte s’impadronì sistematicamente del potere reale a tutti i livelli (centrale, provinciale, comunale); sul piano locale, ciò significava banche, enti finanziari, apparato statale, ospedali, enti assistenziali, cioè tutto quanto serviva a procacciare voti; dall’altra parte, egli valorizzò i funzionari di partito aprendo loro la porta delle cariche elettive (soprattutto parlamentari), fino a quel momento riservate esclusivamente ai notabili della più varia provenienza» (p. 100). L’eccezionalità di Napoli, rispetto a questo scenario, sarebbe consistita più che altro nella difficoltà per la Dc di conquistare uno spazio di manovra all’interno della dimensione cittadina, in cui, dopo il decennio di Lauro e dopo la contrapposizione tra Giovanni Leone e Silvio Gava, proprio quest’ultimo sarebbe uscito vincitore nel corso degli anni Sessanta, grazie ai due strumenti del controllo delle tessere (a livello locale) e del «rapporto privilegiato con il centro del partito» (a livello nazionale). A questo punto, il caso cittadino di Napoli si allinea sostanzialmente al quadro nazionale configurato dal successo del doroteismo nelle regioni meridionali, un quadro da cui il partito emerge come una sorta di federazione di «macchine politiche provinciali». Come notava Allum nel ’78: «Negli anni Sessanta il potere locale in Campania è saldamente nelle mani della Dc, concentrato in blocchi di potere nelle cinque province, variamente nominati, ma gestiti in maniera identica, con composizione differente a seconda della popolazione, ma che fanno perno intorno agli imprenditori edili, professionisti e funzionari, ai commercianti, artigiani, contadini e al popolo minuto. Ne rimangono fuori i ‘nostalgici’, i professionisti e impiegati a destra, e gli intellettuali radicali, il grosso della classe operaia e una parte del bracciantato contadino a sinistra» (p.117).

Nei saggi risalenti agli Settanta, Allum intravedeva nelle mobilitazioni collettive di quel decennio, nelle prese di posizione maturate in occasione della crisi del «colera», nel ‘73, e nella vittoria delle forze di sinistra alle elezioni amministrative del 15 giugno ’75 (che condusse alla formazione di una giunta «rossa»), i segnali di una inversione di rotta in grado di incrinare le basi ormai secolari del sistema meridionale. A distanzia di più di un quindicennio, negli scritti più recenti, pubblicati dopo la fine della cosiddetta ‘Prima Repubblica’ e dopo la dissoluzione della Democrazia Cristiana, la portata di molti di quei segnali viene notevolmente ridimensionata dal politologo, che mette in evidenza tanto l’impreparazione con cui le forze di sinistra giunsero al governo della città, quanto i nuovi elementi che, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del nuovo decennio, vennero a ridefinire ulteriormente il contesto napoletano e campano, determinando anche una svolta nei rapporti tra politica e criminalità. Per quanto la ‘fine giudiziaria’ della Prima Repubblica sia probabilmente destinata ad alimentare ancora a lungo polemiche piuttosto vivaci e letture politiche opposte, molte delle ipotesi avanzate da Allum non sembrano contestabili nella loro sostanza, anche se certo alcuni nodi interpretativi rimangono tuttora da sbrogliare. È però lo stesso Allum, nelle pagine introduttive del volume, a segnalare al lettore la problematicità di taluni presupposti teorici adottati soprattutto nei primi saggi.

Ad essere oggetto dei rilievi autocritici del politologo è soprattutto l’impianto analitico che aveva fornito la griglia interpretava di Potere e società a Napoli nel dopoguerra, un impianto che, mutuando dalla sociologia tedesca la classica distinzione tönniesiana tra Gemeinschaft e Gesellschaft, aveva inteso il processo di modernizzazione nei termini di un movimento dal modello di organizzazione comunitaria a un modello di organizzazione integralmente sociale. Come Allum aveva scritto nella presentazione allo studio del ’73, illustrando lo «schema di polarità sociale» utilizzato per analizzare il contesto napoletano, la Geimeinschaft doveva essere intesa come «una formazione sociale basata sui sentimenti, nella quale ciascun individuo considera ogni altro individuo come fine a se stesso, lo conosce personalmente e divide con lui grandissima parte della vita privata», mentre la Gesellschaft rappresentava «la formazione sociale basata sull’interesse, in cui l’individuo considera gli altri come mezzi, non li conosce personalmente e condivide con essi solo la sua vita esteriore» (P. Allum, Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Einaudi, Torino 1975, p. 8). A questa prima dicotomia, Allum aggiungeva una ulteriore contrapposizione, formulata a partire da sollecitazioni marxiane e weberiane, e centrata sulle modalità della coercizione politica. In questo caso, distingueva allora tra «modelli di autorità o di dominazione a carattere personale (patriarcato e direzione carismatica) e quelli di tipo organizzativo o istituzionale (burocrazia e riduzione del carisma a un fatto puramente meccanico e abitudinario)», istituendo allora una nuova coppia dicotomica costituita, da un lato, dal «dominio personale» e, dall’altro, dal «dominio organizzativo» (ibi, p. 11). Se il passaggio dalla Gemeinschaft alla Gesellschaft implicava, in linea generale, una transizione da forme di dominio personali a forme organizzative e, sul piano politico, dal predominio dei notabili a quello dei partiti di massa, Allum individuava in realtà delle tipologie intermedie, «di transizione», tra cui collocava soprattutto l’organizzazione con al centro il «boss politico», «un imprenditore della politica, che raccoglie voti a proprio vantaggio e a proprio rischio» (ibi, p 14).

Naturalmente, la realtà politica napoletana si prestava, per molti versi, ad essere incasellata nella tipologia intermedia delle società di transizione, e in effetti Allum incentrava la propria analisi sull’idea dell’ancora irrisolto equilibrio tra Gemeinschaft e Gesellschaft, che avrebbe caratterizzato il «sistema meridionale». «Il fondamento del sistema meridionale», scriveva a questo proposito, «è da ricercare nell’incoerenza esistente, nel Sud, fra le norme della Gesellschaft, proprie del sistema statale, e i valori della società locale, ispirati a quelli della Gemeinschaft» (ibi, p. 405). Lo squilibrio di fondo tra elementi della Gemeinschaft locale e la logica statale della Gesellschaft avrebbe determinato la formazione di un peculiare rapporto tra politica e società, per cui si sarebbe rivelato essenziale il ruolo del partito politico, a livello nazionale, e delle clientele, a livello locale. In sostanza, secondo la sintesi di Allum: «gli uomini politici sono incapaci di ottenere l’appoggio spontaneo di vasti strati della popolazione, e sono costretti a ricorrere ad altri mezzi. In termini gramsciani, gli uomini politici sono incapaci di esercitare l’egemonia della società civile e si vedono costretti a ricorrere alla coercizione statale. […] In tali condizioni, la società civile locale è debole e disarmata di fronte allo stato, che gode di un potere quasi assoluto in tutti i settori della vita pubblica e privata. L’uomo politico considera suo compito specifico distribuire alle masse bisognose alcune briciole delle risorse statali. […] In cambio l’elettore impara a dargli il voto il giorno delle elezioni, e ciò mette il politico in una posizione di forza. Egli diventa un intermediario: più grande è il suo potere, maggiore sarà il numero dei clienti che potrà sperare di soddisfare, e più vasta sarà la sua clientela (ibi, pp. 408-409).

In realtà, la proposta di Allum era accompagnata da una serie di cautele teoriche che inducevano ad esempio il politologo ad avvertire che il passaggio dalla Gemeinschaft alla Gesellschaft «non significa l’assoluta scomparsa degli elementi e delle caratteristiche dell’uno a favore dell’altro, ma piuttosto uno spostamento di equilibrio interno negli elementi propri di entrambi i tipi» (ibi, p. 6). A trent’anni di distanza, nell’Introduzione di Napoli punto e a capo, Allum si sofferma però su una netta – anche se non totale – critica di questa impostazione. In effetti, scrive, «il mio schema ha concesso troppo spazio alla transizione, senza essere in grado di specificare i rapporti sia con il passato che quelli ipotetici con l’avvenire. Va detto che, in un certo senso, la polarizzazione dei modelli ideal-tipici opera in modo che, se applicata alla realtà concreta, tutte le situazioni si definiscono come transizionali. […] La differenza tra dominio personale e dominio organizzativo mancava di specificità: ed è il minimo che si può dire. D’altronde, lo schema non specificava a sufficienza l’incidenza del fattore politico, cui peraltro è stato dato gran risalto nell’analisi empirica, e tendeva a sottovalutarlo. Per esempio, è chiaro che il cambiamento del blocco di potere dominante a Napoli […] è avvenuto tramite manipolazioni politiche che avevano ben poco a che fare con i mutamenti nelle relazioni economico-sociali» (ibi, p. 6).

In questa prospettiva, che costituiva una specifica declinazione della teoria della modernizzazione, il clientelismo era concepito «come un ‘residuo’ della tradizione e un ‘ostacolo’ tanto all’istituzionalizzazione dell’autorità intesa come legittimazione delle istituzioni stesse, quanto al radicarsi del cosiddetto ‘senso civico’ collettivo, tutti elementi di fondo della ‘modernità’ politica», mentre risultavano così trascurate «le modalità di adattamento dei rapporti clientelari alla presenza dei partiti politici e alla crescita dello Stato del benessere» (ibi, p. 7).

Ripensando il ruolo stesso del clientelismo, Allum viene ora a collocarne la genesi all’interno di una intricata rete di relazioni, in cui emergono come decisive soprattutto le dinamiche di estensione della partecipazione elettorale. In particolare, riprendendo una tesi di Martin Shefter, Allum suggerisce che una variabile significativa sia costituita dalla ricettività delle autorità statali alle richieste individuali dei politici, ovvero dalle modalità con cui i processi di professionalizzazione della pubblica amministrazione e di democratizzazione sono stati realizzati. Ed è in questa chiave che Allum ripensa anche alla natura della Dc. In questo senso, risultano significativi soprattutto due saggi – I due volti della Dc (1995) e La Dc a Napoli: l’ultima fase (1998) – in cui Allum, oltre a riprendere le ipotesi già esposte, sostiene che la Democrazia Cristiana si configurasse come una sorta di sintesi tra i due tipi, individuati da Duverger, del «partito di massa» e del «partito di quadri». Nella sua fase originaria, De Gasperi aveva concepito la Dc come un partito di governo, e si era così concentrato esclusivamente sulla costruzione del vertice politico nazionale, perché la struttura di base cui poggiarsi era offerta dalla rete capillare delle parrocchie. Essa fu dunque, al tempo stesso, un «partito parlamentare laico – considerato come strumento di governo» e un «movimento di massa confessionale – in qualità di macchina elettorale» (P. Allum, Napoli punto e a capo, cit., p. 128). Questi «due volti» avrebbero implicato, per la Dc, l’esistenza di due tipi differenti di legame: «quello che vincola la Chiesa agli elettori attraverso l’intermediazione della religione e della fede; quello che lega lo Stato e gli elettori attraverso l’intermediazione e la distribuzione clientelare delle risorse» (ibi, p. 129). Questa stessa dicotomia spiegherebbe inoltre anche la diversità dell’organizzazione democristiana al Sud e al Nord. Mentre al Nord la Dc si strutturò effettivamente sulla rete delle parrocchie, sotto il controllo della gerarchia ecclesiastica locale, al Sud essa si articolò attorno alle reti clientelari dei notabili e dei loro seguaci. La ristrutturazione fanfaniana, puntando a scalzare i vecchi notabili, dovette trovare nello Stato le risorse dei nuovi «boss» locali, su cui nel decennio doroteo si sarebbe fondato il «consorzio di macchine politiche provinciali». Un processo analogo si sarebbe prodotto anche al Nord, ma con un decennio di ritardo, in seguito al processo di secolarizzazione e al nuovo indirizzo assunto dal Concilio Vaticano II. Queste dinamiche avrebbero progressivamente condotto all’affermazione di un nuovo tipo di politico professionista e anche a una nuova logica operativa, che sarebbe giunta a maturazione negli anni Ottanta. «La mia tesi», scrive Allum, «è che i due volti della Dc, quello settentrionale e quello meridionale, si sono in un certo senso unificati: in una prima fase si è passati dai notabili alle macchine politiche nel Sud e dal movimento di massa alle politiche nel Nord (anni Cinquanta-Sessanta); in una seconda fase, è stata la volta del trionfo delle macchine politiche nel Nord e delle macchine politico-criminali nel Sud (anni Ottanta); entrambi, infine, sono giunti all’appuntamento con Mani pulite (anni Novanta)» (ibi, p. 20).

Il «punto debole del potere democristiano», secondo Allum, consisteva nel fatto che «esso non si fondava tanto sulla legittimazione ma sul consenso»: si trattava piuttosto, come scrive, «di un sistema di potere clientelare per cui se, come è noto, voti e appoggi politici si possono comperare, lo stesso non vale per la legittimazione» (ibi, p. 179). Basandosi sulla «continua disponibilità di fonti finanziarie elargite dal centro a cui attingere», il sistema di potere democristiano sarebbe così entrato in una fase di crescenti difficoltà in coincidenza con l’esaurimento del ciclo di crescita degli anni Sessanta, con l’esplosione della crisi fiscale e, dunque, con la pressante necessità di contenere l’incremento degli esborsi pubblici. Se questa situazione determinò, in un primo tempo, la lotta tra le correnti per l’accaparramento delle risorse pubbliche improvvisamente ridottesi, oltre che la sconfitta elettorale della Dc al Comune di Napoli, in un secondo momento indusse una riarticolazione delle reti clientelari democristiane. Proprio a cavallo tra i due decenni, d’altra parte, la crisi della Dc si incontrò con le trasformazioni che stavano attraversando il mondo criminale campano, con, da un lato, l’irrobustirsi dei rapporti tra le vecchie famiglie camorriste e la mafia siciliana, e, dall’altro, l’emergere di una struttura estremamente originale, nel contesto partenopeo, come la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Lo scontro tra le differenti componenti della criminalità e la trasformazione della Dc trovarono un punto di congiunzione nelle vicende legate al caso Cirillo, in occasione del quale i Gava, secondo Allum, avrebbero stretto, con la Nuova Mafia Campana di Carmine Alfieri, relazioni destinate a incidere pesantemente nel decennio successivo. In effetti, Allum individua un cambiamento di natura qualitativa proprio tra gli anni Settanta e Ottanta, in coincidenza con l’afflusso dei finanziamenti finalizzati alla ricostruzione post-sismica, che avrebbe condotto a un rapporto tra politica e criminalità molto più stretto di quello esistente nei decenni precedenti. Scrive Allum: «Siffatti rapporti tra camorra e politica negli anni Cinquanta erano largamente saltuari e avevano una base individuale, cioè erano legami tra singoli guappi e singoli uomini politici. Inoltre, […] la camorra era sempre subordinata alle autorità pubbliche. All’inizio degli anni Novanta, ciò non accadeva più, perché era stato stretto un patto di ferro tra i mondi criminale e politico, divenuti partner alla pari» (ibi, p. 190).

Proprio in questo periodo, sostiene Allum, si sarebbe assistito anche «a un importante cambiamento nella politica meridionale della Dc; i nuovi leader politici, […] si affrancano progressivamente da una logica di partito collettiva», mentre per molti dirigenti la politica diventa «soprattutto un ‘affare’, perdendo la sua dimensione progettuale e ideologica» (p. 146). Questo ceto politico, emerso in occasione della gestione della ricostruzione postsismica, si sarebbe inoltre caratterizzato anche per la «volontà di assurgere a un ruolo di dirigenza nazionale» (p. 189). Tanto il ceto politico, quanto l’esistenza di un «consorzio di macchine clientelar-criminali personali», secondo Allum, non sarebbero stati d’altra parte elementi caratteristici esclusivamente della Dc. «Questa organizzazione clientalar-criminale», nota infatti al termine di uno dei saggi più recenti, «non si è limitata alla sola Dc. Tutti i partiti del pentapartito hanno partecipato, ed è per questo che si è parlato di partito trasversale e di partito unico della spesa pubblica, i cui capi, oltre a Gava, Scotti e Pomicino, erano Di Donato e Conte del Psi» (p. 166).

Insieme alla lettura delle trasformazioni politiche a Napoli, il lavoro di Allum offre un contributo importante per iniziare a riflettere, più ancora che sulle ‘scommesse perdute’ dell'industrializzazione nel Mezzogiorno, sulla stessa inefficacia delle categorie teoriche elaborate negli anni Cinquanta e Sessanta e sulla necessità di elaborare categorie nuove, in cui tradizione e 'modernità', Gemeinschaft e Gesellschaft, non siano intese come gli estremi di una polarità sociale e temporale, ma, piuttosto, come gli elementi costituitivi – seppur in misura differente – del processo di modernizzazione. Sotto questo profilo, richiamando l’efficace immagine della «mosca nella bottiglia», Allum ricorda come proprio la concezione postbellica della modernizzazione avesse finito col rappresentare una barriera ideologica estremamente robusta. «Concepita in modo meccanicistico», scrive, «la ‘modernizzazione’ (di cui la crescita economica costituiva il punto chiave) sarebbe consistita in una serie di fasi di sviluppo, che avrebbero condotto inesorabilmente alla società industriale, dopo una riforma agraria, migrazioni della campagna alle città e l’avvio delle prime attività industriali», mentre, al tempo stesso, «una concezione struttural-funzionalista, direttamente legata alla convinzione della centralità del progresso economico», suggeriva che lo «sviluppo economico avrebbe portato alla trasformazione della struttura sociale, ovvero alla formazione di classi moderne (operai, tecnici eccetera) a scapito dei ceti tradizionali (contadini, artigiani, commercianti)» (pp. 11-12). Il tramonto di quella teoria della modernizzazione – insieme ai processi che paiono segnare la conclusione della parabola dell’industrialismo novecentesco – implica, per molti versi, come suggerisce la stessa riflessione di Allum sui «due volti» della Dc, un rovesciamento, o quantomeno una ridiscussione, dell’idea della subordinazione della politica alle trasformazioni della società e dell’economia. Se quella immagine della modernizzazione - non diversamente, in fondo, da quanto avveniva nella raffigurazione delle relazioni tra base e sovrastruttura proposte dal marxismo ortodosso – concepiva quanto si svolgeva sul terreno politico esclusivamente come un riflesso dei mutamenti che si producevano al livello sociale ed economico, e se in questa chiave lo stesso clientelismo appariva semplicemente come il portato di un ‘ritardo’ nell’evoluzione sociale, le riflessioni autocritiche di Allum e le correzioni di rotta implicate dai suoi studi più recenti invitano proprio a rovesciare – almeno in parte – la relazione tra il livello politico, da un lato, e, dall’altro, la struttura sociale ed economica. In questo senso, ad esempio, vengono riconosciuti al clientelismo, al partito e, più in generale, alla dimensione politica, non soltanto una rilevante ‘autonomia’ nei confronti delle relazioni tra gruppi sociali e soggetti economici, ma soprattutto un significativo potere ‘costitutivo’, e cioè il potere di intervenire, grazie alla leva dell’intervento pubblico, sulla società, ‘strutturandola’ e, in alcuni casi, creando anche le basi per peculiari – e persino ‘virtuose’ – dinamiche di sviluppo.

Non è probabilmente casuale che a indirizzare Allum verso questa parziale revisione delle proprie originarie ipotesi siano state le ricerche condotte sul caso veneto, e cioè su un contesto caratterizzato – come la Campania e Napoli – dal forte radicamento della Dc. A dispetto di alcune analogie tra il contesto veneto e quello napoletano – come il predominio politico democristiano, l’esclusione dalle zone centrali dello sviluppo degli anni Cinquanta e Sessanta, alcuni caratteri di zona economicamente ‘depressa’, la presenza dell’industria di Stato, ecc. – l’esplosione del nuovo boom del Nord-Est, in coincidenza con i processi di ristrutturazione degli anni Ottanta e la diffusione della micro-imprenditorialità, ha delineato una traiettoria per molti versi opposta rispetto a quello partenopea, mostrando come la presenza di reti clientelari possa anche contribuire (o non ostacolare) l'emergere di dinamiche virtuose di sviluppo. Per quanto alcune versioni probabilmente sin troppo apologetiche abbiano presentato la rinascita economica del Veneto come una sorta di esplosione ‘spontanea’, maturata nel tessuto della società civile e delle tradizioni comunitarie, sarebbe ingenuo trascurare il ruolo che proprio il livello politico – e, dunque, quella forma di gestione clientelare ramificatasi anche nel Nord-Est tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta – giocò nella nuova ‘strutturazione’ della società e del mercato del lavoro in quel periodo. E, benché la protesta leghista dei primi anni Novanta sia stata talvolta raffigurata nei termini di una rivolta della ‘società’ contro la ‘politica’, sarebbe riduttivo dimenticare le radici ‘politiche’ alla base tanto dello sviluppo del Veneto, quanto, più in generale, della fortuna della ‘Terza Italia’.

Imboccando proprio la strada di un ripensamento delle tradizionali immagini della subordinazione della politica all’economia e alla struttura sociale, anche alcune delle recenti riflessioni sul capitale sociale sembrano offrire primi importanti elementi per l’elaborazione di nuove ipotesi teoriche. A dispetto di argomentazioni forse talvolta discutibili (come ad esempio nel caso, ormai celebre, delle radici quasi millenarie della cultura civica, individuate da Robert Putnam in alcune regioni italiane), la teoria del capitale sociale suggerisce di cercare nelle relazioni associative, nei vincoli consolidati, nelle tradizioni comunitarie, le basi per dinamiche di sviluppo la cui logica di fondo non pare direttamente riconducibile al modello novecentesco della razionalità strumentale. In questo senso, quel modello dicotomico che Tönnies aveva elaborato per descrivere il transito storico dalla comunità tradizionale alla società industriale - e che aveva costituito lo schema al centro delle prime ricerche di Allum - sembra piuttosto indicare modalità relazionali che continuano ad esistere – e non sempre contrapponendosi – anche nella società ‘postindustriale’. Se il riaffiorare della dimensione comunitaria può persino confermare l’idea di due tipologie del vincolo sociale tra loro irriducibili e in costante equilibrio dinamico, alcune delle riflessioni sul capitale sociale tendono invece a procedere in una direzione differente, in cui proprio la componente politica sembra svanire. Benché puntino lo sguardo sulla componente relazionale, alcuni ricercatori, soprattutto nelle indagini empiriche, sembrano sciogliere il capitale sociale in relazioni esclusivamente di tipo ‘orizzontale’, trascurando i rapporti ‘verticali’ di sovra e subordinazione e finendo così col rappresentare lo sviluppo economico in armonia con la crescita di uno ‘spirito civico’ dai contorni fin troppo discutibili. In questo senso, è probabile che questo rischio possa essere evitato proprio proseguendo sulla strada indicata dalle ricerche di Allum sul clientelismo, e cioè ricostruendo tanto le modalità con cui il clientelismo si adegua alle nuove condizioni politiche ed istituzionali della ‘Seconda Repubblica’, quanto il ruolo che esso gioca nella ‘strutturazione’ dei rapporti sociali ed economici anche nella società postindustriale. E non è affatto improbabile che, battendo questa via, non si arrivi a riconoscere una fitta e resistente rete di vincoli clientelari di obbedienza e soggezione persino dentro il cuore più ‘moderno’ e ‘razionale’ della net economy.

 Damiano Palano

domenica 27 marzo 2022

Le forme della realtà. Una mappa dei realismi politici. Un convegno a Milano il 7 e 8 aprile 2022

 


LE FORME DELLA REALTÀ

Una mappa dei realismi politici

Università Cattolica del Sacro Cuore (Largo Gemelli, 1 – Milano)

Aseri – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (Via San Vittore 18 – Milano)

Polidemos – Centro per lo studio della democrazia e dei mutamenti politici

Sarà possibile partecipare al convegno in presenza oppure online (mediante la piattaforma MS Teams) prenotandosi entro il 6 febbraio mediante i moduli disponibili a questo link:

https://milano.unicatt.it/evt-le-forme-della-realta

 

Giovedì 7 aprile

Sala Negri da Oleggio (Largo Gemelli 1, Milano), ore 10.30-12.30

 

Per una mappa del realismo

 

Introduce:

Damiano PALANO

 

Tra incertezza e prudenza. Il realismo politico

come diagnostica e come prasseologia

Pier Paolo PORTINARO

 

Radici del realismo contemporaneo:

Felix Gilbert e John Herz

Alessandro CAMPI

 

Il realismo e le alternative fondamentali della politica

Giulio DE LIGIO

 

Modera:

Damiano PALANO

 

Aula SV.011 (Aseri, Via San Vittore 18), ore 14.30-16.30

 

Antropologie del realismo (I)

 

Il realismo di Machiavelli

Beatrice MAGNI

 

Il potere e la gloria. Il realismo in questione

Damiano PALANO

 

Dilemmi della politica: il carteggio Morgenthau-Wight

Michele CHIARUZZI

 

Modera:

Alessandro CAMPI

 

Aula SV.011 (Aseri, Via San Vittore 18), ore 17.00-19.00

 

Realismo e idealismo

 

Realismo politico e idealismo morale tra Atene e Roma

Federico LEONARDI

 

I quattro pilastri del realismo: realtà, necessità, conflitto

e prassi

Carlo BURELLI

 

Una giustificazione prudenziale del realismo politico

Greta FAVARA

 

Modera:

Giulio DE LIGIO

 

Venerdì 8 aprile

Aula SV.011 (Aseri, Via San Vittore 18), ore 9.30-12.00

 

Antropologie del realismo (II)

 

Un brav’uomo è difficile da trovare. L’antropologia

del realismo cristiano

Luca G. CASTELLIN

 

Alle radici del realismo gumplowicziano. Pessimismo

antropologico e radicalismo conflittualistico

Federico TROCINI

 

Antropologie a confronto: realismo, liberalismo

e utopismo

Francesco RASCHI, Lorenzo ZAMBERNANDI

 

Modera:

Chiara CONTINISIO

 

Discussione

 

Conclusioni

venerdì 25 marzo 2022

Martin Wight, la legge della giungla e il realismo di un pacifista cristiano. Pubblicati "Politica di potenza" e "Sistemi di Stati", a cura di Michele Chiaruzzi


di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Martin Wight, Politica di potenza e Sistemi di Stati (Le due Rose) è apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 24 marzo 2022. 

Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, Martin Wight non aveva ancora compiuto ventisei anni. Destinato a essere ricordato come il fondatore della «Scuola Inglese» di Relazioni Internazionali, era nato infatti a Brighton nel 1913. Dopo avere studiato storia moderna a Oxford, aveva proseguito le sue ricerche per alcuni anni presso Chatham House, il celebre centro di studi sulla politica estera allora diretto da Arnold Toynbee, per poi cominciare a insegnare in un college vicino a Londra. Membro della Chiesa d’Inghilterra, aveva ben presto maturato posizioni antimilitariste, condensate in uno dei suoi primi scritti, dedicato al «pacifismo cristiano». E al momento della chiamata alle armi, indirizzò alle autorità militari una richiesta di obiezione di coscienza, sorretta proprio dalle considerazioni esposte alcuni anni prima. La domanda fu respinta, ma, a causa dei suoi problemi di salute, Wight non dovette imbracciare le armi, perché venne destinato a lavori di ricerca sulle colonie britanniche. Subito dopo la guerra, pubblicò un piccolo libro sulla Politica di potenza, ora tradotto italiano e raccolto, insieme a Sistemi di Stati, in un volume curato da Michele Chiaruzzi (Le due rose, pp. 296). Quel saggio era per molti versi il frutto della revisione delle precedenti posizioni pacifiste. Ma segnava anche l’approdo a un realismo ‘moderato’.

Il contributo di Wight è considerato ancora oggi importante soprattutto per il suo approccio «classico», in netto contrasto con gli orientamenti della politologia nord-americana. Negli anni Quaranta e Cinquanta, le nuove scienze sociali ambivano infatti a conquistare linguaggi e metodi simili a quelli delle scienze «dure» e a tagliare i ponti con la vecchia tradizione degli studi politici. Da una posizione defilata, Wight difese invece l’importanza dei classici, perché era persuaso che la politica internazionale tendesse a riproporre ciclicamente quei dilemmi con cui già altri pensatori si erano confrontati, fornendo soluzioni che non potevano essere trascurate. E contro il riduzionismo di molti politologi sostenne dunque l’importanza di una prospettiva nutrita di un ampio bagaglio di conoscenze storiche, filosofiche e giuridiche. L’esempio emblematico era proprio rappresentato dal concetto di «sistema internazionale». Molti politologi andavano infatti alla ricerca di «leggi» oggettive, volte a spiegare il comportamento degli Stati come conseguenza pressoché automatica di un determinato assetto del «sistema». Nei suoi studi – per esempio in Sistemi di Stati, un testo incompiuto e pubblicato postumo – Wight mostrò invece che la politica internazionale poteva essere compresa solo ricostruendo il complesso mosaico (filosofico, giuridico e culturale) all’interno del quale gli operatori politici compivano le loro scelte. Il «sistema» moderno degli Stati doveva dunque essere considerato come un assetto connotato da caratteristiche specifiche, definitesi in un ben preciso momento storico, all’interno di un determinato contesto culturale e dentro un perimetro di regole diplomatiche e di norme giuridiche. Più che come un sistema propriamente «anarchico», doveva dunque essere concepito come una sorta di «società», divisa da rivalità ma accomunata da una visione dell’interesse comune.

Per le sue posizioni, Wight è stato inoltre considerato, insieme a Reinhold Niebuhr e a Herbert Butterfield, uno dei protagonisti del «momento agostiniano» nello studio della politica internazionale.  Il suo “realismo” – seppur in modo meno esplicito che in Niebuhr – sembra infatti ispirarsi alla concezione della politica delineata dagli scritti del vescovo di Ippona. Certo Wight rimane ben lontano dalla dottrina della «Machtpolitik», che, presentando come «oggettiva» una certa visione del mondo, finisce col legittimare (più o meno esplicitamente) condotte aggressive e tendenze espansioniste. Egli procede piuttosto dalla convinzione che la «realtà» della politica sia incardinata in una serie di regolarità che vanno innanzitutto comprese, per evitare che il perseguimento di astratte mete ideali possa generare conseguenze disastrose. «Il realismo», scrisse per esempio, «può essere un’ottima cosa: tutto dipende dal fatto che significhi l’abbandono di alti ideali o di folli aspettative».

Il saggio Politica di potenza mostra proprio la fisionomia di questo realismo ‘moderato’. Leggendo quelle pagine si può senza dubbio riconoscere l’impronta che la guerra mondiale lasciò sulle convinzioni del radicale pacifista cristiano degli anni Trenta. Durante il conflitto Wight si era infatti persuaso che il dovere del cristiano non andasse più nella direzione della testimonianza di un pacifismo assoluto, ma richiedesse un’analisi realistica delle dinamiche di potere. Compilando quasi una sorta di dizionario, Wight cercò dunque di chiarire il significato da attribuire a espressioni come «grande potenza», «anarchia internazionale», «interessi vitali», «prestigio» ed «equilibrio». E si chiese se la logica della politica potesse incontrare nel mondo contemporaneo un limite analogo a quello che la dottrina del diritto naturale aveva rappresentato, fino al Seicento, per la comunità europea degli Stati: un ethos comune, fondato sulla condivisione di una tradizione morale. Ritrovava così nel preambolo della Carta delle Nazioni Unite le tracce di un possibile comune criterio di giustizia e di reciproca obbligazione. Ma invitava a non farsi illusioni eccessive sui solenni impegni assunti dagli Stati. «L’umanità ha sempre tradito i propri obblighi», scriveva, anche se – ricordava, citando Julien Benda - «fintanto che continua a riconoscerli e a crederci, la crepa per la quale la civiltà può passare è ancora aperta». E proprio nella possibilità che le potenze si allontanassero dal perseguimento dei loro interessi vitali, per volgersi verso quelli comuni, risiedeva in fondo «la differenza fra la giungla e le tradizioni dell’Europa».

Damiano Palano