sabato 30 aprile 2016

La legittimità difficile nella tarda democrazia. Una discussione sul volume "Gemina persona" di Paolo Costa, con Damiano Palano e Filippo Pizzolato, lunedì 2 maggio, ore 14.30




La legittimità difficile nella tarda democrazia

Una discussione a partire da
Paolo Costa 
Gemina persona. Un’ipotesi giuspubblicistica intorno alla crisi del soggetto politico 
(Giuffrè, Milano, 2015).



Partecipano: 

Filippo Pizzolato
Damiano Palano
Paolo Costa

Lunedì 2 maggio 2016
ore 14.30-16.30
Aula G.003 Bausola
Università Cattolica
Largo Gemelli, 1
Milano

martedì 26 aprile 2016

Un castello di carte. Il potere fragile della politica. Una presentazione del Convegno "Da House of Cards alla Casa Bianca. Lo spettacolo del potere nello specchio delle serialità televisiva". Milano, 27 aprile 2016



di Damiano Palano

Questa breve presentazione della Conferenza Da "House of Cards" alla Casa Bianca. Lo spettacolo del potere nello specchio della serialità televisiva, è apparsa su "Avvenire" del 23 aprile. Alla Conferenza, che si svolgerà mercoledì 27 aprile 2016, alle ore 10.30, presso l'Aula Magna dell'Università Cattolica del Sacro Cuore (Largo Gemelli 1, Milano), parteciperanno anche Aldo Grasso, Luca Barra, Andrea Locatelli, Massimiliano Panarari, Massimo Scaglioni, Antonio Visca (SKY Atlantic) e Antonio Zotti. 

Nelle pagine di un romanzo, scrisse Stendhal, «la politica può fare l’effetto di un colpo di pistola nel bel mezzo di un concerto ». In realtà la letteratura popolare dell’Ottocento non esitò ad ambientare le proprie storie nelle stanze del potere, e grandi romanzieri come Balzac, Hugo, Dostoevskij e Zola non mancarono di mettere in scena intrighi politici più o meno verosimili. Il mondo di House of Cards – la serie televisiva di Netflix, giunta quest’anno alla sua quarta stagione – ha dunque profonde radici, che non risalgono peraltro solo alla vecchia tradizione del romanzo ottocentesco, ma anche più indietro, al teatro di Marlowe e di Shakespeare. E nella sinistra sagoma di Frank Underwood si possono così agevolmente riconoscere i tratti dello shakespeariano Riccardo III, o di uno dei tanti machiavellici arrampicatori sociali della “Commedia Umana”, o persino di un discendente di Eugène Rougon, ministro del Secondo Impero.
Al di là del suo valore artistico e delle sue ascendenze letterarie, il successo ottenuto in questi anni da House of Cards non poteva non alimentare molte discussioni. Discussioni che si sono innanzitutto concentrate sul significato di una serie che non esita a rappresentare il volto peggiore della politica. E che anzi indulge nell’esibire l’insaziabile sete di potere che muove i protagonisti. È quasi scontato che nelle vicende e nei personaggi che percorrono i mille corridoi di Washington D.C. si possa scovare più di qualche allusione alla realtà della politica americana, e persino a qualcuno dei protagonisti della lunga corsa elettorale che, nel prossimo novembre, sancirà il nome del nuovo Presidente degli Stati Uniti.

Ma sarebbe probabilmente semplicistico ridurre l’intera operazione di House of Cards solo a questa dimensione. Certo si può considerare la serie – come faceva Foscolo per il Principe di Machiavelli – come un’opera che, rappresentando l’efferatezza di Underwood, mostra agli occhi del pubblico «di che lagrime grondi, e di che sangue» lo scettro del potere. Anche in questo caso si tratterebbe però di una lettura riduttiva. E soprattutto di una lettura fin troppo confortante, che finirebbe col trascurare il fascino che un personaggio spregevole come Underwood comunque esercita sugli spettatori. Forse House of Cards è infatti uno “specchio” della politica di oggi non tanto per la verosimiglianza degli intrighi e dei personaggi, quanto perché registra fedelmente la sfiducia pressoché totale nei confronti della classe politica che caratterizza ogni democrazia avanzata. In altri termini, mentre mette in scena una politica in cui regnano incontrastati la menzogna, l’inganno e l’adulazione, House of Cards non fa altro che dar forma plastica a ciò che – a torto o a ragione – è la percezione diffusa nella «società della sfiducia ».
Al tempo stesso, però, quella rappresentazione non va più ad alimentare una denuncia, come avveniva invece nel cinema civile americano, o per esempio in un vecchio film come Mr. Smith va a Washington. Ma si traduce piuttosto in un irrimediabile disincanto, nell’idea che la politica non possa essere altro che una politica senza valori, alimentata solo da una inestinguibile sete di potere. O, addirittura, si risolve in un cinismo compiaciuto. Col risultato che, nell’immaginario del pubblico, le vicende di Frank e Claire Underwood finiscono col diventare davvero una sorta di Principe del XXI secolo, e cioè il manuale di un “machiavellismo prêt-à-porter”, cui ciascuno di noi è chiamato ad attingere per orientarsi nelle relazioni quotidiane. Ma quella che House of Cards mette in scena è anche la politica della “democrazia immediata” e dello storytelling. Una politica in cui le grandi strutture di mediazione sono sempre più evanescenti, e in cui i media rappresentano l’unico canale che mette in connessione i governanti e l’immensa platea del “pubblico”.
E ovviamente una politica “personalizzata”, i cui protagonisti non sono partiti, classi o ideologie, ma solo i leader, armati esclusivamente della loro fisicità, della loro più o meno efficace retorica, della loro capacità di “raccontare storie”. Lo sguardo ambiguo con cui il pubblico segue le trame di Fu ha per questo molto a che vedere con l’entusiasmo con cui l’opinione pubblica segue – anche solo per un attimo fugace – le avventure dei leader politici postmoderni e le loro “narrazioni”. E proprio per questo – pur con tutte le sue deformazioni – House of Cards ci torna a dire che il potere, per sedurre, ha bisogno di storie, di miti, di narrazioni e persino di “eroi”, perché la legittimazione non può scaturire solo da regole e procedure. Ma naturalmente non dobbiamo mai dimenticare che gli eroi politici di cui celebra l’epopea lo storytelling contemporaneo non sono affatto eterni come gli eroi di Omero, ma sono anzi le creature effimere di cui si alimenta lo spettacolo della politica.
Leader carismatici, capaci di accendere entusiasmi, di evocare sogni e speranze, eppure sempre più deboli, sempre più privi di sostanziale potere, sempre più soverchiati dalla “gabbia d’acciaio” dei vincoli tecnici ed economici. Ed è forse anche per questo che House of Cards – benché esibisca lo spettacolo di un potere cinico, e nonostante sembri celebrarne l’assenza di limiti (non solo morali) – in realtà finisce col suonare come una sorta di epitaffio non solo per la politica, ma anche per il potere di leader sempre meno capaci di mantenere le promesse e di soddisfare le attese che alimentano. Perché – anche se Frank Underwood definisce qualche volta il potere «duro come la pietra» - il potere della politica è destinato a rivelarsi sempre più fragile. Anzi fragilissimo. Proprio come un castello di carte.


Damiano Palano

domenica 24 aprile 2016

L’Italia senza bussola nel lungo inverno europeo. La politica estera della «Seconda Repubblica» nell’analisi di Emidio Diodato




di Damiano Palano

Il libro di Emidio Diodato, Tecnocrati e migranti. L’Italia e la politica estera dopo Maastricht (Carocci, Roma, pp. 117, euro 14.00), cui è dedicato questo testo, verrà presentato all'Università Cattolica, a Milano, martedì 26 aprile alle 14.30, in un dibattito cui parteciperanno, oltre all'autore, Corrado Stefanachi, Stefano Procacci e Damiano Palano. L'incontro è inserito nel ciclo Democrazie in tensione.

In una calda serata romana dell’estate 1915, mentre percorreva per via Nazionale, Francesco Saverio Nitti ebbe modo di incrociare l’allora Presidente del Consiglio Antonio Salandra, che – come ogni giorno, al termine della giornata di lavoro – compiva una lunga passeggiata igienica per rientrare nella sua abitazione di via Carducci. Invitato da Salandra, Nitti – che rievocò l’episodio nelle sue memorie – accompagnò il Presidente del Consiglio nel tratto che conduce verso piazza Termini, e fatalmente, dopo alcuni cortesi convenevoli, la conversazione tra i due uomini politici finì per cadere sulla guerra. «Io» - ricorda Nitti - «evitavo di dirgli cosa alcuna che potesse dispiacergli; poi che in quel momento avevo risoluto di non creare difficoltà al governo. Ma fu egli stesso che mi disse che le cose procedevano bene, quantunque gli Austriaci avessero mostrato un’organizzazione e una resistenza maggiore di quello che si poteva supporre nei primi giorni». Pur senza esprimere apertamente i propri timori, Nitti non mancò di manifestare la sensazione che la guerra sarebbe stata lunga, e che avrebbe comportato per questo difficoltà notevoli. Proprio queste perplessità sollevarono in Salandra il sospetto che il collega non avesse abbandonato il proprio pessimismo. E lo scambio successivo fra i due statisti risolta da questo punto di vista quasi sconcertante, oltre che rilevatore. «Io gli risposi» - scrive Nitti - «che non ero pessimista e credevo alla vittoria finale, ma che mi rendevo conto della realtà. E a mia volta gli chiesi: “L’inverno sarà duro nelle Alpi. Hai provveduto completamente agli approvvigionamenti invernali per l’esercito?” Si fermò di botto. Eravamo sotto un fanale. Ricordo ancora la sua impressione di sorpresa e la sua aria diffidente. Mi disse: “Il tuo pessimismo è veramente inguaribile. Credi che la guerra possa durare oltre l’inverno?”»
Per chi rilegga le memorie di Nitti a un secolo di distanza dalla carneficina della Prima guerra mondiale, l’esibito ottimismo di Salandra non può che suonare piuttosto familiare. Perché, nel corso della «Seconda Repubblica», l’esibizione di ottimismo esasperato – un ottimismo talvolta caricaturale, ma sempre sprezzante nei confronti di quanti, sottolineando semplici dati di realtà, finiscono per essere svillaneggiati come alfieri di un deprecabile ‘sfascismo’ – ha spesso costituito l’arma retorica principale di tutti i principali leader che si sono succeduti a Palazzo Chigi. Anche se – presto o tardi – il forzato ottimismo ha invariabilmente avuto la peggio nell’impietoso confronto con i fatti. Ma forse le memorie di Nitti possono anche offrire un buon prologo per rileggere l’intera storia italiana dell’ultimo trentennio. Perché probabilmente si può riconoscere qualcosa della sconcertante combinazione fra sventato ottimismo, colpevole dilettantismo e criminale improvvisazione, che trascinò l’Italia nella tragedia della Grande guerra, anche nelle dinamiche che condussero la classe politica della tramontante «Prima Repubblica» a sottoscrivere la decisione destinata a determinare il destino del Paese per decenni, e cioè la firma del Trattato di Maastricht.
Alcuni anni fa, nel suo prezioso volume Il vincolo esterno. Le ragioni della debolezza italiana (Mimesis, Milano, 2114), rileggeva proprio le dinamiche che avevano condotto l’Italia a Maastricht, inserendo quella decisione all’interno di una storia di lungo periodo. L’idea di fondo di Diodato – un politologo che, col garbo compassato dello studioso super partes, riesce, quasi senza darlo a vedere, a smontare pezzo dopo pezzo molti dei più consolidati e frusti luoghi comuni della discussione sul ‘caso italiano’ – era che  il mutamento nell’assetto interno di uno Stato costituisca sempre il riflesso delle trasformazioni che si producono nel sistema internazionale. Ma, soprattutto, in quel libro Diodato - anche sulla scorta dell'impostazione illustrata in alcuni suoi testi precedenti, come in particolare Il paradigma geopolitico (Meltemi, Roma, 2010) e Che cos'è la geopolitica (Carocci, Roma 2013) - tentava di cogliere l’intreccio strettissimo tra la dimensione interna e quella internazionale della politica italiana, sottolineando il peso che avevano avuto – nell’indirizzare la democratizzare italiana del secondo dopoguerra – tre «vincoli esterni»: innanzitutto, l’adesione agli istituti di Bretton Woods, dopo la seconda guerra mondiale; in secondo luogo, l’entrata nel Sistema Monetario Europeo nel 1979; e infine l’adesione ai rigidi parametri fissati a Maastricht. Fra le molte sollecitazioni che quel volume sottoponeva al dibattito (anche relative al modo di concepire gli studi politici), Diodato suggeriva una risposta alla domanda sui motivi che avevano spinto la classe politica della «Prima Repubblica», ormai al termine della sua parabola, a sottoscrivere (e anzi ad appoggiare con entusiasmo) un trattato che, di fatto, comportava la fine della ‘sovranità economica’ italiana e che, soprattutto, implicava enormi rischi per l’economia del Paese. La tesi di Diodato, da questo punto di vista, era quasi cristallina: con la dissoluzione del blocco sovietico, le tradizionali linee di politica estera adottate dall’Italia risultarono rapidamente inservibili, tanto da mettere in crisi l’immagine di «media potenza regionale» costruita nel corso dei decenni.
L’assenza di una politica estera adeguata al nuovo scenario aprì invece uno spazio di manovra all’iniziativa di Guido Carli, ministro del Tesoro ai tempi della sottoscrizione del Trattato Maastricht (oltre che principale negoziatore italiano nelle lunghe trattative che precedettero la firma). In particolare, Carli intuì come il nuovo contesto – dominato dalla riunificazione tedesca – offrisse una strada praticabile alla costruzione di un nuovo «vincolo esterno», cui ancorare la classe politica italiana e l’economia di un Paese, secondo la visione dell’ex Governatore della Banca d’Italia, ‘antropologicamente’ ostile ai principi dell’economia di mercato. Ma il nuovo «vincolo esterno» – come scriveva Diodato – ha finito col tradursi in un fardello sempre più pesante: «non siamo in grado di capire se l’Unione saprà rivelarsi la risposta adeguata alla crisi della sovranità dello Stato moderno. Quel che sappiamo è che l’Italia, a causa del suo ritardo con la modernità, nel corso del Novecento si è trovata a dover gestire un vincolo esterno divenuto sempre più costrittivo. Il rischio è che l’attuale vincolo monetario possa paralizzare lo sviluppo democratico ed economico del paese, soprattutto se la corruzione politica renderà vana ogni virtù nazionale» (ibi, p. 103). 
Nel suo volume più recente, Tecnocrati e migranti. L’Italia e la politica estera dopo Maastricht (Carocci, Roma, pp. 117, euro 14.00), Diodato riprende questa tesi, per ragionare in particolare sulla collocazione internazionale del Paese nel corso della «Seconda Repubblica». Un primo nodo che Diodato tenta di dipanare nel suo nuovo lavoro è quello che stringe il crepuscolo della «Prima Repubblica» alla nascita della «Seconda». E qui non può evitare di tornare al ruolo chiave giocato da Guido Carli al tavolo dei negoziati destinatati a partorire il Trattato sull’Unione europea, approvato dai capi di governo della Comunità europea nel dicembre 1991 e poi firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992. Benché il Trattato fosse approvato dal Parlamento pochi mesi dopo con una semplice legge di ratifica, era chiaro a molti che, di fatto, l’adozione delle misure fissate a Maastricht implicava una modifica di carattere costituzionale (in ordine al diritto di voto nelle elezioni amministrative). Ma, paradossalmente, non ci si avvide – o non si sottolineò nel corso del dibattito – un aspetto ben più rilevante: e cioè, come scrive Diodato, «che si stava procedendo in modo irreversibile all’abbandono dell’individualismo nazionale su questioni di sovranità monetaria, totalmente, e su questioni di politica e di bilancio, parzialmente» (p. 21). Mentre «forse solo Carli ebbe piena consapevolezza del rilievo costituzionale del futuro assolvimento degli obblighi economici» (p. 21). 
Lacerato tra due diverse impostazioni – come egli stesso ammise – Carli si convinse probabilmente, nel passaggio tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, che la classe politica al governo del Paese (dunque democristiana e socialista) fosse del tutto incapace di avviare una riforma istituzionale e soprattutto di adottare criteri di rigore nella gestione della spesa pubblica. Il momento di svolta, per Carli, furono – secondo la ricostruzione proposta da Diodato, ma suggerita in qualche misura dallo stesso ex governatore della Banca d’Italia – le dimissioni di Mario Sarcinelli da Direttore generale del Ministero del Tesoro, nel dicembre 1990, in risposta alla richiesta dell’allora Ministro degli Esteri Gianni De Michelis di concedere un prestito ad Algeria e Unione Sovietica (paesi considerati a rischio dal Fondo monetario). Dopo le dimissioni di Sarcinelli, Carli nominò un gruppo di tecnici che avrebbe dovuto lavorare alla negoziazione del Trattato sull’Ue e che comprendeva personalità (di differente estrazione), come Mario Draghi, Tommaso Padoa-Schioppa, Mario Monti e Francesco Giavazzi. Ma il gesto di Sarcinelli confermò in Carli la convinzione che solo ancorando le scelte politiche a un «vincolo esterno» si sarebbe potuta evitare la deriva del sistema economico italiano. «La nostra scelta del vincolo esterno», ammise d’altronde Carli nelle proprie considerazioni retrospettive, «nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo Paese» (G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana,a  cura di P. Peluffo, Laterza, Roma-Bari, 1993, p. 267). In altre parole, Carli vide nel «vincolo esterno» uno strumento per ‘neutralizzare’ l’autonomia della classe politica e per costringerla in una camicia di Nesso di disposizioni ‘tecniche’ non aggirabili. In questo senso, Diodato coglie perfettamente la nitida logica ‘tecnocratica’ che sosteneva il ragionamento di Carli, e cioè una logica non semplicemente contrassegnata dall’idea che la ‘tecnica’ abbia proprie necessità, ma soprattutto dalla convinzione che la ‘tecnica’ e le sue ragioni siano superiori alla politica e si debbano imporre – persino con la forza – alla politica, nonostante ciò finisca col comportare una sostanziale ‘de-democratizzazione’: «In quanto strumento politico, il vincolo europeo rappresentò la disponibilità a sacrificare non solo un po’ di sovranità, ma anche la democrazia nazionale sull’altare dell’integrazione europea. Nella sua monocraticità, il tecnico che per primo lo propose accettò le vesti del custode platonico. Il suo apporto individuale nasceva dalla necessità di far fronte al sovraccarico della democrazia, ossia di un regime politico che autonomamente non sarebbe riuscito ad abbattere quei costi di transazione collegati alla difficoltà di mantenere impegni di lungo periodo in società complesse, particolaristiche e differenziate» (E. Diodato, Tecnocrati e migranti, cit. p. 26).
Se retrospettivamente risulta del tutto chiara l’impronta tecnocratica che indusse Carli e i negoziatori verso la strategia del «vincolo esterno», è invece molto più complesso comprendere per quali motivi la classe politica accettò, sostanzialmente senza neppure resistere, una simile proposta. Da questo punto di vista, la risposta che fornisce Diodato è molto interessante, perché, più che sottolineare l’incomprensione delle conseguenze di Maastricht da parte del ceto politico, si sofferma sulla debolezza che l’Italia maturò in campo internazionale a partire dal fatidico 1989, e dunque sul tentativo di ritrovare un nuovo spazio di credibilità e riconoscimento, proprio grazie alla sottoscrizione del Trattato sull’Unione europea. In particolare, Diodato si sofferma su quattro eventi, che consumarono nell’arco di pochi mesi la posizione di «media potenza» che l’Italia aveva faticosamente conquistato nel corso dei decenni: in primo luogo, la riunificazione tedesca, che il governo Andreotti tentò di osteggiare (evocando persino lo spettro del ritorno del «pangermanesimo») senza successo, spostando in seguito il proprio obiettivo sul rafforzamento dell’Europa, inteso come strumento in grado di bilanciare il ruolo della Germania, ma, al tempo stesso, senza perseguire una chiara linea sui poteri da assegnare al Parlamento europeo; in secondo luogo, la prima Guerra del Golfo, che spazzò via definitivamente il ruolo di interlocutore degli Stati Uniti nell’area mediorentale; inoltre, la dissoluzione della Jugoslavia, che vide nuovamente la sconfitta della linea italiana, dinanzi alla posizione tedesca, favorevole al riconoscimento internazionale di Slovenia e Croazia; infine, la crisi albanese, nell’agosto 1991, che esponeva per la prima volta l’Italia alla realtà di un flusso migratorio di massa, ma che contemporaneamente rendeva poco credibile agli occhi dei partner europei la capacità del Paese di controllare le proprie frontiere. Dinanzi a questi nuovi scenari, la linea adottata dal governo nei negoziati europei fu frammentata e mutevole, ma – tra le varie ipotesi – ebbe per questo la meglio proprio l’opzione ‘tecnocratica’, fondata sulla centralità del «vincolo esterno», sostenuto in modo continuativo e coerente da Carli e dai suoi collaboratori.
Al di là delle motivazioni che condussero l’Italia ad adottare – anzi a sostenere energicamente – il Trattato di Maastricht, i parametri fissati nel testo erano destinati a pesare in modo decisivo sui destini della «Seconda Repubblica». In questo senso, Diodato ritiene anzi che, oltre alla politica estera, l’intero complesso della politica interna italiana sia stato dominato dal «vincolo esterno». In altri termini, le forze politiche protagoniste del nuovo scenario si caratterizzarono proprio per il diverso atteggiamento adottato rispetto a Maastricht: mentre il centro-destra puntò, sin dal primo governo Berlusconi, a ‘rinazionalizzare’ la politica estera, il centro-sinistra adottò una prospettiva ‘internazionalista’, e cioè principalmente ‘europeista’. La ‘rinazionalizzazione’ del centro-destra non riguardava infatti rivendicazione territoriali, ma semplicemente i vincoli di Maastricht, e in nuce in questa posizione si nascondeva un euroscetticismo destinato a palesarsi sempre più chiaramente con il passare del tempo. Nell’internazionalismo del centro-sinistra allignava invece una contraddizione, perché si trattava di un internazionalismo che – a differenza del vecchio internazionalismo comunista – si fondava sulla centralità dei «vincolo esterno» europeo: una centralità che naturalmente poteva funzionare politicamente solo fino al momento in cui il vincolo avesse prodotto conseguenze ‘virtuose’ e non avesse implicato solo ‘sacrifici’ imposti agli elettori. E in questo senso, la parabola dell’Ulivo di Prodi illustra nitidamente la logica di fondo dell’operazione, oltre che tutta la sua debolezza: «Tra il 1996 e il 1998, il governo Prodi diede un significato molto preciso agli ‘interessi internazionali’ dell’Italia già evocati nel programma del 1994. Portare l’Italia in Europa e assegnare al paese responsabilità internazionali nella gestione della sicurezza era un modo sicuramente nuovo di intendere il ruolo del paese nella globalizzazione. Maastricht e Schengen dovevano certo essere adattati al sistema politico italiano, cercando di conciliare il rigore con l’equità e con l’accoglienza. L’Ulivo era dopotutto l’albero di un’Europa mediterranea, capace anche di equità e di accoglienza. Tuttavia, l’impronta europea e internazionale del governo Prodi delineava un percorso geopolitico che, mentre si discostava da quello del centro-destra, orientava la sinistra italiana in una direzione che deviava dalla strada dell’internazionalismo comunista» (p. 68). Ma non solo per questo l’Ulivo non riuscì a estendere la propria egemonia all’insieme della sinistra. Alla base del suo fallimento stava infatti, probabilmente, la difficoltà di far convivere il rigore tecnocratico con il sostegno degli elettori: «L’Ulivo di Prodi non riuscì a trasformare un progetto sostanzialmente tecnocratico, cioè governato dal rigore dei vincoli europei, in un progetto politico capace di coniugare la stabilità economica richiesta dai mercati con la crescita economica richiesta dagli elettori. Non vi riuscì nonostante che nella metà degli anni Novanta prevalesse ancora un sostanziale ottimismo legato alla globalizzazione economica» (p. 69). 
Dopo la breve esperienza del primo governo Berlusconi, la ‘rinazionalizzazione’ della politica estera portata avanti dal centro-destra si definì nitidamente a partire dal 2001, e in particolare in seguito agli attentati terroristici dell’11 settembre, quando la coalizione assunse uno specifico profilo ‘neoatlantista’: un neoatlantismo «ispirato dal fastidio per il vincolo europeo» e, dunque, «in parziale rottura con la stessa tradizione italiana», oltre che sostanziato di posizioni «quasi sempre dissonanti rispetto agli indirizzi prevalenti all’interno dell’Unione europea, in particolare per il fermo appoggio italiano al governo di Israele» (p. 82). Progressivamente, mentre peraltro Berlusconi si avvicinava sempre più a Putin, il centro-destra smarriva le proprie iniziali coordinate di politica economica, perché in un contesto di prolungata stagnazione – che in Italia, vale la pena di ricordarlo, iniziò a delinearsi già al principio del nuovo secolo – l’ottimismo degli anni Novanta e l’idea che fosse sufficiente ‘liberare’ le energie latenti nella società italiana si rivelavano armi del tutto spuntate. Ma fu in questo stesso quadro che, soprattutto dopo il 2008, la politica estera italiana prese a configurarsi sempre più chiaramente come una risposta al «vincolo esterno», anche per tentare di far fronte ai problemi creati da Schengen. 
Né l’europeismo del centro-sinistra, né il neoatlantismo del centro-destra erano destinati però a partorire «una politica estera europea capace di formare un blocco sociale egemone» o «una politica mediorentale e mediterranea capace di registrare le variazioni del grado di tensione internazionale nella regione, quindi di confrontarsi con le scelte degli altri paesi europei» (p. 99). In questo modo si aggravava ulteriormente lo storico ‘ritardo’ italiano rispetto al Vecchio continente. Ma il fallimento della «Seconda Repubblica» deve anche essere interpretato come un fallimento nell’aggiustamento strategico richiesto all’Italia dal nuovo contesto internazionale. In questo quadro, i risultati deludenti sul fronte mediterraneo conseguiti dall’Italia non furono però solo il frutto della frammentazione politica e della discontinuità degli indirizzi seguiti dai diversi esecutivi. Alla base di esiti in larga parte, secondo Didoato, insoddisfacenti, si trova infatti la stessa adesione italiana all’Europa di Schengen, con la quale di fatto venne adottata la linea di gestione delle politiche migratorie definita da Francia e Germania negli anni Ottanta. Come scrive in questo senso Diodato: «L’ingresso nell’Europa di Schengen nel 1997 non fu dunque una semplice decisione a favore della libera circolazione e dell’abolizione dei controlli alle frontiere comuni, ma un atto di politica estera con cui si accettò una certa visione della politica sull’immigrazione e della stessa politica estera dell’Unione europea e dei suoi Stati membri. Oltre a chiamare in causa le politiche di gestione dei flussi migratori, Schengen ha investito direttamente gli interessi geopolitici nazionali. Non si è trattato solo di decidere se e come conformare la politica immigratoria italiana alle politiche europee, ma di decidere se e come conciliare la scelta europea con le ambizioni di proiezione mediterranea dell’Italia. Il ritardo con cui l’Italia fece il suo ingresso nell’Europa di Schengen è imputabile, infatti, alla volontà del governo Craxi negli anni Ottanta di favorire una proiezione internazionale del capitalismo italiano nelle sue aree di riferimento tradizionali, Mediterraneo e Medio Oriente. Con l’ingresso nell’Europa di Schengen, qualsiasi scelta mediterranea e mediorentale del paese avrebbe dovuto confrontarsi con la decisione di rispettare il sistema europeo di regolamentazione dei flussi, nella condizione di paese di confine dell’Unione» (p. 103). Per molti versi dunque – questa la conclusione di Diodato – Schengen ha sottratto all’Italia la propria politica mediterranea, mentre i principi di Maastricht non sono stati in grado di fornire alla penisola una politica europea: «Osservando il decorso della politica estera dopo Schengen, alla luce delle lezioni apprese sulle missioni militari, l’incompiutezza della transizione italiana può imputarsi, oltre che alla difficoltà di mantenere gli impegni europei e a trovare una linea bipartisan, anche alla tensione geopolitica tra scelta europea e condizione mediterranea. Questa tensione ha impedito un’efficace regolazione strategica mediante le istituzioni internazionali e sovranazionali come l’Onu e l’Unione europea» (p. 103).
Proprio il ruolo assegnato a Maastricht e Schengen, nell’interpretazione della politica estera italiana, chiarisce il motivo per cui Diodato fissi già nel titolo la centralità dei tecnocrati e dei migranti. Il titolo riecheggia naturalmente altre grandi coppie – il soldato e il diplomatico, il mercante e il guerriero – che hanno dominato nel passato la scena internazionale. Ma, evidentemente, l’accostamento fra il tecnocrate e il migrante riflette anche qualcosa di radicalmente nuovo, se non altro perché il migrante non è un protagonista delle scelte politiche. Per Diodato, il tecnocrate è infatti la figura simbolo della stagione che stiamo vivendo, e più in particolare di quella sorta di «utopia tecnocratica» su cui il progetto europeo – nella variante di Jean Monnet, molto lontana da quella auspicata dal altri storici esponenti dell’europeismo, come Altiero Spinelli – si è fondato sin dalle origini. La centralità che il tecnocrate assume nella costruzione europea dipende infatti dalla stessa impronta neo-funzionalista adottata fin dagli anni Cinquanta. In virtù di una simile impronta il tecnocrate – «figura moderna del custode platonico, un guardiano che non evoca più, primariamente, l’azione di un protettorato armato, ma la decisione saggia di un sapiente qualificato da una superiorità etica, che ha le sue radici nel mondo della produzione e dell’economia» (pp. 8-9) – svolge la funzione di garante super partes sul rispetto delle regole ‘tecniche’ concordate dai paesi. Per una serie di decisioni politiche, «si realizza un trasferimento di poteri in senso tecnocratico», e soprattutto si afferma un principio tecnocratico «basato su un’amministrazione razionale, preferita al principio della rappresentanza elettiva, quindi su una scienza economica che alla fine prevalga sull’arte di governo» (p. 10). Questa tendenza in realtà non riguarda in modo specifico l’Ue. «La globalizzazione dei mercati», scrive infatti Diodato, «ha accresciuto l’importanza della credibilità degli impegni di lungo periodo e difficilmente i governi possono agire al di fuori dal quadro istituzionale europeo. Compito assegnato ai tecnocrati nazionale è allora quello di mantenere quella solidarietà de facto senza che i popoli cedano al sospetto che ciò avvenga nell’interesse di un paese a capito dell’altro» (p. 13). Ma è scontato che le conseguenze più rilevanti riguardino proprio i paesi membri dell’Ue. Al tempo stesso, la figura del migrante - «che tenta di entrare in modo abusivo affrontando per ogni via i tentativi europei di respingimento» - diventa la seconda figura simbolo dell’ultimo quarto di secolo, la «pietra dello scandalo dell’utopia tecnocratica», perché innesca una sfida indirizzata direttamente al ruolo del tecnocrate: «il migrante assegna ai tecnocrati il compito di mantenere una solidarietà europea de facto, senza che gli elettori nazionali cedano al sospetto che l’Unione imponga ai suoi membri di accogliere i richiedenti asilo nell’interesse di uno a scapito dell’altro» (p. 16). E l’accostamento tra «tecnocrati» e «migranti» – come scrive Diodato nelle pagine introduttive – riesce a cogliere così tutta l’eredità che il «vincolo esterno», fissato dai due trattati di Maastricht e di Schengen, consegna all’Italia della «Seconda Repubblica»: «Maastricht, la rinnovata scelta europea, seguita nel 1997 dall’ingresso dell’Italia nel sistema di Schengen, è la decisione più importante che il paese abbia preso dopo l’improvviso e inaspettato innalzarsi di quel sipario di ferro che, nel bene e nel male, aveva fortemente condizionato la storia repubblicana. Ma soprattutto, nel caso italiano, l’attuazione di Maastricht si accompagna alla crisi del sistema dei partiti e, come vedremo, favorisce quella transizione politica che ci si è affrettati a denominare ‘Seconda Repubblica’. È questa condizione, ossia il forte legame tra livello europeo e livello domestico, a rendere il caso italiano particolarmente rilevante. Le vicende internazionali ed europee e le vicende interne si intrecciano a tal punto che può apparire perfino vano qualsiasi tentativo di sbrogliare la matassa. Afferrare il bandolo, ciò che questo libro propone di fare, può però servire a scoprire quali sono gli intrecci principali, come e perché si sono formati, senza alcuna pretesa di chiarire o risolvere definitivamente il groviglio» (p. 18). Nonostante Diodato non pretenda di sciogliere l’intricato groviglio, la sua tesi pone però in primo piano proprio la dimensione internazionale, nel senso che ritiene che «seguendo le vicende della politica, tenendo sullo sfondo le figure del tecnocrate e del migrante, si possa comprendere meglio la transizione del sistema politico italiano in seguito alla rinnovata scelta europea» (p. 18). Ma Diodato non manca di rilevare opportunamente come l’«utopia tecnocratica» sia investita progressivamente, almeno da un decennio, da una duplice crisi di legittimità. Per un verso, la crisi economica «erode la legittimità di quei cittadini europei (non di passaporto tedesco) che non attribuiscono lo stesso peso alla lotta all’inflazione, che invece a partire dagli anni Venti è stata vista come un imperativo in Germania». «Lungo il crinale tra tecnica e tecnocrazia iniziano allora ad agitarsi tutti i governi nazionali, che non possono facilmente rinunciare al principio della rappresentanza elettiva e le cui politiche europee iniziano ad assumere il carattere di politiche estere della politica interna dell’Unione» (p. 10). Per l’altro, l’«utopia tecnocratica» si scontra con le conseguenze dell’allargamento (e dunque, da un certo punto di vista, con le conseguenze del potere attrattivo dell’Ue sugli aspiranti nuovi membri), soprattutto sul terreno della gestione delle politiche migratorie e in particolare in relazione ai principi fissati con il «regolamento di Dublino», in virtù del quale è lo Stato membro competente per la domanda di asilo che deve prendersi carico del richiedente. Mentre infatti «il regolamento ha una sua razionalità nel distribuire le competenze assegnandole agli Stati in cui è presentata la domanda di asilo», «quando il flusso migratorio assume le sembianze di un esodo inarrestabile, almeno nell’immaginario delle opinioni pubbliche nazionali», osserva Diodato, «allora il sistema si dimostra inefficace se non innesca un meccanismo tecnico che preveda un travaso di competenze dal livello nazionale a quello europeo» (p. 15). E proprio per questo, la realtà di flussi migratori, dinanzi ai quali la militarizzazione del confine non svolge le tradizionali  funzioni di ‘presa sulle vite’, finisce col mostrare l’inefficacia dell’utopia tecnocratica e con l’esporre quell’utopia a critiche sempre più radicali.
Negli ultimi anni il nostro modo di guardare alla costruzione europea è sensibilmente cambiato, e anche i più convinti sostenitori dell’«utopia tecnocratica» hanno dovuto prendere atto dei fallimenti, delle inefficienze, dei rischi cui espone il progetto di integrazione perseguito a partire dalla fine degli anni Ottanta. Parallelamente, quelle critiche che un tempo erano confinate alla schiera marginale e un po’ sospetta degli «euroscettici», sono diventate un patrimonio largamente condiviso. Naturalmente ciò non significa che le più sciatte polemiche dell’anti-europeismo siano effettivamente sempre fondate, o che sia legittimo rappresentare il processo di integrazione come una sorta di ‘complotto’ ordito da oscure élite ai danni dei popoli del Vecchio continente. Più semplicemente, per quanto concerne il ‘caso italiano’, il processo di integrazione per via ‘tecnocratica’ (e non ‘politica’) – come il libro di Diodato mostra in modo efficace – rappresentò uno strumento con cui alcune componenti delle classi dirigenti (che non possono certo essere ridotte al solo Carli) intesero adeguare il ‘sistema-Paese’ alle esigenze di un nuovo assetto, segnato dalla globalizzazione dei mercati e dalla crescita della competizione internazionale. In sostanza, l’«utopia tecnocratica» fu allora una scelta compiuta non solo nella convinzione che, per le sorti del Vecchio continente, la strada del ‘neofunzionalismo’ fosse adeguata e preferibile a ogni soluzione che anteponesse l’integrazione politica a quella economica, ma soprattutto  nella consapevolezza che quella opzione fosse in grado di ‘neutralizzare’ la classe politica italiana (in particolare la classe politica democristiana), di ‘costringerla’ ad adottare i principi del rigore di bilancio, e dunque di introdurre meccanismi ‘strutturali’ capaci di rendere ‘virtuosa’ la gestione della spesa pubblica. Naturalmente, tutto questo avveniva in momento storico in cui il debito pubblico italiano, a causa principalmente della separazione tra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia, dopo essere raddoppiato nel corso di un decennio, era ormai del tutto fuori controllo. Ma, soprattutto, avveniva in un momento storico in cui la classe politica della «Prima Repubblica» appariva sempre più frammentata al proprio interno e sempre più priva di quelle risorse di credibilità internazionale su cui aveva puntato per fare dell’Italia una «media potenza», centrale nelle dinamiche del «Mediterraneo allargato». A distanza di un quarto di secolo dai mesi cruciali che condussero a Maastricht, possiamo forse considerare la decisione italiana di appoggiare con forza l’ipotesi dell’integrazione economica e monetaria, intesa come strumento capace di bilanciare la minaccia rappresentava dalla Germania riunificata, come una sorta di suicidio – forse non del tutto consapevole – per la classe politica della «Prima Repubblica». Ma, venticinque anni dopo la firma solenne del Trattato sull’Unione europea, abbiamo ormai anche la sensazione che l’«utopia tecnocratica» mostri una serie di crepe non rimarginabili, e destinate anzi a diventare sempre più profonde. Crepe di cui diventano simboli eclatanti, per un verso, la lettera del Presidente della Bce al governo italiano dell’agosto 2011 o il diktat europeo seguito al referendum greco del luglio 2015, e, dall’altro, l’isola di Lesvos e i muri di sbarramento che stanno nascendo al Brennero e su altri confini interni dell’Ue. Al tempo stesso, è sempre più evidente che anche la strategia tecnocratica di ‘risanamento’ della politica e dell’economia italiana in cui Carli aveva confidato, e che aveva affidato alle virtù del «vincolo esterno», si sia risolta in un fallimento, certificato dal declino economico del paese, dalla stagnazione prolungata, dal peso sempre più insostenibile del debito pubblico. Tanto che all’orizzonte molti iniziano a intravedere nubi cariche di tempesta, che sembrano preannunciare, più che il semplice naufragio dell’«utopia tecnocratica», una radicale crisi del progetto di integrazione, dalle conseguenze imprevedibili. 
Osservati oggi – dalla prospettiva forse eccessivamente pessimista suggerita dal presente che abbiamo dinanzi – le promesse di prosperità, pace e sviluppo con cui, negli anni Novanta, venivano invariabilmente associate all’«appuntamento di Maastricht» e all’«ingresso in Europa» non possono che apparire come un clamoroso abbaglio storico, forse dovuto a improvvisazione, forse a errori di valutazione, o forse ancora imputabile a una consapevole volontà di ‘depoliticizzare’ i sistemi democratici europei. Ma ciò che più conta è che da quella «trappola», in cui il Vecchio continente si è infilato negli anni Novanta, non sembra esistere alcuna via d’uscita, per l’impossibilità ‘economica’ di uscire dalla moneta unica senza pagare enormi costi sociali e per la l’impossibilità ‘politica’ di procedere verso la costruzione di un’unione federale e democratica. Qualcuno potrebbe naturalmente obiettare che, in realtà, ci sono altre opzioni, che la politica ha ancora molte carte a disposizione, e che proprio l’insieme di queste grandi difficoltà potrebbe spingere le élite europee al ‘salto’ necessario per proseguire nel percorso di integrazione. Ma dinanzi all’ottimismo esasperato che viene inalberato per convincerci che i problemi di oggi – a dispetto delle loro profondissime radici economiche e politiche – sono destinati a essere superati nell’arco di qualche mese, è difficile non ricordare il sinistro ottimismo che Antonio Salandra esibiva in quella lontana serata romana dell’estate 1915, quando il collega Nitti gli manifestava le proprie perplessità sulle dotazioni militari italiane e prevedeva che la guerra si potesse protrarre oltre l’inverno. Perché – ormai lo abbiamo capito – la ‘guerra’ che stiamo vivendo non finirà in autunno. E l’inverno che ci attende sarà probabilmente molto lungo.

Damiano Palano

venerdì 15 aprile 2016

Da "House of Cards" alla Casa Bianca. Lo spettacolo del potere nello specchio della serialità televisiva



di Damiano Palano


Questo testo, apparso su "Cattolica News" il 14 aprile 2016, anticipa alcuni dei temi che saranno al centro del seminario Da "House of Cards" alla Casa Bianca. Lo spettacolo del potere nello specchio della serialità televisiva, che si terrà all'Università Cattolica mercoledì 27 aprile, alle ore 10.30. Il programma completo è disponibile qui. L'incontro si inserisce nel ciclo Democrazia in tensione.

«È un nuovo giorno in America. Oggi più persone andranno al lavoro, torneranno dalle loro famiglie e dormiranno più tranquillamente di quanto non abbiano mai fatto prima. Tutto questo perché un uomo rifiuta di accontentarsi, mettendo le persone prima della politica». Alcuni mesi fa, mentre negli Stati Uniti si accendeva la campagna per le primarie e iniziava la lunga corsa verso la Casa Bianca, queste parole entravano nelle case degli americani, accompagnando le immagini di un paese laborioso e sicuro. L’«uomo che rifiuta di accontentarsi» e che mette «le persone prima della politica» non era però Donald Trump, o Ted Cruz, o un altro aspirante alla poltrona presidenziale, ma Frank Underwood, il sulfureo protagonista di House of Cards. E il «nuovo giorno» annunciato dallo spot era in realtà la ripresa della serie, giunta ormai alla sua quarta stagione. 



L’idea di sovrapporre la campagna elettorale fittizia rappresentata nella serie e la campagna reale – che peraltro si sta rivelando come la più incerta e combattuta da molti decenni a questa parte – è senza dubbio una riuscita trovata pubblicitaria. Ma i punti di intersezione tra realtà e finzione non si esauriscono qui. E non solo perché gli sceneggiatori della serie sembrano ormai ispirarsi sempre più spesso alla cronaca politica per imbastire le nuove trame. Ma probabilmente anche perché nello ‘specchio’ della serialità televisiva e nel mondo di intrighi allestito da House of Cards si possono probabilmente riconoscere le tracce del mutamento che negli ultimi anni ha investito gli Stati Uniti.
Per comprendere le trasformazioni politiche non è d’altronde mai sufficiente osservare le istituzioni, ma è sempre indispensabile ricostruire il mutamento degli immaginari, cioè il modo in cui si modificano le aspirazioni (individuali e collettive) e dunque ciò che ciascuno di noi si attende (o teme) dalla dimensione politica. Per questo motivo l’Iliade, l’Orestea e l’Antigone sono probabilmente importanti – per comprendere il modo in cui i greci concepivano la polis e la sua legge – almeno quanto le pagine di Platone e Aristotele. Ed è per questo stesso motivo che le serie televisive come House of Cards – che, negli ultimi anni, hanno iniziato a mettere in scena (in termini sempre più crudi) le bieche lotte di potere che si svolgono nel Palazzo – offrono uno strumento importante a chi voglia indagare come, nell’età della «tarda democrazia» (o della «postdemocrazia»), l’immaginario collettivo concepisca la politica.



Sarebbe naturalmente ingenuo considerare il mondo raffigurato dalla serialità televisiva come uno specchio fedele della realtà, anche se certo è difficile resistere alla tentazione di riconoscere almeno alcuni tratti di Frank Underwood in alcuni reali protagonisti politici, come per esempio – per rimanere oltreoceano – nella coriacea volontà con cui Hillary Clinton insegue da decenni il suo sogno presidenziale. E anche se l’incertezza della competizione fra i candidati alle primarie (soprattutto sul fronte repubblicano) potrebbe rendere reale una «brokered convention», cioè proprio una situazione in cui personaggi come Underwood potrebbero mettere pienamente a frutto la loro abilità nel tessere intrighi. Ma – al di là della verosimiglianza, e degli inevitabili accostamenti con la realtà – l’aspetto più significativo che contrassegna l’operazione compiuta da House of Cards è l’esibizione (spesso compiaciuta) della dimensione più brutale del potere. In altre parole Frank Underwood non è altro che il ritratto dell’eterna libido dominandi, il simbolo di quella inestinguibile sete di potere che spinge gli esseri umani a conquistare, conservare ed estendere il potere sui propri simili. La sua filosofia non è altro che la vecchia filosofia di Trasimaco, secondo cui la giustizia non è altro che l’utile del più forte. E – in spregio a qualsiasi ideale – la sua condotta è invariabilmente guidata dal più bieco machiavellismo. Per Underwood la politica è infatti solo ed esclusivamente la sfera della ricerca del potere. Una sfera in cui le uniche armi consentite sono la menzogna, l’inganno, l’adulazione e l’intrigo. Una sfera in cui ovviamente non c’è alcuno spazio né per grandi aspirazioni ideali – siano esse l’uguaglianza, la libertà o il progresso – né tantomeno per una pallida ombra di bene comune. E una sfera in cui la risorsa su cui far leva è sempre la paura, perché – come si leggeva nell’incipit del romanzo di Michael Dobbs, da cui trae origine la serie – «non è il rispetto, ma la paura, a muovere l’uomo».



Naturalmente ai nostri occhi di europei una simile rappresentazione della politica non risulta particolarmente sconcertante. Non doveva esserlo per il pubblico britannico che lesse i romanzi di Dobbs alla fine degli anni Ottanta. E non lo è a maggior ragione nel paese di Machiavelli, dove, nella lingua di Underwood, molto spesso riconosciamo anzi quella lingua familiare, quasi una sorta di dialetto, con cui tra le pareti domestiche parliamo di politica, se non addirittura quel «familismo amorale» in cui si è fissato il tratto forse più sgradevole dell’identità italiana. Ma non è invece irrilevante che questa visione cinica (e spesso persino ambiguamente compiaciuta) della politica come pura volontà di potenza ci venga oggi dall’altra sponda dell’Atlantico. 
Naturalmente si può leggere in tutta l’operazione di House of Cards una nuova conferma della vecchia ambizione americana di bandire la menzogna dalla politica, e così di smascherare le malefatte, gli imbrogli e la violenza dei potenti. Ma probabilmente – benché, come qualsiasi prodotto culturale, anche le serie televisive si prestino a mille letture diverse – le cose non sono così semplici. Perché il mondo che House of Cards mette in scena finisce col suggerirci non solo che il potere è cinico, ma anche che la politica non può che essere il regno del cinismo, della menzogna, della sopraffazione. In altri termini, ci dice che non è possibile una politica diversa da quella di Frank Underwood, e che tutti i più nobili ideali non sono altro che semplici mascheramenti di sordidi interessi personali. Ed è forse proprio per l’ambigua combinazione di disgusto e ammirazione che alimenta un personaggio come Underwood, che House of Cards finisce col diventare il formidabile specchio in cui ritroviamo la condizione delle nostre postdemocrazie. Perché nella politica spettacolo che riempie le cronache quotidiane, e in cui nulla resta delle vecchie ideologie novecentesche, si alimentano a vicenda, in un fatale cortocircuito, la più completa sfiducia nella classe politica e l’ammirazione per quei leader che esibiscono senza pudore volontà di potenza e disprezzo per le istituzioni. Perché, come il caso delle primarie repubblicane negli Stati Uniti dimostra largamente, in un mondo in cui si è bombardati da flussi soverchianti di notizie (e in cui dietro qualsiasi notizia si sospetta un inganno o una manipolazione), la distinzione tra il ‘vero’ e il ‘falso’ diventa quasi impercettibile. E perché forse, quando si è finito di credere a tutto, si finisce col credere a qualsiasi cosa.


 Damiano Palano

Tecnocrati e migranti. L’Italia, il mondo e il «vincolo esterno». Un dibattito con Emidio Diodato, Corrado Stefanachi, Stefano Procacci. Martedì 26 aprile 2016




Martedì 26 aprile 2016, ore 14.30-16.30 

Università Cattolica

Largo Gemelli 1 - Milano

Cripta dell’Aula Magna

Tecnocrati e migranti. L’Italia, il mondo e il «vincolo esterno»

Presentazione del volume di Emidio Diodato, Tecnocrati e migranti. L’Italia e la politica estera dopo Maastricht (Carocci, Roma, 2015).





 Intervengono: 

Emidio Diodato (Università per Stranieri di Perugia) 

Damiano Palano (Università Cattolica del Sacro Cuore)

Stefano Procacci (Università Cattolica del Sacro Cuore)

Corrado Stefanachi (Università degli Studi di Milano)



lunedì 11 aprile 2016

Verso una «democrazia immediata»? "Cittadini senza politica. Politica senza cittadini" di Valentina Pazé







di Damiano Palano

Il libro di Valentina Pazé, Cittadini senza politica. Politica senza cittadini (Edizioni Gruppo Abele, pp. 157, euro 13.00), verrà presentato a Milano il 9 maggio 2016, all'interno del ciclo di incontri Democrazie in tensione.

«Dove sono cresciuto io credevamo che la democrazia americana fosse ciò che pratichiamo ancora in buona parte nello stato del Vermont: le riunioni cittadine, dove le persone si riuniscono e discutono del bilancio della scuola o di altri bilanci, dove tutti possono prendere la parola e tutto hanno un voto. In queste riunioni cittadine le persone possono entrare e fare tutte le domande che vogliono: quello che costituisce la democrazia sono i rappresentanti eletti che parlano, dialogano con le persone a prescindere dal loro reddito, ascoltando i loro commenti e rispondendo alle loro domande. La democrazia non può essere un sistema nel quale una manciata di miliardari, come i fratelli Koch o come Sheldon Adelson, si possano trovare nella posizione di poter spendere tutto il denaro che vogliono per ogni competizione elettorale in questo paese. È molto difficile per me immaginare come qualcuno possa far passare questo per democrazia: non lo è, oligarchia, è il potere per un piccolo gruppo di miliardari di controllare il processo politico» (B. Sanders, Quando è troppo è troppo!, Castelvecchi, Roma, 2016, pp. 53-54).

Da quando, circa un anno fa, ha iniziato la sua campagna elettorale per ottenere la nomination democratica, Bernie Sanders non ha mancato di tornare, quasi in ogni suo discorso, su un tema cruciale del nostro tempo, e cioè sulla radicale trasformazione che investe le democrazie occidentali e che le rende sempre più simili a «oligarchie». Naturalmente si possono trovare mille progenitori della polemica di Sanders, sia nella tradizione americana, sia in quella europea, anche perché la preoccupazione che il ‘potere dei molti’ sia solo apparente, e che dietro il volto di istituzioni democratiche si nasconda il ‘potere dei pochi’, percorre tutta la lunga storia della democrazia. Ma – senza certo confondere il piano della retorica elettorale con l’analisi più meditata delle tendenze storiche – è evidente che una serie di processi tutt’altro che congiunturali sono andati a investire i sistemi politici occidentali. Benché si possa essere in disaccordo sull’individuazione delle ‘cause’ di tali processi, o sull’idea che essi configurino una vera e propria «crisi» o testimonino soltanto aggiustamenti fisiologici, è sempre più difficile negare la portata di tutti quei sintomi – come la crescente diseguaglianza e i sempre più alti tassi di astensione elettorale, il ruolo dei grandi interessi privati nel finanziamento della politica e la loro influenza nelle decisioni politiche, la trasformazione della discussione in uno spettacolo gestito da professionisti – che lo stesso Sanders evoca quasi costantemente. E non è certo sorprendente che proprio questi nodi siano segnalati anche da molti studiosi delle trasformazioni contemporanee, che, per esempio, hanno individuato i tratti di un processo di «de-democratizzazione» (Tilly), o hanno ravvisato la tendenze alla trasformazione di molti regimi occidentali in «postdemocrazie» (Crouch). Alcuni anni fa, prendendo le mosse dall’immagine della democrazia delineata da Norberto Bobbio, Michelangelo Bovero proponeva una tesi altrettanto radicale. «Guardando agli ultimi decenni di vita delle democrazie reali», osservava, «è chiaramente riconoscibile un processo di degenerazione che tende a far assumere alla democrazia i connotati di una forma di governo diversa». In questa nuova forma di governo – che Bovero chiamava «autocrazia elettiva» - la logica era naturalmente solo all’apparenza simile a quella democratica: «Applicando scorrettamente o alterando le regole del gioco, l’istituto delle elezioni viene ridotto a un metodo per l’investitura personale di un ‘capo’, sempre meno dipendente dagli organi rappresentativi e sempre meno condizionato da vincoli e controlli» (M. Bovero, Democrazia al crepuscolo?, in M. Bovero – V. Pazé, a cura di, La democrazia in nove lezioni, Laterza, Roma – Bari, 2010, p. 12).

Nel dibattito dedicato alle trasformazioni della democrazia contemporanea si inserisce ora anche il volume di Valentina Pazé, Cittadini senza politica. Politica senza cittadini (Edizioni Gruppo Abele, pp. 157, euro 13.00), nel quale vengono passati in rassegna alcuni tasselli fondamentali della teoria democratica – come in particolare il ruolo delle elezioni e dei rappresentanti, le funzioni dei partiti, lo spazio della partecipazione – con l’obiettivo di cogliere il senso di una modificazione sostanziale. A fissare l’immagine dello stato della democrazia contemporanea è d’altronde la stessa formula «cittadini senza politica» che dà il titolo al volume: una formula che è per molti versi un ossimoro, dal momento che il «cittadino» - a differenza del suddito – è per sua stessa essenza un attore della polis. Ma questa contraddizione – osserva Pazé nelle pagine introduttive – oggi tende a scomparire, perché il cittadino smarrisce la propria dimensione politica: «la società civile è popolata non da citoyen, ma da bourgeois: individui atomizzati, isolati l’uno dall’altro, dediti essenzialmente alla ricerca del proprio utile. Allo slittamento di significato subìto dalla parola cittadino corrispondono sul piano empirico, per un verso, la sfiducia, il disinteresse, il disgusto sempre più diffusi nei confronti della politica; per altro verso la crescente autoreferenzialità e autosufficienza di chi della politica ha fatto una professione. Gli elettori disertano le urne, i partiti si svuotano di iscritti e militanti, la fiducia nelle istituzioni è ai minimi termini? Si risponde scrivendo leggi elettorali che regalano seggi al primo partito, in modo che chi è minoranza nel Paese si tramuti in maggioranza nelle istituzioni. Ci sono conflitti, tensioni, proteste? Si nega loro ascolto, visibilità, rappresentanza, per procedere con il pilota automatico delle ‘riforme’, decise da una ristretta oligarchia politico-economico-finanziaria» (p. 9). Accanto a «cittadini senza politica», si trova inoltre una «politica senza cittadini», e cioè una «politica che si dice democratica, ma che forza e distorce le regole basilari della democrazia previste dalla Costituzione» (p. 9). Il punto di approdo verso cui sembrano tendere queste trasformazioni è allora proprio un’«autocrazia elettiva», come l’ha definita Bovero, o una «democrazia immediata», secondo una formula che risale a Maurice Duverger, o anche – per utilizzare un'espressione di Leopoldo Elia – una «democrazia di investitura». La divaricazione tra due modi intendere la democrazia che si delinea agli occhi di Pazé è infatti piuttosto radicale: «Da un lato un modello di democrazia immediata o d’investitura, in cui il potere dei cittadini si esprime e si esaurisce nella scelta di capi di governo, che si relazionano direttamente con masse di individui atomizzati, senza l’intralcio di partiti e altri soggetti collettivi. Dall’altro un modello di democrazia mediata, o di indirizzo, in cui la sovranità popolare si esercita attraverso l’elezione di organismi rappresentativi, ma anche attraverso la partecipazione a partiti, movimenti, associazioni, che rimangono strumenti indispensabili per dar forma e voce alle istanze avanzate della società» (p. 11). E dinanzi a una simile alternativa Pazé non nasconde certo la propria posizione, decisamente a sostegno di «una democrazia genuinamente parlamentare, di cui si tratterebbe di rafforzare la componente rappresentativa e deliberativa, resistendo a qualsiasi tentazione di ‘direttismo’, che assuma la forma renziana dell’investitura del leader o quella grillina della democrazia elettronica» (p. 12).
Le argomentazioni di Pazé sono in gran parte orientate alla critica del modello della «democrazia immediata», di cui – non senza ragioni – viene visto il lontano progenitore nello Schumpeter di Capitalismo, socialismo e democrazia, ma di cui sono considerati strumenti di concreta realizzazione, nell’Italia di oggi, la riforma costituzionale in corso di discussione e soprattutto la legge elettorale denominata «Italicum», approvata il 6 maggio 2015. Contro un simile modello, Pazé torna a una visione della democrazia centrata sul ruolo centrale della rappresentanza, ma non può non scontrarsi con lo scoglio costituito dalla realtà odierna dei partiti. La prospettiva di rinunciare al loro ruolo sembra infatti destinata a sfociare semplicemente nel «direttismo», e in questo senso gli esempi del Movimento 5 Stelle e dei Piraten tedeschi sono utili quantomeno per prendere atto che la ‘democrazia della rete’ costituisce uno strumento davvero poco efficace. Ma la ‘democratizzazione’ dei partiti risulta un problema tutt’altro che semplice da risolvere, e in questo senso Pazé rivolge una critica tanto al mito dello «spontaneismo», quanto alle rappresentazioni più idilliache della democrazia partecipativa (in particolare quelle che assegnano alla dettagliata regolamentazione formale delle procedure decisionali la democraticità di un’organizzazione). E dunque la soluzione principale – questa forse è una delle conclusioni più interessanti del volume – è il ritorno alla ‘vecchia’ logica della rappresentanza democratica, da realizzare anche dentro i partiti: «Forse si tratta, ancora una volta, di ripartire da quella straordinaria invenzione che è la democrazia rappresentativa. Di riscoprirla, rinnovarla, rivitalizzarla, assumendola come metodo per decidere non solo tra i partiti, ma dentro i partiti. Difendere la democrazia rappresentativa significa ribadire che un’assemblea composta da delegati scelti dal basso, sulla base della presentazione e discussione di diverse piattaforme programmatiche, è più legittimata ad assumere decisioni collettivamente vincolanti di quanto non lo siano assemblee aperte a tutti, o referendum on line senza previsione di quorum. Significa ricordare che il voto a maggioranza, purché preceduto da una discussione approfondita a cui tutti devono poter partecipare, garantisce i dissenzienti più della ricerca del consenso ad ogni costo. E magari anche tenere presente che la trasparenza non è tutto e l’istituto del voto segreto rimane irrinunciabile per garantire la libera manifestazione delle idee. Princìpi semplici e basilari, che in tempi di generose, quanto confuse, ricerche di ‘nuove vie’, è forse necessario ricordare» (p. 102). Ma la difesa della ‘vecchia’ democrazia rappresentativa non può certo trascurare di considerare il peso che – nell’Ue, e in particolare nell’eurozona – ha avuto nell’ultimo quarto di secolo il «vincolo esterno». E nelle pagine conclusive Pazé non può così evitare di porsi alcune domande cruciali, diventate addirittura drammatiche dopo il 2011: «a che cosa serve eleggere dei rappresentanti se non saranno loro a decidere sulle questioni di fondo, come quelle relative alla composizione delle entrate e alla destinazione delle spese dello Stato? Se si sa fin dall’inizio che, chiunque risulti eletto, dovrà attenersi ai dettami del ‘partito unico del rigore’ che regna ormai, incontrastato, in Europa?» (p. 139). E soprattutto: «perché i cittadini di questa Europa governata da ‘poche dozzine di persone’ (tra politici, banchieri, uomini della finanza) dovrebbero continuare a credere nella democrazia e officiarne i riti, se sempre più numerosi indizi dicono loro che le regole sono truccate e gli esiti predefiniti?» (p. 141).
Il libro di Pazé arricchisce una discussione inevitabilmente destinata a proseguire intensamente nei prossimi anni e nei prossimi mesi. E non soltanto perché – come scriveva Pazé introducendo alcuni anni fa il suo In nome del popolo. Il problema democratico (Laterza, Roma – Bari, 2012) – «la democrazia è un regime difficile, che richiede tutta una serie di presupposti sociali e culturali, in assenza dei quali i riti della partecipazione diretta o indiretta rischiano di svuotarsi di significato e di nascondere l’esercizio spregiudicato del potere da parte delle solite élites, in grado di orientare e manipolare il consenso a loro favore» (p. VIII). A rendere oggi ancora più complicato affrontare il «problema democratico» sono una serie di trasformazioni che modificano il quadro in cui i vecchi dibattiti si svolgevano. La stessa enfasi sul ‘decisionismo’, sulla ‘governabilità’, sulla necessità esecutivi ‘forti’, ‘stabili’ e ‘rapidi’ sbaglia completamente il bersaglio, perché trascura del tutto il complesso delle trasformazioni che hanno modificato i sistemi politici europei nel corso di un trentennio. La richiesta di ‘governabilità’ – di cui i fautori dell’«Italicum» e della riforma costituzionale non fanno che brandire ancora una volta le insegne – ci accompagna infatti almeno da un quarantennio, ma in quarant’anni le cose sono radicalmente cambiate. Negli anni Settanta e Ottanta, poteva davvero sembrare che i grandi problemi dell’Italia fossero l’instabilità governativa, la lentezza della concertazione, la difficoltà di decidere dei governi di coalizione. E per questo poteva davvero risultare necessario realizzare una riforma capace di riconsegnare lo scettro al ‘principe’. Ma nel corso di un trentennio le cose sono abissalmente mutate, e oggi tutto ciò che è avvenuto nella lunga stagione che abbiamo alle spalle ci appare sotto una luce molto diversa. Non solo perché il ruolo dei governi e dei primi ministri è notevolmente cresciuto, tanto da ridurre le assemblee elettive a un ruolo quasi marginale, ma perché abbiamo assistito a una sorta di ‘svuotamento’ delle sedi classiche del potere decisionale. Abbiamo cioè assistito a un processo di ‘depoliticizzazione’ che – soprattutto nei paesi dell’Ue – ha implicato la sottrazione di buona parte del potere decisionale alle arene più direttamente responsabili nei confronti degli elettori e il suo trasferimento verso istanze almeno apparentemente ‘neutrali’, ‘tecniche’ e dunque relativamente impermeabili alle pressioni delle opinioni pubbliche. È ovvio che una simile ‘depoliticizzazione’ non sancisce davvero una neutralizzazione della ‘politica’, ma semmai solo l’affermazione di una politica non democratica. Ma il punto sostanziale è che, in questo quadro, chi chiede un rafforzamento degli esecutivi, trascura il fatto che un simile rafforzamento – se certo può andare a limitare il ruolo dei parlamenti (e dunque le voci che provengono ‘dal basso’) – non può incidere minimamente sullo ‘svuotamento’ del potere subito dai governi. In altre parole, con un’espressione di Massimo Luciani, il rafforzamento degli esecutivi in nome della ‘governabilità’ punta solo a realizzare «la massima concentrazione del minimo potere», ma non certo all’inversione di questa tendenza. Ed anche per questo che la prospettiva della «democrazia immediata» non può rappresentare una soluzione adeguata alle sfide che abbiamo di fronte. Se il rafforzamento degli esecutivi non può dunque dare una risposta significativa alle tensioni cui oggi sono sottoposti i regimi democratici, sarebbe però anche ingenuo ritenere che il semplice ‘ritorno all’antico’ – quel ritorno all’antico che legittimamente auspicano tanto gli alfieri della vecchia «democrazia dei partiti», quanto lo stesso Bernie Sanders, nei suoi accorati appelli elettorali – possa davvero rappresentare una soluzione sufficiente per rimettere in sesto un equilibrio di poteri ormai lacerato. Lo Stato che abbiamo di fronte oggi infatti non è più quello che ha segnato l’esperienza del Novecento, il capitalismo contemporaneo non è più quello della golden age postbellica, e forse anche il cittadino protagonista delle nostre ‘postdemocrazie’ ha davvero subito una radicale ‘mutazione antropologica’. È in fondo proprio per tutti questi motivi che il ‘vecchio’ e ‘nuovo’ «problema democrazia» è destinato a rimanere ancora del tutto aperto. E che le istituzioni, le forme e gli attori della democrazia del XXI secolo rimangono in gran parte da inventare.

Damiano Palano

Il libro di Valentina Pazé, Cittadini senza politica. Politica senza cittadini (Edizioni Gruppo Abele, pp. 157, euro 13.00), verrà presentato a Milano il 9 maggio 2016, all'interno del ciclo di incontri Democrazie in tensione.

domenica 10 aprile 2016

Democrazie in tensione. Cinque incontri sulla trasformazione contemporanea all'Università Cattolica - Milano (aprile - maggio 2016)








Martedì 26 aprile 2016, ore 14.30-16.30 - Cripta dell’Aula Magna

Tecnocrati e migranti. L’Italia, il mondo e il «vincolo esterno»

Presentazione del volume di Emidio Diodato, Tecnocrati e migranti. L’Italia e la politica estera dopo Maastricht (Carocci, Roma, 2015).

 Intervengono: Emidio Diodato (Università per Stranieri di Perugia), Damiano Palano (Università Cattolica del Sacro Cuore), Stefano Procacci (Università Cattolica del Sacro Cuore), Corrado Stefanachi (Università degli Studi di Milano)


Mercoledì 27 aprile 2016, ore 10.30-12.30 - Aula Magna

Da House of Cards alla Casa Bianca. Lo spettacolo del potere nello specchio della serialità televisiva

Intervengono: Damiano Palano (Università Cattolica del Sacro Cuore), Luca Barra (Università Cattolica del Sacro Cuore), Aldo Grasso (Università Cattolica del Sacro Cuore), Andrea Locatelli (Università Cattolica del Sacro Cuore), Massimiliano Panarari (editorialista de «La Stampa»), Massimo Scaglioni (Università Cattolica del Sacro Cuore), Antonio Visca (Sky Atlantic), Antonio Zotti (Università Cattolica del Sacro Cuore)


Lunedì 2 maggio 2016, ore 14.30-16.30 - Aula G.003 Bausola

La legittimità difficile nella tarda democrazia

 Presentazione del volume di Paolo Costa, Gemina persona. Un’ipotesi giuspubblicistica intorno alla crisi del soggetto politico (Giuffrè, Milano, 2015).

 Partecipanti: Filippo Pizzolato (Università Bicocca – Università Cattolica del Sacro Cuore), Damiano Palano (Università Cattolica del Sacro Cuore), Paolo Costa (Università Cattolica del Sacro Cuore)


Lunedì 9 maggio 2016, ore 14.30-16.30
Aula NI 110 (Via Nirone 15)

Cittadini senza politica e politica senza cittadini. Verso una democrazia immediata?

 Presentazione del volume di Valentina Pazé, Cittadini senza politica. Politica senza cittadini, Ega – Gruppo Abele, Torino, 2016).

 Partecipanti: Luciano Fasano (Università degli Studi di Milano), Damiano Palano (Università Cattolica del Sacro Cuore), Nicola Pasini (Università degli Studi di Milano), Valentina Pazé (Università di Torino)


Lunedì 16 maggio 2016, ore 14.30-16-30 - Cripta Aula Magna

Che cosa resta del corpo? Etica e politica nel tempo del «biobusiness»

 Presentazione del volume di Marco Dotti, Bioshock. Il corpo come protesi (Luca Sossella, Roma, 2016).

 Partecipanti: Marco Dotti (settimanale «Vita» - Università di Pavia), Alessio Musio (Università Cattolica del Sacro Cuore), Damiano Palano (Università Cattolica del Sacro Cuore)