venerdì 27 aprile 2018

Ricominciare dalla fine. L’«Abecedario» di Mario Tronti: appunti di lettura su "OperaViva Magazine"




di Damiano Palano

Questa recensione all'Abecedario di Mario Tronti, curato da Carlo Formenti (DeriveApprodi, euro 20.00), è apparsa su OperaViva Magazine il 26 aprile 2018, in un dossier in cui compaiono anche un testo di Dario Gentili dedicato a Dello spirito libero e una lettura di Mattia Di Pierro della recente antologia Il demone della politica.

«Io non sono un figlio del mio tempo, anzi, mi riesce difficile non definirmi addirittura suo nemico». Le parole di Franz Trotta, il protagonista della Cripta dei Cappuccini, potrebbero ben figurare come epigrafe all’Abecedario di Mario Tronti curato da Carlo Formenti (DeriveApprodi, euro 20.00). Nelle sette ore di intervista, che si snodano attraverso venti lemmi, da Amico/Nemico a Zeit, Tronti definisce infatti la propria condizione come quella di un esiliato in patria e respinge persino la qualifica di «intellettuale». E forse proprio come Trotta, qualche volta preferisce anche dire di non capire, o persino di essere sordo, piuttosto «che ammettere di aver sentito rumori volgari». Ma è comunque proprio la condizione di chi segue ciò che avviene attorno a sé come un estraneo, e con «serena disperazione», a illustrare la logica che guida la riflessione più recente di Tronti. E soprattutto a chiarire il senso della traiettoria che lo ha condotto dalla critica di società dei suoi anni giovanili alla critica di civiltà sviluppata – in termini sempre più decisi – nell’ultimo ventennio.

Tronti si è probabilmente deciso ad accantonare per una volta la forma scritta, che predilige da sempre, anche per il disagio di essere considerato da molti suoi lettori soltanto, o soprattutto, come il fondatore dell’operaismo. La speranza è cioè che l’esposizione del suo pensiero «senza orpelli» possa diradare qualche equivoco interpretativo e contribuire a chiarire finalmente la logica di un itinerario, che è risultata negli ultimi anni anche per molti dei suoi estimatori quasi indecifrabile. Ma, per affrontare adeguatamente l’Abecedario, è necessario tenere presente che i venti lemmi non sono le voci di un bilancio retrospettivo. Chi si accosti a questo documento alla ricerca di una sorta di sommario della riflessione condotta nel corso di sei decenni è così destinato a rimanere deluso. E, a maggior ragione, è destinato a rimanere deluso chi ricerchi nell’intervista una rievocazione della stagione operaista. Formenti racconta d’altronde nel volumetto che accompagna il Dvd di avere suggerito di inserire alla lettera «O» la voce Operaismo e alla lettera «Q» la voce Quaderni rossi, ma di aver visto respinte entrambe le proposte da Tronti, che ha invece preferito parlare, rispettivamente, di Operai e di Qoelét. Ma l’Abecedario non è un’autobiografia per frammenti solo perché Tronti non è mai stato incline a concedere molto a questo genere, o perché – come ha scritto molte volte – ritiene di avere chiuso la parentesi operaista già mezzo secolo fa, quando uscì l’ultimo numero di «classe operaia», o al massimo quando licenziò – con il celebre Poscritto – la seconda edizione di Operai e capitale. Probabilmente il vero motivo è che Tronti – come d’altronde ribadisce a più riprese nel corso del filmato – considera pressoché indispensabile evitare di ripercorrere sempre lo stesso sentiero e bagnarsi nello stesso fiume. Più che come la conclusione di un lungo itinerario, i venti lemmi dell’Abecedario sono così, per molti versi, il sommario di una ricerca da portare avanti, gli appunti di un diario di viaggio ancora in larga parte da compiere, o da intraprendere ancora una volta, ma da una prospettiva nuova.  E proprio per questo, suonano allora come un invito a ricominciare di nuovo, ma partendo dalla fine.
Forse neppure nella forma dell’esposizione orale le parole di Tronti lasciano cadere tutti i veli di un certo ermetismo. Ma l’autoritratto che si compone voce dopo voce contribuisce comunque a chiarire quali sono le coordinate che guidano oggi il suo sguardo, quali gli autori che popolano il suo personale pantheon, quale la direzione in cui si muove. E in questo senso l’Abecedario è un complemento degli scritti dell’ultimo ventennio, dalla Politica al tramonto (1998) fino al più recente Dello spirito libero (2015). Molte voci ripropongono infatti l’idea della «rivoluzione conservatrice», che Tronti ha suggerito in particolare in Dello spirito libero. Il fatto che si definisca come un «rivoluzionario conservatore» non è d'altronde solo un vezzo, o un modo per distinguersi da quegli intellettuali di sinistra che, dopo l’abbandono del marxismo, hanno inalberato la bandiera della «Democrazia» e del «Progresso» (e spesso di una «Democrazia» e di un «Progresso» destoricizzati, se non addirittura depoliticizzati). La formula «rivoluzionario conservatore» è piuttosto il frutto di una rilettura che ha condotto Tronti a indirizzare una critica severa non semplicemente all’operaismo (e al proprio passato), ma più in generale all’intera tradizione del movimento operaio.
Nelle pagine di Dello spirito libero, sviluppando l’idea di una «rivoluzione conservatrice», a proposito della rottura del ‘17 Tronti ha scritto infatti che la rivoluzione «non era un evento escatologico», e «non preparava una ricetta per la cucina dell’avvenire». Si trattava invece, ai suoi occhi, di «un tentativo, disperato e riuscito, di trattenere un brutto presente invadente, fermare la guerra, trovare un rimedio alla fame dei contadini, una risposta alla fatica sfruttata degli operai». La sua sconfitta non fu dovuta così all’incapacità di tenere il ritmo dello sviluppo capitalistico, ma semmai all’aver ceduto alla logica della modernizzazione. E l’illusione di poter seguire il capitale sul terreno della modernizzazione è infatti la principale colpa che Tronti indirizza tanto a Marx quanto al movimento operaio. «Non si può essere più moderni del capitalismo», ha scritto. «La modernizzazione […] non poteva essere cavalcata come tale, perché aveva già in sé un suo segno». E l’errore è stato di non sapere invertire quel segno. «Il movimento operaio ha sbagliato quando ha seguito il Marx apologeta della borghesia, e ha individuato la strada quando ha seguito il Marx critico dell’economia politica». A questa lettura si connette anche l’attenzione rivolta alla dimensione della spiritualità, che si riconosce in molti passaggi dell’Abecedario, ed è d’altronde a questa prospettiva d’insieme che si lega l’interesse per la teologia politica che contrassegna almeno da un trentennio – dai tempi della sua collaborazione con la rivista «Bailamme» – la riflessione di Tronti. Il «problema della verità», come sottolinea Pasquale Serra nel volumetto allegato al Dvd, è infatti strettamente affiancato alla spietata critica dell’homo democraticus che si riconosce nelle pagine più recenti. Ma, a ben guardare, il riconoscimento dell’importanza del «sacro» e della ricerca della «Verità», l’ammirazione per l’istituzione millenaria della Chiesa di Roma e persino l’apprezzamento per la riflessione di Joseph Ratzinger – tutti elementi che devono ‘disorientare’ molti dei lettori di Tronti – non vanno intesi come l’esito di un percorso spirituale (che pure c’è probabilmente stato negli ultimi anni). Nella prospettiva di Tronti – in questo davvero totus politicus – ogni elemento di pensiero è infatti sempre ricondotto alla dimensione politica, nel senso che scaturisce sempre dal tentativo ‘politico’ di interpretare il presente, oltre che dalla ricerca di una strada ‘politica’ realisticamente praticabile. Così, quella «Verità», di cui Tronti non esita a rivendicare la centralità, è sempre una «verità di parte», una verità radicata in una specifica «parte» da cui osservare il mondo. In questo modo Tronti rimane dunque fedele alla giovanile scoperta del «punto di vista operaio», con cui – rompendo con l’ambizione di gran parte del marxismo ortodosso di poter guadagnare una visione generale e non distorta delle dinamiche sociali – fissò il perno della «differenza italiana». «Ci sono i fatti, e poi ci sono le interpretazioni, per cui la verità», ribadisce nell’Abecedario, «si scinde in tante verità parziali, e io cerco appunto una verità di parte». Ma, rispetto a quella scoperta giovanile, non esita a riconoscere che la «parte» da cui guardare il mondo non coincide più con la prospettiva di un soggetto materialmente radicato nella struttura produttiva del capitalismo. La vittoria dell’homo democraticus, l’ascesa incontrastata dell’«uomo massa» e il trionfo della civiltà borghese hanno infatti neutralizzato la radicalità della classe operaia, senza dar forma a un nuovo antagonista. «Il punto di vista operaio non esiste più», dice Tronti, anche se «rimane il punto di vista». Un punto di vista che – come scriveva in Dello spirito libero – va ora ricercato dentro di sé, nella ridotta nell’interiorità, nel deposito della spiritualità. Ma il punto è che senza «fede» - una fede che per Tronti è sempre politica, nel senso elevato dell’appartenenza a una «parte» - si rimane privi della possibilità di agire. E una volta che si è smarrita una «verità di parte», quando si è cessato di credere in qualsiasi cosa che non sia contingente, si finisce col poter credere a tutto.  
Forse ancora più sorprendente, persino per i suoi lettori più assidui, risulta la prossimità di Tronti alla tradizione del realismo politico, che affiora in particolare nelle voci Fede, Guerra, Qoelét. Certo Tronti negli ultimi decenni non ha esitato a riconoscere in Machiavelli, Hobbes, Weber e Schmitt delle guide e delle costanti fonti di sollecitazione. Ma la sua adesione al pessimismo antropologico realista appare davvero marcata. Il realismo di Tronti non è infatti riducibile solo a una concezione che raffigura la politica come conflitto, come guerra, come esito dei mutevoli rapporti di forza. Il suo realismo accoglie la sinistra raffigurazione della «natura umana» che affiora dalle pagine di Machiavelli e Hobbes (ma anche di Sant’Agostino), e che rappresenta gli esseri umani come irrimediabilmenti segnati da una predisposizione alla sopraffazione, da una inestinguibile sete di potere, dalla costante tentazione della violenza, oltre che da una inguaribile diffidenza nei confronti dei propri simili. Dalla prospettiva di un simile approdo teorico, Tronti non può allora che criticare l’ambizione a una pacificazione definitiva del mondo, non solo perché – come in larga parte della tradizione marxista – il conflitto scaturisca dall’assetto delle relazioni sociali e della ineguale distribuzione dei mezzi di produzione e della ricchezza – ma perché le origini più remote del conflitto e della violenza vanno rinvenute a livello antropologico. Lungo questo percorso Tronti viene così a imboccare una direzione diametralmente opposta rispetto a quella battuta dal marxismo e oggi da gran parte della teoria radicale, perché ritiene – come tutti i grandi realisti – che le «regolarità della politica» vadano in fondo ricercate prima di tutto nelle profondità della «natura umana», e non nei condizionamenti sociali, economici e culturali.

L’approdo di Tronti al realismo politico certo non implica un’adesione – neppure acritica – all’estetica della Machtpolitik, perché il riconoscimento del carattere ineliminabile della guerra è soprattutto il presupposto necessario di una sua «messa in forma», di una sua regolazione. Ma non si può evitare di riconoscere oggi nel suo sguardo anche quell’ambigua fascinazione per gli aspetti più crudi della politica che, per esempio, si può ritrovare in Schmitt. Perché anche per Tronti – come per il giurista di Plettenberg – un mondo ‘spoliticizzato’, un mondo che riesca a eliminare il conflitto e la guerra, non è semplicemente ‘irrealistico’, ma è piuttosto un mondo ‘inumano’, un mondo in cui viene eliminata quella dimensione ‘tragica’ del conflitto (e forse anche della violenza) in cui si esprime la stessa autentica umanità dell’essere umano. Ed è proprio in questa chiave che deve essere interpretata la celebrazione della guerra che Tronti si lascia sfuggire nell’intervista, quando osserva per esempio che è meglio vivere in tempi di guerra che in tempi di pace. Una simile celebrazione non va infatti probabilmente interpretata come l’effetto di una ormai convinta adesione a quella visione del mondo secondo cui la ricerca di potenza rimane l’unico vero scopo politico da perseguire, e in cui la guerra è la manifestazione più elevata della vita di ogni consorzio umano. In quella frase c’è piuttosto la nostalgica rievocazione del Weltbürgerkrieg che ha segnato il Novecento, della guerra ‘civilizzata’ tenuta a freno dell’equilibrio bipolare, dei tempi eccezionali in cui, dinanzi all’estremo, la «Storia» poteva aprire un varco alla «Politica». E c’è soprattutto una sorta di elegia per quel militante novecentesco, forgiato nelle tempeste d’acciaio del Ventesimo secolo e cresciuto nello «stato d’eccezione» della guerra civile mondiale, per il quale la «politica assoluta» era il centro di gravità di un’intera esistenza, e non solo ‘una’ dimensione accanto alle altre.
Benché l’Abecedario vada inteso come un ritratto del Tronti di oggi, la presentazione «senza orpelli» offerta nella lunga intervista è destinata a suggerire più di qualche interrogativo sulla logica del percorso seguito in circa sessant’anni dal pensatore romano. Le posizioni che emergono dal filmato – in primo luogo proprio l’approdo al realismo politico, ma anche il ruolo assegnato alla teologia politica, la critica al movimento operaio e l’accento posto sull’interiorità – appaiono davvero molto lontane dalla prospettiva del ‘giovane’ di Tronti, e in generale da quel paradigma operaista di cui Operai e capitale viene considerato la più solida pietra di fondazione. Forse più ancora delle sue posizioni politiche – e in particolare del suo ruolo di senatore del Partito Democratico – la riflessione recente di Tronti deve dunque risultare ‘sconcertante’, o persino intollerabile, per chi valorizza il pensatore della «differenza italiana». Per questo, è quasi inevitabile essere indotti a riconsiderare l’intera logica del suo percorso, e forse anche circoscrivere allo spazio di una parentesi – quasi un ‘incidente di percorso’ – la sua stagione operaista. Si tratta d’altronde di un’ipotesi di lettura avanzata in diverse occasioni fin dagli anni Settanta. Spesso con l’ottica un po’ deformante di una polemica contro il «compromesso storico» (di cui la teoria dell’«autonomia del ‘politico’» sarebbe stata la base dottrinaria), si rilessero le pagine di Operai e capitale alla ricerca di quei segni di ‘rottura’ o di ‘continuità’, capaci di confermare – a seconda della prospettiva adottata – la gravità di un tradimento teorico o il profondo radicamento di una distorsione concettuale destinata a squalificare un’intera riflessione. Allora qualche lettore ritrovò alla base dell’operaismo di Tronti, insieme alla tentazione di una «filosofia della storia» da cui Raniero Panzieri aveva già messo in guardia molti anni prima, una marcata impronta gentiliana. In termini tutt’altro che critici, Serra ha ripreso di recente una lettura simile. In diverse occasioni ha infatti polemizzato con chi punta a falsificare la riflessione più recente del pensatore romano «a partire da un libro scritto nel 1966, e che già nel 1970 Tronti si mette alle spalle, come se in quel libro fosse consegnata l’intera verità di Tronti, e tutto il resto, il dopo, ed anche prima, fosse stato scritto per niente». Ma, sempre con l’obiettivo di ‘relativizzare’ la stagione dei «Quaderni rossi» e di Operai e capitale, Serra ha anche invitato a prendere atto che «prima dell’operaismo non c’è il nulla, o un vuoto, ma un pensiero molto determinato» (Tradizione e libertà. Il pensiero politico di Mario Tronti, in «Rivista di Politica», 2016, n. 1, p. 150). Almeno una delle fonti importanti della sua riflessione andrebbe così ritrovata in Ugo Spirito, che di Tronti fu relatore di tesi negli anni Cinquanta e che avrebbe contribuito a gettare un ‘ponte’ tra Gentile e Marx. Ma forse, ‘relativizzando’ l’operaismo, ci si potrebbe anche spingere a ritrovare nel percorso di Tronti l’eredità di un altro filone che ha attraversato la filosofia del Novecento italiano (e contro cui peraltro il pensatore romano aveva indirizzato le prime polemiche). Perché nel passaggio dall’operaismo all«‘autonomia del ‘politico’», e poi al realismo politico, Tronti si è trovato a battere lo stesso sentiero attraversato da Benedetto Croce, che, ricordando i suoi giovanili interessi per il materialismo storico, scrisse che il marxismo lo aveva ricondotto «alle migliori tradizioni della scienza politica italiana, mercé la ferma asserzione del principio della forza, della lotta, della potenza, e la satirica opposizione alla insipidezze giusnaturalistiche, antistoriche e democratiche, ai cosiddetti ideali dell’89».
L’Abecedario naturalmente non offre – e non può offrire – una soluzione alla discussione sulla logica della traiettoria trontiana e sul ruolo della ‘parentesi’ operaista, ma sicuramente offre materiali importanti, su cui varrebbe la pena riflettere, magari anche mettendo in discussione griglie di lettura consolidate. Perché l’intervista suggerisce anche di rileggere a ritroso l’intero percorso di Tronti. E, soprattutto, invita a ricercare le tracce – seppur labili – della svolta verso l’idea di una «rivoluzione conservatrice» già nei suoi primi scritti, ossia persino ‘dentro’ la stagione operaista.
Gli approdi cui Tronti giunge oggi sono probabilmente destinati a lasciare insoddisfatti, delusi o persino indispettiti molti di coloro che considerano le ipotesi sull’«autonomia del ‘politico’» uno strumento utile per ripensare la storia politica del capitalismo e le relazioni tra «politica» ed «economia», o per coloro che non cessano di cercare nelle pagine di Operai e capitale la chiave per rovesciare la logica del presente, oltre che ovviamente per quanti confidano che la potenza degli algoritmi, rimestando nelle pentole del capitalismo cognitivo, stia imbandendo un nuovo sontuoso banchetto nelle osterie dell’avvenire. Per chi ascolti le voci dell’Abecedario da questa prospettiva, l’approdo al classico pessimismo antropologico del realismo politico deve infatti apparire solo come una rinuncia al progetto di una trasformazione radicale delle relazioni sociali. Mentre la concezione realista di una politica piantata sulle due gambe del conflitto e della mediazione deve suonare a molti solo come un tentativo di far convivere – l’una accanto all’altra – posizioni teoriche e politiche fra loro contraddittorie, o magari di legittimare scelte politiche che lo stesso Tronti non esita a definire ambigue. L’aspetto che deve lasciare insoddisfatti molti dei lettori – vecchi e nuovi – di Tronti è comunque relativo proprio alla critica di civiltà che traspare dalla sua riflessione più recente. Non semplicemente perché la critica dell’homo democraticus e la polemica contro il Sessantotto e il suo individualismo libertario tendono ad avvicinare Tronti alle vecchie critiche conservatrici alla «ribellione delle masse». Ma perché, collocando il discorso a un livello antropologico, la vittoria della Zivilisation sulla Kultur sembra un risultato così inattaccabile da precludere ogni spazio di azione alla politica. E la ricerca di un «punto di vista» dentro se stessi – e non più dentro una forza collettiva, piantata nel cuore del sistema produttivo – sembra perciò assomigliare a una dichiarazione d’impotenza.
Ma se la sua ricerca più recente corre effettivamente almeno alcuni di questi rischi, è molto probabile che nei prossimi anni dovremo ripartire proprio da quei nodi che Tronti sottolinea. Quando il vortice destinato a investire il Vecchio continente avrà finito di inghiottire anche l’ultima ridotta del «mondo di ieri», i venti lemmi consegnati all’Abecedario avranno infatti per noi un altro suono. E non è escluso che il paradigma «katecontico», da cui il «rivoluzionario conservatore» osserva retrospettivamente il Novecento, non debba rappresentare per noi quasi un passaggio obbligato, pur con tutte le sue incognite, le sue ambiguità e i suoi problemi. Tornando alla «serena disperazione» di Tronti, potremo così riscoprire l’ultima lezione di un grande maestro del Novecento, e persino il suo monito a non rinunciare alla «Verità» - e a ricercare nel ‘sacro’ la strada che conduce alla politica – potrà dischiudere ai nostri occhi un nuovo significato. E forse, proprio allora, riascoltare la voce di Tronti, e riaccostarsi al padre della «differenza italiana», diventerà per noi quasi come discendere i gradini che conducono alla nostra Cripta dei Cappuccini. 

Damiano Palano

martedì 24 aprile 2018

Per i Cinque Stelle è l'ora cruciale. Un'intervista sulla "Vita del popolo"




di Bruno Desidera

Questa intervista è stata pubblicata sul settimanale “La Vita del Popolo” il 20 aprile 2018

Il Movimento ha vinto le elezioni, ma ora deve decidere se accettare le alleanze e la sfida del Governo. Riuscirà però a mantenere il consenso di tutti gli “scontenti”, di destra, centro e sinistra, che lo hanno premiato? Ne parliamo con il prof. Damiano Palano, docente all’Università Cattolica. Che è “scettico sulla possibilità di un’alleanza con la Lega”.

Tutto o niente. E’ l’ora del dunque, per il Movimento 5 Stelle. Uscito vincitore solo parzialmente dalle elezioni del 4 marzo (è il primo partito ma non ha i numeri per governare), si trova ora a gestire una delicata trattativa per trovare alleati. Un cammino che si sta rivelando accidentato e aperto a tutti gli esiti. Intanto, è importante interrogarsi sulle ragioni del successo dei 5 Stelle e sulle possibili future evoluzioni. Lo facciamo con il prof. Damiano Palano, docente di Scienza politica all’Università Cattolica del Sacro Cuore, autore di varie ricerche e pubblicazioni sul movimento fondato da Beppe Grillo.
L’affermazione del M5S è stata una delle principali notizie delle recenti elezioni politiche. Se lo aspettava, almeno in questi termini? Quali a suo avviso le ragioni principali?
Tutte le rilevazioni dei mesi precedenti avevano indicato una crescita dei consensi al Movimento 5 Stelle, anche se non nelle proporzioni emerse il 4 marzo. Dunque non è stata una sorpresa assoluta, nonostante l’affermazione sia stata di qualche punto percentuale superiore alle attese. Le motivazioni sono molte. La formazione pentastellata ha innanzitutto consolidato il proprio bacino di elettori “storici”, nel senso che è riuscita in gran parte a conservare il consenso di coloro che già nel 2013 avevano votato per il partito di Grillo. Ma è stata in grado di incrementare i propri voti anche in altre aree. Innanzitutto conquistando il sostegno di elettori che nel recente passato si erano astenuti. Inoltre intercettando il voto di delusi del centro-sinistra (e di coloro che avevano confidato nella “rottamazione” renziana). E catalizzando infine il consenso di elettori che, soprattutto al Sud, avevano guardato prevalentemente al centro-destra. In sostanza, la forza del M5S sta nel suo essere davvero un partito “pigliatutti”, ossia un partito capace di rivolgersi a tutto l’elettorato e di superare la divaricazione tra destra e sinistra. Ciò non significa però che non esista più questa distinzione, e cioè che gli elettori abbiano davvero abbandonato queste categorie. Significa piuttosto che i 5 Stelle sono al tempo stesso di destra e di sinistra, hanno cioè potuto rivolgersi ai delusi di tutti gli schieramenti, dimostrandosi efficacissimi “imprenditori della sfiducia”.
In alcuni articoli ha parlato di “metamorfosi” del M5S e ultimamente di “oligarchia”. In che senso il movimento è una forza politica oligarchica e per certi aspetti “leninista”? In che modo tale modalità organizzativa è compatibile con la nostra Costituzione e più in generale con la democrazia liberale?
Ogni partito, anche i partiti che in buona fede aspirano a funzionare in modo pienamente democratico, si trovano a fronteggiare una tendenza ‘fisiologica’ alla formazione di un’oligarchia interna. A innescare questa tendenza è la stessa necessità di darsi un’organizzazione efficiente. Che richiede per esempio una specializzazione dei compiti, ma che comporta anche che, più o meno rapidamente, emergano, rispetto alla “massa” dei militanti e anche dei rappresentanti, i leader dotati di maggiori abilità oratorie, di migliore reputazione, di specifiche abilità. Ovviamente anche il Movimento 5 Stelle ha dovuto fronteggiare questa “legge ferrea”, come la chiamava Michels, che tende a produrre una oligarchia di dirigenti. Ma non dobbiamo dimenticare che quello fondato da Grillo è sempre stato un partito anomalo. Da una parte, aveva i tratti di un “partito-movimento”: forti istanze partecipative, meccanismi di democrazia diretta, controllo sugli eletti, meccanismi di rotazione delle cariche, ruolo della base (soprattutto a livello locale). Dall’altra, è stato sempre un “partito-azienda”, con un ruolo chiave di Grillo e della Casaleggio Associati nella selezione delle candidature, nella definizione dei programmi nazionali, nel mantenimento della disciplina interna, nella gestione della comunicazione. Il suo carattere “leninista” (un leninismo che però si riferisce solo alla forma-partito, non all’ideologia) è relativo proprio alla grande centralizzazione della macchina comunicativa e alla disciplina interna: se il vertice non avesse accentrato la gestione della comunicazione e se non avesse imposto con pugno di ferro il rispetto della linea (ricorrendo anche alle espulsioni), il M5S non sarebbe sopravvissuto al successo elettorale del 2013 e si sarebbe disgregato in varie componenti. Nel corso degli ultimi cinque anni, l’ingresso in Parlamento ha però modificato la fisionomia. Il “partito-movimento” è quasi scomparso (soprattutto a livello locale), sostituito invece dal partito degli eletti. La “legge ferrea” ha fatto emergere prima un “direttorio” di una manciata di deputati. La gerarchia interna è stata maggiormente formalizzata. E la necessità della competizione elettorale ha portato a identificare in Luigi Di Maio un “capo politico”, al quale è stato conferito un potere enorme sulle candidature, sui programmi, sulle alleanze. Questa “oligarchia” nata dentro le istituzioni non ha affatto intaccato la struttura del “partito-azienda”. Ma non è escluso che, prima o poi, possa verificarsi qualche attrito tra le due componenti. 
Abbandonata la logica del “Niente alleanze” i 5 Stelle si stanno proponendo sia alla Lega che al Pd. In che modo la base elettorale del M5S potrebbe vivere questo passaggio?
Si tratta di un passaggio cruciale, che quasi certamente scontenterà molti sostenitori. Anche se il “compromesso” è inevitabile, soprattutto con un sistema elettorale in gran parte proporzionale, i partiti che abbiamo di fronte oggi – e soprattutto i 5 Stelle – non possono contare su una salda identificazione con i propri elettori, né tanto meno su un consolidato bagaglio “ideologico” o “subculturale”, come per esempio quello su cui facevano affidamento i partiti della “Prima Repubblica”. Per questo, qualsiasi alleanza facciano, l’eventuale ingresso in un governo di coalizione – anche al di là della performance dell’esecutivo – metterebbe a durissima prova la base di consenso del partito guidato da Di Maio. Anche se è molto improbabile che gli elettori che hanno deciso di votare per i pentastellati possano tornare alle precedenti collocazioni.
Lo scenario apparso finora più probabile è stato un’alleanza Lega-5Stelle. Eppure non le sembra che i due elettorati siano per certi aspetti espressione di “due Italie”, esemplificate nella duplice proposta del reddito di cittadinanza e della flat tax? Come potranno coesistere? Un Governo 5 Stelle sarebbe una buona notizia per il “ricco” Nord?
Personalmente rimango scettico sulla possibilità di un’alleanza Lega-5 Stelle. Senza dubbio ci sono differenze tra i due elettorati. Non penso però che le differenze sui programmi economici debbano essere enfatizzate, anche se è evidente che esse sono nette. Ovviamente la flat tax al 15% non è realizzabile (almeno in tempi rapidi), e anche il “reddito di cittadinanza” (che non è altro che un sussidio di disoccupazione) avrebbe costi che in questo momento non sembrano sostenibili. In altre parole, sono entrambi impegni a lungo termine. Ma proprio per questo Lega e 5 Stelle potrebbero rilanciare la loro realizzazione al futuro, puntando su altre cose e dunque “giustificando” il compromesso. Il punto è che, alleandosi con la Lega, Di Maio rischierebbe di alienarsi il consenso di quella fetta di elettori di sinistra e di centro-sinistra che probabilmente non sarebbe disposta a cedere su alcune questioni. Alleandosi con la Lega, i 5 Stelle perderebbero cioè la loro capacità di intercettare voti sia da destra, sia da sinistra. Più probabilmente, Lega e 5 Stelle hanno oggi la percezione di poter diventare i protagonisti di un nuovo bipolarismo. Ma un governo di coalizione farebbe tramontare subito questa prospettiva, a meno che non si formi un brevissimo governo “di scopo”. Un’ipotesi che, a mio avviso, rimane poco probabile.
E d’altra parte cosa ha in comune il M5S con il Pd?
Con il Pd il Movimento 5 Stelle ha in realtà in comune più di quanto possa sembrare. Il Pd renziano aveva di fatto recepito la battaglia contro la “casta” e i suoi privilegi. In campo internazionale e sulla stessa Unione europea, la linea di Di Maio è molto lontana da quella “euroscettica” di qualche tempo fa. E persino il “reddito di cittadinanza” non è del tutto incompatibile con alcune proposte (non maggioritarie) presenti nell’area del Pd. Ma la questione è che in questo momento il Pd non ha più né un’identità comune (se mai l’ha davvero avuta) né una linea programmatica unitaria. Alcuni guardano a Macron, mentre altri guardano al Labour di Corbyn. Il partito non sembra inoltre neppure in grado di esprimere una leadership adeguata alla situazione, anche perché la “rottamazione” e la leadership carismatica di Renzi costituiscono esperienze da cui è difficile tornare indietro. Per tutti questi motivi, al di là delle dichiarazioni sulla volontà di rimanere all’opposizione, il Pd sarà determinante per la formazione del governo. Anche se è molto probabile che esplodano le fratture interne maturate in questi anni.

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giovedì 19 aprile 2018

Distòpies i al·legories serials: Black Mirror, The Walking Dead, Westworld, Altered Carbon



di Chiara Fagone

Questa cronaca del seminario “Distopie e allegorie seriali”, che ha visto la partecipazione di Damiano Garofalo, Andrea Locatelli, Massimo Scaglioni, Antonio Zotti, con il coordinamento di Damiano Palano, è stata stesa da Chiara Fagone ed è apparsa sul sito Enganxats

Dimecres al vespre, a la Universitat Catòlica de Milà hi va haver una conferència organitzada pel CeRTA (Centre de Recerca sobre la Televisió i els Audiovisuals) i la Facultat de Ciències Polítiques. El moderador va ser Damiano Palano (Catedràtic de Ciències Polítiques i Socials) que va fer una breu introducció en la qual va recordar el concepte de distòpia, un futur desastrós dominat per la tecnologia, molt ben conegut durant el segle XX gràcies a George Orwell i a 1984.
El professor Damiano Garofalo, autor de Black Mirror: memorie dal futuro (Edizioni Estemporanee, 2017)*, precisament va a parlar de la sèrie britànica que ja s'ha convertit en un producte cult. Black Mirror, és una sèrie antològica: és a dir, cada capítol té una trama que és independent (com Historias para no dormir, TVE), consta de moment de 4 temporades, les primeres dues van ser produïdes per la cadena pública, però amb finançament totalment publicitari, anglesa Channel 4 (l'altra gran contrincant de la BBC, junt a la privada ITV) i després va ser comprada per la plataforma Netflix que va produir les següents temporades i la va distribuir arreu del món i la va fer conèixer. Segon Garofalo, més quina distòpia (la visió d'un futur tràgic, controlat pels dispositius tecnològics) la sèrie seria la representació d'una realitat paral·lela. També la relació entre el present, el passat i el futur és una incògnita. El tema polític, en canvi, està present amb referències a casos reals. A més, el professor va destacar els diferents casos dins de la sèrie en què hi havia referencies 'Inter-textuals' o guinyols entre els capítols.
Massimo Scaglioni (Professor Titular d'Història dels Mitjans de Comunicació i d'Economia i Màrqueting dels Mitjans, també Coordinador de les activitats del CeRTA) autor, junt amb Dom Holdaway, del llibre The Walking Dead: Contagio culturale e cultura post-apocalittica (Mimesis Edizioni, 2017)*, es va focalitzar sobre la relació entre el cinema (i després les sèries de televisió) i la política utilitzant l'al·legoria del zombi, en particular va destacar l'obra de George A. Romero.
Scaglioni, citant Bishop, indica que hi ha tres etapes: anys 30-50, com representació de les problemàtiques socials als EE UU; anys 80, la paròdia dels zombis del món polític i del poder constituït; anys 2000, després del 9/11, torna una visió postapocalíptica del zombi com al·legoria del ser humà. Aplicat a les sèries, Scaglioni va destacar tres exemples: The Walking Dead (i el seu spin off, Fear The Walking Dead); Dead Set, on torna la dimensió paròdica perquè una colla de zombia de sobte apareix per atacar el plató del Gran Hermano; I Zombie, on la sèrie de zombi es mescla amb el gènere del teen drama. Amb el cas de The Walking Dead, la sèrie d'AMC (cadena de cable), Scaglioni diu que la sèrie "sempre va ser un exemple d'al·legoria política però que aquesta última temporada en particular fa referència a les tretze colònies americanes dels pares fundadors." I a més, la condició postapocalíptica que viuen els sobrevivents esborra (teòricament) les diferències socials entre ells, canvien les modalitats de relació i hi ha nous models ètics proposats: com l'ús de la violència.
En canvi, el politòleg Andrea Locatelli va explicar el tema de la distòpia en Westworld, la sèrie de HBO produïda per J.J. Abrahms (el creador de Perdidos i Fringe), ambientada dins de parc d'aventura gegant paregut al Far West habitat d'uns androides amb semblances humanes, on tot és possible: on els exclusius clients poden gaudir lliurement dels robots, o sigui, poden matar-los, violar-los, torturar-los, com si fos una mena de Disneylàndia para adults. Perquè, a més, els androides no poden fer-li mal els humans i tampoc tenen memòria, ni sentiments: de fet, cada dia per ells és com si fos El dia de la marmota. Però la història canvia quan les maquines comencen a sentir coses, a recordar, a tomar consciència de si mateixos, a convertir-se en humans i es rebel·len. Dins d'uns dies s'estrenarà tant a Espanya (a HBO) com a Itàlia (Sky Atlantic) la segona temporada.
I per últim, el Professor Antonio Zotti va il·luminar un públic de 'millennials' sobre els secrets del cyberpunk, tendència nascuda els 80s amb els còmics i els llibres, feta mainstream gràcies a pel·lícules com Blade Runner, explicant la nova sèrie de Netflix: Altered Carbon, una novel·la negra hard boiled i de ciència ficció, protagonitzada per un excriminal que després de passar 250 anys en presó es desperta dins d'un altre cos, la sèrie juga amb temes forts e inquietants com la identitat i la memòria, proposant imatges molt provocatives, també plena de referències i homenatges a la cultura dels 80 (els dolents viuen dins de Torres d'Ivori, com l'Emperadriu de La història interminable).
Per acabar, alguns consells personals: si us va agradar Perdidos, The Walking Dead està feta per vosaltres, són 8 temporades, i llavors si teniu el cor trencat o esteu estressats, aquesta sèrie plena de zombis us anirà estupendament per una marató de binge watching 'terapèutica'. En canvi, si sous més cerebrals, hi ha Black Mirror, la sèrie que ens qüestiona i ens fa sentir incòmodes, sobre nosaltres mateixos i els nostres records. I si també (com jo) trobeu a faltar El Ministerio del Tiempo us recomano la petita sèrie alemanya Dark que està per trencar-se el cap. Si us agraden les emocions fortes i l'acció, Westworld no us fallarà; i si teniu un costat una mica friki i us agraden les atmosferes futuristes, o sous uns nostàlgics dels 80, però voleu també l'adrenalina i el misteri: Altered Carbon és la vostra.

*Els llibres de Scaglioni i Garofalo estan disponibles a la venda a Amazon.es

mercoledì 18 aprile 2018

"L’eclissi della teoria politica. Per una discussione sulla condizione degli studi politici in Italia". Una provocazione sulla "Rivista di Politica" 4/2017




Il fascicolo 4/2017 della "Rivista di Politica", oltre ad articoli di Alessandro Campi, Gianfranco Pasquino, Cesare Silla, Stefano Procacci e molti altri, ospita una provocazione di Damiano Palano, dal titolo 

L'eclissi della Teoria politica. Per una discussione sulla condizione degli studi politici in Italia

Si può acquistare l'intero fascicolo (cartaceo o in formato e-book) sul sito dell'editore Rubbettino al prezzo di 8,50 euro.

Le informazioni per sottoscrivere l'abbonamento annuale 2018 alla Rivista di Politica (30 euro per 4 numero di circa 200 pagine ciascuno), sono disponibili sul sito dell'Istituto di Politica.






Puoi scaricare il testo di
L'eclissi della Teoria politica. Per una discussione sulla condizione degli studi politici in Italia

venerdì 13 aprile 2018

Nell’abisso del terrore. Un libro di Vittorio Strada sul fascino della violenza nella cultura russa





Di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Vittorio Strada, Il dovere di uccidere. Le radici storiche del terrorismo (Marsilio, pp. 203, euro 16.00), è apparsa sul quotidiano "Avvenire".

Nell’estate del 1869 lo studente Sergej Nečaev lasciò la Svizzera, dove era scappato per sottrarsi all’arresto della polizia zarista, e tornò in Russia. Un mandato di Bakunin lo dichiarava rappresentante dell’«Unione rivoluzionaria mondiale», un’organizzazione in realtà del tutto inesistente. Giunto a Mosca con una simile investitura, il giovane riuscì a creare una piccola società segreta, formata per lo più da studenti dell’Accademia agraria e sottomessa alle direttive di un fantomatico «Comitato». Quando uno dei pochi affiliati, Ivàn Ivànovic Ivanov, si ribellò ai suoi metodi autoritari, Nečaev decise di ucciderlo. E coinvolse nell’omicidio, avvenuto il 21 novembre 1869, altri quattro membri della società, di cui in quel modo intendeva cementare l’affiliazione. La brutalità dell’esecuzione e le circostanze in cui era maturata conferirono un’immediata notorietà al caso, anche perché nel corso delle indagini vennero alla luce alcuni documenti teorici di Nečaev, che aprivano uno squarcio inquietante su un estremismo completamente privo di morale e votato alla causa suicida della distruzione della vecchia società. Nel primo articolo del Catechismo del rivoluzionario, probabilmente il testo più noto di Nečaev, si leggeva infatti: «Il rivoluzionario è un uomo perduto. Non ha interessi personali, né affari privati, né sentimenti, né affetti, né proprietà, neppure un nome. Tutto in lui è assorbito da un unico interesse esclusivo, da un unico pensiero, da un’unica passione: la rivoluzione».
Nel 1977, mentre l’Italia entrava nella stagione più cupa del terrorismo, Vittorio Strada, curando il volume di Aleksandr Herzen A un vecchio compagno, ricostruiva l’affaire Nečaev e soprattutto la discussione che la vicenda aveva innescato tra gli intellettuali russi. A quarant’anni di distanza, nel suo nuovo libro Il dovere di uccidere. Le radici storiche del terrorismo (Marsilio, pp. 203, euro 16.00), Strada torna ad approfondire quelle riflessioni, mostrando che il «terrore» rappresentò quasi una sorta di lacerante ossessione per la Russia tra Otto e Novecento. Destinato a diventare celebre anche per la trasposizione letteraria che ne fece Dostoevskij nei Demoni, il caso di Nečaev fu d’altronde solo uno dei primi episodi di una lunga catena di violenze. Il crescendo del terrorismo ebbe un primo momento culminante con l’assassinio dello zar Alessandro II nel 1881. Ma divenne un fenomeno di massa nel primo decennio del nuovo secolo, quando le vittime di attentati (che erano state un centinaio nella seconda metà dell’Ottocento) divennero circa diciassettemila. Più che le dinamiche della violenza politica, a Strada interessa però la discussione che giunse a legittimare il ricorso all’azione terroristica. Il terrorismo diventava – come scrisse Pëtr Tkačev, il teorico del giacobinismo russo – l’«unico mezzo di rinascita morale e sociale» del paese. E la fascinazione per questo strumento non rimase patrimonio solo delle formazioni che si richiamavano alla tradizione populista, come il Partito socialista rivoluzionario, responsabile dell’escalation di attentati dell’inizio del Novecento. I bolscevichi ne ereditarono almeno alcune componenti. Dopo la rivoluzione, come ricorda Strada, Bucharin esaltò per esempio la violenza come strumento di una «costrizione extraeconomica» e come «metodo per fabbricare l’umanità comunista col materiale umano dell’epoca capitalista». Ma, come scrisse negli anni Venti Nikolaj Berdjaev, la giustificazione della violenza in nome di un bene superiore finì con l’essere ripresa anche da avversari del bolscevismo, come il filosofo Ivan Il’in. Si trattò senza dubbio, come scrive Strada, di «una tragedia all’interno della tragedia vissuta da un intero popolo e da un’intera epoca sotto il segno della violenza e del terrore». Ma non fu certo solo una storia russa. Ed è forse per questo che ancora oggi – pur dinanzi a un terrorismo dal volto molto diverso – quelle discussioni meritano di essere lette.

Damiano Palano

martedì 10 aprile 2018

La guerra dell'informazione e il potere della manipolazione. Un incontro con Massimiliano Panarari, Gabriele Colleoni e Damiano Palano a Brescia (Università Cattolica - Via Trieste 17) - martedì 17 APRILE 2018 - ore 15.00




Martedì 17 aprile 2018, nell’ultima tappa del ciclo "Il Mondo in disordine", nella sede di Brescia dell'Università Cattolica (Via Trieste 17), Massimiliano Panarari, docente di Comunicazione politica alla Luiss di Roma ed editoralista di diverse testate, parlerà del ruolo della manipolazione nella politica novecentesca. 
Partendo da un suo libro recente e discutendo con Damiano Palano e Gabriele Colleoni («Giornale di Brescia»), tornerà al grande laboratorio della Prima guerra mondiale, per mostrare come proprio le necessità belliche abbiano fatto nascere la propaganda moderna, utilizzata in seguito dai regimi totalitari e dalla comunicazione politica contemporanea. Ma naturalmente si giungerà fino a oggi e alle tempeste delle "fake news".





Questa recensione al volume di M. Panarari, Poteri e informazione. Teorie della comunicazione e storia della manipolazione politica in Italia (1850-1930), Le Monnier, Firenze, 2017,  apparsa su «Avvenire» del 11 agosto 2017.

Quando nel 1917 gli Stati Uniti fecero il loro ingresso nella Grande guerra, le città americane furono tappezzate da manifesti che invitavano all’arruolamento. Il più famoso – che davvero tutti ricordano – ritraeva il volto arcigno dello Zio Sam, con il dito puntato verso l’osservatore, sopra una didascalia che recitava: «I want you for U.S. Army». Oggetto in seguito di miriadi di imitazioni, in realtà anche l’affiche dello Zio Sam riprendeva (con una grafica certo più accattivante) un precedente manifesto britannico, commissionato nel 1914 ad Alfred Leete dal Comitato parlamentare per il reclutamento. Nella versione originale a invitare i concittadini a unirsi all’esercito del loro Paese non era ovviamente lo Zio Sam, ma il feldmaresciallo Horatio Herbert Kitchener, allora ministro della guerra e in passato governatore imperiale dell’Egitto, oltre che vincitore della guerra anglo-boera. Ad ogni modo, entrambi quei manifesti erano il frutto di uno sforzo propagandistico senza precedenti. Perché proprio nell’officina della Grande guerra divenne chiaro che la comunicazione era ormai un’arma indispensabile, da gestire con tecniche e logiche molto simili a quelle dell’industria moderna.
Una ricostruzione delle linee principali di questa trasformazione è offerta dal volume di Massimiliano Panarari, Poteri e informazione. Teorie della comunicazione e storia della manipolazione politica in Italia (1850-1930) (Le Monnier, pp. 157, euro 14.00), che segue in parallelo la riflessione degli studiosi sugli effetti dei flussi informativi e le innovazioni adottate nel mondo politico. Panarari mostra in particolare che anche in Italia la Grande guerra rappresentò un momento di svolta.
All’indomani dell’entrata in guerra, Salvatore Barzilai, presidente dell’Associazione della Stampa Periodica Italiana, si pose subito al servizio del governo e fu in effetti nominato ministro da Salandra nel luglio 1915. Ma una svolta organizzativa si ebbe soprattutto dopo la tragedia di Caporetto, che portò alla costituzione del «Servizio P», la Commissione centrale per la propaganda verso il nemico (che vide coinvolti per esempio Giuseppe Prezzolini, Alfredo Rocco, Gaetano Salvemini e Pietro Calamandrei). Grazie al supporto di una legislazione restrittiva, i giornali furono inoltre sottoposti a severi controlli, miranti a garantire la sicurezza dello Stato. Particolare attenzione venne rivolta alle illustrazioni e alle fotografie di argomento militare, che potevano essere pubblicate solo a seguito di autorizzazione. In generale la stampa bellicista pubblicò però soprattutto fotografie fornite dalla stampa estera, che ritraevano le devastazioni e gli scenari di guerra. La morte dei soldati italiani non ebbe invece alcuna rappresentazione fotografia, per evitare la destabilizzazione che quelle immagini avrebbero provocato sulle famiglie. La rappresentazione del fronte fu piuttosto affidata alle tavole di Achille Beltrame, che ritraevano la guerra come un romantico scontro tra eroismi. E la gran parte degli italiani continuò così a pensare che il conflitto assomigliasse a una «tenzone cavalleresca», che nulla aveva a che fare con la «guerra totale» che si combatteva nelle trincee. Al tempo stesso, furono introdotti strumenti di propaganda tra i soldati, con la produzione di «giornali di trincea», come «Il Grappa» o «La Ghirba» (ideata da Ardengo Soffici). E furono diffusi veri e propri breviari per una propaganda efficace tra gli ufficiali addetti alla «sponsorizzazione» dello sforzo bellico presso i reparti impegnati al fronte.
La fabbrica della propaganda muoveva allora solo i primi passi. Ma si comprese subito che l’esperienza della guerra non sarebbe stata solo una parentesi. La prova che diede nel conflitto lo straordinario apparato propagandistico statunitense contribuì anzi a innescare la marcia verso l’«americanizzazione» della comunicazione anche in Europa. E così, se il 1914, come voleva Hobsbawm, segnò l’ingresso nel «secolo breve» delle ideologie, sancì anche la nascita di quella propaganda moderna a cui avrebbero attinto anche i regimi autoritari e totalitari del Novecento. E forse non fu allora un caso se George Orwell, quando modellò la sagoma del dittatore di Oceania, il Grande fratello di 1984, tornò proprio a quel vecchio manifesto per il reclutamento del 1914. E al dito puntato con cui il feldmaresciallo Kitchener invitava i cittadini britannici a entrare nell’esercito di Sua Maestà.

Damiano Palano

domenica 8 aprile 2018

"La maggioranza silenziosa". Un'anticipazione dal volume "Destra" curato da Spartaco Puttini e Corrado Fumagalli per la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli




di Damiano Palano

Questo stralcio è tratto da un saggio compreso nel volume "Destra" curato da Spartaco Puttini e Corrado Fumagalli (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, pp. 160, euro 12.00).

La maggioranza silenziosa di cui parlava Baudrillard quarant’anni fa era una prima prefigurazione dell’audience che – secondo l’efficace formula avanzata da Bernard Manin alla metà degli anni novanta – sarebbe diventata la principale destinataria dei messaggi dei leader politici dopo la crisi della “democrazia dei partiti” (Manin 1997). Quando Manin formulò la propria proposta, nel corso degli anni novanta, le democrazie mature vivevano il momento culminante della “fine della Storia”. Sconfitte tutte le alternative al progetto liberaldemocratico (e soprattutto l’alternativa socialista), e scomparsi dalla scena (o ridotti all’irrilevanza) i vecchi partiti antisistema, il “pubblico” protagonista delle scelte democratiche poteva apparire in fondo come il composto osservatore di una competizione politica sostanzialmente “centripeta”, nella quale la vittoria elettorale sembrava dipendere dalla conquista dal voto dell’elettore mediano, collocato al centro dello spettro politico e indeciso tra destra e sinistra. E la maggioranza silenziosa – pur irrappresentabile politicamente – pareva essere la severa custode della stabilità politica, contro ogni estremismo.
Vent’anni dopo le cose sono invece molto diverse. Lo stesso Manin ha riconosciuto che l’ipotesi della democrazia del pubblico sopravvalutava la portata dell’erosione dell’identificazione partitica, che, per quanto si sia col tempo certo indebolita, non è però del tutto svanita, o è stata sostituita da altre forme di identificazione (per esempio con il leader). Ma il punto principale è che – dopo l’esplosione della crisi del 2008 – il “pubblico” delle democrazie occidentali si è dimostrato molto più radicale di quanto si fosse pensato. E la maggioranza silenziosa – pur sempre recalcitrante rispetto a ogni stabile rappresentazione – si è rivelata spesso disposta concedere il proprio sostegno elettorale a partiti radicali o addirittura estremisti (almeno secondo i parametri dell’ultimo trentennio). La discussione sulle trasformazioni delle nostre democrazie è naturalmente destinata a proseguire a lungo. Ma è comunque difficile negare che nel corso dell’ultimo decennio la gran parte delle democrazie occidentali sia stata attraversata da forti tensioni, che si sono tradotte nella nascita e nel successo di nuove formazioni politiche, capaci in alcuni casi di far registrare notevoli performance elettorali. La gran parte dei nuovi partiti viene spesso ricondotta alla famiglia populista, ma si tratta di una classificazione non priva di problemi. […] Per quanto esista una differenza fra la tradizione della destra radicale ed il profilo delle nuove formazioni populiste, e nonostante si possano ravvisare anche esperienze politico-ideologiche espressione di un populismo di sinistra, si possono però nutrire ben pochi dubbi sul fatto che la gran parte delle compagini populiste (o neopopuliste) contemporanee si collochi nello spettro politico contemporaneo sul versante di destra. […] Al di là della definizione dei tratti specifici del populismo autoritario o di destra, l’ascesa dei movimenti e dei leader riconducibili a questa famiglia può essere studiata da diversi punti di vista, che considerano per esempio le tendenze populiste come conseguenza della trasformazione dell’offerta politica, del ricorso a determinati strumenti retorici da parte della classe politica, delle modificazioni tecnologiche che investono la relazione tra leader e masse, della presidenzializzazione che coinvolge buona parte dei sistemi politici occidentali, del ruolo che i sistemi elettorali esercitano sull’andamento della competizione politica.
Ma, naturalmente, quel successo può essere anche studiato ponendo lo sguardo principalmente sui settori sociali che sono particolarmente sensibili alle proposte populiste (e nazional-populiste). In questo caso, si tratta dunque di chiedersi chi compone la maggioranza silenziosa che guarda verso il populismo di destra. Sono gli strati sociali spinti ai margini dai processi di globalizzazione? O a dare forza a quella protesta è una reazione culturale ai valori dell’establishment? O le motivazioni che rendono la maggioranza silenziosa sensibile al richiamo della destra vanno cercate altrove? Ovviamente allo stato attuale sarebbe ingenuo ritenere di poter dare risposte definitive, ma una serie di indagini ci consentono di cogliere alcune tendenze.
La maggioranza silenziosa di cui parlava Baudrillard quarant’anni fa era una prima prefigurazione dell’audience che – secondo l’efficace formula avanzata da Bernard Manin alla metà degli anni novanta – sarebbe diventata la principale destinataria dei messaggi dei leader politici dopo la crisi della “democrazia dei partiti” (Manin 1997). Quando Manin formulò la propria proposta, nel corso degli anni novanta, le democrazie mature vivevano il momento culminante della “fine della Storia”. Sconfitte tutte le alternative al progetto liberaldemocratico (e soprattutto l’alternativa socialista), e scomparsi dalla scena (o ridotti all’irrilevanza) i vecchi partiti antisistema, il “pubblico” protagonista delle scelte democratiche poteva apparire in fondo come il composto osservatore di una competizione politica sostanzialmente “centripeta”, nella quale la vittoria elettorale sembrava dipendere dalla conquista dal voto dell’elettore mediano, collocato al centro dello spettro politico e indeciso tra destra e sinistra. E la maggioranza silenziosa – pur irrappresentabile politicamente – pareva essere la severa custode della stabilità politica, contro ogni estremismo.
Vent’anni dopo le cose sono invece molto diverse. Lo stesso Manin ha riconosciuto che l’ipotesi della democrazia del pubblico sopravvalutava la portata dell’erosione dell’identificazione partitica, che, per quanto si sia col tempo certo indebolita, non è però del tutto svanita, o è stata sostituita da altre forme di identificazione (per esempio con il leader). Ma il punto principale è che – dopo l’esplosione della crisi del 2008 – il “pubblico” delle democrazie occidentali si è dimostrato molto più radicale di quanto si fosse pensato. E la maggioranza silenziosa – pur sempre recalcitrante rispetto a ogni stabile rappresentazione – si è rivelata spesso disposta concedere il proprio sostegno elettorale a partiti radicali o addirittura estremisti (almeno secondo i parametri dell’ultimo trentennio). La discussione sulle trasformazioni delle nostre democrazie è naturalmente destinata a proseguire a lungo. Ma è comunque difficile negare che nel corso dell’ultimo decennio la gran parte delle democrazie occidentali sia stata attraversata da forti tensioni, che si sono tradotte nella nascita e nel successo di nuove formazioni politiche, capaci in alcuni casi di far registrare notevoli performance elettorali. La gran parte dei nuovi partiti viene spesso ricondotta alla famiglia populista, ma si tratta di una classificazione non priva di problemi. […] Per quanto esista una differenza fra la tradizione della destra radicale ed il profilo delle nuove formazioni populiste, e nonostante si possano ravvisare anche esperienze politico-ideologiche espressione di un populismo di sinistra, si possono però nutrire ben pochi dubbi sul fatto che la gran parte delle compagini populiste (o neopopuliste) contemporanee si collochi nello spettro politico contemporaneo sul versante di destra. […] Al di là della definizione dei tratti specifici del populismo autoritario o di destra, l’ascesa dei movimenti e dei leader riconducibili a questa famiglia può essere studiata da diversi punti di vista, che considerano per esempio le tendenze populiste come conseguenza della trasformazione dell’offerta politica, del ricorso a determinati strumenti retorici da parte della classe politica, delle modificazioni tecnologiche che investono la relazione tra leader e masse, della presidenzializzazione che coinvolge buona parte dei sistemi politici occidentali, del ruolo che i sistemi elettorali esercitano sull’andamento della competizione politica.
Ma, naturalmente, quel successo può essere anche studiato ponendo lo sguardo principalmente sui settori sociali che sono particolarmente sensibili alle proposte populiste (e nazional-populiste). In questo caso, si tratta dunque di chiedersi chi compone la maggioranza silenziosa che guarda verso il populismo di destra. Sono gli strati sociali spinti ai margini dai processi di globalizzazione? O a dare forza a quella protesta è una reazione culturale ai valori dell’establishment? O le motivazioni che rendono la maggioranza silenziosa sensibile al richiamo della destra vanno cercate altrove? Ovviamente allo stato attuale sarebbe ingenuo ritenere di poter dare risposte definitive, ma una serie di indagini ci consentono di cogliere alcune tendenze.

Damiano Palano

giovedì 5 aprile 2018

Distopie e allegorie seriali. "The Walking Dead", "Black Mirror", "Westworld" e "Altered Carbon" - Un seminario con Massimo Scaglioni, Damiano Garofalo, Andrea Locatelli, Antonio Zotti e Damiano Palano - Mercoledì 11 aprile 2018, ore 16.30 - Università Cattolica (Milano)




Distopie e allegorie seriali. The Walking Dead, Black Mirror, Westworld e Altered Carbon

Mercoledì 11 aprile - ore 16.30

Università Cattolica
Largo Gemelli 1 - Milano
Aula G.129 - San Paolo

Introduce e modera
Damiano Palano

Partecipano

Damiano Garofalo
Andrea Locatelli
Massimo Scaglioni
Antonio Zotti

mercoledì 4 aprile 2018

La radice del populismo è il «disagio» della libertà? Un libro di Mattia Ferraresi



Di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Mattia Ferraresi, Il secolo greve. Alle origini del nuovo disordine mondiale (Marsilio, pp. 175, euro 16.00), è apparsa su "Avvenire" il 20 febbraio 2018. 

Nel corso del primo anno trascorso alla Casa Bianca, i mutamenti della squadra di governo, le gaffe, i veri e presunti scandali hanno accompagnato quasi quotidianamente il cammino di Donald Trump. Non è d’altronde ancora chiaro quale impronta il miliardario newyorkese darà alla sua presidenza. E qualcuno dubita anche che riuscirà a portare a termine il suo mandato. Ciò nonostante Trump ha già lasciato una traccia profonda nella cultura americana. Non certo perché The Art of the Deal e gli altri suoi libri in cui spiega come avere successo nella vita siano entrati nel pantheon della letteratura d’Oltreoceano. Ma perché la sua vittoria alle presidenziali del 2016 ha causato per molti intellettuali un vero e proprio shock. Qualcuno ha iniziato a contestare il nuovo inquilino della Casa Bianca con un vigore sconosciuto nella politica americana, indicando nel «populismo» una minaccia per la democrazia e per i valori del pluralismo. Altri hanno invece cercato di trovare la spiegazione di quel successo dentro le trasformazioni della società. E – un po’ come faceva Erich Fromm in Fuga dalla libertà per spiegare l’ascesa dei fascismi – ne hanno rinvenuto le cause più profonde nel fallimento della promessa liberale al cuore dell’american dream.
È proprio questa la strada che segue anche Mattia Ferraresi, corrispondente dagli Stati Uniti per «il Foglio» e raffinato osservatore della politica americana nel suo Il secolo greve. Alle origini del nuovo disordine mondiale (Marsilio, pp. 175, euro 16.00). L’obiettivo è innanzitutto contrastare l’immagine di una democrazia liberale assediata dai «barbari» e portare alla luce quei processi che consentono di spiegare per quale motivo una fetta consistente della società americana abbia visto in Trump un credibile portavoce del proprio disagio. La fortuna dei leader e dei partiti populisti nasce infatti da quella che Ferraresi non esita a definire una «crisi esistenziale». Una «crisi» che ha innanzitutto motivazioni economiche L’immagine di un’America in forte ripresa economica, capace di lasciarsi alle spalle i ricordi della vecchia crisi, ha infatti qualcosa di vero, ma secondo Ferraresi finisce col dimenticare una serie di aspetti. Per esempio non considera l’esclusione dal mondo del lavoro di cui è vittima una parte tutt’altro che residuale della popolazione adulta, risucchiata dalla disoccupazione di «lungo periodo». Ma occulta anche la dilatazione della «classe criminale», composta da circa 2,3 milioni di detenuti nelle prigioni a stelle strisce (per un rapporto di 707 detenuti ogni 100 mila abitanti), la diffusione di oppiacei e di sostanze stupefacenti, la crescente solitudine di cui si sentirebbe vittima il 28% degli americani. Il successo di Trump, secondo Ferraresi, sarebbe invece venuto proprio da qui. Nelle elezioni del 2016 non è comunque emersa una «coscienza della classe disperata». Più semplicemente, la forza distruttrice del personaggio ha fatto breccia in un elettorato che si è lasciato sedurre dalla promessa di restaurare un passato perduto.
Il senso di disperazione che Ferraresi ritrova in America è in realtà una condizione più generale, che anche nel Vecchio continente è alle radici della fortuna delle formazioni «populiste». La «crisi esistenziale» non ha però solo una matrice economica. La «grande disillusione» contemporanea sembra infatti il sintomo di un disagio più radicale, per il quale il liberalismo non ha alcuna cura. Si tratta, in altre parole, del riflesso di quella contraddizione che lacera ‘strutturalmente’ la promessa liberale. È la condizione che scaturisce dalla disillusione rispetto alle promesse di auto-compimento della modernità: una sistematica frustrazione che «deriva dalla scoperta che perfino il più duttile degli ideali, grandioso propulsore di prosperità materiale e diritti, non ha strumenti per rispondere adeguatamente alle domande intorno al senso dell’esistenza, non crea rapporti umani duraturi, non genera certezze esistenziali, ma ingigantisce ansie e fragilità».
La spiegazione ‘filosofica’ che Ferraresi propone coglie senza dubbio alcuni aspetti di una crisi che effettivamente non si può ridurre né alla dimensione economica né tantomeno al risentimento nei confronti dell’establishment. Ma la novità – che alimenta la frustrazione dinanzi all’ottimismo dell’umanesimo progressista – è soprattutto che per l’Occidente la «Storia» sembra davvero finita, come voleva lo slogan di Fukuyama. La democrazia e il liberalismo definiscono un orizzonte privo di alternative. E il «populismo» – o comunque si voglia chiamare l’insieme di tensioni che attraversano le nostre società – diventa allora la forma di un disagio incapace di formulare risposte e di pensare il «progresso» in modo diverso dall’evoluzione tecnologica e dalla dilatazione del presente.


 Damiano Palano