domenica 30 dicembre 2012

I partiti in un vicolo cieco. Un libro di Piero Ignazi sul passato e sul presente dei partiti


di Damiano Palano


Questa recensione è apparsa su "Avvenire" del 29 dicembre 2012

Verso la fine del Trecento, Baldo degli Ubaldi scriveva che la divisione nelle città era destinata a produrre gli stessi effetti dell’ingresso dei vermi nel formaggio, perché la nascita delle fazioni doveva fatalmente condurre alla dissoluzione del corpo politico. Naturalmente, Baldo si riferiva soprattutto all’esperienza delle repubbliche cittadine italiane e al declino delle istituzioni comunali, ma la sua posizione non era affatto eccezionale. Nell’intera storia del pensiero politico occidentale, la condanna delle fazioni e dei partiti è infatti un motivo quasi invariabilmente ribadito in ogni periodo, dall’Atene di Pericle fino alla grande stagione della dottrina dello Stato ottocentesca. Qualcosa di radicalmente nuovo avviene solo sul finire del ‘700 nel parlamento britannico, quando si inizia a fare strada l’idea che i partiti siano “connessioni onorevoli”. Ma le cose cambiano soprattutto al principio del Novecento, con l’affermazione delle grandi organizzazioni di massa. Ed è in questo momento che i partiti cessano di essere percepiti come un fenomeno deteriore da biasimare, per diventare gli autentici protagonisti del secolo. Nel suo Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti (Laterza, pp. 138, pp. 14.00), Piero Ignazi ricostruisce proprio le tappe cruciali di questa lunga vicenda storica. Ma il punto di partenza da cui muove l’analisi del politologo è lo stato di salute – tutt’altro che rassicurante – dei partiti contemporanei. La sfiducia dei cittadini nei loro confronti fa registrare infatti livelli elevatissimi in tutte le democrazie occidentali, e anche il numero degli iscritti cala di anno in anno. Tanto che, se nell’Europa degli anni Settanta circa un cittadino su dieci era membro di un partito, oggi quel valore risulta più che dimezzato. Pare allora che il lungo e tormentato viaggio dei partiti debba concludersi in modo inglorioso. E che, dopo uno sforzo più che millenario per essere accettati, perdano tutto il loro prestigio. 
Anche se negli ultimi anni lo sgretolamento della legittimità dei partiti è diventato più evidente, le radici di questo processo affondano negli anni Sessanta. In questa fase – come mostra Ignazi – i vecchi partiti di massa incominciano ad allentare i legami con le ideologie e le identità subculturali di riferimento. E, a partire dagli anni Ottanta, prendono inoltre a ‘cartellizzarsi’, nel senso che diventano sempre più simili tra loro e instaurano un rapporto simbiotico con lo Stato. Le relazioni con il territorio, con la base degli iscritti e i militanti vengono progressivamente ad assottigliarsi, fino a dissolversi. Per un verso, dunque, i partiti si allontanano sempre più dalla società, mentre, dall’altro, le necessità della campagna elettorale permanente impongono vertici sempre più accentrati, oltre che dotati di imponenti risorse comunicative e finanziarie. Risorse che non vengono più garantite dalle quote pagate dagli iscritti, bensì dal finanziamento pubblico, dalla colonizzazione dell’amministrazione, dal clientelismo. 
Proprio grazie a queste risorse, oggi i partiti sono molto più potenti e ricchi dei vecchi partiti di massa. Ma questa forza – come recita il titolo del volume di Ignazi – risulta sempre più priva di legittimità. E sono proprio i partiti a demolire progressivamente il loro stesso mito. Come osserva il politologo, “mostrano tutte le rughe di ogni organizzazione complessa, piena di interessi materiali e personali”, e “non incarnano più quegli ideali di passione e dedizione, di impegno e convinzioni che essi stessi sbandieravano come connaturati alla loro esistenza”. Così, molti cittadini vedono nei partiti soltanto dei Leviatani sgraziati e ingordi, dei giganti sempre più potenti, i cui piedi d’argilla appaiono però di giorno in giorno più fragili. Giganti che certo sono destinati a dominare ancora a lungo la scena delle nostre democrazie. Ma che possono tornare a riconquistare la legittimità perduta solo tornando a ricucire, con il filo della politica, il rapporto con la società

Damiano Palano

venerdì 21 dicembre 2012

La legge dell’oligopolio. Ovvero, perché non c’è spazio per il centro


di Damiano Palano


Non era difficile immaginare che Silvio Berlusconi non sarebbe affatto uscito di scena dopo la caduta del suo governo. E non era neppure troppo complicato immaginare che, dopo tanti impegni e proclami, la riforma della legge elettorale sarebbe rimasta lettera morta. A spingere in questa direzione stava infatti l'interesse di entrambi gli oligopolisti del sistema politico italiano a conservare saldamente la loro posizione di forza. La breve riflessione che segue - apparsa sul sito dell'Istituto di Politica - cerca di esplicitarne le motivazioni.  

Dopo essere quasi scomparso dalla geografia della ‘Seconda Repubblica’, il centro sembra debba tornare a giocare un ruolo rilevante sulla scena politica italiana. Se nella stagione del bipolarismo “centro” era infatti soltanto una paroletta evocata per ingentilire la brutalità – reale o presunta – di termini come “destra” e “sinistra”, oggi l’idea che le forze che si collocano nella fascia mediana dello spettro politico abbiano una loro autonomia – da riconoscere e valorizzare – pare essere diventato un luogo comune. Tanto che in quest’area già piuttosto affollata di pretendenti – e peraltro fino ad ora non certo accreditata dai sondaggi di grandi risultati – sono cresciute nelle ultime settimane molteplici proposte di nuove formazioni, di cartelli elettorali, di liste civiche nazionali, di cui l’attuale Presidente del Consiglio rimane l’inevitabile riferimento, oltre che il possibile collante.
A pesare sulle sorti elettorali del centro, e sulla possibilità che il centro conquisti davvero una propria autonomia dalla destra e dalla sinistra, è però l’attuale legge elettorale. Benché dal momento in cui è stata concepita e varata sia stata oggetto di biasimo generalizzato, se non addirittura del dileggio propalato dalla stessa classe politica, e nonostante il Presidente della Repubblica abbia periodicamente ammonito il Parlamento sull’urgenza di giungere a una modifica del testo, la ‘legge Calderoli’ rimane ancora oggi in vigore, e gli italiani si apprestano dunque a votare per la terza volta con il cosiddetto ‘Porcellum’. I motivi per cui i buoni propositi dichiarati dai partiti non hanno avuto alcun seguito sono naturalmente complessi. E, d’altronde, è scontato che modificare le regole con cui i voti vengono trasformati in seggi pochi mesi (o addirittura poche settimane) prima dell’appuntamento elettorale sia un’operazione ben più difficile – oltre che forse eticamente discutibile – che introdurre dei cambiamenti all’inizio della legislatura. Per il semplice motivo che le attese sui risultati si fanno più credibili quanto più ci si avvicina al momento del voto e che i calcoli sui vantaggi che si otterrebbero (o sui costi che si dovrebbero sopportare) adottando un determinato sistema finiscono col dissolvere il ‘velo di ignoranza’ in qualche misura necessario per giungere a una decisione condivisa su questo tema. Ma non è solo questo il motivo per cui non si è giunti alla riforma della legge elettorale vigente. E non è stata neppure – come spesso è stato sostenuto dai fustigatori del vizi della «Casta» – solo la volontà di conservare il potere di ‘nominare’ gli eletti che di fatto il sistema vigente consegna ai vertici dei partiti. Naturalmente l’ipotesi di reintrodurre le preferenze, invocata a gran voce come strumento per aumentare il potere di controllo degli elettori sugli eletti, ha avuto il suo peso nell’arenare del dibattito. Ma queste considerazioni hanno giocato un ruolo probabilmente secondario rispetto alla logica ben più pressante che ha orientato le principali forze presenti in Parlamento verso il mantenimento della legge vigente. Una logica e che va individuata – com’è in larga parte scontato – proprio negli effetti, più o meno consapevolmente voluti, del ‘Porcellum’.


L’attuale sistema elettorale non produce infatti le condizioni della ‘governabilità’, perché – come si è sperimentato nel 2006 – l’assegnazione del premio di maggioranza con criteri diversi alla Camera e al Senato non rende affatto scontata la formazione di una maggioranza omogenea nei due rami del Parlamento (e soprattutto non assicura neppure che al Senato si formi una maggioranza). Se non produce la tanto sospirata ‘governabilità’, il ‘Porcellum’ tende però a produrre la costituzione di un oligopolio, o, meglio, di un duopolio. Ad agire in questa direzione non sono tanto le soglie di sbarramento, esplicite o implicite, che impediscono alle piccole forze politiche, che non fanno parte di grandi coalizioni, di entrare in Parlamento. A spingere in questo senso è soprattutto l’assegnazione, alla Camera, del premio di maggioranza a quella coalizione (o lista non collegata) che, avendo superato la soglia del 10%, abbia ottenuto la maggioranza relativa dei suffragi. La logica della disposizione è quella di assegnare un ‘premio’ che consenta la governabilità, ma un effetto ancor più rilevante è quello di favorire l’adozione, da parte dell’elettore, della logica del ‘voto utile’. Per esempio, se un elettore di sinistra è combattuto fra l’alternativa tra dare il proprio voto alla Federazione della Sinistra o sostenere la coalizione elettorale formata dal Partito Democratico e da Sinistra Ecologia e Libertà, molto probabilmente tenderà a optare alla fine per questa seconda ipotesi, per almeno tre motivi: in primo luogo, perché avrà il forte timore che il proprio voto si riveli del tutto inutile, perché la Federazione della Sinistra potrebbe non superare la soglia del 4%; in secondo luogo, perché il suo obiettivo diventerà piuttosto ‘spostare a sinistra’ la coalizione di centro-sinistra (un obiettivo che può essere perseguito proprio evitando di ‘disperdere il voto’ in liste minori); in terzo luogo, perché avrà ben chiaro che l’unico modo per evitare la vittoria dell’avversario – ossia della coalizione di destra, o di centro-destra – è far confluire il proprio voto su quella forza che ha maggiori possibilità di giocarsi sul filo di lana la vittoria. In altre parole, esistono forti pressioni ‘sistemiche’ (ossia esterne ai singoli partiti) che fanno sì che l’elettore tenda a convergere su una delle due coalizioni dominanti, o su quelle coalizioni che siano percepite come tali. E queste pressioni ‘sistemiche’ possono attenuarsi solo nel caso in cui diventi poco probabile che nessuna delle coalizioni riesca a ottenere il premio di maggioranza. Ma con l’attuale sistema elettorale, un’ipotesi del genere è del tutto esclusa (anche perché è piuttosto improbabile, benché tecnicamente possibile, che nessuna coalizione superi la soglia del 10%).
Questa sorta di ‘legge dell’oligopolio’, come noto, ha prodotto risultati diversi nelle ultime due elezioni. Nel 2006, la pressione sistemica raggiunse forse il livello più elevato, con la formazione di due coalizioni enormi, che, seguendo la stessa logica che guida la corsa agli armamenti, spinse il centro-sinistra e il centro-destra a imbarcare quanti più alleati (anche piccoli, persino minuscoli) possibile, perché, in fondo, un minimo scarto di qualche migliaio di voti poteva risultare decisivo, come poi è in parte accaduto. Nel 2008, il ‘Porcellum’ ha invece prodotto un risultato diverso, ma anche in questo caso la legge dell’oligopolio ha funzionato. Se la scelta del Partito Democratico di Walter Veltroni di correre da solo (con il supporto esclusivamente dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro) non fu certo in grado di consentire di competere con la coalizione avversaria, quella decisione si dimostrò invece straordinariamente efficace nel ‘taglio dei cespugli’, ossia nell’eliminazione della sinistra radicale dalle aule del Parlamento. In questo caso, oltre alla evidente disillusione seguita alle disavventure del governo di Romano Prodi, una parte rilevante venne giocata proprio dal ‘voto utile’, ossia dalla percezione che solo facendo convergere il proprio voto verso il Pd l’elettore di sinistra avrebbe potuto arginare, se non scongiurare, la vittoria del Pdl. 
La comprensione del potere offerto dal Porcellum ai partiti ‘oligopolisti’  – un potere forse neppure previsto da chi congegnò la legge – rimane probabilmente la principale (se non addirittura l’unica) vittoria politica di Walter Veltroni. In effetti, il primo a cogliere l’importanza della rendita di posizione offerta ai grandi partiti dalla legge Calderoli fu proprio l’ex sindaco di Roma e oggi acclamato romanziere, che intuì come il Pd e il Pdl – proprio come gli attori di un mercato oligopolistico – potessero erigere una sorta di barriera all’ingresso del mercato elettorale, decidendo, ciascuno nel proprio campo, di ‘tagliare i cespugli’. Perché, in sostanza, il ‘Porcellum’ non fornisce soltanto un forte incentivo a formare coalizioni per impedire che l’avversario ottenga quella manciata di voti in più sufficiente per accaparrarsi il premio di maggioranza. Più specificamente, il sistema elettorale vigente consegna ai due principali attori – ossia quegli attori che sono capaci (o che vengono percepiti come tali) di competere per la vittoria – il potere di fissare di fissare le regole per entrare a far parte della coalizione: concedendo ai piccoli partiti di continuare a esistere, inducendoli ad accettare l’incorporazione, oppure costringendoli a combattere, fuori dal perimetro della coalizione, per superare la soglia di sbarramento. 
È scontato come la legge dell’oligopolio tenda oggi a favorire proprio il Pd, che, dinanzi a un centro-destra in crisi di identità e di organizzazione, viene accreditato come il vincitore delle prossime elezioni. Secondo gli attuali sondaggi elettorali, il Pd potrebbe addirittura pensare di poter vincere le elezioni, accaparrandosi il premio di maggioranza alla Camera, persino correndo da solo, ossia rinunciando all’alleanza con Sel. Ed era perciò piuttosto scontato che il Pd sia stato il principale avversario di una revisione del ‘Porcellum’, nonostante si sia spesso dichiarato negli ultimi anni come ferocemente avverso al vigente sistema elettorale. D’altronde, la percezione di questi mesi è che il Pd si trovi dinanzi all’equivalente politico del ‘gol a porta vuota’, perché si trova – o, meglio, si è trovato fino a questo momento – privo di avversari credibili e accreditato dai sondaggi di circa dodici-quindici punti dal secondo partito (che peraltro sembrerebbe essere il Movimento 5 Stelle, e non il Pdl). Ovviamente è bene dare alle rilevazioni delle intenzioni di voto un peso relativo, ed è opportuno non dimenticare che il Pds, nel 1994, si trovò dinanzi a una situazione in fondo molto simile a quella odierna, e cioè a previsioni di vittoria clamorosamente smentite dagli ultimi due mesi di campagna elettorale e dal responso delle urne. Ma, paradossalmente, se è stata proprio la previsione di una vittoria (tutto sommato agevole) a spingere il Pd a resistere a ogni ipotesi di modifica della legge elettorale, potrebbe essere proprio questa scelta a dare risultati inaspettati. Perché proprio la conservazione del ‘Porcellum’ imprime una fortissima spinta al ritorno in scena di Silvio Berlusconi. Ma, soprattutto, perché la legge Calderoli assegna al leader del Pdl quella posizione oligopolista che, di fatto, potrebbe impedire al centro di conquistare una rilevanza politica.
Al di là della questione delle preferenze, a spingere il Pdl a non abbandonare la legge Calderoli è stata d’altronde proprio la consapevolezza che il vigente sistema elettorale consegna a questo partito (o, meglio, al suo leader) una rendita oligopolistica ancora rilevante. Beninteso, si tratta di una rendita logorata dal tempo e dagli insuccessi, come tendono a registrare i sondaggi. Ma si tratta ancora di una rendita importante, che consente un vantaggio cruciale a Berlusconi. Il punto discriminante non sta tanto nella possibilità di competere con il Pd, quanto nella distanza che separa il Pdl dalle formazioni di centro. E, dato che questa distanza appare tutto sommato notevole (e probabilmente incolmabile), la pressione alla logica del ‘voto utile’ è destinata ad aumentare, favorendo proprio l’assetto del duopolio. In altre parole, è piuttosto prevedibile che l’elettore di centro-destra – incerto se votare al centro o a destra – tenderà a privilegiare il contendente che ha maggiori possibilità (o, meglio, quella forza che viene percepita come maggiormente in grado) di contrastare la coalizione di sinistra, ossia proprio la coalizione guidata da Silvio Berlusconi. Anche perché, se in Italia le identificazioni partitiche negli ultimi vent’anni si sono indebolite, non si sono certo disgregate, e tendono piuttosto a ridefinirsi in termini di fedeltà di coalizione e a essere dunque sostenute dall’ostilità verso quella che viene percepita come la parte avversaria.


Che a queste logiche sistemiche si debbano aggiungere altri elementi – dalla freddezza dell’elettore di destra per il Presidente Monti, all’abilità di una campagna capace di rivitalizzare le più radicate divisioni politiche – è in fondo quasi scontato. Ma il punto è che tutti questi elementi finiscono col rendere molto forte la spinta a una nuova ‘discesa in campo’ del fondatore di Forza Italia. Certo questa spinta può essere ostacolata dall’intervento di altri fattori, per così dire, extra-sistemici. Ma la sensazione – a circa due mesi dal voto – è che la mancata modifica della legge elettorale, al di là del responso che forniranno le urne, debba risolversi nella vittoria dei due oligopolisti della politica italiana. Che il centro – al di là della configurazione politica che assumerà, o del ruolo che assumerà Mario Monti – rimarrà soffocato dal duopolio. E che il dibattito politico italiano continuerà a essere dominato dalla paradossale contrapposizione ideologica fra due poli privi di ideologie.

Damiano Palano





mercoledì 19 dicembre 2012

La democrazia e il nemico. Saggi per una teoria realistica. In questi giorni in libreria





Damiano Palano
La democrazia e il nemico. Saggi per una teoria realistica, Mimesis, Milano, 2012, pp. 140, euro 14.00

Esce in questi giorni nelle migliori librerie "La democrazia e il nemico. Saggi per una teoria realistica", un nuovo volume di Damiano Palano

Nei prossimi anni la ricerca sulle trasformazioni politiche che stiamo vivendo non si troverà alle prese soltanto con le incognite di un sistema «multipolare» o «apolare» che non ha precedenti storici. Un problema altrettanto rilevante sarà costituito dal ripensamento delle categorie analitiche forgiate nel corso del Novecento. Dopo la conclusione dell’«era americana», lo stesso concetto di «democrazia» - cesellato da più di mezzo secolo di instancabile lavorìo intellettuale – rischia infatti di tramutarsi, da prezioso strumento di indagine, in un ostacolo per quanti vogliano decifrare il disegno della trasformazione contemporanea. Una nuova teoria ‘realistica’ – cui questo volume cerca di fornire un contributo – deve invece perseguire l’obiettivo di sottrarre la democrazia contemporanea a quell’orizzonte post-storico e post-politico in cui l’immaginario occidentale ne ha incardinato la sagoma stilizzata. In altre parole, deve riconoscere che la democrazia contemporanea è un fatto storico, il prodotto di un «armistizio» forgiato nella temperie della «guerra civile mondiale». Solo percorrendo la strada che conduce verso una nuova teoria ‘realistica’, si possono infatti riconquistare gli strumenti per comprendere davvero le insidie del «mondo post-americano». Ma, soprattutto, solo seguendo questo stesso sentiero, diventa possibile uscire dal circolo vizioso dell’immaginario ‘post-storico’ occidentale. Un immaginario che – mentre celebra la democrazia contemporanea come la forma immutabile in cui si conclude l’evoluzione ideologica del genere umano – è destinato a rivivere costantemente l’incubo di «alieni» terrificanti, inafferrabili, multiformi. E a trasformare la lotta per la democrazia in un’interminabile guerra di sterminio contro tutti i «nemici del genere umano».

domenica 9 dicembre 2012

Una guida indiana per Obama. Il nuovo libro di Charles Kupchan





di Damiano Palano

Questa recensione è apparsa, con il titolo Obama, impara dagli indiani!, su "Avvenire" di sabato 8 dicembre 2012. 

Il cinema western ha sempre rappresentato i ‘pellerossa’ come bellicosi e sanguinari. In effetti le tribù dei nativi americani furono spesso impegnate in lotte estremamente violente. Ma si rivelarono anche capaci di costruire le basi di una pace duratura. Attorno al 1450, un guerriero chiamato Hiawatha riuscì infatti a convincere le cinque nazioni irochesi – le tribù che popolavano la zona settentrionale dell’attuale Stato di New York – a porre fine a una lunga sequela di stermini e vendette. Le tribù giunsero così a una pacificazione, ma soprattutto decisero di formare una Confederazione unitaria, che prevedeva anche procedure per risolvere le controversie, per gestire una politica estera comune e per regolamentare l’ingresso di nuove gruppi. E proprio questi meccanismi riuscirono a garantire la pace tra le cinque nazioni per più di tre secoli. Finché, nel 1777, la guerra d’indipendenza americana spinse gli Oneida e i Tuscarora contro le altre tribù irochesi, schierate dalla parte inglese.
Per quanto la vicenda della Confederazione irochese possa apparire poco più che una curiosità storica, è anche da questo esempio che prende le mosse il ragionamento sviluppato da Charles Kucpchan nel suo recente Come trasformare i nemici. Le radici di una pace duratura (Fazi, pp. 653, euro 19.50). In effetti, le domanda che affronta il politologo americano sono le stesse che si posero gli irochesi: come si possa mettere fine all’inimicizia fra i popoli, e come si possa costruire una zona di pace stabile, all’interno della quale i singoli Stati rinunciano a ricorrere allo strumento militare per risolvere le loro controversie. E, per rispondere a questi interrogativi, Kupchan guarda a una molteplicità di unioni, più o meno formalizzate, come il Concerto europeo successivo al 1815, la Comunità Europea, o l’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico. 
Kupchan si rivolge alla storia con una profondità largamente sconosciuta alla gran parte dei politologi americani. E, in questo senso, i modelli cui attinge sembrano essere soprattutto gli studi di straordinari conoscitori dei sistemi internazionali del passato come Martin Wight ed Hedley Bull. Ma Come trasformare i nemici in amici non si rivolge soltanto agli accademici. Ha infatti l’obiettivo esplicito di incidere anche sulle scelte della Casa Bianca nel prossimo futuro. In qualche misura, infatti, la proposta di Kupchan diverge nettamente da due convinzioni ancora oggi piuttosto forti a Washington. In primo luogo, l’idea che la diffusione della democrazia sia una garanzia di pace (dal momento che le democrazie non si fanno la guerra). E, in secondo luogo, la tesi secondo cui l’interdipendenza economica è uno strumento fondamentale per promuovere la pace. In realtà sostiene Kupchan, le radici di una pace stabile non stanno né nella democrazia, né nell’interdipendenza economica, ma si trovano in altre tre condizioni: nella moderazione istituzionale, in ordini sociali compatibili e in una comunanza culturale. Solo se queste tre condizioni si presentano, si può effettivamente avviare la costruzione di una zona di pace stabile. E, quando questo avviene, il processo si svolge più o meno in quattro fasi. Innanzitutto, uno Stato che si vede minacciato su più fronti, decide di offrire concessioni all’avversario. A questo primo passo seguono poi la moderazione reciproca, una più profonda integrazione sociale tra gli Stati partner, e infine la genesi di nuove identità politiche comuni.
Dal punto di vista politico, l’analisi di Kupchan suggerisce agli Stati Uniti una linea ben precisa. In primo luogo, si tratta di abbandonare i grandi progetti di ‘esportazione della democrazia’ e di riscoprire la vecchia diplomazia. Ma, in secondo luogo, diventa cruciale soprattutto cercare di costruire la pace ‘a pezzi’, coinvolgendo cioè gli Stati confinanti e appartenenti a una stessa regione. Nonostante le incertezze, dopo il 2008 Barack Obama ha imboccato proprio questa strada. I prossimi anni ci diranno se il presidente insisterà ancora su questo percorso, o se cambierà la propria rotta, nel timore che una moderazione strategica possa essere considerata come una rischiosa concessione a rivali sempre più minacciosi. La convinzione di Kupchan è però che la guida migliore per affrontare le insidie del ‘mondo post-americano’ sia ancora l’idea del vecchio guerriero Hiawatha. Un’idea secondo cui costruire una pace stabile è possibile. E secondo cui i nemici di ieri possono diventare gli amici di domani.

Damiano Palano


mercoledì 21 novembre 2012

Il romanzo criminale di Cesare Lombroso. Rileggere "L'uomo delinquente"







di Damiano Palano

Quando Cesare Lombroso morì, nel 1909, Agostino Gemelli scrisse che, insieme ai funerali dell’uomo, si celebravano anche quelli della sua dottrina. In effetti, con il suo giudizio il fondatore dell’Università Cattolica – e studioso di psicologia sperimentale – registrava un elemento reale. L’entusiasmo per il positivismo si era allora quasi completamente dissolto, mentre la rinascita neo-idealista stava guadagnando terreno. Proprio Lombroso e la sua dottrina, i simboli paradigmatici della fiducia risposta nella scienza, dovevano essere fra i primi a fare le spese del nuovo clima. La sua ‘scuola di antropologia criminale’ continuò a resistere per qualche anno, ma perse comunque gran parte del fascino e dell’influenza che aveva esercitato negli ultimi due decenni dell’Ottocento. E, così, lo psichiatra divenne un simbolo – o forse addirittura la caricatura – delle ingenuità della stagione positivista.
Dopo un secolo, negli ultimi anni si stanno registrando i segnali di un nuovo interesse per la figura di Lombroso. Nel centenario della morte, libri e convegni sono tornati a interrogarsi sulla sua riflessione, e persino il Museo di Antropologia Criminale, che Lombroso istituì a Torino, ha riaperto al pubblico. Ora, viene anche ripubblicato, con la cura di Lucia Rodler, il testo principale dello psichiatra, L’uomo delinquente studiato in rapporto all’antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie (Il Mulino, pp. 437, euro 33.00).  
La nuova attenzione per Lombroso potrebbe destare più di qualche inquietudine, se fosse dettata dall’obiettivo di riabilitare le teorie dello psichiatra, o dal tentativo di rinvenire nei suoi studi un’anticipazione della criminologia contemporanea. Ma, probabilmente, l’interesse che ancora oggi attira il ‘caso Lombroso’ è dovuto ad altri motivi. Ed è legato soprattutto al successo che quelle teorie ebbero nell’Europa fin de siècle.
A ben vedere, la straordinaria popolarità di Lombroso non era dovuta né all’originalità delle sue ipotesi, né al rigore delle sue ricerche. Era piuttosto connessa alla sua grande capacità di rivestire di abiti apparentemente scientifici i più consolidati luoghi comuni o le più fantasiose supposizioni. La fama di Lombroso è in effetti legata alla cosiddetta teoria dell’atavismo, una teoria secondo cui i criminali sarebbero in sostanza il risultato di un arresto nel processo evolutivo: uomini e donne dalla psicologia ‘primitiva’, incapaci di adattarsi alle regole della società moderna, e che per questo continuano a utilizzare le armi di un mondo primordiale. Nell’Uomo delinquente (e soprattutto nella sua prima edizione, apparsa nel 1876), Lombroso espose effettivamente questa teoria, e cercò di riconoscere negli ospiti delle carceri del Regno i segni dell’atavismo: anomalie fisiche e soprattutto nella struttura del cranio. In seguito, lo psichiatra rivide però questa teoria, pur senza sconfessarla. E ipotizzò anche l’intervento di altri fattori, che potevano spiegare le varie condotte criminali. 
Nelle pagine dell’Uomo delinquente, non si trova così una teoria ben precisa sulla genesi del crimine. Si trovano piuttosto teorie differenti, neppure del tutto compatibili fra loro, affastellate l’una sull’altra, spesso senza reale sistematizzazione. In quelle pagine, così come nella sterminata produzione lombrosiana, ci si imbatte invece in una straordinaria galleria di volti criminali. Una galleria in cui i casi reali (spesso deformati) si affiancano a quelli letterari, in un intreccio inestricabile fra scienza e letteratura. E, probabilmente, il vero motivo del successo di Lombroso stava proprio qui. Aprendo ai ‘profani’ le porte del suo laboratorio, lo psichiatra dava al pubblico dell’Italia fin de siècle l’illusione di penetrare i recessi più riposti dell’animo umano. L’illusione di poter risolvere quei casi di cronaca nera cui la grande stampa iniziava a dare spazio. E, dunque, di squarciare il velo dei misteri criminali con il bisturi della nuova scienza.
Certo si può considerare Lombroso come un ispiratore di quei filoni scientifici che oggi puntano a trovare a livello genetico le determinanti del comportamento criminale. Ma Lombroso fu soprattutto un precursore della contemporanea criminologia prêt-à-porter, dell’ossessione macabra per i delitti che riempie le pagine dei giornali e i palinsesti televisivi. E forse per questo vale oggi la pena di rileggere L’uomo delinquente. Non come un testo scientifico, ma come un fortunato romanzo popolare.

Damiano Palano

lunedì 12 novembre 2012

La democrazia della sorveglianza. Un libro di Emilio Raffaele Papa


di Damiano Palano

Una leggenda, evocata da Hannah Arendt, racconta che un cavaliere attraversò il lago di Costanza senza neppure sospettare di muoversi su una sottilissima lastra di ghiaccio. Giunto sulla riva opposta del lago e compreso il terribile rischio che aveva corso, il cavaliere ne rimase talmente scosso da morire per lo spavento. È proprio con l’immagine del cavaliere di Costanza che si chiude la riflessione sviluppata da Emilio Raffaele Papa nel suo recente L’altra faccia della democrazia. Per una democrazia della sorveglianza (Piero Lacaita Editore, pp. 162, euro 15.00). Un po’ come il leggendario cavaliere, anche la democrazia occidentale ha camminato infatti per quasi mezzo secolo sul sottile strato ghiacciato della Guerra fredda. E, come il cavaliere, sembra paradossalmente entrare in crisi proprio nel momento in cui i suoi zoccoli non poggiano più sulla fragile superficie dell’equilibrio bipolare.
Partendo dalle sfide con cui si trovano oggi alle prese i nostri sistemi politici, il volume di Papa – congegnato come un trattatello settecentesco, e non privo di spunti polemici nei confronti di molti ricorrenti luoghi comuni politologici – ripercorre la storia della democrazia occidentale, dalle origini greche fino alle trasformazioni contemporanee. E il punto critico su cui attira l’attenzione è costituito soprattutto dalla progressiva atrofia delle assemblee elettive e dei partiti politici, ossia proprio di quegli organi cui in passato erano affidate le funzioni principali della rappresentanza politica. Naturalmente, le motivazioni alla base di tali trasformazioni sono complesse, e rimandano peraltro a un cambiamento più generale. Un cambiamento che sembra condurre a quella che Papa – mutuando una suggestiva espressione di Jacquex Géneréux – definisce come una «dissocietà»: una società di individui ‘dissociati’, sempre meno inclini alla partecipazione civica e sempre più ripiegati sugli interessi privati. Proprio questa «dissocietà», così vicina alla folla di individui egoisti prefigurata da Tocqueville, non può che inaridire il terreno su cui si reggono le istituzioni democratiche. Ed è infatti in questo contesto che proliferano sia la protesta antipolitica, sia la ricerca di soluzioni carismatiche.
A differenza del cavaliere del lago di Costanza, la democrazia occidentale è però ben consapevole dei rischi che ha corso. E, secondo Papa, ha anche le risorse per proiettarsi verso un nuovo avvenire. La strada indicata da Papa non passa comunque dai tradizionali meccanismi della rappresentanza, bensì da una consapevole «democrazia della sorveglianza», ossia da una riscoperta dell’istituto del defensor civitas. Ma il difensore civico nazionale cui pensa Papa non è un organo di accertamento, di denuncia, di dialettica. Si tratta infatti un organo di controllo. Un organo che dovrebbe tutelare i cittadini, ma che, al tempo stesso, dovrebbe essere sottratto alla logica delle contrapposizioni partigiane.
La «democrazia della sorveglianza» profilata da Papa sembra per molti versi riprendere la tradizione svedese dell’Ombudsman. Ma, da un certo punto di vista, pare anche attualizzare l’istituto romano del tribunato della plebe. E il merito principale della proposta consiste d’altronde nel tentativo di rispondere in termini originali alle difficoltà che sperimentano i sistemi rappresentativi. Se non altro perché prende atto della crescente divaricazione fra apparati politici e cittadini che abbiamo sotto gli occhi. Una divaricazione che forse non trasforma il ‘popolo’ in una ‘plebe’. Ma che, probabilmente, anche nei prossimi anni non è destinata ad attenuarsi.

Damiano Palano

lunedì 29 ottobre 2012

Neanche il web salva la politica. Un libro di Cristian Vaccari


di Damiano Palano

Questa recensione è apparsa su "Avvenire" il 27 ottobre 2012.



Delle vecchie utopie cyberpunk oggi è ormai rimasto in piedi ben poco, ma la speranza che dalla rete possa nascere una nuova democrazia elettronica non cessa di esercitare il proprio fascino. La porta che conduce all’agorà virtuale sembra comunque sempre piuttosto stretta. Nel suo recente La politica online (Il Mulino, pp. 278, euro 25.00), Cristian Vaccari, studiando sette democrazie occidentali (fra cui l’Italia), cerca di capire come l’utilizzo dei media digitali abbia cambiato il rapporto fra partiti e cittadini. E i risultati cui giunge non possono che offuscare le convinzioni più ottimistiche.

Innanzitutto, Vaccari attira l’attenzione sullo stretto rapporto che unisce la politica ‘online’ e la politica ‘offline’. In altre parole, ciò che accade nella rete non è affatto indipendente da quanto avviene nella realtà territoriale. Le organizzazioni maggiormente inclusive verso i loro iscritti e simpatizzanti tendono per esempio ad avere una presenza sul web più coinvolgente e più raffinata. E coloro che utilizzano la rete per informarsi su temi politici sono spesso persone che attingono anche ai media tradizionali. Da questo punto di vista, emerge allora un meccanismo di selezione dei partecipanti. Internet tende infatti a coinvolgere solo quegli individui che, in larga parte, sono già interessati alla politica, disponibili a informarsi, oltre che (talvolta) a mobilitarsi. Ma un ulteriore fattore di selezione opera anche sul lato dell’offerta di comunicazione. Se internet tende infatti a diventare sempre più importante come canale di informazione per i cittadini, contemporaneamente crescono anche le competenze e le risorse economiche necessarie per gestire in modo efficace e non episodico i nuovi strumenti. Così, sono avvantaggiate le formazioni più organizzate e dotate di mezzi. E la porta che conduce all’agorà virtuale finisce per restringersi ulteriormente.
Soprattutto in questa fase, ogni previsione sulle tendenze future non può che essere rischiosa. Come sottolinea Vaccari, non mancano infatti differenze significative fra le singole realtà nazionali, ed è semplicistico ritenere che il modello americano debba diffondersi senza variazioni anche agli altri paesi occidentali. Ciò nonostante, è molto probabile che nei prossimi anni diventerà sempre più importante la capacità della comunicazione politica online di superare il filtro del ‘disinteresse’. Quando si ridurrà la ‘diseguaglianza digitale’, legata alle possibilità di accedere a internet, diventerà infatti sempre più rilevante la diseguaglianza nella motivazione: la diseguaglianza dovuta cioè alla motivazione dei singoli cittadini a rivolgersi verso determinate fonti. Si può ipotizzare che questo meccanismo andrà a rafforzare proprio gli attori dotati di maggiori risorse, o, quantomeno, più abili nell’intercettare l’attenzione dei ‘distratti’ e nel mobilitare gli elettori ‘impegnati’. E non è detto che questo debba far pesare di meno gli ‘apparati’.
In questi anni abbiamo d'altronde scoperto anche nel web sistemi raffinati (e persino subdoli) di strutturazione ‘verticale’ del sapere, di cui google rappresenta l’esempio più nitido. Domani scopriremo probabilmente meccanismi simili anche nella politica online. E dovremo forse scrivere un nuovo capitolo della Sociologia del partito politico di Roberto Michels. Riconoscendo che, anche nell’era di internet, un’organizzazione efficiente è lo strumento indispensabile per ottenere un seguito di massa. E, soprattutto, che non cessa di operare la vecchia ‘legge ferrea dell’oligarchia’. Quella ‘legge’ secondo cui – come scriveva il sociologo tedesco un secolo fa – ‘chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia’.

Damiano Palano

C. Vaccari, La politica online. Internet, partiti e cittadini nelle democrazie occidentali, Il Mulino, pp. 278, euro 25.00.


lunedì 22 ottobre 2012

Politica a corpo libero. La 'corruzione' del bipolarismo italiano






di Damiano Palano

Gli scandali a sfondo sessuale che hanno dominato la scena politica fino all'autunno del 2012 sono ormai un ricordo sbiadito, perché ben altri problemi hanno guadagnato il centro della discussione. La deriva cui abbiamo assistito in quella fase era però solo il riflesso di una degenerazione più ampia della nostra democrazia. L’articolo riprodotto in questo post, apparso originariamente nel 2011 sul primo numero della rivista «Idem», si concentrava proprio su questo nodo. E forse può ancora offrire qualche elemento per una riflessione critica sul bipolarismo italiano della ‘Seconda Repubblica'.


Se il mondo politico compariva spesso nei romanzi di Émile Zola, era probabilmente nelle pagine di Son Excellence Eugène Rougon che la dinamica della corruzione politica veniva esplorata in più profondità. In quel romanzo, Zola puntava infatti lo sguardo direttamente sui vertici del Secondo Impero, sul Ministro Rougon, stretto collaboratore di Napoleone III. Nel torbido clima della corte imperiale, contrassegnato fin dalle origini da un viluppo inestricabile fra alta politica e demi-monde, Rougon finiva col rimanere vittima del potere seduttivo di Clorinde, una giovane italiana dal passato oscuro, e, come sempre nei romanzi di Zola, la passione aveva effetti distruttivi. Così, l’ormai anziano uomo politico – potente, temuto, rispettato – perdeva a poco a poco la propria dignità. Nel tentativo di recuperare la giovinezza perduta, cedeva infatti a una sfrenata pulsione sessuale, e, gradualmente, diventava anche una patetica marionetta nelle mani di Clorinde, la cui insinuante sensualità finiva col corrodere persino la più intima fibra morale di Rougon. A differenza di Nana, Clorinde aveva infatti delle ambizioni politiche, che non si potevano certo placare con la conquista di Rougon. Proveniente dai più infimi strati della gerarchia sociale, scrive Zola, Clorinde «era salita in alti talami, sempre più alti, talami di banchieri, di funzionari, di ministri, allargando la sua fortuna in ciascuna di quelle notti». Sinché, «d’alcova in alcova, di piano in altro piano, come un’apoteosi, per soddisfare un’ultima volontà e un ultimo orgoglio, essa aveva posto la sua bella e fredda testa sull’origliere imperiale». Agli occhi di Zola, la corruzione di Rougon non era d’altronde solo la manifestazione di un malcostume o l’emblema del sottobosco che proliferava attorno alla corte imperiale. La corruzione del ministro diventava piuttosto la metafora della degenerazione del Secondo Impero e di una crisi politica destinata a sfociare nella disfatta del 1870 e nella tragedia della Comune. E si trattava dunque di una metafora tanto efficace perché riusciva a sovrapporre il disfacimento del corpo e della mente di Rougon all’immagine del disfacimento del corpo della nazione e dell’élite che avrebbe dovuto governarla.
A ben più di un secolo di distanza, le immagini di Zola non hanno perso nulla del loro potere evocativo, e le pagine del romanziere non possono che suggerire al lettore contemporaneo il classico de te fabula narratur. Ma non soltanto per la proliferazione del gossip e degli scandali che investono la vita privata dei leader politici, e neppure per la commistione fra mondo politico e demi-monde che sembra contrassegnare in modo indelebile l’Italia di oggi. L’immagine della corruzione del suo ceto politico finisce col diventare infatti la grande metafora in cui l’Italia riconosce i tratti della propria decadenza. E, così, la sagoma di un leader decadente, del suo corpo logorato dal tempo e dagli attacchi degli avversari, sembra riflettere proprio l’immagine di un paese corrotto nella più intima fibra morale, un paese stremato, abbarbicato sulle proprie rendite di posizione in attesa di un declino irreversibile, ma al tempo stesso pervicacemente attaccato ai propri vizi, al proprio narcisismo, alle proprie comiche civetterie.
Negli ultimi anni, l’idea di un paese ‘corrotto’ è diventata per molti versi un elemento costante della rappresentazione ‘autobiografica’ di una nazione in ‘declino’. Una rappresentazione che viene per molti versi a rovesciare quel mito di una ‘società civile’ onesta, ma tradita da un ceto politico criminale, che aveva giocato un ruolo così rilevante nel passaggio dalla ‘Prima’ alla ‘Seconda Repubblica’ e nel processo di delegittimazione del vecchio sistema dei partiti. Proprio in questo senso, Ernesto Galli della Loggia ha sostenuto in più occasioni, che è del tutto illusorio attribuire alla classe politica e alla sua degenerazione la crescita vertiginosa dei livelli di corruzione che contrassegnano il sistema italiano, semplicemente perché la corruzione politica «affonda radici profondissime nel corpo sociale». E i suoi motivi vanno dunque ricercati – secondo Galli della Loggia – non tanto nel ceto politico e nelle sue perversioni morali, quanto «nella nostra storia profonda, nei suoi tratti negativi che i grandi italiani hanno sempre denunciato: poca legalità, assenza di Stato, molto individualismo anarchico, troppa famiglia, e via enumerando». Una simile spiegazione ha senza dubbio precedenti illustri, perché richiama almeno implicitamente la vecchia tesi Edward C. Banfield sul «familismo amorale», rivisitata negli ultimi due decenni anni da tante indagini sul «capitale sociale» (e sulla sua assenza). Ma, ovviamente, non può che richiamare anche il cinismo di Consalvo Uzeda di Francalanza, lo spregio di ogni sentimento di appartenenza collettiva, l’elogio della dissimulazione, la celebrazione dell’interesse personale, che il discendente dei Viceré sintetizzava in modo quasi paradigmatico nella propria visione del mondo.
Per quanto le spiegazioni ‘culturali’ mostrino sempre una forza straordinaria (anche perché sono in fondo parte integrante dell’autoritratto della nazione italiana), esse – nel momento stesso in cui ammoniscono sulla necessità di una grande riforma ‘morale’ – rischiano di costituire soltanto la premessa per un’assoluzione generale. Ma, soprattutto, sottovalutano completamente il ruolo delle trasformazioni storiche e il peso della politica. Anche riconoscendo un valore alle spiegazioni che inscrivono la tendenza alla ‘corruzione’ e l’assenza di ethos pubblico nel codice genetico dell’identità italiana, oggi diventa invece indispensabile cercare di comprendere cosa è realmente è mutato nella società italiana, e anche dentro i rapporti fra politica ed economica. Perché, probabilmente, i meccanismi che hanno innescato (o comunque favorito in misura rilevante), la proliferazione di una corruzione che va ben oltre il semplice profilo penale, si possono rintracciare dentro la realtà della trasformazione radicale, che negli ultimi vent’anni ha mutato il sistema politico italiano, e dentro l’ennesima promessa non mantenuta della transizione italiana verso una democrazia maggioritaria.

2. Nel passaggio dalla ‘Prima’ alla ‘Seconda Repubblica’, la transizione verso un modello di democrazia maggioritaria e verso il bipolarismo venne salutato da molti come una sorta di liberazione non soltanto dalla «partitocrazia», ma anche dalla «politica»: da una politica insidiosamente presente nei più riposti gangli della società, da una politica prepotente, invadente e capace di neutralizzare ogni fermento di creatività proveniente dal tessuto sociale. Trovando un momento di coagulo nei referendum elettorali, la retorica ‘antipolitica’ andò a consolidare l’idea che la transizione verso un sistema bipolare – se non proprio bipartitico – fosse l’obiettivo che avrebbe consentito all’Italia di lasciarsi alle spalle quella che Giuseppe Maranini, molti anni prima, aveva definito il «tiranno senza volto» dei partitocrazia, e che il grimadello con cui forzare il vecchio sistema fosse costituito dal sistema elettorale maggioritario e dal collegio uninominale. Proprio l’introduzione del nuovo sistema elettorale avrebbe garantito una ‘personalizzazione’ della scelta da parte del cittadino, nel senso avrebbe garantito che la scelta non risultasse ‘deviata’ dalla cortina di ideologie superate, controllata dalle macchine di partito, imbrigliata nella rete del clientelismo. Posto dinanzi a un’alternativa secca, alla ‘faccia’ dei candidati, l’elettore avrebbe potuto finalmente esprimere la preferenza per un individuo in carne ed ossa, che nella competizione avrebbe messo in gioco la propria credibilità personale, la reputazione conquistata nella professione e persino la propria onestà. Inoltre, la nuova democrazia ‘maggioritaria’ avrebbe finalmente fatto giustizia di piccoli partiti, semplificando il quadro politico e, dunque, garantendo la stabilità degli esecutivi, non più minacciati dal ricatti di frazioni, correnti e partiti forti anche solo di pochi percentuali. Ma, una volta compiuta la transizione, i benefici sarebbero stati molto superiori, perché, insieme al vecchio regime partitocratico, sarebbero scomparse le ‘antidiluviane’ burocrazie di partito, sostituite da partiti ‘leggeri’: partiti in grado di reagire in modo flessibile alle mutevoli esigenze del corpo sociale, e soprattutto privi dell’esercito di funzionari ereditati dal partito di massa novecentesco, ma ormai insostenibili sotto il profilo economico (e spesso bisognosi di sostegni finanziari illegali). Infine, il superamento del Parteienstaat postbellico avrebbe comportato anche una trasformazione radicale del rapporto fra politica ed economica: non solo perché lo Stato avrebbe dovuto rinunciare a gestire con criteri politici interi settori economici, ma anche perché l’adozione di criteri di mercato all’interno dello stesso settore pubblico avrebbe consentito di garantire una maggiore efficienza e reale capacità di rispondere ai bisogni dei cittadini.
A quasi vent’anni dall’inizio della lunga transizione italiana – le cui tappe di avvio possono essere collocate fra il ’92 e il ’93 – quasi nessuna delle grandi promesse della democrazia maggioritaria sembra essere stata mantenuta, e non soltanto perché la legge elettorale del 2006 ha reintrodotto (in forma molto mutata) il sistema proporzionale. Senza dubbio, la vecchia partitocrazia è del tutto tramontata, ma l’instabilità governativa è stata solo parzialmente ridotta, e la frammentazione partitica non è affatto diminuita, come non sembra diminuito il ruolo dei piccoli partiti e di quella tradizione trasformistica che costituisce un tratto di impressionante continuità nella storia istituzionale dell’Italia unitaria. La logica bipolare probabilmente ha contribuito a rendere obsolete le vecchie appartenenze partitiche, e i riferimenti alle grandi ideologie subculturali del Novecento sono diventati così sempre meno consistenti. Ma non si può affatto sostenere che questo abbia comportato una rilevante fluidità del mercato elettorale e, dunque, una riduzione dei vincoli ideologici o emotivi alla scelta degli elettori. A ben vedere, però, l’erosione delle vecchie appartenenze è stata seguita in tempi piuttosto brevi, da una nuova strutturazione delle scelte, orientata non tanto sui partiti, quanto sulle coalizioni. In altri termini, sebbene l’identificazione partitica risulti molto indebolita rispetto al passato, è emersa però una nuova ‘polarizzazione’ fra destra e sinistra, che di fatto – come dimostrano molti studi – riduce notevolmente l’effettiva fluidità del mercato elettorale, limitando così a una quota marginale la porzione di elettorato effettivamente disponibile a spostare il proprio voto da una coalizione all’altra. In altre parole, la dinamica bipolare si è accompagnata, paradossalmente, a una nuova ‘polarizzazione’, e cioè alla formazione una significativa ‘distanza ideologica’ fra le due coalizioni; ovviamente, in una simile ‘polarizzazione’ le vecchie ideologie, e cioè i riferimenti ideologici e subculturali della ‘Prima Repubblica’, hanno un ruolo limitato, ma si può ritenere comunque che le vecchie identità e legami ‘affettivi’ fra elettore e partito si siano ridisegnati, nel breve arco di alcuni anni, conducendo a una relativa stabilizzazione del ‘mercato elettorale’. Se il vecchio «bipartitismo imperfetto» degli anni Sessanta e Settanta produceva l’effetto di ‘bloccare’ ogni possibile alternativa di governo, il paradossale ‘bipolarismo polarizzato’ che contraddistingue l’Italia di oggi, più che favorire il meccanismo dell’alternanza, sembra dunque aver modellato la società italiana su una frattura in larga parte (se non del tutto) artificiale, o comunque alimentata artificialmente. In effetti, se guardiamo più attentamente a divisione ‘bipolare’ dell’Italia, quella che ci appare come un’insanabile lacerazione viene a corrispondere piuttosto linearmente alla strutturazione che il sistema partitico italiano ha assunto negli ultimi quindici anni: una strutturazione che, forse, ha prodotto qualche effetto positivo, ma che, comunque, ha costruito e alimentato una contrapposizione estremamente forte, ‘bloccando’ il paese su una radicale semplificazione della complessità territoriale, generazionale, culturale dell’Italia.
Ma, probabilmente, l’effetto più rilevante della rivoluzione maggioritaria consiste proprio nella costruzione di una nuova geografia dei poteri. La transizione maggioritaria non coinvolge infatti solo il centro del sistema politico, ma investe soprattutto i livelli locali e subnazionali di governo. Proprio in corrispondenza con il tramonto della ‘Prima Repubblica’, l’introduzione dell’elezione diretta di sindaci, presidenti di provincia e di presidenti di regione viene infatti a innescare – o a sostenere – un meccanismo che Mauro Calise ha messo in luce efficacemente nei suoi interventi recenti. Dinanzi alla rapida fine del partito organizzativo, i governi locali e regionali diventano un obiettivo importante per i leader periferici e anche per gli outsider, sia perché consentono di ottenere visibilità mediatica, sia perché offrono gli strumenti per costruire un seguito rilevante di collaboratori e sostenitori. In questo senso, i partiti italiani tendono effettivamente a configurarsi come «partiti personali», non soltanto per rincorre il modello (più o meno) vincente di Forza Italia, ma perché proprio i livelli di governo inferiori offrono una serie di nuovi canali di mediazione, di interdizione e talvolta di ricatto anche nei confronti del leader nazionali. Ma, al tempo stesso, la logica dell’equilibrio fra i poteri tende a essere superata da una sostanziale supremazia dell’organo esecutivo sull’assemblea legislativa, e così le assemblee vengono di fatto svuotate di ogni rilevante potere di controllo su sindaci e presidenti. Tanto che quella marcata tendenza alla ‘presidenzializzazione’ si può ritrovare a questi livelli in misura addirittura più pronunciata rispetto a quanto avviene a livello nazionale fra governo e Parlamento.
Dentro la trasformazione reale della geografia del potere, la proliferazione della corruzione trova una spiegazione che va al di là del malcostume o dell’assenza di vincoli morali da parte della classe politica italiana. Ma, soprattutto, dentro questa trasformazione della geografia del potere diventa chiaro che il progetto – tante volte sbandierato, da forze di ogni colore – di introdurre criteri di ‘efficienza’  e ‘trasparenza’ nella gestione della cosa pubblica ha prodotto risultati ben diversi. Spesso giustificato con l’obiettivo di importare nel settore pubblico criteri propri dal settore privato, questo progetto non poteva che produrre risultati ben diversi. Il politico che occupa una carica amministrativa non è infatti un imprenditore, opera con una logica economica che non coincide certo con quella dell’ente che è chiamato ad amministrare, e non viene giudicato dai cittadini per quello che ha fatto, dato che l’elettore è, per vari motivi, quasi totalmente disinformato dell’operato degli amministratori. Così, i risultati delle riforme che negli ultimi vent’anni hanno mutato il volto dell’amministrazione pubblica sono consistiti semplicemente in una crescente ‘politicizzazione’, ossia nell’estensione dell’area di discrezionalità del politico e nella riduzione di autonomia della logica e del personale burocratico. Esempi eloquenti di questo processo senz’altro le «società miste» partecipate dagli enti locali, strumento formidabile di rafforzamento delle reti clientelari, ma soprattutto la variante italiana dello spoils system, introdotto in coincidenza con la transizione dalla ‘Prima’ alla ‘Seconda Repubblica’ e costantemente rafforzato nel corso degli anni. Proprio grazie allo spoils system, il politico eletto ottiene infatti la possibilità di nominare consulenti e collaboratori esterni alle pubbliche amministrazioni, di nominare i dirigenti con criteri ampiamente discrezionali, o di formare staff personali. In questo modo, l’idea di una netta separazione fra la logica della politica e l’esigenza di un’amministrazione responsabile ed efficiente viene a risolversi in una pressoché completa soggezione dell’amministrazione nei confronti della politica, dal momento che una quota significativa dei dipendenti viene a dipendere – per quanto concerne livelli di retribuzione, carriera, conservazione del posto di lavoro – proprio dalla discrezionalità del politico, che, in questo modo, ha dunque buon gioco nell’orientare e sorvegliare ogni decisione ‘puramente’ amministrativa, tra cui – prima delle altre – tutte quelle che riguardano l’erogazione della spesa pubblica. In questo senso, dunque, l’effetto davvero più marcato della ‘transizione’ appare quello di una crescita dell’area delle rendite politiche, tanto più sorprendente quanto più sostenuta e celebrata da molti come una vittoria del mercato (e delle sue logiche) sulla burocrazia, sulle sue lungaggini, sulle sue procedure. E la spiegazione più forte della ‘corruzione’ che realmente – fuor di metafora, e al di là delle suggestioni culturaliste – ‘blocca’ il Paese consiste proprio nel meccanismo di intermediazione clientelare svolto dai vari livelli di governo. Un meccanismo che – come ha scritto Luca Ricolfi – è importante per spiegare la ‘corruzione’ del sistema, «non solo perché sono ormai molti milioni – e crescono ogni anni di numero – gli italiani le cui opportunità di guadagno e carriera dipendono pesantemente da decisioni discrezionali di funzionari, dirigenti e amministratori pubblici», ma anche perché «è questo il vero costo che la politica, spesso con la piena ed entusiastica complicità dei cittadini, impone al sistema Italia».
Oggi non è dunque difficile scorgere nelle tante polemiche sulla lentezza e sull’inefficienza dell’amministrazione pubblica e dietro i ricorrenti proclami sulla ‘modernizzazione’ dell’amministrazione pubblica, solo l’armamentario retorico con per preparare il terreno a una crescente ‘personalizzazione’ del potere, a quella sorta di ‘feudalizzazione’ della classe politica nazionale, che ha consentito al ceto politico di trovare nei governi locali e regionali una base di potere formidabile, di annullare l’autonomia dei processi amministrativi e di vincolare la gestione della spesa alla propria discrezionalità e alle proprie esigenze di costruzione di un seguito clientelare. Così, non è neppure troppo difficile scorgere dietro le polemiche contro l’elefantiasi del settore pubblico e contro i ‘fannulloni’ della Pubblica Amministrazione solo un riflesso dello scontro fra la logica del dominio personale e la logica burocratica dell’impersonalità. Ed è facile immaginare che, quando la polvere della retorica efficientista si sarà depositata, emergerà chiaramente l’esito di un ulteriore rafforzamento della discrezionalità politica. 
A ben guardare, dunque, alla base la ‘corruzione’ che pare investire il corpo del Paese, sembra possibile individuare i contorni di un processo di ‘personalizzazione’ del potere: un processo che non può essere ridotto alle sole componenti mediatiche, ma che investe anche le modalità di esercizio del potere e il funzionamento delle istituzioni. Paradossalmente, la tendenza verso la crescente estensione della logica impersonale del potere razionale-legale – quella tendenza che Weber sintetizzava nell’immagine della ‘gabbia d’acciaio’ della burocrazia – sembra subire un’inversione radicale. E proprio in questo senso, Mauro Calise sostiene che la personalizzazione dei sistemi politici contemporanei – e prima di ogni altro quello italiano – segni il ritorno sulla scena del corpo del capo. Se la politica moderna aveva provveduto a scindere i «due corpi del re», distinguendo il corpo fisico del monarca dal corpo (impersonale) dello Stato, le trasformazioni degli ultimi trent’anni sembrano invertire la parabola. Ma, insieme alla centralità del corpo, secondo Calise, è destinato a riemergere anche il «corto circuito tra il potere del capo e il suo destino fisico». E, così, non è affatto improbabile che, il ritorno del corpo del leader debba spingere le democrazie contemporanee verso «la perdita del corpo politico come luogo impersonale dell’identità collettiva e dell’autorità legittima».
La tendenza verso la crescente personalizzazione dei nostri sistemi politici, e lo spostamento graduale verso la ‘presidenzializzazione’, è però, probabilmente, una tendenza irreversibile. Si tratta infatti di una trasformazione che scaturisce, per un verso, dalle esigenze di governabilità di società complesse e dalla necessità di rispondere con tempestività alle sollecitazioni interne e internazionali e, per un altro, dalla crisi dei partiti e dalle difficoltà delle strutture tradizionali di rappresentanza. E non si tratta, dunque, di una tendenza che possa essere arginata evocando un’immagine ideale di democrazia, o auspicando una moralità da sempre sconosciuta al ceto politico italiano. E non si tratta neppure di una tendenza che possa essere arginata inalberando la bandiera della fedeltà alla Costituzione. Per il semplice motivo che l’Italia di oggi non è l’Italia di trent’anni fa, e che gli equilibri istituzionali congegnati nell’Italia postbellica sono del tutto – o quasi del tutto – impotenti dinanzi ai nuovi assetti che si sono delineati a partire dall’inizio degli anni Novanta. Dinanzi a questa trasformazione reale, il problema autentico consiste allora nella costruzione di nuovi strumenti rappresentanza. Perché senza strumenti di rappresentanza – in grado di articolare e aggregare gli interessi di una società sempre più sfaccettata, multiforme, persino magmatica, oltre che di esercitare un reale potere di controllo politico – la marcia della ‘personalizzazione’ rischia soltanto di risolversi nell’abbraccio mortale di un capo. E la corruzione del corpo del capo rischia davvero di diventare il simbolo di una decadenza irreversibile.

Damiano Palano

mercoledì 17 ottobre 2012

La soglia biopolitica. Materiali su una discussione contemporanea


La soglia biopolitica
Materiali su una discussione contemporanea
di Damiano Palano


Pur con tutte le sue ambiguità, il termine «biopolitica» riesce a fissare l’idea che la trasformazione contemporanea sia segnata da una crescente penetrazione del potere nella vita. Un’idea rafforzata dalla riflessione sulle potenzialità delle nuove tecnologie, ma consolidata anche – in modo talvolta impressionistico – dalla percezione comune e dal dibattito pubblico. Non è dunque sorprendente che attorno alla «biopolitica» sia cresciuto negli ultimi decenni un dibattito teorico straordinariamente ricco, che, pur partendo dalle ricerche di Michel Foucault, ha imboccato direzioni molto differenti. I saggi raccolti nel presente volume non cercano naturalmente di fornire una soluzione a una discussione tanto eterogenea. Piuttosto, si limitano ad approssimare da diverse angolature la ‘soglia biopolitica’. La soglia oltre la quale la vita entra nei ‘calcoli’ del potere, ma anche la soglia che distingue la vita umana dalla vita animale. 

Damiano Palano, La soglia biopolitica. Materiali su una discussione contemporanea, Aracne, pp. 180, euro 12.00.

Un estratto del volume

giovedì 11 ottobre 2012

Il deficit simbolico della democrazia. "Controdemocrazia" di Pierre Rosanvallon



di Damiano Palano

Sembra che l’aggettivo ‘antipolitico’ sia comparso per la prima volta in Francia già intorno alla metà del Seicento, ma, a dispetto di radici tanto profonde, il termine ha iniziato a diffondersi solo recentemente. E negli ultimi anni è andato a identificare quel sentimento diffuso in cui confluiscono l’ostilità verso la classe politica e la disaffezione nei confronti dei partiti e istituzioni. Una delle interpretazioni forse più interessanti del successo dell’anti-politica contemporanea viene probabilmente da Pierre Ronsanvallon e dal suo Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, riproposto ora da Castelvecchi (pp. 279, euro 22.00). Il titolo del volume, per quanto evocativo, rischia forse di suggerire una lettura distorta delle tesi dello storico francese. La ‘controdemocrazia’ – così come la sfiducia – non è infatti, secondo Rosanvallon, qualcosa che si oppone alla democrazia, bensì un meccanismo che contrassegna fin dall’origine i regimi rappresentativi. Un meccanismo che in qualche modo ne rafforza la vitalità, ma che oggi rischia di determinare una sorta di ‘cortocircuito’ simbolico.
In sostanza, per Rosanvallon la ‘controdemocrazia’ consiste nei modi in cui si organizza la sfiducia democratica, ossia la ‘diffidenza’ che spinge a sorvegliare l’operato delle istituzioni democraticamente elette. Questo atteggiamento non riflette un’ostilità nei confronti della democrazia, ma si configura piuttosto come una sorta di controllo della società nei confronti degli organi rappresentativi. Fin dall’Ottocento,  la ‘controdemocrazia’ si è espressa principalmente in tre forme: la vigilanza sugli eletti da parte dei cittadini, l’esercizio del veto da parte delle organizzazioni sociali, il controllo sulla classe politica svolto dalla magistratura. Ma il punto chiave è che, secondo Rosanvallon, la dimensione della ‘controdemocrazia’ è andata crescendo sempre di più nel corso dei decenni, con effetti distruttivi sugli equilibri politici. 
Se molti leggono il malessere della democrazia contemporanea come un riflesso del declino della partecipazione, per Rosanvallon si tratta invece di riconoscere come la partecipazione dei cittadini sia cresciuta, seppur in forme non convenzionali. Proprio una simile dilatazione ha rafforzato la portata della ‘controdemocrazia’, e ha tramutato il controllo in una sistematica contestazione (o addirittura nell’umiliazione) delle istituzioni elette democraticamente. Con il risultato che la ‘controdemocrazia’ è diventata una ‘contro-politica’.
Per comprendere fino in fondo la lettura di Rosanvallon, è necessario collocare le tesi sulla ‘contro-democrazia’ all’interno della sua vasta ricerca sulle forme del ‘politico’. Secondo lo storico francese, il ‘politico’ coincide infatti con le modalità con cui una popolazione si rappresenta in quanto ‘popolo’, in quanto gruppo unitario, contrassegnato da una comunità di destino. Per questo, la democrazia non è soltanto una questione di forme e di regole, ma soprattutto il risultato di come viene pensato quel ‘popolo’ a cui spetta il potere. E la dilatazione progressiva della ‘contro-democrazia’ finisce così col dissolvere lo spazio simbolico che è alla base della convivenza democratica. Finisce col disgregare quel ‘mondo comune’ che consente ai singoli cittadini di pensarsi – a prescindere dalle specifiche posizioni – come parte di uno stesso popolo. 
È proprio in questa prospettiva che la tesi di Rosanvallon diventa tanto importante per decifrare i contorni del ‘disagio’ della democrazia. Perché certamente la politica si trova oggi alle prese con enormi deficit ‘strutturali’, che chiamano in causa la trasformazione delle economie occidentali, la transizione geo-politica, le tendenze demografiche. Ma si trova soprattutto alle prese con una sorta di deficit simbolico. Un deficit che riguarda la capacità della politica di dare un volto all’introvabile popolo sovrano. E di tessere, giorno dopo giorno, la fragile trama di un ‘mondo comune’.

Damiano Palano

Pierre Ronsanvallon, Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi, pp. 279, euro 22.00.

* Questo testo è apparso, in una forma parzialmente diversa, su "Avvenire" del 6 ottobre 2012.

domenica 30 settembre 2012

L'altra faccia dell'indignazione. Un vecchio saggio del sociologo danese Svend Ranulf


di Damiano Palano

Quando alcuni anni fa apparve in Francia Indignez-vou! di Stéphan Hessel, nessuno poteva sospettare il successo di vendite che avrebbe avuto. Ma, soprattutto, nessuno poteva neppure lontanamente immaginare che proprio quel piccolo pamphlet, scritto da un ottuagenario ex-diplomatico transalpino, dovesse dare il nome a un movimento di protesta destinato a coinvolgere buona parte dell’Occidente. Così, per un insieme di circostanze fortuite, il termine «indignazione» è entrato nel lessico politico quotidiano, e qualcuno, prendendo sul serio la formula, ha anche iniziato a chiedersi se si tratti di un sentimento ‘impolitico’, o non nasconda addirittura, nel proprio codice genetico, una vocazione ‘antipolitica’.

Proprio queste domande hanno condotto a riscoprire un vecchio saggio dal sociologo danese Svend Ranulf, Indignazione e psicologia della classe media, pubblicato originariamente nel 1938 e ora tradotto in italiano dall’editore Medusa (pp. 229, euro 18.50). Scritto in una delle fasi più buie della politica europea, il testo di Ranulf si configura per molti versi come un tentativo di comprendere il successo del nazionalsocialismo, considerato come esempio paradigmatico del meccanismo dell’«indignazione morale». La tesi di Ranulf è che l’«indignazione morale» - ossia la «tendenza disinteressata a infliggere punizioni» - sia particolarmente radicata fra i ceti medi. Per molti versi, questa idea non fa che sviluppare la spiegazione che Max Scheler aveva dato del risentimento: un atteggiamento mentale dovuto alla sistematica repressione di emozioni proprie di ogni essere umano, come l’invidia, la malizia, la gelosia, il rancore. Infatti, l’«indignazione morale» è per Ranulf la caratteristica di un gruppo sociale che forza i propri membri a «un grado eccezionalmente alto di auto-limitazione» e dunque alla «frustrazione dei loro desideri naturali». E proprio da questa forzata «repressione degli istinti» scaturiscono l’«indignazione morale», il risentimento, la disponibilità a infliggere punizioni disinteressate verso individui o gruppi sociali.
Per molti versi, Indignazione e psicologia della classe media si inserisce in un filone che comprende anche testi come Fuga dalla libertà di Erich Fromm e Psicologia di massa del fascismo di Wilhelm Reich. Alla base di tutte queste ricerche sta infatti un certo modo di guardare alla connessione fra la società e la psicologia individuale. In altre parole, la psicologia del singolo viene concepita come il riflesso della struttura della società, o, meglio, della struttura familiare, dell’educazione, della morale di un gruppo. E, a dispetto di qualche motivo di interesse, anche la ricerca di Ranulf – peraltro appesantita da alcune discutibili scelte metodologiche – non può che replicare gli stessi limiti di questa impostazione. Ricercando delle cause patologiche, questa prospettiva non può infatti che ritrovare invariabilmente i tratti della ‘malattia’ nei movimenti politici e nei gruppi sociali che studia. Ma, soprattutto, cedendo a un facile determinismo sociale, diventa in fondo incapace di cogliere la specificità di fenomeni culturali inevitabilmente complessi.
A dispetto di tutti questi limiti, l’idea di Ranulf di una relazione fra la struttura sociale di un gruppo e gli atteggiamenti dei suoi membri non può però essere liquidata con sufficienza. Non soltanto perché la «classe media», le sue speranze e i suoi risentimenti non sono oggi meno enigmatici di quanto fossero negli anni Trenta. Ma forse anche perché non è difficile ritrovare nell’«indignazione» di oggi il volto sfuggente, ambiguo e in fondo disilluso di una condizione emotiva comune a intere generazioni. E il riflesso politico di un’epoca di «passioni tristi».

Damiano Palano

Questo testo è apparso, con un titolo diverso, su "Avvenire" del 22 settembre 2012.