martedì 30 dicembre 2014

Se la scienza politica dimentica il potere. Intorno a una provocazione di Emidio Diodato

di Damiano Palano

È piuttosto sorprendente che il libro di Emidio Diodato, Il vincolo esterno. Le ragioni della debolezza italiana (Mimesis, Milano, pp. 172, euro 15.00), sia passato quasi inosservato persino fra i più attenti politologi del nostro paese, e che così siano del tutto sfuggite le provocazioni che il testo muove ad alcuni luoghi comuni consolidati. Il volume di Diodato affronta in effetti una serie di questioni decisive per comprendere la situazione in cui versa oggi la penisola, ma in particolare – e qui sta in gran parte l’originalità del libro – tenta di mostrare come la ‘de-democratizzazione’ del sistema politico italiano non sia l’effetto né del «berlusconismo» e neppure del controllo esercitato sul Belpaese dalla «tecnocrazia» di Bruxelles (o da un’Unione Europea nelle mani della Germania). La tesi centrale di Diodato – una tesi meritevole di una discussione ben più approfondita di quella che le può essere riservata in questa sede – è infatti che una parte della classe dirigente italiana abbia più o meno consapevolmente individuato nell’introduzione di un «vincolo esterno», rappresentato dall’Ue disegnata a Maastricht, lo strumento con cui ‘disciplinare’ e ‘frenare’ l’ostilità ai principi dell’economia di mercato diffuse nella società italiana (oltre che nella stessa classe politica) e dunque per adeguare il paese alle esigenze dell’economia globale. E ciò cui abbiamo assistito in questi ultimi anni, e soprattutto dal 2011 a oggi, non sarebbe dunque niente altro che il mesto epilogo di una vicenda cominciata ormai più di vent’anni fa. 
Fra le molte interessanti osservazioni che si possono rinvenire nelle pagine di Diodato, al lettore più smaliziato non può però certo sfuggire una piccola – ma tutt’altro che marginale – annotazione polemica. Ad un certo punto, con l’obiettivo di comprendere come possa essere misurato oggi il potere di uno Stato, Diodato si confronta infatti con la necessità di definire la politica, e in particolare con la difficoltà di cogliere quale sia la relazione tra la «visibilità» della politica e la sua «ubiquità». Ed è proprio in corrispondenza di un simile snodo argomentativo che il politologo formula un interrogativo provocatorio, che chiama in causa la scienza politica dell’ultimo trentennio. Scrive infatti Diodato: «Come sciogliere questo nodo ontologico, vale a dire la divergenza fra autonomia e ubiquità della politica, senza approfondire il tema della vera natura del potere? La domanda non è pleonastica. Piaccia o meno, occorre ammettere che la scienza politica italiana, affermatasi nel corso della seconda metà del Novecento, ha rinunciato a indagare il tema della vera natura del potere. Dando ragione, sul punto, tanto a Sartori quanto a Bobbio. Chi ha cercato una risposta a questo nodo ontologico ha quindi seguito percorsi paralleli, riferendosi, almeno nei casi più rilevanti in Italia, al giurista tedesco Carl Schmitt (penso soprattutto alla riflessione di Gianfranco Miglio, Carlo Galli e Massimo Cacciari)» (p. 31).
La provocazione di Diodato si inquadra all’interno di una riflessione che punta a recuperare alcune delle intuizioni del pensiero geopolitico novecentesco, e che dunque si propone di considerare anche aspetti spesso trascurati (per non dire completamente dimenticati) dalla politologia più recente e dalle stesse Relazioni Internazionali (per ricostruire le tappe della riflessione compiuta in questa direzione dall’autore, si vedano per esempio alcuni suoi recenti lavori, come Il paradigma geopolitico. Le relazioni internazionali nell’età globale, Meltemi, Roma, 2010, e Che cos’è la geopolitica, Carocci, Roma, 2011, oltre che il volume curato dallo stesso Diodato, Relazioni internazionali. Dalle tradizioni alle sfide, Carocci, Roma, 2013). Anche nel Vincolo esterno, con riferimento alla politica estera italiana, Diodato intende così di articolare una visione multidimensionale del potere, capace di tenere conto tanto di componenti interne alla sfera statale, quanto di aspetti che invece riguardano la collocazione dello Stato nello spazio politico globale. La provocazione indirizzata alla scienza politica consente però di allargare lo sguardo ben oltre il quadro verso cui si dirigono le energie di Diodato. Perché in effetti, per quanto possa apparire ad alcuni forse ingeneroso, quello spunto polemico coglie davvero un nervo scoperto nella riflessione politologica italiana. 
Naturalmente il bersaglio cui si rivolge l’appunto di Diodato va individuato con precisione, per evitare fraintendimenti, nel senso che deve essere chiaro che lo studioso si riferisce in modo specifico alla «scienza politica italiana, affermatasi nel corso della seconda metà del Novecento». Come scriveva molti anni fa Norberto Bobbio, l’espressione «scienza politica» può essere d’altronde intesa in due sensi diversi. In un’accezione più ampia, viene a denotare qualsiasi analisi del fenomeno politico, «condotta con una certa sistematicità, appoggiata sull’esame di fatti, esposta con argomenti razionali»: in questo primo significato il riferimento alla ‘scienza’ allude dunque a un sapere differente rispetto a quello della semplice ‘opinione’, un sapere che si pone come obiettivo «non abbandonarsi alla credenza del volgo, non trinciare giudizi in base a dati non accertati, rimettersi alla prova dei fatti» (N. Bobbio, Scienza politica, in Scienze politiche 1. Stato e politica, a cura di A. Negri, Feltrinelli, Milano, 1970, p. 432). Se si definisce la scienza politica in questo modo, evidentemente molti grandi classici del pensiero politico possono essere considerati come scienziati politici, e fra questi naturalmente proprio quel Machiavelli che Diodato cita spesso nel suo volume, e cui certo non si può rimproverare di non aver indagato cosa sia il potere e quali siano le condizioni per conquistarlo, accrescerlo, conservarlo. Ma accanto a tale prima accezione, se ne trova una seconda, più tecnica: un’accezione che sta a indicare «un orientamento di studi che si propone di applicare all’analisi del fenomeno politico nei limiti del possibile, cioè nella misura in cui la materia lo permette, ma con sempre maggior rigore, la metodologia delle scienze empiriche (così com’è stata elaborata e in parte codificata dalla filosofia neopositivistica)» (ibidem). Ed è ovviamente proprio a questa specifica visione della scienza politica che Diodato allude nella sua annotazione polemica. In sostanza, la scienza politica cui Diodato rimprovera di aver rinunciato a indagare il potere (e forse di averlo addirittura dimenticato) è proprio quella disciplina che, nel corso dell’ultimo mezzo, ha definito la propria identità professionale a partire dai presupposti del neopositivismo, o quantomeno a partire a quella versione del ‘neopositivismo politologico’ che Giovanni Sartori fornì in alcuni dei suoi scritti più importanti degli anni Cinquanta e Sessanta.
Il limite che Diodato segnala non riguarda naturalmente solo la scienza politica italiana, perché per molti versi il potere cessa di essere uno degli oggetti privilegiati della ricerca politologica già attorno agli anni Settanta anche negli Stati Uniti, quando il dibattito fra pluralisti, neo-elitisti e anti-elitisti tende ad arenarsi su una serie di banchi di sabbia. Da allora incomincia peraltro anche quella frammentazione della disciplina in campi di specializzazione fra loro sempre più autonomi che rende talvolta difficile parlare della scienza politica come di una disciplina effettivamente unitaria. Ma quella sostanziale ‘rimozione’ del potere dall’agenda di ricerca teorica ed empirica non può non stupire nel caso della scienza politica italiana. Perché la ricerca sul potere – non solo la ricerca su ‘chi’ detenga il potere, ma anche l’indagine su ‘cosa’ sia il potere – caratterizza in Italia, forse più che in ogni altro paese, la riflessione politica.
Senza scomodare i classici del pensiero italiano, è infatti sufficiente pensare alla storia della scienza politica del Novecento. Per quanto la riflessione di Gaetano Mosca e il suo tentativo di fondare una «scienza politica» possano essere considerati oggi solo come una pallida anticipazione della ‘vera’ disciplina, è infatti evidente come il pensatore siciliano avesse collocato alla base dell’edificio della sua teoria della classe politica proprio quella grande, eterna domanda sulla natura del potere, cui ovviamente forniva una risposta ben precisa. E un interrogativo simile avrebbero ripreso non solo i grandi alfieri del cosiddetto «elitismo italiano», ma anche tutti i principali cultori della scienza politica italiana fino agli anni Settanta del Novecento: studiosi che – pur coltivando l’ambizione di raggiungere una conoscenza scientifica della politica – non rinunciavano a tentare di comprendere cosa fosse il potere e quali fossero le grandi «regolarità» della politica. E con qualche forzatura (ma senza eccessive difficoltà), si potrebbe annoverare fra i principali cultori di questa ‘via italiana’ alla scienza politica persino il nome di Antonio Gramsci, la cui riflessione sull’«egemonia» costituisce ancora oggi una fonte cui molti politologi (in special modo internazionalisti) continuano ad attingere. Ma, per rimanere entro il perimetro della ricerca accademica, è quasi scontato pensare, per esempio, a Bruno Leoni, a Giuseppe Maranini e a Gianfranco Miglio, esponenti proprio di quella stessa generazione che – a cavallo tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta – difese la legittimità della scienza politica: sebbene quegli studiosi non condividessero affatto la medesima visione della scienza politica (e basti pensare in questo senso alla distanza che separava Leoni da Miglio), ognuno di loro individuava però l’oggetto specifico della disciplina nello studio del potere politico, ossia nelle modalità della sua produzione e della sua distribuzione. E proprio per questo, più che imboccare il sentiero di una ricerca puramente empirica, dovevano porsi domande che non potevano non essere affrontate innanzitutto sul terreno della teoria politica. Un terreno in cui diventava inevitabile confrontarsi con i classici, ma in cui comunque non veniva mai smarrito l’obiettivo cruciale della comprensione dei processi politici ‘reali’.
Non si può certo dire che nell’ultimo quarantennio la scienza politica italiana non abbia conosciuto un’enorme sviluppo e un significativo consolidamento nella comunità accademica italiana. A partire dai primi anni Settanta, quando iniziò a prendere forma l’associazione professionale che raccoglie i cultori della disciplina, il numero degli scienziati politici incardinati nell’accademia italiano si è infatti notevolmente accresciuto. E inoltre, sebbene l’immagine pubblica della scienza politica sia tutt’altro che chiaramente definita, nessuno – quantomeno sul piano del dibattito intellettuale – mette più in discussione la legittimità dell’indagine politologica. Ciò nondimeno, è evidente a chiunque come la condizione per un simile successo sia stata anche la rottura netta il passato, e dunque con quegli stessi ‘precursori’ che – da Mosca a Miglio, passando per Gramsci – avevano a loro modo cercato di battere la strada della ‘via italiana’ alla scienza politica. 
Naturalmente ciò non significa che siano state del tutto recisi i legami col passato. Molto più di quanto faccia qualsiasi altra disciplina, non solo in Italia, la scienza politica ha anzi costruito una sorta di mito di fondazione, in cui il ruolo di patriarca viene assegnato a Giovanni Sartori. E chiunque abbia assistito a qualche convegno della Società Italiana di Scienza Politica (Sisp) non ha difficoltà a comprendere l’importanza che, nella costruzione dell’identità disciplinare, è venuto a giocare (sempre più spiccatamente negli ultimi anni) una sorta di suggestivo racconto delle origini. Un racconto in cui Sartori, novello Mosè, dopo aver ricevuto una chiamata in giovanissima età agli studi politologici, viene rappresentato come il profeta capace di fronteggiare i nemici provenienti da ogni direzione e di guidare il proprio popolo in una lunga traversata del deserto, destinata a concludersi con l’approdo alla Terra promessa, coincidente più o meno con la fondazione della «Rivista Italiana di Scienza Politica».
Naturalmente sarebbe piuttosto facile smontare questa ricostruzione e dunque osservare con uno sguardo un po’ più critico le dinamiche con cui si affermò in Italia la legittimità della scienza politica (chi scrive ha cercato di contribuire a questa riflessione in un libro di qualche anno fa: Geometrie del potere. Materiali per la storia della scienza politica italiana, Vita e Pensiero, Milano, 2005). Ma si tratterebbe probabilmente di un’operazione ormai tardiva. Perché, a ben vedere, quel grande mito delle origini – puntualmente rievocato in rituali talvolta persino caricaturali – ha ormai ben poco a che vedere con ciò che è diventata oggi la scienza politica italiana. In effetti non è difficile riconoscere che – procedendo ben oltre le posizioni ‘neopositiviste’ di Sartori e persino di molti dei suoi allievi più coriacei – la scienza politica italiana ha completamente espulso dai propri confini proprio la dimensione teorica della ricerca sulla politica. 
Ancora un quarto di secolo fa, in un rapporto steso per la Fondazione Agnelli sullo stato della ricerca politologica in Italia, non mancava un lungo capitolo dedicato a Teoria e macropolitica, al termine del quale Leonardo Morlino, interrogandosi sul futuro della teoria, osservava: «proprio l’accumularsi di studi e ricerche e la necessità di nuove ricerche rendono a loro volta indispensabili dei momenti di sintesi e di riflessione. E se, probabilmente, una teoria generale non è più possibile e neppure auspicabile, tuttavia fino a che avrà senso giungere a visioni più sintetiche anche la macropolitica – sub specie, soprattutto, di teorie a medio raggio – continuerà ad essere indispensabile» (L. Morlino, Teoria e macropolitica, in Id., a cura di, Scienza politica, Fondazione Agnelli, Torino, 1989, p. 84). Oggi gli auspici di Morlino sembra invece siano andati del tutto delusi. E da questo punto di vista è sufficiente dare un’occhiata alla mappa dell’odierna ricerca politologica italiana proposta nel recente volume Quarant’anni di scienza politica: tra i principali settori di ricerca indicati dai soci della Sisp, la teoria politica non pare infatti essere rilevante per quasi nessuno dei rispondenti (2 risposte su 362, pari allo 0,5%) (cfr. Quarant’anni di scienza politica, a cura di G. Pasquino – M. Regalia – M. Valbruzzi, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 13). 
È persino scontato che molti politologi debbano considerare con sollievo l’espulsione della teoria politica dal perimetro della disciplina, quantomeno perché in questo modo possono ritenere raggiunto l’obiettivo di ‘depurare’ l’analisi empirica da incrostazioni valoriali, da infiltrazioni ideologiche, da inquinamenti ‘filosofici’. Discutere oggi l’ingenuità di questa posizione – davvero attardata su una caricatura del ‘neopositivismo’ – sarebbe persino inutile, se una simile visione, spesso sostenuta da un’animosità degna di miglior causa, non producesse però esiti disastrosi, che riguardano, innanzitutto, la stessa capacità di comprendere i processi politici in atto e le trasformazioni nelle relazioni di potere. Probabilmente, come suggerisce in parte Diodato nel suo volume, chiunque intenda capire davvero cosa sta accadendo in questi anni – in Italia, in Europa e nel mondo – dovrà infatti mettere da parte molti degli arnesi che la scienza politica degli ultimi trent’anni ha costruito, per studiare cose spesso sostanzialmente irrilevanti o scontate (talvolta solo per dimostrare la capacità di utilizzare correttamente gli strumenti di ricerca). E per questo si troverà anche a difendere la legittimità della teoria politica, e a ricollocare al centro della discussione quella vecchia domanda su «cos’è il potere?» di cui Diodato biasima l’assenza nel dibattito odierno. 
Ma un aspetto forse non del tutto irrilevante di questa battaglia culturale passerà forse anche dalla comprensione dei motivi che hanno condotto la scienza politica a tagliare completamente quelle radici che affondavano nella grande teoria politica italiana (oltre che con nella stessa identità culturale italiana). Certo in questo percorso l’impronta ‘neopositivista’ ha avuto – e continua ad avere – un peso notevole, così come un’incidenza ha avuto anche la crescente internazionalizzazione della disciplina, con la conseguente spinta a uniformarsi agli indirizzi adottati all’estero. Ma è probabile che una spiegazione non possa essere trovata esclusivamente in questi fattori. Non è da escludere infatti che a spingere i politologi italiani a tagliare definitivamente i ponti con il passato e a ‘liberarsi’ della teoria politica, ormai percepita solo come una zavorra, sia stata anche, in una certa misura, quell’impronta ideologica che segnò in Italia la rinascita della scienza politica. 
Nella battaglia per la conquista di una legittimità, Sartori ebbe la necessità di delimitare chiaramente lo spazio della nuova disciplina, rispetto a quello di altri campi di studio ben più consolidati, come in particolare quelli delle scienze giuridiche, delle scienze storiche e della filosofia (oltre che quello della sociologia). Ma la difesa della legittimità della scienza politica – quantomeno nella versione che ne svolgeva Sartori – si proponeva anche come una battaglia contro le principali culture politiche italiane e contro la visione della politica riconducibile ai due principali partiti italiani, il Partito comunista e la Democrazia cristiana. E, non casualmente, Gianfranco Pasquino torna proprio su questo aspetto, nel momento in cui ricostruisce le tappe della difficile affermazione della disciplina e in cui rievoca i principali avversari contro cui Sartori dovette compiere la propria campagna: «Il primo bersaglio, quello politicamente più grosso, era costituito dalla cultura politica, in senso lato, predominante in Italia, nelle sue due versioni più diffuse: la blanda ideologia del cattolicesimo (più o meno) democratico presente, ma non egemonico, nella Democrazia cristiana, e il marxismo del Partito comunista, prevalentemente declinato secondo moduli variamente gramsciani e/o storicisti. L’elemento comune ad entrambe le ideologie, a prescindere dalle loro pratiche concrete, era rappresentato dal non riconoscimento dell’autonomia della politica, e, tantomeno, dalla specificità del suo studio» (G. Pasquino, Bilancio della scienza politica italiana tra professione e vocazione, in Quarant’anni di scienza politica, cit., p. 238). Naturalmente si potrebbe discutere della effettiva negazione dell’autonomia della politica da parte dei filoni delineati un po’ impressionisticamente da Pasquino. Quel che è certo è che la difesa dell’autonomia della politica – e dunque della legittimità della scienza politica – da parte di Sartori si sposò fin dall’inizio con l’adozione di una ben precisa visione della politica, una visione riconducibile alla rispettabile tradizione del liberalismo conservatore. Ogni lettore di Sartori sa d’altronde molto bene quanto peso abbia nella riflessione dello studioso fiorentino questa visione della politica, e come per questo sia spesso molto difficile distinguere nettamente le sue argomentazioni ‘scientifiche’ dalle sue convinzioni ‘ideologiche’. Tanto che, a ben guardare, il tanto celebrato Democrazie e definizioni può essere considerato – senza alcuna forzatura – anche come un feroce pamphlet anticomunista e antimarxista, oltre che come la ‘pietra di fondazione’ della riflessione politologica italiana sui caratteri distintivi di un regime democratico. Proprio quell’impostazione ideologica (un’impostazione ideologica in verità quasi mai esplicitata, ma che davvero trasuda da ogni pagina di Sartori e da molti degli articoli quantomeno dei primi dieci anni della «Risp») giocò in molti sensi nella definizione dei contorni della disciplina. Una implicazione dell’adozione di quella prospettiva fu che la scienza politica assunse – quasi necessariamente – un ruolo critico nei confronti del quadro politico della «Prima Repubblica». Ma questa condizione venne del tutto meno nel quadro politico che si formò a partire dai primi anni Novanta, con la nascita della «Seconda Repubblica».
Sebbene sia certo difficile individuare delle responsabilità dirette dei politologi – quantomeno dei politologi in quanto gruppo professionale – nell’avvio della transizione, è invece assai più semplice riconoscere come molte delle parole d’ordine brandite dagli scienziati politici italiani per biasimare la classe politica della «Prima Repubblica» diventassero, al principio degli anni Novanta del secolo scorso, una sorta di patrimonio comune: la convinzione che tutti i problemi italiani derivassero dall’assenza di alternanza al governo, dall’occupazione del centro, dalla presenza di un forte partito anti-sistema e dalla conseguente irresponsabilità tanto del governo e dell’opposizione usciva allora dalle pagine delle riviste specialistiche per entrare nelle argomentazioni dell’«uomo della strada». E quella vaga ideologia liberale che negli anni Cinquanta e Sessanta era stata patrimonio di alcuni esclusivi circoli intellettuali venne a definire i contorni della nuova koinè in cui tutta la classe politica italiana – vecchia e nuova – riconosceva i propri indiscutibili riferimenti intellettuali. Naturalmente si può discutere sulla sincerità di quelle – più o meno improvvise – conversioni al liberalismo (e spesso al liberismo economico) da parte della classe dirigente. Ma il punto è che la scienza politica italiana, dinanzi a questo brusco passaggio di fase, si trovò, più che spiazzata, sostanzialmente scavalcata. E da quel momento apparve costretta a rincorrere gli eventi, gli slogan, i leader, incapace di articolare un’analisi in grado di andare oltre la superficialità, spesso anche meno capace di comprendere la realtà dei mutamenti di quanto si mostrassero altri osservatori, più o meno digiuni dei rudimenti dell’analisi politologica. 
Oggi, a più di vent’anni di distanza, è piuttosto chiaro come molte delle convinzioni coltivate all’alba della «Seconda Repubblica» fossero autentici abbagli. E gli storici del pensiero di domani troveranno persino sconcertante come nelle migliaia di pagine prodotte dalla «Risp» fra il 1991 e il 2011 risultino del tutto assenti analisi dell’integrazione europea nelle quali siano ravvisabili anche solo pallide tracce di una prospettiva non schiacciata su un europeismo acritico.  Ma ciò che più conta è che proprio l’atteggiamento di passiva omologazione culturale al quadro politico della «Seconda Repubblica» ha finito col favorire ulteriormente la rimozione della teoria politica. Spinti dall’enfasi del cambiamento, molti politologi italiani giunsero infatti a gettare nel cestino tutto quanto era stato prodotto prima del 1992 e col credere che davvero l’Italia «finalmente» maggioritaria fosse un’Italia ‘diversa’, matura e migliore rispetto a quella della «Prima Repubblica». Probabilmente anche per questo iniziarono così a convincersi che i tempi fossero ormai maturi per rompere definitivamente con tutte quelle grandi domande che i cultori della  teoria politica si erano posti. E che fosse ormai arrivato il momento di rimuovere definitamente anche la vecchia domanda su ‘cosa’ sia il potere, su quali siano le risorse che consentono di conquistarlo, di conservarlo, di accrescerlo. Ma una disciplina che tagliava definitivamente quei fili che la legavano al passato – e alla stessa identità culturale italiana – non poteva non diventare una disciplina schiacciata sul presente, priva di qualsiasi prospettiva storica, incapace di qualsiasi funzione realmente critica.
Più di tante analisi, c’è forse un’immagine che riesce a fotografare la condizione intellettuale in cui si trova oggi la scienza politica italiana. Proprio in occasione della presentazione del volume sui quarant’anni della disciplina, nel corso Convegno della Sisp tenutosi a Firenze nel settembre 2013, l’allora Presidente dell’associazione annunciava ai soci che il previsto incontro con il sindaco della città toscana – Matteo Renzi – era stato annullato. Ormai lanciato verso la conquista della Presidenza del Consiglio, l’ospite tanto atteso aveva infatti disertato l’incontro. In realtà l’assenza del sindaco era considerata pressoché scontata (forse anche a causa del titolo non proprio conciliante assegnato all’incontro: «Esame di scienza politica a Matteo Renzi»), e d’altronde i partecipanti al convegno si fecero ben presto una ragione dell’annullamento del confronto. Ma per mostrare la propria buona fede – una buona fede che peraltro mai nessuno avrebbe messo in discussione – il Presidente dell’associazione ritenne opportuno riepilogare dinanzi all’assemblea dei soci tutte le tappe che avevano condotto all’organizzazione del dibattito, esibendo persino la documentazione relativa alle comunicazioni intercorse nei mesi precedenti con il sindaco e il suo staff. Naturalmente dalla ricostruzione (a tratti persino sesquipedale) condotta dal Presidente, emergeva in termini inoppugnabili come l’incontro fosse stato pianificato con grande anticipo e come la mancata partecipazione del sindaco di Firenze fosse imputabile esclusivamente alla scarsa correttezza del politico, oltre che forse alla volontà di eludere un confronto che avrebbe potuto metterlo in difficoltà.
Ovviamente quell’incontro non avrebbe cambiato la politica italiana e, d’altronde, proprio nessuno si attendeva dal dibattito un seppur minimo arricchimento del dibattito scientifico e culturale. Ma proprio quel mancato appuntamento e l’astioso risentimento sollevato dalla diserzione dell’allora sindaco di Firenze riescono per molti versi a fissare la condizione in cui si trova la scienza politica italiana nella «Seconda Repubblica». Una scienza politica che – proprio come il Presidente dell’associazione – sembra inseguire costantemente (ma sempre senza successo) la classe politica italiana, alternando l’adulazione dei cortigiani al risentimento degli amanti traditi. Una scienza politica che appare sempre più schiacciata sul presente e incapace di confrontarsi realmente con i grandi mutamenti storici. E che, proprio per questo, è costretta a ricorrere la cronaca, senza ormai neppure la forza di guardare alla storia.

Damiano Palano







martedì 23 dicembre 2014

Gli scritti di Cesare Lombroso per il "Corriere della Sera" (1884-1908). In libreria un volume curato da Damiano Palano




Da alcuni giorni è disponibile in libreria il volume

a cura di Damiano Palano
Fondazione Corriere della Sera, Milano, pp. 608, euro 16.00

Il volume, che esce nella collana "Carte del Corriere", raccoglie gli scritti che Cesare Lombroso pubblicò sulla testa milanese nell'arco di un quarto di secolo, dal 1884 fino al 1908, pochi mesi della morte. Nel volume sono inoltre accolti altri testi di autori "lombrosiani" - come Augusto Guido Bianchi, Guglielmo Ferrero, Enrico Morselli, Scipio Sighele - che, a cavallo fra Otto e Novecento, contribuirono a popolarizzare le categorie dell'antropologia criminale e a costruire, forse più che un approccio scientifico al fenomeno criminale, un nuovo immaginario. 



Attraverso il «Corriere», Cesare Lombroso (1835-1909) fece scuola. In senso proprio, ospitando i contributi dello studioso e dei suoi allievi, le colonne del quotidiano giocarono un ruolo importante nella battaglia intorno alle nascenti scienze sociali. In senso più esteso, le ricerche lombrosiane sulle connessioni tra genio e follia, sull’atavismo, sulla malattia mentale, sui fenomeni ipnotici aprirono la strada a un nuovo modo di affrontare la cronaca nera, contribuirono alla nascita del romanzo giudiziario, forgiarono un immaginario capace di imprimersi profondamente nella memoria collettiva. Se il suo pensiero risulta oggi “figlio del suo tempo”, e appare a noi spesso inattuale, gli esiti della sua popolarizzazione, soprattutto attraverso la stampa quotidiana, furono apprezzabili e di lunghissimo periodo, muovendosi sul crinale, sottilmente sfumato, fra scienza e letteratura.


domenica 21 dicembre 2014

Il Novecento di Mario Tronti. Una conversazione con Carlo Formenti, Franco Milanesi, Damiano Palano




Questo testo è la trascrizione del dibattito svoltosi presso la Casa della Cultura di Milano il 20 novembre 2014, in occasione della presentazione del libro di Franco Milanesi, Nel Novecento. Storia, teoria, politica nel pensiero di Mario Tronti (Mimesis, Milano, 2014). 
Il testo è stato pubblicato su Tsym Magazine.


Carlo Formenti, giornalista, scrittore e ricercatore universitario, si occupa da più di trent’anni di nuove tecnologie, organizzazione del lavoro e movimenti politici. Tra i suoi libri, La fine del valore d’uso. Riproduzione, informazione, controllo (Feltrinelli, Milano, 1980); Prometeo e Hermes. Colpa e origine nell’immaginario tardo moderno (Liguori, Napoli, 1986); Incantati dalla Rete. Immaginari, utopie e conflitti nell’epoca di Internet (Cortina, Milano, 2000); Mercanti di futuro. Utopia e crisi della Net Economy (Einaudi, Torino, 2002); Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media (Cortina, Milano, 2008); Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro (Egea, Milano, 2011); Utopie letali. Contro l’ideologia postmoderna (Jaca Book, Milano, 2013); Magia bianca Magia nera. Equador: la guerra fra culture come guerra di classe (Jaca Book, Milano, 2014).


Franco Milanesi, dottore di ricerca in Studi politici, ha scritto su riviste come «Paradigmi», «Religioni e Società», «Historia Magistra», «Zapruder», oltre che sul quotidiano «Liberazione. Tra i suoi libri, sono da ricordare Dietro la lavagna (Giraldi, Bologna, 2008), Militanti. Un’antropologia politica del Novecento (Punto rosso, Milano, 2010), e Ribelli e borghesi. Nazionalboscevismo e Rivoluzione conservatrice. 1914-1933 (Aracne, Milano, 2011).

Damiano Palano si occupa di teoria politica e delle trasformazioni delle democrazie occidentali. Tra i suoi libri più recenti, Geometrie del potere. Materiali per la storia della scienza politica in Italia (Vita e Pensiero, Milano, 2005); I bagliori del crepuscolo. Teoria e critica al termine del Novecento (Aracne, Roma, 2009); Fino alla fine del mondo. Saggi sul ‘politico’ nella rivoluzione spaziale contemporanea (Liguori, Napoli, 2010); La democrazia e il nemico. Saggi per una teoria realistica (Mimesis, Milano, 2012); Partito (Il Mulino, Bologna, 2013); La democrazia senza qualità. Le «promesse non mantenute» della teoria democratica (Mimesis, Milano, in corso di stampa).


Damiano Palano: Il testo di Franco Milanesi, al quale è dedicata la nostra discussione, ha il merito di inquadrare fin dal titolo la centralità del Novecento nell’esperienza e nel pensiero di Tronti, un’esperienza e un pensiero strettamente legati al grande laboratorio del XX secolo e le cui radici affondano, in particolare, nel passaggio cruciale degli anni Venti e Trenta. Al dibattito partecipa naturalmente l’autore del volume, Franco Milanesi, che da sempre affianca la passione politica a un lavoro di riflessione teorica e che in particolare, in alcuni suoi lavori, si è rivolto all’«antropologia» della militanza novecentesca. Il secondo protagonista della nostra discussione è Carlo Formenti, uno studioso molto noto per le sue ricerche sulle implicazioni sociali della rivoluzione digitale (e sugli immaginari cresciuti attorno alle nuove tecnologie). Formenti ha alle spalle un percorso ricco di esperienze eterogenee. Arriva dalla militanza sindacale, nei primi anni Ottanta è stato redattore di «Alfabeta» e in seguito ha lavorato per molti anni al «Corriere della Sera». Senza abbandonare l’attività giornalistica, nell’ultimo quindicennio si è dedicato con maggiore intensità alla ricerca e all’insegnamento, all’Università del Salento. All’interno di un itinerario tanto eterogeneo, è comunque possibile ravvisare una forte coerenza, quantomeno nei temi che Formenti ha collocato al centro della sua riflessione. A partire da La crisi del valore d’uso. Riproduzione, informazione, controllo, un testo pubblicato nel 1980 presso l’editore Feltrinelli (negli «Opuscoli marxisti» diretti in quegli anni da Pier Aldo Rovatti), si possono infatti riconoscere tutti i grandi nodi che tornano quasi costantemente nella ricerca di Formenti: l’interesse per il ruolo delle nuove tecnologie e per l’impatto che esse producono sull’organizzazione del lavoro, un dialogo critico con le diverse posizioni del postmodernismo filosofico e la costante domanda sulle nuove forme di azione politica. Non di meno, fin da queste prime pagine, che segnano in qualche modo l’avvio della riflessione teorica di Formenti, si sviluppa un ininterrotto dialogo critico (spesso anzi polemico) con le tesi e gli esponenti dell’«operaismo» italiano, e in special modo con le posizioni di quello che, negli anni seguenti, diventerà il «post-operaismo». Tanto nei suoi lavori degli anni Ottanta, quanto nei suoi scritti più recenti, Formenti non cessa infatti mai di coltivare questo confronto, un confronto spesso aspro che però non giunge a trasformarsi in una totale liquidazione. Probabilmente perché – almeno a mio avviso – Formenti continua a condividere alcuni dei principi teorici della tradizione operaista. E, d’altronde, è proprio in virtù dell’interesse immutato per il filone operaista che Formenti conserva sempre una grande attenzione anche per la produzione teorica di Mario Tronti. 
Venendo all’oggetto principale del nostro dibattito, è innanzitutto opportuno osservare che accostarsi al pensiero di Tronti – come fa Milanesi nel suo libro – è difficile per molti motivi. Innanzitutto, e in questo caso di tratta di un rilievo quasi scontato, sia perché è difficile dare una valutazione complessiva di una personalità politica che svolge ancora un ruolo attivo, sia perché, si potrebbe osservare, non si può ancora avere quella distanza critica dall’oggetto di studio necessaria per fornire una valutazione meditata. In secondo luogo – e in questo caso il rilievo è probabilmente molto più fondato – perché il suo percorso teorico può apparire, in alcuni passaggi, piuttosto criptico, persino ermetico, e soprattutto perché teoria e pratica politica sembrano collocarsi nella sua esperienza spesso su piani differenti, al punto da far apparire il ‘Tronti politico’ in contraddizione con il ‘Tronti teorico’. Tronti ha persino teorizzato la necessità di conservare sempre una relazione problematica fra teoria e pratica, esplicitando in termini quasi programmatici l’esigenza di affiancare l’uno all’altro il «pensare estremo» e l’«agire accorto». E non è difficile ritrovare più di una conferma di questa convinzione nelle scelte compiute da Tronti negli ultimi anni. 
Nonostante nel 2006, al momento della conclusione dell’insegnamento universitario, avesse annunciato il proprio ritiro dalla scena pubblica, Tronti non ha affatto ammainato la bandiera dell’impegno intellettuale e politico. Anzi, proprio da quel momento è tornato a partecipare al dibattito pubblico con un’intensità e un’energia che non aveva più mostrato dagli anni Settanta. In particolare, dal suo nuovo ruolo di Presidente del Centro per la Riforma dello Stato, si è impegnato in una battaglia per l’affermazione della centralità del lavoro: una battaglia culturale ma anche politica, nel senso che Tronti ha indicato proprio nel lavoro il riferimento ineludibile per qualsiasi progetto politico di sinistra, e anche per questo ha in più occasioni assunto una posizione critica nei confronti del Partito Democratico (e in special modo nei confronti del Pd che emergeva dalla segreteria di Walter Veltroni). 
Questo impegno ha alimentato persino l’impressione di un ritorno alle posizioni degli anni Sessanta, o quantomeno l’idea di una proposta per alcuni versi «neo-operaista», sia sotto il profilo teorico (e in questo senso sono significativi alcuni degli ultimi testi: Non si può accettare, Ediesse, Roma, 2009; Dall’estremo possibile, Ediesse, Roma, 2011; Per la critica del presente, Ediesse, Roma, 2013), sia sotto un profilo più strettamente politico, come per esempio con il sostegno alla lotta degli operai della Fiat contro le ristrutturazioni aziendali (l’episodio teorico più rilevante di questa fase è probabilmente il testo Berlinguer a Pomigliano, compreso nel volume Nuova Panda schiavi in mano. La strategia Fiat di distruzione della forza operaia, Derive Approdi, Roma, 2011). Ciò nonostante Tronti, in vista delle elezioni politiche del febbraio 2013, ha accettato la proposta di candidatura al Senato nelle liste del Pd avanzatagli dall’allora segretario Pierluigi Bersani. E se già in quell’occasione la posizione di Tronti appariva quantomeno eterodossa rispetto alla linea del partito, oggi la situazione appare addirittura paradossale, perché Tronti si trova a sedere in Senato tra le fila di un partito molto lontano dalle stesse posizioni bersaniane (e, per molti versi, molto distante anche da qualsiasi residuo riferimento alla sinistra novecentesca). 
Ma la tensione fra teoria e pratica non affiora certo solo negli ultimi anni. Tronti è infatti l’iniziatore di una tradizione, l’«operaismo» italiano, da cui si distacca piuttosto presto e con la quale mantiene da allora un rapporto problematico. Se infatti il Tronti di «Classe operaia» può essere considerato come l’ispiratore di buona parte delle sinistra radicale italiana degli anni Settanta, di fatto si tratta di esperienze politiche da cui il teorico romano rimane sempre distante, e nei confronti delle quali non nasconde anzi una certa ostilità, più che una semplice diffidenza. Probabilmente non esiste però una vera e propria contraddizione fra il Tronti ‘radicale’ degli anni Sessanta e il Tronti ‘realista’ degli anni Settanta, fra l’autore di Operai e capitale e il teorico che ritorna nel Pci per orientarne dall’interno le scelte. A ben guardare, già negli scritti di «Classe operaia» c’è infatti una marcata centralità della politica, una centralità che invece è in gran parte estranea all’operaismo successivo. E proprio per ricostruire questa dimensione spesso sottovalutata della riflessione di Tronti il libro di Franco Milanesi è particolarmente utile. 
Milanesi ricostruisce infatti l’intero percorso di Tronti, partendo dagli anni Cinquanta e dal confronto con la tradizione gramsciana e giungendo fino ai giorni nostri, senza dunque conferire una piena centralità alla fase operaista. Quella che Milanesi compie in questo modo è senza dubbio una scelta molto originale, che differenzia il suo libro da molti altri lavori di ricostruzione del pensiero trontiano. Proprio la fase ‘giovanile’ della riflessione di Tronti – quella in senso proprio ‘operaista’ – è stata infatti oggetto di molte indagini già a partire dagli anni Settanta, e ancora oggi è al centro di un grande interesse soprattutto all’estero, tanto che, da questo punto di vista, è quantomeno significativo che uno dei migliori lavori dedicati alla storia dell’operaismo italiano sia stato scritto da uno studioso australiano come Steve Wright (L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Edizioni Alegre, Roma, 2008). Mentre Wright si concentra però in modo pressoché esclusivo sulla fase propriamente ‘operaista’ di Tronti, e dunque sulla «rivoluzione copernicana» compiuta nelle pagine di  Operai e capitale, nel testo di Milanesi sembra invece di leggere, almeno fra le righe, una sorta di diffidenza di Tronti verso quella stagione: una diffidenza che nasce dalla convinzione che l’operaismo ‘puro’ degli anni Sessanta, salti il passaggio politico dell’organizzazione, e dunque il problema cruciale dell’autonomia (o delle autonomie) del politico, ossia il grande enigma alla cui soluzione Tronti lavora incessantemente dalla fine degli anni Sessanta.
Ripercorrendo le sequenze dell’itinerario teorico trontiano – dalle prime prove giovanili all’operaismo degli anni Sessanta, dal rientro nel Pci alla riflessione degli anni Settanta, per finire con gli scritti dell’ultimo ventennio – non è certo casuale che Milanesi torni a evidenziare in più occasioni proprio la centralità dell’enigma del politico, quell’enigma a cui lo stesso Tronti non darà mai una definitiva soluzione. Tanto che lo scritto che doveva portare a una sorta di sintesi l’intera riflessione trontiana sul politico – un testo più volte promesso e annunciato, dal titolo evocativo Per la critica della democrazia politica – non ha mai visto la luce. Naturalmente ci sono molte ragioni che spiegano quest’opera mancata, che molti dei più attenti e appassionati estimatori di Tronti hanno atteso inutilmente. Ma Milanesi cerca di trovare nell’opera del teorico romano quelle tracce che possano consentire di ricostruire (o quantomeno di intuire) il mosaico di quell’opera mai scritta, e forse anche le tracce capaci di indirizzare «oltre» la crisi della politica. Certo, in questo caso, il compito di Milanesi non è facile, perché il Tronti degli ultimi anni adotta un linguaggio spesso allusivo, tutt’altro che agevole da decifrare; un linguaggio sbilanciato verso i temi della spiritualità, in cui emerge una marcata volontà di recuperare una dimensione spirituale, ma nelle cui formule non è sempre così facile riconoscere le implicazioni più o meno direttamente politiche. E naturalmente Milanesi non può evitare di indagare altri due grandi motivi che attraversano la riflessione trontiana degli ultimi vent’anni. Innanzitutto la curvatura ‘antropologica’ che senza dubbio imprime alla ricerca di Tronti una direzione molto differente – o almeno apparentemente differente – da quella seguita negli anni Cinquanta e Sessanta. E in secondo luogo, il rapporto costante ma problematico che Tronti intrattiene con il pensiero della differenza sessuale. Un rapporto in cui inizialmente il pensatore romano investe molto, perché sembra ritrovare nel pensiero della differenza una nuova declinazione della parzialità, del punto di vista di parte, su cui poter fondare un rinnovato sguardo critico nei confronti del presente. Ma il credito che in passato Tronti concedeva al pensiero della differenza è stato negli ultimi anni sensibilmente ridimensionato. Su questo punto mi pare infatti sia intervenuta una vera e propria autocritica, dal momento che in più occasioni Tronti ha affermato che il pensiero femminile non è stato in grado di confrontarsi realmente con la politica, ossia – per dirla in termini un po’ brutali – con il problema dei rapporti di potere e con la prospettiva di una loro effettiva modificazione.
Evidentemente i temi che il libro di Franco Milanesi suggerisce sono molti, e difficilmente riusciremo a svilupparli tutti in questo nostro dialogo. Ma vorrei iniziare sollecitando Carlo Formenti su un punto che in qualche modo ha a che vedere con il recupero che ha compiuto negli ultimi suoi lavori. In particolare in Utopie letali ha mosso una nuova critica alla tradizione operaista, una critica che in questo caso rappresenta in parte un’innovazione rispetto al proprio consolidato atteggiamento nei confronti di questo paradigma teorico. In sostanza Formenti rimprovera oggi all’operaismo (e soprattutto al post-operaismo) di avere eluso il problema della politica e dell’organizzazione, salvo poi risolverlo con scorciatoie politiciste. Ed è proprio qui che Formenti torna – anche in modo sorprendente – a rivalutare la riflessione trontiana sull’«autonomia del politico», non tanto per i suoi effettivi risultati, quanto per il tentativo di affrontare le specificità di questo terreno e per articolare una domanda che però rimane ancora oggi senza risposta. Ed è proprio a partire da questo punto che vorrei chiedere a Formenti cosa resta a suo avviso di quella vecchia riflessione intorno all’«autonomia del politico», e quale sia oggi l’autonomia che dobbiamo cercare al livello politico.


Carlo Formenti: La questione è difficile. Personalmente spero che Tronti non scriva un’opera “definitiva” sull’autonomia del politico, perché penso che potrebbero essere più feconde proprio le sue riflessioni enigmatiche e allusive, dal momento che qui non si tratta di definire il concetto di autonomia del politico bensì di ragionare attorno alle stesse condizioni di esistenza del politico, che mi pare la domanda di fondo che Tronti si sta ponendo in questa sua fase “malinconica” e “nostalgica”, tipica della tradizione del Novecento. Con questo testo Milanesi colma una mancanza, nella misura in cui, ripercorrendo l’intera produzione teorica di Tronti, fa la storia sia dell’evoluzione della teoria marxista in Italia sia del movimento operaio con tutti i suoi complessi passaggi. 
Una storia che mi tocca da vicino, in quanto esponente di quell’operaismo di seconda generazione (penso ad autori come Bifo, Marazzi e altri) che ha scelto una direzione opposta a quella imboccata da Tronti. Nel passaggio tra  la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta non conoscevo l’operaismo, in quanto ero prossimo ai gruppi “filocinesi”. Il mio incontro con i “Quaderni rossi” è legato a un episodio particolare, che riflette il clima di quegli anni: rubai – gesto che consideravo come un mio diritto alla conoscenza, non avendo i soldi per acquistarlo – un cofanetto che conteneva le ristampe anastatiche di tutti i numeri della rivista. La lettura di quella raccolta fu per me folgorante. Da lì arrivai alla lettura di Operai e capitale, alla “rivoluzione copernicana” trontiana che cambiò radicalmente il mio panorama di riferimento teorico. Prima concepivo la polemica con il Pci in termini rozzamente ideologici, mentre l’adesione al paradigma operaista, di cui Tronti era espressione fondativa, mi fornì strumenti teorici forti alla critica dell’ortodossia marxista “made in Italy”, allora incarnata dal catalogo di editori come Einaudi ed Editori Riuniti. 
Il pensiero di Tronti conteneva tre punti qualificanti: 1) la critica radicale dell’interpretazione nazional-popolare del pensiero di Gramsci e dunque del togliattismo - interpretazione che conduceva alla perdita del punto di vista della parzialità operaia, del punto di vista di classe, sacrificato in nome del “bene comune” (Tronti giustamente diceva che questo non era marxismo); 2) Tronti offriva una lettura particolare del ruolo dello Stato borghese, che non era più lo Stato del laissez-faire, lo Stato comitato d’affari della borghesia che garantiva soltanto le condizioni per l’accumulazione, per lasciare poi campo libero alla spontaneità del mercato, ma interveniva ora direttamente all’interno della regolazione dell’economia, era costruzione antropologica (Foucault direbbe ‘biopolitica’) delle condizioni di riproduzione della classe operaia come elemento subordinato al capitale; 3) infine addebitava alla sinistra tradizionale - e questa, per me che lavoravo nel sindacato, era un’accusa centrale - l’incapacità di riconoscere le modificazioni che erano avvenute nell’organizzazione del lavoro e quindi nella  «composizione di classe» (concetto che ritengo centrale e fondativo di tutto il pensiero operaista e che rappresenta, forse, la sua unica, vera eredità). Composizione di classe: cioè il rapporto tra la trasformazione del lavoro e i livelli di coscienza e le pratiche di lotta della classe. 
Un altro punto centrale era l’affermazione  dell’immediata politicità del lavoro vivo; si diceva: è finita la distinzione tra lotta politica ed economica perché l’operaio massa esprime comportamenti che sono direttamente politici, per cui l’organizzazione politica diviene una funzione interna alla soggettività operaia e il suo compito non è più quello di portare dall’esterno della classe la coscienza politica, non più avanguardie professionali, ma quadri capaci di organizzare sul piano tattico le lotte. A coronamento del tutto l’idea – poi parzialmente autocriticata da Tronti – che la classe operaia subordina a sé lo sviluppo del capitale e non viceversa. Sono le lotte operaie che guidano, che “prendono a calci nel sedere” il capitale obbligandolo a fare innovazione tecnologica, a svilupparsi, a organizzarsi. Non ci sarebbe il capitalismo come forza innovativa senza la pressione delle lotte operaie. Questo è un paradigma forte, comune a tutta l’area operaista, anche ai teorici che hanno poi preso le distanze da Tronti. E questa è anche, dal mio punto di vista, la “palla al piede” che impedisce alle teorie neo e post operaiste di cogliere appieno la realtà contemporanea. Quel paradigma era infatti irreversibilmente connesso a una ben precisa contingenza storica, alla composizione di classe che aveva al proprio centro l’operaio massa, mentre è stato elevato a un principio generale metastorico, in base al quale la classe operaia determina sempre lo sviluppo del capitale. Questo dogma è stato in parte superato da Tronti, mentre l’altra componente operaista, quella che fa capo a Negri, continua, attraverso l’idea della moltitudine, a iscrivere il rapporto conflittuale capitale/lavoro in questa cornice.
Il passaggio decisivo – ben descritto da Milanesi – fu la rottura di “Classe operaia” nei confronti della tradizione dei “Quaderni Rossi”. Se avessi avuto qualche anno di più e avessi vissuto la prima fase dell’operismo, allora mi sarei forse schierato con Panzieri e con il suo discorso, dell’operaismo, più ancorato all’analisi empirica della composizione  di classe, dell’organizzazione di fabbrica, delle condizioni di lavoro e dell’esperienza operaia. Panzieri, interpretando correttamente il senso di quella prima fase di riflusso, voleva puntare sullo studio e sulla preparazione delle energie per un successivo rilancio delle lotte. Al contrario, Tronti e Negri scommisero sul rafforzamento e sul radicamento dell’organizzazione politica nelle fabbriche. La successiva rottura fra Tronti e Negri si è consumata in modo progressivo e, a io parere, non è tanto legata alla scelta di Tronti di rientrare nel Pci. Questo era più un dissidio sulla tattica politica. Del resto allora anche Negri era ancora “leninista” (basta rileggere le sue 33 lezioni su Lenin); la differenza consiste nel fatto che Tronti si apprestava a spingersi molto più avanti in questa direzione,  ad avviare la sua riflessione sull’autonomia del politico. Tronti comincia a ragionare su Machiavelli, Hobbes e su Lenin come altra faccia della medaglia di Schmitt (il quale citava non  a caso Lenin fra le fonti della sua riflessione sulla politica come confine amico/nemico). 
È su questo punto che io mi ritrovo oggi  più vicino a Tronti che a Negri: Tronti aveva visto ciò che a Negri è sempre sfuggito, aveva colto un limite radicale di tutta la teoria marxista. Se si resta nel paradigma definito dal Capitale (ma anche dai Grundrisse, checché ne pensi Negri) la classe operaia resta necessariamente solo forza lavoro, funzione subordinata del capitale. Finelli lo dice bene in un libro recente in cui scrive che l’ultimo Marx si era definitivamente sganciato da Hegel, non lasciando più alcuno spazio al rovesciamento dialettico. Finché c’è internità c’è subordinazione, la classe operaia resta antropologicamente consustanziale al capitale. Qui Tronti, come tutti gli altri operaisti,  si scontrano con il vero limite della loro teoria, cioè con il fatto che non è vero che è sempre la classe operaia a determinare lo sviluppo capitalistico, come dimostrano gli ultimi trent’anni la guerra di classe dall’alto del capitale ha letteralmente fatto a pezzi la soggettività operaia. Ecco perché, anche in Tronti, il problema dell’autonomia del politico si pone oggi in modo completamente nuovo rispetto. Ed ecco perché, nell’ultimo Tronti, troviamo tracce del pensiero apocalittico di Benjamin, di Bloch: la politica come irruzione della trascendenza, la politica come rottura e discontinuità assoluta. Resta però una contraddizione che è comune sia a Tronti che a Negri, vale a dire l’impossibilità di sciogliere il nodo delle coppie oppositive dentro/contro, dentro/fuori. Finché si resta nell’ambito di una visione immanentista, classe operaia e capitale sono “uno”. Ma allora non esiste possibilità di uscita dal capitale. Il fuori è il politico, ma Negri non lo vede e Tronti  non è mai riuscito a tematizzarlo compiutamente. 
Quel che trovo invece geniale è il Tronti critico dei movimenti. Sulle aporie  del ’68 ha colto punti veri, come quello dello slittamento dalle pulsioni libertarie alla liberazione degli spiriti animali del neocapitalismo (anche se, a mio parere, ha sottovalutato l’elemento della rivolta studentesca contro le esigenze strutturali del capitale, allora impegnato a piegare l’università  alle esigenze di costruzione di una forza lavoro tecnico-impiegatizia). Sono invece totalmente d’accordo con la sua critica delle categorie di operaio sociale e moltitudine, nelle quali vede un’espressione delle dispersione sociale e non della soggettivazione, pseudo soggetti permeabili alle narrazioni del nemico di classe. Resta l’interrogativo sollevato dalla sua visione della fine del Novecento come fine del politico, come suo definitivo tramonto. Questo significa che è tramontato l’unico «fuori» che in qualche modo avrebbe potuto costruire un’alternativa al capitale? Scrive Milanesi: «Nel momento in cui il movimento operaio, sconfitto dall’avversario sul campo, interiorizzasse la democrazia borghese come valore, cioè ne dichiarasse la necessità, si consumerebbe definitivamente ogni possibilità di alternativa (…) la classe che si era emancipata dal popolo, torna a essere parte di una massa uni-formata nell’orizzonte chiuso del totalitarismo postnovecentesco». Il libro di Milanesi, ma anche Palano nella sua recensione a Milanesi, sembrano cogliere alcuni timidi tentativi di reinventare la possibilità della politica. Ma tali tentativi sembrano restare confinati nella cornice di una sorta di “seduzione teologica”. 
Cosa ci resta oggi, in conclusione, del suo pensiero?  Per Milanesi la sua eredità più feconda si condensa in tre aspetti: un pensiero parziale, un pensiero che non vuole produrre altro pensiero ma azione, infine l’antiriformismo. Ma come conciliare questa eredità con la scelta politica di stare nel Pd? Io penso che questa contraddizione si spieghi con due critiche che sono state  fatte a Tronti (ma che, a mio parere, valgono anche per Negri nella misura in cui rappresentano due facce della stessa medaglia). La prima critica è quella mossa da Panzieri, che rimproverava a entrambi, al momento della rottura di “Classe operaia”, una tensione verso la filosofia delle storia che li portava a sopravvalutare il grado di politicizzazione della classe operaia, enfatizzandone il grado di autonomia e autorganizzazione, riducendo il capitalismo a una specie di superfetazione ideologica che vive solo per autosuggestione (in Negri questa visione è condotta fino all’esasperazione: il capitale, nella trilogia Impero, Moltitudine, Comune, è un fantasma che aleggia sopra le moltitudini, le quali, nel momento in cui si organizzeranno e si sveglieranno lo faranno svanire).
L’altra critica, più radicale, è quella di Esposito. Il conflitto tra operai e capitale è quello tra due unità di uno stesso intero, creando così una cattiva infinità che sposta incessantemente in avanti la soluzione del conflitto. Se non si torna a pensare il fuori, ma solo la lotta di classe in termini di immanenza (come del resto la pensa lo stesso Marx) non si esce dal capitale. Marx descrive il capitale come nessun altro sa fare e più di qualsiasi economista ci fa oggi capire la crisi. Ma quel che manca è il Marx rivoluzionario, perché le analisi sul 18 brumaio, sulla Comune, ma sono analisi storiche, descrittive in cui non c’è una riflessione sulle condizioni di superamento della società capitalista. Manca una visione del superamento del capitalismo perché manca l’autonomia del politico. Per superare l’impasse occorre sciogliere questo nodo metafisico della pura immanenza che inibisce la possibilità di un salto. Occorre ritrovare un «fuori».


Franco Milanesi: Vorrei porre innanzi tutto la questione del tema dell’autonomia del politico attorno al quale si sviluppa l’intero dispositivo teorico trontiano. Questa tesi, a mio parere, è presente sottotraccia fin dagli scritti dei «Quaderni rossi», dunque nella fase operaista. Pensare che l’agire di classe sia già di per sé politicità significa osservare il conflitto operaio in tutta la sua potenzialità politica. Certo, Tronti si rende conto, già a metà degli anni Sessanta, che questo passaggio sul terreno strettamente politico non si è concretizzato. Che la “rivoluzione copernicana” ha avuto di sicuro una funzione mobilitante ma che la forza espressa nello scontro di classe non si è risolta in potere fuori dal luogo della produzione, cioè pienamente in politica. Da questo punto in avanti, l’autonomia del politico è interpretata in senso più strettamente leninista: è il partito che porta coscienza alla classe e può dare consapevolezza di progetto e non solo di condizione. Il partito, moderno principe, è la politica novecentesca “per eccellenza” ed è si connette pertanto con l’intero arco problematico dello Stato.
Da questo punto di vista bisogna “imparare” dalla politica borghese che, dice Tronti, nasce prima del capitalismo che si sviluppa grazie all’azione politica borghese. Dai dazi agli eserciti, dalla polizia alla cultura di massa è una raffinata strategia che coniuga controllo, azione sul sistema economico complessivo e penetrazione dell’immaginario borghese dentro il corpo sociale. La società civile diviene così, compiutamente, l’hegeliana  bürgerliche Gesellschaft, società borghese. 
La critica all’immanentismo trontiano – il “contro” sta tutto “dentro” il sistema - da parte di Esposito coglie il cuore del problema ma è proprio questo piano tutto immanente del capitale che Tronti mette in discussione lungo ipotesi di fuoriuscita e di trascendenza. Consapevole della difficoltà del compito, senza le “illusioni” di Toni Negri, il quale descrive efficacemente la nuova composizione tecnica del tecnocapitalismo, ma enfatizza la composizione politica antagonista del cosiddetto lavoro cognitivo. In Tronti non c’è un disegno organico di alterità, ma troviamo tentativi, ipotesi di alterità radicale e in tal senso credo vada interpretata anche la funzione dell’organizzazione e del partito. È tramontato il partito di classe nella sua classica forma novecentesca: dirigenti, politici professionisti, popolo, strategia. È finita quella storia, ma è necessario continuare a pensare il significato di un’eredità. Anche la dimensione del religioso, a questo punto, rappresenta uno scarto rispetto al piano dell’immanenza capitalistica poiché l’homo religiosus è alterità rispetto all’homo oeconomicus e al profilo dell’individualismo proprietario. Tutti questi recenti tentativi sono percorsi da un acuto senso del tragico (Tronti, in tal senso, mi sembra prossimo al pensiero di Sergio Quinzio) da cui, forse, dipende quella vena malinconica che si coglie nell’intervista a Gnoli pubblicata da “la Repubblica”. Resta il fatto che Tronti “prova ancora” e io credo che nel Pd bersaniano egli abbia voluto vedere un’espressione della politica capace di raccogliere, in parte, l’eredità novecentesca, un’organizzazione non personalizzata, una possibilità di dare forma e potenza al conflitto. Indubbiamente si possono cogliere motivi di tensione tra un pensiero che continua a produrre idee di conflitto e strategie alternative e l’azione nel Pd. Ma va anche sottolineato un tratto esistenziale, quasi antropologico, l’incapacità da parte di Tronti, di “stare fuori” dall’azione politica poiché il pensiero politico, egli afferrma, non può che essere un pensare per l’agire. 
Infine vorrei rilevare l’efficacia di alcune sue espressioni nel loro carattere icastico: il punto di vista parziale sul tutto, la rivoluzione copernicana, il grande e piccolo Novecento, la democrazia borghese che sconfigge la classe operaia, l’Urss come storia reale del potere operaio (poi interamente liquidata dal senso comune borghese come “stalinismo”), la critica ai movimenti. È un pensiero spiazzante, che ti obbliga a ricollocarti e affrontare criticamente le grandi questioni del Novecento. Certo, del ’68 dà un’immagine parziale, poiché se è vero che quel movimento ha fornito forze di ricambio del potere, non credo possa essere del tutto ricondotto in questa dimensione. Analogamente, quando si interroga sui motivi della vittoria di Obama, vi vede innanzi tutto l’affermazione del grande capitale che ha sostenuto il ricambio presidenziale versando milioni di dollari per la campagna elettorale. Fatto certo significativo, ma che andrebbe letto senza tralasciare la dimensione simbolica di questa elezione.
Le affermazioni di Tronti, le sue letture degli eventi politici, non sono comunque mai “provocazioni”, ma dislocazioni del pensiero. Voglio insomma sottolinearne la vitalità e l’attualità anche se resta irrisolta la questione del rapporto immanenza/trascendenza. Un problema, del resto, per tutte le voci politiche anticapitaliste. Infine, sulla questione del religioso. Tronti è molto attento al conflitto ma anche, machiavellicamente, all’ordine. Conflitto ma non meno Stato, masse ma anche partito, antropologia cristiana ma anche Chiesa, cioè organizzazione in grado di tenere assieme, lungo un arco secolare, strategia, popolo, ceto dirigente. 
Cosa utilizzare in questa indefinita fase di transizione del bagaglio trontiano? Molto, poiché proprio le sue recenti espressioni - alle volte frammentate, accennate, allusive - spingono a ripensare ancora l’intera dorsale teorica del politico.


Palano: A questo punto vorrei tornare su alcuni dei nodi che segnalavo all’inizio, se non altro per chiarire che non intendo contrapporre l’uno all’altro il Tronti politico e il Tronti teorico. Quando si fa politica si compiono inevitabilmente degli errori. Certo, da uomo del Novecento Tronti vede il partito come vera forma dell’organizzazione politica, e ciò comporta anche l’accettazione della disciplina di partito. Ma non è questo l’aspetto che mi preme sottolineare. È stato detto – e Milanesi lo mette bene in evidenza nel libro – che negli ultimi anni emerge nella riflessione di Tronti una dimensione antropologica prima assente. A mio parere questa preoccupazione è già presente nei primi scritti, perché mi sembra davvero di poter riconoscere anche nei lavori giovanili l’incubo che la società dei consumi, dominata dall’uomo massa, elimini qualsiasi conflittualità, e anche quella operaia. A questa sorta di incubo ricorrente, che attraversa l’intera opera di Tronti, egli dà risposte diverse. Negli anni Sessanta, nel pieno della stagione operaista, vede nella fabbrica e nella cooperazione produttiva una risposta, un antidoto formidabile alla ‘massificazione’. Poi però riconosce l’insufficienza di questo livello conflittuale e segnala allora la necessità di un passaggio politico, proprio nel momento in cui si avvia la riflessione sull’autonomia del politico. Poi negli anni Novanta emerge la problematica della trascendenza, dunque del teologico-politico e della sfera della spiritualità. La trascendenza, il teologico-politico, la spiritualità vanno pensate nella prospettiva della produzione di un’identità trascendente, ossia di qualcosa capace di tenere assieme gli individui al di là della relazione materiale ed economica. In queste tre fasi nelle riflessioni di Tronti c’è sempre il partito, ma si tratta evidentemente di un partito che, ogni volta, si presenta con un volto ben differente: negli anni Sessanta è un ‘partito tattica’, poi negli anni Settanta diventa un partito ‘gestore’ della trasformazione sociale, e infine assume i contorni di un partito che dovrebbe ricostruire un’identità e una cultura. Quest’ultima è a mio avviso una visione gramsciana più che operaista, e credo in effetti che la riflessione condotta da Tronti negli ultimi anni abbia molto in comune con il Gramsci dei Quaderni. La critica ai movimenti e al ’68 è d’altronde quella di avere recepito l’individualismo della società consumista, che fa sì che nei movimenti si proiettino richieste di tipo individuale. Il problema che suggerisce la riflessione di Tronti è dunque per molti versi questa: oggi che funzione può avere il partito, anche al di fuori di quello che è stato nel Novecento? Può essere ancora un intellettuale collettivo? E questa è, evidentemente, una domanda molto ambiziosa, ma che riguarda tutti noi. 



Formenti: Sto rileggendo il classico di E.P. Thompson The Making of the English Working Class. Dire che oggi la situazione delle classi lavoratrici è neo-ottocentesca non è una metafora. Certo, le condizioni delle classi subordinate non sono le stesse in termini di miseria o supersfruttamento (ma in Cina, vi si avvicinano). Rispetto alle analisi di Marx ed Engels, Thompson valorizza molto i fattori politico culturali che hanno contribuito alla nascita dell’identità e della coscienza di classe. Per esempio, Thompson fa vedere come abbia svolto un ruolo determinante in questo senso la tradizione del giacobinismo inglese, allorché l’Inghilterra fu vicina a replicare l’esempio della Rivoluzione francese, una possibilità neutralizzata dalle guerre napoleoniche, quando in nome del patriottismo antifrancese furono fatte passare leggi durissime contro le posizioni giacobine sostenute da un proletariato di tipo più artigianale che operaio. Una tradizione che nei decenni successivi  fu tenuta in vita da migliaia di lavoratori che leggevano Tom Paine e le opere dei socialisti utopisti (molti dei quali parteciparono anche ai moti luddisti). C’è poi stato il ruolo importante svolto dalle sette ereticali e delle loro visioni apocalittiche (quelle che ritroviamo nelle opere di Blake). Si è trattato insomma di una costruzione ideologica e non soltanto del riflesso delle spaventose condizioni materiali imposte dall’accumulazione primitiva. 
Tutto ciò ci fa capire che la politica proletaria è nata prima dei partiti socialisti e comunisti, così come quella borghese era nata prima del capitalismo realizzato. Può ripetersi qualcosa di simile ora che – dopo la fine parallela dei partiti rivoluzionari e socialdemocratici - viviamo in un mondo compiutamente postdemocratico? Io credo che qualche barlume di speranza venga dall’America Latina. Non tanto i regimi populisti “di sinistra” ma dall’emergere di una nuova composizione politica di classe che ci impone di andare oltre  l’idea tradizionale di classe operaia. Penso per esempio, ai movimenti degli indigeni in Equador, Bolivia e altri Paesi. Sono indios campesinos che non hanno niente a che fare con la classe operaia, ma sono antropologicamente portatori di una forma di religiosità, di un’idea di comunità, di un rapporto con la natura e l’ambiente che esercitano una forte influenza politica sui movimenti sudamericani. Penso, in particolare, alla Bolivia di Evo Morales, dove è in atto un  processo che, per certi aspetti, evoca il discorso gramsciano sul farsi partito e sul farsi stato. Il MAS di Evo Morales è un partito diverso da quelli della tradizione occidentale novecentesca: è una federazione di soggetti e movimenti, sindacati indigeni, movimenti urbani e contadini, di una pluralità di soggetti che sta plasmando dall’interno le istituzioni mentre letteralmente le occupa. Questa esperienza è stata criticata da destra e da sinistra in quanto rappresenterebbe una visione “corporativa” delle istituzioni. Ma è proprio questa concezione della politica come mediazione permanente tra gli interessi di diversi strati di classe, unificati  dal rapporto di inimicizia con le vecchie élites rovesciate  dalla rivoluzione bolivariana, che mi pare interessante. Non credo vada assunta come un modello, ma penso che contribuisca a un allargamento della prospettiva in cui diviene possibile immaginare un altro futuro. 
E ricavo altri motivi di ottimismo dalle lotte della nuova classe operaia cinese descritte nei lavori di una sociologa di Hong Kong che si chiama Pung Ngai (Ferruccio Gambino che ha avuto modo di visitare recentemente la città di Shenzhen, e di incontrare alcuni giovani quadri sindacali, dice di avere respirato  il clima delle riunioni dei "Quaderni Rossi" nei primi anni Sessanta). La storia non si ripete ma ripropone costellazioni di significato e di rapporti di forza che seguono una linea a spirale. Forse non c’è più speranza per l’Europa, forse qui si è veramente consumata la fine del politico, ma forse possiamo guardare con maggiore fiducia al resto del mondo. La teoria operaista è stata un importante strumento di lotta, non ha prodotto verità assolute, valide in qualsiasi contesto storico. Se cambia la contingenza si deve cambiare paradigma. Su questo Lenin era geniale. La teoria politica non è una scienza esatta, ha senso finché produce lotta, coscienza, progettualità politica. Poi bisogna costruire altro.






giovedì 11 dicembre 2014

Il popolo, una finzione politica? Un volume con contributi di Alain Badiou, Pierre Bourdieu, Judith Butler, Georges Didi-Huberman, Sadri Khiari, Jacques Rancière



Esce in questi giorni il nuovo fascicolo di "Filosofia politica" (3/2014), con una sezione monografica dedicata al "Mito politico" (con saggi di Geminello Preterossi, Vittorio Dini, Laura Bazzicalupo, Mario Perniola). Tra i materiali bibliografici, appare anche una recensione al volume di Alain Badiou, Pierre Bourdieu, Judith Butler, Georges Didi-Huberman, Sadri Khiari, Jacques Rancière, Che cos’è un popolo? (Derive Approdi, Roma, 2014, pp. 120).


di Damiano Palano

Negli ultimi anni il successo di movimenti politici difficilmente riconducibili alla classica dicotomia destra-sinistra ha indotto molti osservatori a recuperare la vecchia nozione di «populismo». Una simile scelta ha però alimentato non poche obiezioni, soprattutto perché le differenze tra i diversi tipi di populismo sono tali da porre seriamente in questione la stessa idea che si tratti di un fenomeno realmente contrassegnato da un'unica matrice ideologica. In generale il discorso populista si caratterizza certo perché tende a evocare l’immagine di un popolo omogeneo, compatto e portatore di valori sani, soggiogato da élite politicamente e moralmente corrotte. Ma in realtà il «popolo» viene concretamente raffigurato di volta in volta secondo strategie tutt’altro che omogenee, e soprattutto variano notevolmente i criteri che stabiliscono chi fa parte del popolo e chi ne risulta invece escluso. Proprio questa consapevolezza accomuna gli interessanti contributi accolti nel volume Che cos’è un popolo? Pur affrontando l’interrogativo da prospettive differenti, gli autori sembrano infatti condividere l’idea che il «popolo» sia solo il riflesso di una costruzione simbolica che può essere utilizzata per finalità politiche persino opposte. Come osserva nitidamente Jacques Rancière, il populismo «non indica un’ideologia e nemmeno uno stile politico coerente, ma serve semplicemente a tratteggiare l’immagine di un certo popolo» (p. 114). Così, se il popolo in quanto tale «non esiste», esistono invece «delle rappresentazioni diverse, perfino antagoniste, del popolo, delle rappresentazioni che privilegiano alcune modalità di associazione, alcuni tratti distintivi, alcune capacità o incapacità» (p. 114).

Dal momento che lo sguardo è rivolto alle strategie di costruzione simbolica del «popolo», nel volume viene accolto anche un vecchio saggio di Pierre Bourdieu che esamina il significato dell’aggettivo «popolare» e che punta portare alla luce la logica che distingue la lingua legittima dai molteplici linguaggi «popolari». In particolare, nello stesso concetto di «linguaggio popolare» secondo Bourdieu può essere riconosciuto il risultato dell’applicazione di tassonomie dualiste, che tendono a strutturare il mondo sociale secondo una distinzione tra ‘alto’ e ‘basso’. Questa medesima strutturazione dicotomica può essere peraltro rintracciata anche in quei linguaggi popolari che – nei diversi «mercati» linguistici – esprimono una resistenza ai principi della legittimità culturale. Ma, più in generale, il sociologo sottolinea che, data la pluralità dei diversi «mercati» linguistici, «ciascuno di coloro che si sentono in diritto o in dovere di parlare del ‘popolo’ può trovare un supporto oggettivo ai propri interessi e ai propri fantasmi» (p. 37). 


domenica 30 novembre 2014

Viaggio sentimentale intorno al nulla. Quando l'intellettuale diventa Piccolo




di Damiano Palano

Questa riflessione, dedicata al romanzo-saggio di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti (Einaudi), è stata pubblicata anche su Tysm Magazine, con il titolo Viaggio sentimentale intorno al nulla: Francesco Piccolo.

In un tempo ormai lontano, che nel ricordo si tinge talvolta dei colori della nostalgia, esisteva l’«intellettuale di sinistra». Non si trattava soltanto di un’etichetta volta a contrassegnare una componente del mondo culturale italiano, anche perché non esistevano gruppi speculari sul versante di destra oppure al centro dello schieramento politico (al massimo c’erano talvolta intellettuali «irregolari», che non avevano rapporti organici e stabili con formazioni partitiche). E non si trattava neppure di un’etichetta destinata a indicare studiosi votati a fornire al movimento operaio – mediante la ricerca teorica – gli strumenti dell’azione politica. L’«intellettuale di sinistra», in altre parole, era tale non tanto per ciò che scriveva o faceva nel proprio specifico campo – fosse la narrativa, il cinema, il teatro, la canzone, l’architettura – quanto per la sua vicinanza (più o meno esplicitamente dichiarata) alla causa del Partito Comunista Italiano. Paradossalmente, ciò che facevano e scrivevano nella pratica questi intellettuali poteva essere persino privo di sostanziali connessioni con l’impostazione ideologica del Pci, e solo nelle rappresentazioni più edulcorate questi operatori della cultura si limitavano ad applicare le direttive definite dal Partito. D’altronde, le provocazioni e le diversioni erano di fatto consentite, sempre che non assumessero la forma di un dissenso organizzato. Ciò che era importante era che quegli intellettuali, in prossimità delle scadenze elettorali, tornassero a schierarsi disciplinatamente sotto le insegne del Partito, e che offrissero una rappresentazione del sostegno del «mondo della cultura» al «cambiamento del Paese». I motivi che consentirono al Pci di conquistare quella che spesso viene definita come un’«egemonia culturale» (certo molto diversa da quella cui pensava Gramsci) furono molti. Gli storici continuano ancora oggi a interrogarsi su quel fenomeno, che ha davvero pochi eguali nel mondo (non solo occidentale), ma è davvero molto difficile negare che qualcosa di simile a un’«egemonia» esistesse effettivamente. Un’egemonia forse più sentimentale che politica, che comunque fece sì che anche una parte di intellettuali che poco avevano a che spartire con la causa del comunismo (e, va da sé, col marxismo) finissero con l’iscriversi – per conformismo, per convinzione, per opportunismo – allo schieramento degli intellettuali di sinistra, nella convinzione che il Pci fosse l’unico reale, credibile, responsabile attore capace di ‘modernizzare’ l’Italia, sotto il profilo politico, economico, culturale e morale.
Che in tutto questo vi fosse qualcosa di paradossale è piuttosto evidente, ma, al di là di ogni dibattito sulle matrici e sui vizi di un simile quadro, è chiaro che oggi non esiste più neppure l’ombra di quel mondo, che cominciò a dissolversi già nella seconda metà degli anni Settanta e che si polverizzò definitivamente negli anni Ottanta. Non esiste più alcun rapporto organico fra intellettuali e partiti (anche perché i partiti di fatto in Italia non esistono più) e non esistono più gli intellettuali come «gruppo», internamente articolato ma compatto nella sua collocazione. Ma, naturalmente, anche oggi esistono degli intellettuali di sinistra, e soprattutto il cosiddetto «popolo della sinistra» continua ad avere alcuni punti di riferimento (seppur sempre più sbiaditi). E anche se è difficile ricostruirne le coordinate ideologiche e teoriche, una buona esemplificazione si trova nelle opere narrative di Walter Veltroni, oltre che nelle sue fatiche saggistiche, in cui si trova condensato molto di quello stile di pensiero che negli ultimi mesi è diventato familiare a molti come «renzismo». Per chi fosse interessato a decifrare il codice genetico di questa galassia – che in verità, più che l’espressione di un mondo organizzato, appare spesso come una sorta di magmatica mucillagine intellettuale – una fonte estremamente preziosa è senza dubbio il romanzo-saggio-autobiografia di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti (Einaudi, Torino, 2013), libro pluri-premiato, le cui fortune – largamente anticipate dagli ambienti letterari – hanno in qualche modo accompagnato in parallelo l’ascesa al potere dell’attuale Presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
Il titolo del libro di Piccolo – che può apparire in parte enigmatico – è in realtà una citazione di Natalia Ginzburg, posta dall’autore a epigrafe del volume: «Ora noi possiamo sentirci, in mezzo alla comunità, soli e diversi, ma il desiderio di rassomigliare ai nostri simili e il desiderio di condividere il più possibile il destino comune è qualcosa che dobbiamo custodire nel corso della nostra esistenza e che se si spegne è male. Di diversità e solitudine, e di desiderio di essere come tutti, è fatta la nostra infelicità e tuttavia sentiamo che tale infelicità forma la sostanza migliore della nostra persona ed è qualcosa che non dovremmo perdere mai». Per molti versi, la citazione di Ginzburg rimane la cosa migliore dell’intero volume, che – adottando un registro variabile – è difficilmente collocabile all’interno di uno specifico genere letterario. Costruito da Piccolo come un’autobiografia, nel libro l’autore accosta la propria formazione personale alle vicende della politica italiana dell’ultimo quarantennio. Proprio per il messaggio politico che scaturisce dalle sue pagine, il testo, più che un vero e proprio romanzo, può essere considerato come un saggio politico. Un saggio costruito – come vuole lo Zeitgeist – senza alcun riguardo per l’argomentazione logica, ma grazie all’accostamento analogico di situazioni, di scene sentimentali, eventi politici, e all’utilizzo di materiali della culturale popolare (strategia in cui Veltroni era maestro e che Renzi sfrutta certo con minore eleganza ma forse con più efficacia). E, soprattutto, un saggio che punta in una direzione precisa.
Il momento iniziale del racconto-saggio di Piccolo è costituito dal gol di Jürgen Sparwasser, il centravanti della Germania Est, che decide le sorti dello scontro diretto contro la Repubblica Federale, ai mondiali del 1974. Proprio quel momento – ed è questa la trovata più simpatica del volume – decide il destino futuro del protagonista, il quale decide di diventare «comunista», e cioè di schierarsi dalla parte del Partito Comunista Italiano guidato da Enrico Berlinguer: «il 22 giugno 1974, al settantesimo minuto di una partita di calcio, sono diventato comunista» (p. 33), scrive Piccolo, anche se, per la verità, al lettore non è consentito di capire cosa implichi davvero la scelta del protagonista, il quale non si iscriverà mai al Pci, non svolgerà mai alcuna attività politica, se non – da ciò che è dato capire – quella consistente nel seguire la fidanzatina, ai tempi del liceo, ad alcune riunioni di un gruppo studentesco di estrema sinistra. D’altronde – ed è questo, si badi, l’elemento più significativo del racconto di Piccolo – la vicinanza del protagonista alla sinistra si svolge tutta in un mondo interiore, del tutto immaginario, che non ha di fatto alcuna connessione con la realtà. Nella vita reale, il giovane Piccolo appare infatti impegnato in attività del tutto prive di qualsiasi connotazione politica, e le sue energie sembrano dedicate quasi interamente alla partecipazione a «feste», la cui evocazione ricorre ossessivamente nella prima parte della narrazione. Ciò nondimeno, il protagonista Piccolo instaura un forte rapporto emotivo con la figura di Berlinguer, nella quale proietta un ideale di purezza, non solo politica. Il Piccolo-narratore trova però una simmetria tra la purezza ricercata dal protagonista e il reale Berlinguer, quello che, dopo il fallimento del compromesso storico, getta sul piatto la «questione morale» e innesca un confronto-scontro con il Psi di Bettino Craxi. Viene così ricostruita la vicenda del referendum sulla scala mobile, voluto da Berlinguer proprio per rispondere a un attacco che considerava personale, e che segnò per molti versi la definitiva sconfitta del Partito Comunista. Di lì a poco, Berlinguer sarebbe scomparso e il Pci – privo di qualsiasi bussola e preda delle faide interne – sarebbe sopravvissuto in uno stato quasi letargico fino alla fine degli anni Ottanta. Ma c’è un episodio che Piccolo ricorda in particolare, quello dei fischi a Berlinguer in occasione del Congresso socialista di Verona del 1984. 
Allora, quei fischi parvero a Piccolo un incredibile affronto a un uomo politico indiscutibile, e quell’affronto diventa addirittura l’episodio che innesca una totale identificazione: «L’11 maggio 1984, nel momento in cui è entrato nel palazzetto dello sport di Verona, e tutto il pubblico ha cominciato a fischiare, io sono diventato Enrico Berlinguer. È stato il momento esatto in cui il mio sentimento pubblico e il mio sentimento privato, che in quei mesi di scontro avevano aderito ogni giorno, sono balzati via da me per infilarsi dentro lo sguardo perduto del segretario del mio partito – che stava davanti a quella gente con la stessa incapacità di organizzare un’espressione che avevo avuto io davanti a Elena che strappava la carta da regalo; ha sentito che mi riguardava così tanto, mi faceva soffrire così tanto, richiamava così precisamente il dolore mio personale, che non ci poteva essere più nessuna distanza tra me e lui; guardavo il suo viso teso, sperduto, e sentivo che con lui c’ero anch’io, anche se non ero lì» (pp. 131-132). E quello stesso episodio – in particolare, la dichiarazione con cui Craxi affermava di non essersi unito ai fischi solo perché non era in grado di fischiare – muta anche l’atteggiamento nei confronti del leader socialista: «Tutto quello che è venuto dopo, e che riguarda Craxi e il suo disfacimento personale e politico, non mi ha più toccato nel profondo; certo, mi sono indignato come quasi tutti gli italiani, mi è stato chiaro che i modi di fare politica erano inaccettabili – ma nulla di tutto questo mi ha davvero più toccato. Il mio rapporto con Craxi, di simpatia o antipatia, di speranza per un’alleanza tra socialisti e comunisti, e il resto che (non) ne conseguì, è finito nell’attimo in cui ha detto, studiando così bene le pause, che non aveva fischiato anche lui soltanto perché non sapeva fischiare» (p. 134-135).
Se la rievocazione di questo episodio e la ricostruzione delle più minute ripercussioni che esso ebbe sul Piccolo-protagonista possono persino risultare sconcertanti per qualche lettore, è evidente che il senso di questa insistenza emerge chiaramente con lo sviluppo del racconto. I fischi a Berlinguer e il suo funerale, così come la famosa intervista sulla questione morale, diventavano il simbolo della «purezza». «Nella sostanza le caratteristiche erano diventate due: essere diversi dagli altri – in un modo che è possibile definire: la purezza; frenare il forsennato ammodernamento della società – un atto che è impossibile non definire: la reazionarietà» (p. 139). E questo secondo elemento già fa trapelare un giudizio politico non da poco, perché in fondo Piccolo riconosce che allora aveva ragione Craxi e che Berlinguer era dalla parte sbagliata della storia. In altre parole, Berlinguer aveva scelto la strada della «purezza», e per rimanere «puro» il Pci aveva rinunciato a fare politica, al contrario del Psi di Craxi. In sostanza, secondo il ragionamento di Piccolo, con la sconfitta del compromesso storico, la sinistra italiana (o almeno quella rappresentata dal Pci), aveva scelto di mantenere un’idea di «purezza» anche se questa implicava necessariamente la sconfitta politica, e – oltre tutto – aveva da quel momento visto nella sconfitta una conferma della propria «purezza». Come scrive il narratore al termine della prima parte, in un passaggio fondamentale del suo saggio in forma di romanzo: «La questione definitiva della sinistra alla quale mi sentivo di appartenere senza alcun dubbio, fu questa: Craxi rappresentava un’innovazione troppo cinica, disinvolta, corruttibile, poco oggettiva e famelica; di conseguenza – e questa è stata una transizione di pensiero del tutto decisiva per la storia della sinistra italiana – fu l’innovazione stessa a significare cinismo, disinvoltura, corruttibilità, famelicità. La sinistra si ritirava per sempre, e con assoluta convinzione – sicura di stare dalla parte della ragione – dal proposito del progresso per trasformarsi in forza reazionaria. Dall’entrata mancata nel governo e dal rapimento di Moro, nasce un’idea di purezza – interpretata come un destino – che non morirà più. Quello che Moro aveva temuto, si verifica alla lettera: il Pci diventa interlocutore esterno della realtà. Ma quello che Moro indicava come un pericoloso punto di forza, diventa una condanna alla marginalità, alla sconfitta. È qui che sta il grande cambiamento: della vittoria non importava più nulla; bisognava soltanto segnare una volta e per sempre una linea di demarcazione, un’idea definitiva di diversità; bisognava sfilarsi dalla vita pubblica reale e rappresentare un’alternativa astratta, pulita, arroccata. Un’alternativa pura» (pp. 154-155).
Dopo la «vita pura», si apre però la «vita impura», in cui Piccolo ricostruisce la propria autobiografia sentimentale nella Seconda Repubblica. Anche in questo caso, la realtà ha poco a che vedere con il vissuto emotivo del protagonista, che anzi appare del tutto disinteressato a ciò che accade nella lunga «transizione» italiana. Piccolo trasforma infatti il sistema politico italiano nel teatro di una drammatica tauromachia, in cui a Romano Prodi spetta il ruolo di eroe positivo, impegnato in una battaglia senza esclusione di colpi con Fausto Bertinotti, il quale diventa addirittura una sorta di Titano politico, seppur incaricato di rappresentare le forze del male. Il momento in cui Rifondazione comunista ritira l’appoggio esterno al primo governo Prodi è infatti considerato come l’inizio del cataclisma politico italiano. Naturalmente, a Piccolo non interessa la realtà dell’operato del governo Prodi, come d’altronde appare sostanzialmente indifferente a considerare in profondità la vicenda delle privatizzazioni, le implicazioni del Trattato di Maastricht sulla politica italiana, la lungimiranza della decisione di procedere sulla strada dell’unificazione monetaria, la costruzione di nuovi blocchi di potere, la demolizione dell’amministrazione pubblica, la proliferazione di legami clientelari a ogni livello di governo, la precarizzazione dei rapporti di lavoro, e cioè tutti quegli aspetti che riguardano la realtà della politica italiana (e dell’operato del primo governo guidato da Romano Prodi). Nell’economia di una storia sentimentale, ciò che preme a Piccolo è rappresentare Bertinotti come l’erede della sinistra «pura» voluta da Berlinguer: una sinistra ‘reazionaria’, ostile al corso ‘naturale’ della Storia, e invece desiderosa di sempre nuove sconfitte, capaci di confermare la propria purezza. Il giudizio politico di Piccolo, da questo punto di vista, è senza appello: «Il gesto di Bertinotti è compiuto in nome della purezza, segue la sorda etica dei principî. Il governo Prodi era stato il riscatto da questa purezza senza fertilità; se avesse portato a termine il suo mandato, probabilmente adesso vivremmo in un paese diverso. […] In quel momento finisce, si consuma, si esaurisce in un tempo brevissimo la rinascita dell’ultima spinta riformatrice del nuovo corso del centrosinistra e il Paese viene consegnato in mano a Berlusconi» (pp. 177-178). Ma è anche qualcosa di più: «Quel giorno è cambiato il mio atteggiamento verso la vita – per sempre. La purezza, il senso di giustizia, non sono state mai più il mio criterio, nemmeno come amico, o come amante; ed è cambiato perfino il mio modo di scrivere, il mio interesse per le storie […] Ho capito una volta per tutte che non soltanto non mi piaceva il fatto che Bertinotti e i suoi sentissero di essere dalla parte della ragione, ma soprattutto che se pure lo fossero davvero stati, la mia inquietudine non si sarebbe più modificata. Quindi non c’entrava con la ragione o il torto; ma con l’uso che si fa della ragione o del torto» (pp. 184-185).
La caduta del governo Prodi, invece di rappresentare un nuovo lutto, diventa per Piccolo il momento di una vera liberazione, di una svolta anche individuale, perché rompe davvero con quell’immagine di «purezza» con cui aveva convissuto dal tempo dei fischi a Berlinguer e, prima ancora, dal momento del gol di Sparwasser. Il protagonista del romanzo-saggio decide di sposare la propria compagna, denominata con la formula «Chesaramai», per la capacità di sdrammatizzare eventi all’apparenza gravissimi. Ma, soprattutto, inizia a vedere le cose in modo diverso, si arrende finalmente alla «forza delle cose». E alla fine – anzi molto presto – scopre che ci si trova benissimo a navigare insieme a quella «forza delle cose», che tutto sommato fregarsene dei grandi problemi del mondo e della «purezza» era scritto fin dalle origini nel suo Dna. 
Nel Conformista di Moravia il protagonista lottava tutta la vita per reprimere la propria diversità, cercava in ogni modo di confondersi nella massa, diventando un piccolo-borghese, un convinto fascista, addirittura un agente dell’Ovra. Ma alla fine doveva soccombere, e quando il fascismo crollava, riemergeva ciò che era sempre stato. Nel libro di Piccolo, il percorso è esattamente l’opposto. Il protagonista cerca di reprimere in ogni modo il proprio conformismo, il «desiderio di essere come tutti», trovando in Sparwasser, in Berlinguer, nel Pci, nell’antiberlusconismo dei simboli di «purezza» da seguire. Ma alla fine – e non è forse casuale che il libro venga concepito e sia pubblicato nel momento in cui Silvio Berlusconi esce sostanzialmente dal proscenio della politica italiana – anche in questo caso riemerge tutto ciò si era tentato di reprimere. Finalmente libero da ogni fantasma di purezza, il protagonista  può finalmente esplodere nel classico, godereccio «checcefrega». Può rivendicare così con orgoglio la propria vorace superficialità, il proprio menefreghismo, l’ingorda piccola felicità domestica, il proprio inguaribile familismo amorale. Il Robert Redford che in Come eravamo dice a Barbra Streisand, il giorno della morte di Roosevelt, che tutto ciò accade nel mondo «non accade a te personalmente», diventa un piccolo inno a profittare delle piccole gioie della vita, a disinteressandoci del nostro vicino, ad arraffare ogni piccolo possibile godimento, dimenticando ogni ‘grande causa’ e ogni nobile ideale. Come scrive Piccolo nelle pagine conclusive: «La superficialità ha diritto di esistere, quanto la profondità. La vita politica, la vita contemplativa e la vita dedita ai piaceri sono sempre esistite contemporaneamente, e la capacità di farle convivere è il compito di ogni individuo e di ogni comunità. […] La sinistra, mi pare, ha imparato a conoscere a fondo i grandi problemi di questo Paese (senza peraltro che questa conoscenza bastasse a risolverli); mentre è geneticamente maldisposta verso un’altra parte di Paese, preponderante per costume e forza, superficiale, spensierata. Ed è così geneticamente maldisposta, che non sa nemmeno più che Paese è. Finora questa lacuna era stata combattuta dicendo: stanno dall’altra parte del confine, non ci riguardano. Ma poiché questo è un solo Paese; poiché la Storia ha insegnato che la corresponsabilità degli accadimenti è di coloro che vincono e di coloro che perdono, anche se non in parti uguali; poiché probabilmente in ognuno di noi al di qua del confine c’è una percentuale di superficialità, di spensieratezza e anche di mostruosità – che siamo sicuri di non avere, ma che abbiamo – è bene oltrepassarlo questo confine e andare a capire di là chi c’è, come si ragiona, cosa si fa. Portando il proprio sapere, i propri ragionamenti, le proprie soluzioni» (pp. 255-256).
È molto difficile immaginare oggi cosa penseranno i posteri di un saggio come quello di Piccolo, e soprattutto è difficile come riusciranno a spiegarsi il successo che gli è stato tributato dal mondo culturale italiano, o quantomeno da ciò che ne rimane ancora. Ma forse nelle pagine di Piccolo – in cui i più malevoli lettori potrebbero divertirsi a ritrovare svariate centinaia di frasi fatte, oltre che le più fruste banalità che da almeno un trentennio circolano nel «sinistrese» italiano – si può trovare davvero il segno di un grande mutamento culturale, contemporaneo ovviamente alla svolta compiuta a livello politico al principio del 2014. Il libro di Piccolo, al di là dei meriti letterari (che il futuro giudicherà più saggiamente di quanto oggi si possa fare), offre infatti la testimonianza di un viaggio sentimentale comune a una parte consistente di ciò che sono diventati gli «intellettuali di sinistra» nel corso dell’ultimo trentennio, ed è probabilmente questo dato che può contribuire a spiegare il successo del libro. Quella formidabile esaltazione della «superficialità» - che certo trova la sua più efficace esemplificazione nella ricostruzione della recente storia italiana compiuta da Piccolo – è infatti un punto di approdo in cui molti si possono riconoscere, liberandosi con soddisfazione dei fardelli del passato. In altre parole, il libro di Piccolo è davvero l’ultimo capitolo di una mutazione genetica che conduce il vecchio «intellettuale di sinistra» a spogliarsi della propria diversità e a indossare finalmente i panni dell’«italiano medio» tante volte impersonato da Alberto Sordi: un personaggio senza dubbio simpatico, ma soprattutto ingordo, addirittura vorace nel soddisfare i propri ancestrali appetiti, dimentico di ogni causa collettiva, ma sempre ossessivamente impegnato a soddisfare il proprio «particulare», e, va da sé, a cogliere l’attimo fuggente dei più effimeri piaceri materiali.
In questa metamorfosi ben poco rimane della vecchia convinzione di stare – nonostante tutto, nonostante le difficoltà, gli errori, le crisi, le sconfitte – dalla parte giusta della Storia. Nel senso che la Storia smarrisce ovviamente ogni residua teleologia, per diventare semplicemente ciò che accade, o per identificarsi addirittura – come scrive Piccolo – con la «forza delle cose». Una «forza delle cose» che non si coincide con nulla di preciso, ma che comunque è bene assecondare, adagiandosi nella corrente e lasciandosi trasportare. Forse a qualcuno il libro di Piccolo sembrerà per questo una sorta di legittimazione della vecchia, vecchissima tradizione nazionale dei «voltagabbana», sempre pronti a capire in quale direzione tira il vento e ad aggiustare il tiro, assecondando i potenti di turno. Ma in verità si tratta di qualcosa di più. È il punto terminale (e coerente) di un nichilismo integrale. Un nichilismo che, rifiutando ogni teleologia e abbandonando qualsiasi tensione etica, si limita a riconoscere che l’unica realtà è quella che accade. E che non esiste alcuna alternativa, né lontana né vicina, all’impetuosa, trascinante, irresistibile «forza delle cose». 

Damiano Palano