giovedì 29 settembre 2016

La giostra delle élite. Rileggendo "Trasformazione della democrazia" di Vilfredo Pareto





di Damiano Palano

Questa segnalazione del volume di Vilfredo Pareto, Trasformazionw della democrazia, a cura di F. Marchianò (Castelvecchi, Roma, 2016), è apparsa su «Avvenire» il 7 agosto 2016.

Nel 1921, quando uscì Trasformazione della democrazia, il suo ultimo libro, Vilfredo Pareto aveva ormai settantatré anni e quasi tre vite alle spalle. Nato nel 1948 a Parigi da padre italiano e madre francese, Pareto aveva infatti studiato ingegneria al Politecnico di Torino e lavorato per circa vent’anni nel settore minerario. Aveva poi conquistato una grande notorietà come geniale studioso di economia, approdando anche alla carriera accademica. Ma, dopo alcuni anni, aveva deciso di cambiare ancora una volta il proprio campo di studi e di dedicarsi anima e corpo alla costruzione di un sistema sociologico. Negli ultimi anni del secolo progettò dunque un ciclopico Trattato di sociologia generale, la cui stesura lo tenne impegnato per un ventennio e che vide la luce solo nel 1916. Il Trattato non ebbe però l’accoglienza che Pareto si attendeva. Prima di tutto perché si trattava di un’opera per molti versi illeggibile: bizantina nel disegno teorico e straripante di esemplificazioni storiche. Ma in secondo luogo perché rappresentava l’ultimo frutto – davvero troppo tardivo – di quella stagione positivista che in Italia aveva consumato da tempo le proprie fortune. Rileggere oggi Trasformazione della democrazia – ripubblicato da Castelvecchi, arricchito da una puntuale introduzione di Francesco Marchianò  (pp. 111, euro 12.50) – è invece un utile esercizio. E non solo perché in questo suo ultimo testo Pareto sintetizzò in poche pagine alcune delle tesi al centro del Trattato. Ma anche perché si tratta di un libro destinato a suggerire al lettore del XXI secolo una serie di domande tutt’altro che datate. 
Pareto – è quasi superfluo ricordarlo – fu, insieme a Gaetano Mosca, uno dei principali esponenti del filone teorico elitista. In ogni società, secondo Pareto, in virtù della differente distribuzione delle caratteristiche fisiologiche, è cioè sempre possibile individuare una netta distinzione tra «masse» ed «élite», tra una maggioranza passiva e una minoranza di individui che invece detengono potere, ricchezze e cultura. Al tempo stesso, per Pareto è sempre all’opera un processo di «circolazione delle élite»: in seguito al costante mutamento nella distribuzione delle capacità tra le diverse fasce della popolazione, le ‘vecchie’ élite al potere sono destinate a decadere e a essere sostituite da ‘nuove’ élite in ascesa. Ed era proprio questa dinamica che Pareto intravedeva nella società europea uscita dalla Prima guerra mondiale, dove in particolare sottolineava l’importanza di fenomeni come la crisi della sovranità statale, la decadenza della classe politica liberale (che definiva «plutocrazia demagogica») e l’emergere del sindacalismo.
Anche se Pareto colse l’importanza cruciale che in politica hanno le «azioni non-logiche», ossia le componenti non riconducibili a una razionalità strumentale, le basi ‘psicologiche’ su cui erano fondate le sue ipotesi non possono non apparire oggi irrimediabilmente segnate dal tempo. Ma, per quanto le risposte che forniva siano per molti motivi inaccettabili, non possono invece essere accantonate né le domande che poneva né alcune delle intuizioni che sviluppò. Se non altro perché possono aiutare a considerare da una prospettiva differente anche le «trasformazioni della democrazia» che stiamo vivendo. Quando per esempio oggi si evocano i successi dei tanti tipi di populismo che affollano i nostri sistemi politici, si parla e si scrive – con un fondamento – di una ‘rivolta contro le élite’, di una protesta contro i privilegi della «casta» e contro lo strapotere conquistato dalle élite. Seguendo Pareto, ci dovremmo chiedere invece se una simile protesta, più che la reazione allo strapotere delle élite, non sia la testimonianza della loro debolezza, oltre che un presagio del loro imminente tramonto. Ma soprattutto ci dovremmo interrogare sulla direzione verso cui – per effetto di dinamiche economiche, sociali, tecnologiche – ci condurrà il processo di «circolazione» delle élite. E dunque su quali saranno il volto, l’ideologia e gli strumenti delle élite di domani.


Damiano Palano

lunedì 12 settembre 2016

Non solo tecnica: la buona politica viene dall’alto. La prospettiva della "pneumatologia politica"


di Damiano Palano

Questa recensione  al volume di V. Rosito, Lo spirito e la polis. Prospettive per una pneumatologia politica (Cittadella, Padova, 2016) è apparsa su «Avvenire» il 9 settembre 2016.


Nel 1922, in uno dei suoi saggi più noti, Carl Schmitt scrisse che «i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati». Proprio quella formula era destinata ad aprire un nuovo sentiero di ricerca intorno alla trasformazione dei concetti politici. Ma doveva anche introdurre nel dibattito novecentesco la formula «teologia politica»: una formula senza dubbio evocativa, ma dal significato tutt’altro che univoco, e che in effetti è stata utilizzata nel corso del Novecento in direzioni molto diverse. La proposta schmittiana intendeva infatti soprattutto suggerire l’analogia formale tra i concetti giuridici della modernità occidentale e i concetti teologici. Altri utilizzarono invece la suggestione schmittiana per sviluppare una teoria della secolarizzazione, nella quale la dimensione del sacro veniva pienamente neutralizzata (e nella quale dunque spariva ogni relazione con la trascendenza). E altri ancora tentarono di mostrare come nell’esperienza politica non fosse eliminabile una proiezione escatologia.  In una direzione piuttosto differente si è invece mossa, nella seconda metà del Novecento, la «Nuova Teologia Politica», che – coltivata per esempio dai Johann Baptist Metz e Jürgen Moltmann – si è soprattutto proposta di fornire una lettura della teologia cristiana critica nei confronti delle spinte privatistiche. Ed è per molti versi in questo stesso sentiero problematico che si colloca lo stimolante volume di Vincenzo Rosito, Lo spirito e la polis. Prospettive per una pneumatologia politica (Cittadella, pp. 117, euro 11.90). 
Per Rosito, la polis e lo spirito – e cioè la sfera politica e quella spirituale – non sono spazi lontani e separati. «Lo Spirito, e con esso la dimensione dello spirituale», scrive infatti, «sono profondamente connessi con la polis poiché intendono pensare e rappresentare non tanto la generalità di tutti gli uomini, quanto la complessità dell’uomo tutto». È in questa chiave che viene indicata la strada di una «pneumatologia politica»: un paradigma diretto a mettere in evidenza le implicazioni tra l’ordine teologico dello Spirito, quello economico-politico del potere e quello comunicativo. Sulla scorta delle indicazioni del filosofo austriaco Ferdinand Ebner, la «pneumatologia» procede innanzitutto dal riconoscimento del legame tra la dimensione umana del linguaggio e quella dello Spirito. Più precisamente, la pneumatologia si concentra sulla natura intrinsecamente comunicativa dello spirituale. Ma, in secondo luogo, la «pneumatologia politica» rivede sensibilmente la classica raffigurazione della relazione tra Spirito e Polis, perché, come ha sottolineato Moltmann, è la connettività a contrassegnare le implicazioni sociali dello Spirito. Dio è cioè presente tra il popolo nel senso che il luogo della sua presenza è lo spazio che distingue e unisce i soggetti di una relazione.  
Una simile prospettiva è naturalmente critica nei confronti di quelle visioni della secolarizzazione che interpretano la sfera del religioso nei termini della contrapposizione fra immanente e trascendente. Ma la riflessione di Rosito nasce soprattutto dalla ricerca di un indirizzo alternativo a una realtà segnata – come quella del capitalismo contemporaneo – dallo schiacciamento sul presente, dall’espulsione di qualsiasi progettualità escatologica e dunque dalla riduzione della politica a semplice ‘tecnica’. La pneumatologia politica infatti non solo critica le derive individualizzanti o identitarie. Ma punta anche a riguadagnare una tensione progettuale, e così a indicare la strada di forme e pratiche «generative», capaci di aprire alla collettività nuovi spazi di relazione. 


Damiano Palano

venerdì 9 settembre 2016

Il declino dell’impero americano? Un libro di Joseph S. Nye contro la "fine" del secolo americano




di Damiano Palano

Nel 1974, l’allora giovane Immanuel Wallerstein pubblicò il suo articolo forse più famoso, nel quale esponeva i cardini della teoria dei sistemi-mondo, al centro poi di un’opera quantomeno ambiziosa sulla storia del capitalismo. In quell’articolo Wallerstein forniva una sintetica illustrazione dell’intreccio tra fattori economici e politici che, a partire dal XVI secolo aveva consentito all’«economia-mondo» capitalistica di avere progressivamente la meglio sugli «imperi-mondo», che avevano invece segnato in profondità la storia precedente. In quella vicenda, ovviamente aveva giocato un ruolo importante l’affermazione dello Stato moderno. Ma ancora più rilevante era stata l’affermazione di varie potenze politicamente ed economicamente egemoni, che, di volta in volta, avevano rappresentato il «centro» del sistema dell’economia-mondo. E in particolare, lo studioso newyorkese individuava tre grandi casi di egemonia: le Province Unite Olandesi nel Settecento, la Gran Bretagna nell’Ottocento e gli Stati Uniti nel XX secolo. ovviamente ognuno di questi cicli era segnato da una fase ascendente e da una più o meno prolungata fase discendente. Forse il motivo del successo dell’articolo era però legato al fatto che Wallerstein sosteneva che gli Stati Uniti, dopo aver toccato il culmine della loro parabola, avessero già imboccato la via del declino alla fine degli anni Sessanta. E anche per questo si poteva già intravedere all’orizzonte una quarta fase, dominata da aree ex-periferiche, tra cui non poteva non spiccare la Cina di Mao.
Ma Wallerstein non fu certo l’unico a scorgere il segnali del declino americano. Al principio degli anni Ottanta Robert Gilpin tornò a Tucidide per elaborare un’affascinante teoria della stabilità egemonica, che conduceva a una previsione non troppo fausta per il futuro di Washington. Gilpin individuava come condizione per la stabilità del sistema internazionale la presenza di una potenza egemone, che fosse molto più forte rispetto agli altri Stati dal punto di vista economico, tecnologico e militare. Dopo una fase di ascesa, all’egemone toccava però inevitabilmente il destino del declino. L’esempio paradigmatico non poteva non essere la potenza ateniese, che dopo avere guidato le città greche alla vittoria contro il vicino persiano era rimasta vittima del proprio successo. Ma anche Gilpin non esitava a intravedere nello specchio dell’Atene di Pericle l’immagine degli Stati Uniti usciti dagli anni Settanta. La supremazia economica e tecnologica risultava sempre più insidiata da Europa e Giappone, mentre anche fattori interni alla società americana (e soprattutto il venire meno del patriottismo) sembravano rappresentare un’insidia altrettanto minacciosa. 
Alla metà degli anni Ottanta il regista canadese Denys Arcand, mentre dipingeva ironicamente il gustoso quadro della crisi di alcune coppie della media borghesia intellettuale, poneva sullo sfondo proprio questi timori, chiedendosi se la ricerca ossessiva della «felicità personale» - che i vari protagonisti declinavano soprattutto in chiave sessuale – non fosse un altro che un segnale dell’imminente Declino dell’impero americano. Come era infatti avvenuto ad Atene, si poteva temere che il benessere economico, l’edonismo della società dei consumi, la rivoluzione «postmaterialista» e l’enfasi sull’«autorealizzazione» individuale potessero finire con l’erodere il patriottismo che aveva segnato la fase ascendente della potenza americana. E non era dunque affatto da escludere che, presto a tardi, si sarebbe affacciata sulla scena una nuova Sparta. 
A distanza di tanti anni è oggi piuttosto semplice liquidare quegli allarmismi come eccessivi, se non del tutto fuorvianti. A dispetto delle previsioni di Wallerstein e Gilpin (ma anche di storici come Paul Kennedy) negli anni Ottanta l’economia americana si riprese e, anche grazie alla rivoluzione microelettronica, riconquistò quel primato che sembrava destinata a smarrire. E, soprattutto, a emergere clamorosamente fu invece il declino della superpotenza sovietica, destinata di lì a poco a dissolversi sotto il peso di un’economia arretrata e della sconfitta militare in Afghanistan. È anche per questo che la tesi del nuovo libro di Joseph S. Nye, Fine del secolo americano? (Il Mulino, pp. 134, euro 13.00), non può che apparire come un antidoto contro le retoriche ‘decliniste’, che prevedono l’imminente conclusione del primato di Washington. 
Il politologo – noto in Italia soprattutto come teorico del soft power, ossia il potere di persuasione e attrazione di un determinato modello culturale – passa infatti in rassegna tutti i motivi per cui risulta in gran parte fuorviante pensare non solo che il declino americano sia imminente, ma anche che sia prossima una transizione di potere tra Usa e Cina, simile a quella che si ebbe nella prima metà del Novecento tra l’impero britannico e la nuova superpotenza statunitense. E il punto principale è che nessuno dei potenziali sfidanti sembra in grado di prendere davvero il posto di Washington. L’Europa, a dispetto della sua economia, sembra (come ben sappiamo) molto lontana da una reale unità politica. La Russia, che è ancora dotata di un notevole arsenale nucleare, ha però un’economia fortemente dipendente dalle esportazioni di gas e petrolio e inoltre attraverserà probabilmente nei prossimi decenni un significativo calo demografico. Il Giappone  nonostante le difficoltà rimane la terza economia mondiale, ma non sembra avere le caratteristica di una superpotenza globale, per le ridotte dimensioni geografiche e demografiche. L’India, che pure è dotata di un consistente arsenale nucleare, è ancora un paese con una vastissima popolazione povera, e sembra inoltre ancora lontana dalla possibilità di colmare il gap in termini di alfabetizzazione e crescita economica nei confronti della Cina. Il Brasile, che certo negli ultimi vent’anni è cresciuto a ritmi sostenuti, ha però incontrato un brusco rallentamento, ed è ancora alle prese con carenze infrastrutturali, elevata violenza e scarsa produttività. Ma neppure la Cina sembra avere per Nye le carte in regola per ‘succedere’ agli Stati Uniti. E i motivi hanno a che vedere innanzitutto con la dipendenza energetica, il ritardo tecnologico rispetto agli Usa, le peculiarità di un sistema monetario controllato dallo Stato. Ma anche con la diseguaglianza crescente, il degrado ambientale, le migrazioni interne, la corruzione e l’assenza di reti di sicurezza sociale, oltre che con una dotazione militare che – per quanto in crescita qualitativa e quantitativa – sembra molto lontana dal poter insidiare la supremazia di Washington.
È stato principalmente Niall Ferguson a sostenere che il XXI secolo sarà cinese e a prevedere che il declino americano si presenterà molto presto. Anche per questo uno dei bersagli principali di Nye sono proprie le ipotesi dello storico britannico. In realtà, ben pochi osservatori hanno però formulato l’ipotesi di un «declino assoluto» degli Stati Uniti. Molti hanno piuttosto suggerito l’ipotesi di un declino ‘relativo’, su cui lo stesso Nye tende a convergere. In altre parole, il declino non deriverebbe da una diminuzione in termini assoluti di quelle risorse su cui gli Usa possono contare, bensì da un calo in termini relativi, dovuto all’ascesa di nuovi protagonisti. Se questa ipotesi può apparire forse rassicurante, in realtà è tutt’altro che priva di insidie. Il rischio principale del prossimo futuro – e lo stesso Nye lo riconosce – sarà infatti la complessità della politica internazionale. Gli attori in gioco già oggi non sono più solo gli Stati, e inoltre il numero di potenze sullo scacchiere mondiale è destinato a crescere, tanto che per qualcuno sta nascendo un inedito sistema «a-polare», e non semplicemente «multipolare». Ed è forse per questo che le suggestive analogie tra Atene e Washington (o tra l’impero romano e l’«impero americano») tendono quasi sempre a rivelarsi piuttosto maldestre. E che molte delle discussioni sul «declino» finiscono quasi sempre col risultare fuorvianti.

Damiano Palano