domenica 20 maggio 2012

Un uomo in canottiera. Umberto Bossi nella lettura di Marco Belpoliti


di Damiano Palano


Questa recensione è apparsa sul sito dell'Istituto di Politica - RdPonline

Nella sceneggiatura per un film mai realizzato, Marco Lombardo Radice scrisse che «l’unica conquista del sessantotto è stata l’abolizione della canottiera». E, in effetti, chi volesse raccontare una sorta di storia sociale dell’abbigliamento intimo dovrebbe rilevare come, a partire dagli anni Settanta, la canottiera sia stata progressivamente soppiantata dalla T-shirt, finendo addirittura per essere bandita dai negozi specializzati e dagli scaffali dei grandi magazzini. A un certo punto, questo indumento ha certo conosciuto una nuova fortuna, legata alla rilettura glamour che ne hanno fornito stilisti, cantanti e attori, ma la nuova declinazione ha ben poco a che vedere con la vecchia canottiera, indissolubilmente legata nella percezione collettiva alle fatiche estive dei lavoratori manuali, e abissalmente lontana dagli ammiccamenti erotici delle mode omofiliache. In una simile storia sociale, non si potrebbero però non segnalare gli episodi di alcuni utilizzi ‘politici’ dell’indumento, e in questo caso si potrebbero evocare le canottiere esibite da Benito Mussolini, o la canottiera affiorante sotto la camicia madida di sudore di un Bettino Craxi ormai vicino al crepuscolo della sua avventura, in uno degli ultimi congressi del vecchio Partito Socialista. Ma, al di là di questi episodi, c’è senza dubbio un uomo politico italiano che ha fatto della canottiera – proprio della bistrattata canottiera bianca di manovali e facchini – un vero e proprio simbolo. Nella sua storia politica, Umberto Bossi è riuscito infatti tramutare le sue apparizioni in canottiera in formidabili atti ‘performativi’ di un’identità e di una vocazione. E a ragione, Marco Belpoliti – proseguendo il percorso sul rapporto fra corpo e politica nella postmodernità, avviato con il suo Il corpo del capo – dedica un nuovo lavoro proprio a La canottiera di Bossi (Guanda, pp. 109, euro 10.00), che ovviamente è anche un contributo al ripensamento del ruolo che la Lega Nord e il suo leader hanno ricoperto nell’Italia dell’ultimo ventennio.  

L’episodio più celebre con cui Bossi lega la propria immagine alla canottiera risale all’estate del 1994, e cioè a un momento in cui l’alleanza di governo tra la Lega Nord e Silvio Berlusconi, dopo pochi mesi, ha già iniziato a incrinarsi. Ad agosto il leader leghista si reca in vacanza a Porto Cervo, ospite di Giancarlo Pagliarini, ministro nel primo governo Berlusconi e storico seguace di Bossi. Di lì a poco, il cosiddetto ‘patto delle sardine’ sancirà la caduta del governo e la rottura del patto tra Bossi e Berlusconi. Ma proprio in quei tesi giorni di agosto, Bossi fa della sua breve villeggiatura sarda uno spettacolo memorabile. Tra gli ospiti dell’esclusiva località balneare, Bossi si presenta con la sua leggendaria canottiera bianca e con calzoncini sportivi anni Settanta, rilasciando interviste ai giornalisti in questa tenuta e facendosi riprendere dai fotografi e telecamere mentre gironzola sull’arenile attorniato da curiosi e sostenitori. Anche oggi, a quasi vent’anni di distanza, la portata di quella rottura simbolica non può passare inosservata. Si trattava infatti di una rottura duplice: da un lato, rispetto allo stile compassato dei notabili della Prima Repubblica, e dall’altro con lo stile di Silvio Berlusconi, che pure – in modo completamente diverso – aveva fatto del corpo un formidabile strumento di comunicazione politica. E proprio nel confronto con Berlusconi emerge secondo Belpoliti il significato simbolico e politico della canottiera ostentata dal leader della Lega Nord: «Due differenti versioni del vestito sportivo, ma anche della propria fisicità. Berlusconi non si è mai fatto ritrarre, se non in foto palesemente ‘rubate’ da fotoreporter, in costume da bagno, o seminudo. L’immagine in canottiera del leader leghista viene invece trasmessa dai telegiornali con il pieno consenso di Bossi: il messaggio politico che il gesto comunica è esplicito: io sono parte del popolo, e la Lega è un movimento popolare. Seduto sulla spiaggia di Porto Cervo, luogo frequentato dai vip, il Senatùr, in procinto di rompere l’alleanza con il miliardario Silvio Berlusconi, si mostra così. Un vero everyman» (p. 59).
L’episodio della canottiera – che rappresenta il cuore del libro di Belpoliti – si inserisce all’interno di un’analisi sulla ‘corporeità’ di Umberto Bossi, in cui inevitabilmente la personalità del leader finisce col sovrapporsi al movimento politico leghista. In altri termini, anche se l’operazione appare per molti versi meno riuscita di quella compiuta nel Corpo del capo, Umberto Bossi viene interpretato da Belpoliti come la raffigurazione di un tipo umano in cui una specifica fetta della società italiana, attorno all’inizio degli anni Novanta, inizia a sentirsi effettivamente ‘rappresentata’, a dispetto delle movenze scomposte, del linguaggio scurrile, della volgarità esibita, dell’ignoranza talvolta persino orgogliosamente ostentata. L’idea che sta alla base dell’operazione di Belpoliti è in fondo la stessa che alimenta la spiegazione freudiana del potere esercitato dal leader sulla massa. In fondo, per Belpoliti il potere del capo non risiede tanto nella sua abilità manipolatoria, o nella sua superiorità intellettuale e morale, quanto nella capacità di rispecchiare un certo tipo di ambizioni, di desideri, e su questa base di costruire un rapporto emotivo. Ed è così proprio per questo che Belpoliti ritrova nella canottiera di Bossi molto di più che il segno di una personalità, di una psicologia. Umberto Bossi diventa perciò – secondo Belpoliti – il simbolo in cui può riconoscersi una parte fino a quel momento invisibile dell’Italia settentrionale, tanto che l’esibizione della negletta canottiera da carpentiere sulla spiaggia di Porto Cervo può diventare un atto performativo molto più efficace di tante dichiarazioni programmatiche e di tanti comizi.


Nella sua ‘fenomenologia’ di Umberto Bossi, Belpoliti ritrova nel leader leghista una perfetta esemplificazione di quel tipo umano che Federico Fellini fissò nei Vitelloni. Ben prima del suo ingresso in politica, Umberto Bossi, come i protagonisti del vecchio film di Fellini, è infatti «un giovane perdigiorno, abbastanza stagionato, che qualcuno mantiene», «uno che non sa bene cosa vuol fare nella vita, e che disdegna i lavoretti, le piccole occupazioni che la cittadina di provincia offrirebbe alla sua scarsa preparazione» (pp. 5-6). Osservando le prime foto di Bossi che appaiono sulla stampa, risalenti alla fine degli anni Ottanta, e soffermandosi in particolare su quel tratto di «disordine» spesso evidenziato, Belpoliti ritiene si tratti proprio di elementi che si inquadrano nello stile di un nuovo «vitellone». «Bossi è un vitellone, non uno dei ragazzi nullafacenti, sognatori, umanamente mediocri, degli anni Cinquanta, bensì un vitellone degli anni Settanta e Ottanta» (p. 6). I suoi remoti tentativi di avviare una carriera di cantante con lo pseudonimo di Donato, l’abbigliamento trascurato delle sue prime apparizioni, ma anche la sua gestualità scomposta, il suo modo di tenere il microfono e di arringare il suo pubblico, la voce «cavernosa, profonda, strascicata» rendono Bossi davvero anomalo rispetto al quadro politico del tempo e più vicino agli urlatori degli anni Sessanta. «Somiglia più a un cantante», scrive infatti Belpoliti, «che usa il microfono avvicinandoselo molto, entrandoci quasi in rapporto fisico, stando tuttavia attento alla modulazione della voce, allo scopo di ottenere l’effetto desiderato, ossia il forte riverbero, se non proprio virulento, sui fan che stazionano sotto il palco» (p. 17). La gestualità e l’uso della voce sono d’altro canto il contenuto stesso del messaggio, perché «nel caso di Bossi non è solo la parola – anche quella naturalmente, e il tono della voce –, ma sono i gesti che si accompagnano alle parole, le quali spesso costituiscono delle provocazioni, delle ‘sparate’ (minacce, offese, dileggi eccetera), ad avere un potere performativo, così da rappresentare il vero contenuto della politica della Lega, che peraltro si fonda esclusivamente sulle parole del Capo, sui suoi slogan e affermazioni, che mutano di mese in mese, oltre che di anno in anno» (p. 29). Di questo repertorio Belpoliti sottolinea anche la componente sessuale, che d’altronde nelle performance oratorie è tutt’altro che assente, ma l’aspetto più interessante della sua analisi è nell’idea che il profilo di Umberto Bossi sia quello del «vitellone», e che proprio questo tratto – invece di rappresentare una debolezza della sua immagine politica – ne costituisca la forza principale. In altre parole, come scrive Belpoliti nelle pagine conclusive, tutte centrate sull’esame di alcune fotografie scattate da Ferdinando Scianna nei primi anni Novanta, la forza di Bossi stava tutta nella capacità di raffigurare un’Italia minore, forse persino rimossa, comunque lontana dal palcoscenico della politica: «Bossi non è altro che un vitellone di provincia. Lo rivela la postura, lo sguardo e quelle labbra carnose, quasi femminee, sul viso lungo e smunto. Non sta facendo niente; prende un caffè al bar. Uno studente fuoricorso, un simpatico perdigiorno, e anche spiritoso probabilmente. Un nullafacente. Il ritratto dell’Italia paesana subito dopo il boom economico, da cui molti di noi provengono, amata e rifiutata al medesimo tempo. Il ‘paese stretto’ di Leopardi, che per quasi trent’anni è uscito da se stesso pur restando se stesso, e ha ghermito il resto dell’Italia, le città del Nord, Milano, e poi Roma, la Capitale, la Città Eterna. Che ha condizionato, in una congiuntura imprevista e imprevedibile, le nostre stesse vite, e che ora si ritrae, torna là dove era venuto; si acquatta dentro il suo grembo originario, riposa, almeno per un po’, ma senza scomparire del tutto. L’identità italiana è impregnata anche di questo, fa parte di noi, per quanto ce ne distanziamo, lo rinneghiamo, cerchiamo di strapparcelo di dosso» (p. 90).

Soprattutto per le nuove generazioni è oggi molto difficile apprezzare fino in fondo l’effetto dirompente che ebbe l’apparizione di Bossi sulla scena della politica italiana. Di quella leadership carismatica oggi non rimane altro che l’alone sbiadito. Seguendo il declino fisico e politico dell’uomo, anche la canottiera ha finito col cambiare il proprio significato, ed è diventata l’indumento di un anziano pensionato, se non addirittura – si potrebbe dire dopo gli eventi delle ultime settimane – l’ideale abbigliamento del Palo della banda dell’Ortica cantato da Jannacci. Anche Belpoliti rinviene un mutamento radicale nel significato di quella canottiera, che Bossi torna a esibire nell’estate del 2011, in un estremo tentativo di tornare alle origini del movimento, e così di riaffermare l’identità leghista, offuscata dal lungo sodalizio con la compagine berlusconiana. Nelle nuove fotografie, però, Bossi «appare invecchiato, più simile a un pensionato che non al brillante provocatore politico degli ultimi vent’anni». «La canottiera diventa il segno di una vistosa decadenza fisica che finisce per sublimarne la figura, la santifica, almeno in parte, ma soprattutto la sposta fuori dal campo simbolico della politica in senso stretto. Ora la canottiera non è più un gesto provocatorio. Torna a essere un indumento intimo, che nel galateo piccolo borghese (il popolo che si vergogna di essere ‘popolo’) doveva restare nascosto sotto i vestiti» (p. 67).
Da sempre intrecciata a doppio filo con la figura del suo leader storico, la Lega Nord si troverà probabilmente nei prossimi mesi e nei prossimi anni dinanzi a un cammino molto intricato, e – come avviene per tutti i movimenti fortemente segnati da personalità carismatiche – è molto improbabile che riesca a conservare inalterata la propria forza, se non operando una profonda ridefinizione del proprio profilo e del proprio progetto politico. D’altro canto, è ormai piuttosto evidente non solo che non esiste più quel «vitellone» capace di trascinare con i suoi improperi sguaiati le folle settentrionali, ma anche che quella magmatica coalizione sociale cui la Lega delle origini si rivolgeva è cambiata profondamente, colpita dalla crisi economica e prima ancora dalle trasformazioni intervenute nel tessuto produttivo del Nord-Est. Forse è presto per intonare il de profundis per la Lega, e farlo sarebbe d’altronde quantomeno imprudente, data l’abilità di risorgere in modo inaspettato dalle difficoltà che da vent’anni la leadership leghista ha più volte mostrato. Ma è oggi comunque già possibile guardare a Bossi e alla sua avventura politica stilandone un bilancio. Un bilancio che, se certo non può essere privo di ombre e di aspetti negativi, non può neppure negare a Bossi e alla Lega una strabiliante capacità ‘performativa’, di cui l’uso della canottiera fornisce solo uni dei tanti esempi. Nel corso della sua storia, Bossi è spesso stato stigmatizzato per il suo ‘populismo’, e con questa formula i suoi critici hanno voluto biasimare l’utilizzo di toni demagogici e irresponsabili. Effettivamente, Bossi è stato davvero un leader populista, ma nel suo populismo c’è molto di più dell’abilità manipolatoria che – non senza ragioni – gli è spesso stata rimproverata. Bossi e la Lega sono stati ‘populisti’, in un senso ben più ampio (e forse anche più nobile) del termine, perché hanno davvero creato un ‘popolo’ che in precedenza non esisteva, perché hanno creato quella «questione settentrionale» di cui nessuno (o quasi nessuno) aveva fino a quel momento pubblicamente parlato, e perché hanno dato forma a quel «popolo del Nord» di cui in precedenza nessuno aveva neppure sospettato la possibile esistenza. Ovviamente, quel «popolo del Nord» – come d’altro canto quella «Padania», su cui tanto si è ironizzato negli ultimi quindici anni, e che forse rimane la creazione simbolica meno riuscita di Bossi – rimane un popolo fittizio, come d’altronde sono a ben vedere fittizi tutti i popoli del mondo e della storia. Il punto è che Bossi e la Lega non si sono limitati a ‘rappresentare’ gli interessi del Nord, ma li hanno in gran parte costruiti, mediante una ‘rappresentazione’, forse narrativamente discutibile, ma politicamente formidabile. E, in fondo, proprio qui – nella capacità di costruire ‘rappresentazioni’ – stanno le radici reali della forza di un partito. Oggi quella rappresentazione ha perso molta della propria originaria energia, come d’altronde è visibilmente avvenuto per il carisma del leader leghista. È allora prevedibile che la canottiera orgogliosamente ostentata da Bossi torni davvero a essere solo un indumento di biancheria intima, e che il “popolo del Nord” finisca col dissolversi. Ma il fatto che la canottiera torni essere occultata pudicamente non significa certo che debba scomparire per sempre. E, soprattutto, non esclude che prima o poi qualche nuovo «vitellone», uscito da qualche balera di provincia o da un bar di periferia, non possa raccontare la storia di un altro popolo, e che da sotto la camicia non sia destinata a riaffiorare ancora una volta la vecchia, umile e bistrattata canottiera.

Damiano Palano

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