giovedì 29 giugno 2017

Democrazia a memoria. Un libro di Luciano Violante sulla crisi contemporanea





di Damiano Palano

Nei suoi ultimi interventi Zygmunt Bauman amava citare la frase di Gramsci sull’«interregno», secondo cui nelle fasi di crisi organica il vecchio muore, ma il nuovo non può nascere. E in effetti non c’è dubbio che quella formula appaia particolarmente calzante per descrivere le dinamiche, le incertezze e gli stati d’animo della transizione in cui ci troviamo a vivere. Anche perché la transizione, oltre a investire il nostro modo di vita, incide sullo stato di salute dei nostri sistemi politici. Lo riconosce anche Luciano Violante, nel suo ultimo volume, Democrazie senza memoria (Einaudi, pp. 124, euro 12.00), che per molti versi sviluppa e completa un ragionamento iniziato con i precedenti Politica e menzogna (2013) e Il dovere di avere dei doveri (2014). Dal suo autorevole punto di osservazione – di uomo politico, di studioso di diritto e di magistrato – Violante passa in rassegna tutte le diverse minacce che, a suo avviso, mettono a rischio le democrazie occidentali. Se il 1989 sembrò sancire il trionfo della democrazia, osserva infatti Violante, in realtà quel successo si è trasformato nel suo rovescio. «La democrazia occidentale», scrive, «si è rivestita dei propri allori e ha considerato se stessa come un’ineluttabile certezza» (p. 11). È entrato in crisi il rapporto tra capitalismo e democrazia; la politica è stata ridotta a pura tecnica di governo, favorendo così il disinteresse della popolazione; la «tecnicizzazione» della politica ha innescato la deresponsabilizzazione delle opposizioni; nel dibattito politico le componenti emotive della discussione sono diventate soverchianti rispetto alle argomentazioni. E processi come la globalizzazione, la frammentazione sociale, la diffusione del terrorismo hanno contribuito ad aumentare la sfiducia e l’indifferenza. Se tutto ciò ha in parte favorito l’arresto dell’espansione a livello globale della democrazia (e la nascita di nuovi autoritarismi), i problemi riguardano però anche il cuore dei sistemi occidentali, perché proprio qui hanno iniziato a diffondersi fenomeni che mettono sotto accusa il «sistema»: «denunciare il sistema, presentarsi avvolti in un’aureola virginale, dichiararsi estranei alle brutture della politica, criticarlo aspramente anche se di quel sistema si fa parte da decenni, è diventata una giaculatoria. Caratteri costanti di questa denuncia sono l’invocazione di un rinnovamento totale, la critica feroce alle élites e l’annuncio del superamento della distinzione fra destra e sinistra, proprio quando le vicende degli ultimi anni confermano la permanente validità di tale contrapposizione» (p. 34). Ma in questo quadro la novità non è l’indicazione nel sistema del «nemico interno», bensì, secondo quanto scrive Violante, il fatto che «l’attacco è ora condotto in prima persona da chi del sistema fa stabilmente parte o aspira a farne parte», perché questi «agisce come il naufrago che si aggrappa alla scialuppa strapiena e rischia di colare a picco» (p. 35).



Non è difficile riconoscere, dietro questo attacco generico alla demagogia, all’antipolitica e a ciò che Violante – seguendo l’uso ormai invalso – definisce «populismo», una neppure troppo implicita critica a Matteo Renzi, al «renzismo» e alla retorica della «rottamazione». Ma il discorso di Violante va ben al di là di una polemica politica interna allo schieramento del centro-sinistra. L’allarme che lancia riguarda infatti le conseguenze deleterie che a suo avviso possono determinare la diffusione del linguaggio violento (soprattutto in Rete), l’estensione del confine del «dicibile, il ricorso alla «delegittimazione» come strumento ordinario della dialettica politica, il discredito nei confronti delle élite e della scienza. Perché «lo spostamento della fiducia verso partiti che si fondano sul nazionalismo etnico, sul linguaggio dell’odio e sulla mancanza di rispetto potrebbe dare impulso a un’involuzione di carattere autoritario» (p. 56). E perché, in questo quadro, l’abituale ricorso alla menzogna rischia di contribuire ad aggravare la situazione.

Il rimedio che Violante indica parte dai cittadini – specialmente dal «dovere dell’onestà» - e, ancora una volta, dai partiti, che dovrebbero tornare a essere «luogo di elaborazione di idee, di programmi e di piattaforme elettorali» (p. 124), e che dovrebbero essere protagonisti di «processi di rappresentanza» e non più solo di «processi di identificazione» (p. 121). Naturalmente si potrebbe obiettare a Violante che i partiti – nella loro stagione aurea – hanno sempre svolto più una funzione di identificazione che di reale rappresentanza (e che una tale identificazione talvolta induceva i cittadini a chiudere un occhio sulle carenze in fatto di onestà). Ma il discorso di Violante è ovviamente soprattutto un appello alla ricostituzione di partiti radicati sui territori e capaci di assumersi pienamente le responsabilità della propria funzione direttiva. Ed è in questo senso che vanno lette le sue parole: «Tanto i partiti quanto l’intera nazione, per vivere in democrazia, hanno bisogno di ricostruire comunità politiche responsabili e consapevoli del ruolo che sono tenute a svolgere nella storia del paese di cui fanno parte. Soltanto queste comunità politiche sono in grado di tenere unita la nazione, superare l’isolamento individuale, proporre un’alternativa sana al rapporto malato fra leader narcisista e popolo senza rappresentanza» (p. 124).

L’enfasi marcata che Violante pone sull’unità della nazione può apparire sorprendente, non tanto perché il mondo intellettuale da cui proviene ha spesso trascurato questa dimensione, quanto perché gran parte dei problemi che vivono oggi le democrazie europee deriva dalle tensioni tra la dimensione ‘nazionale’ e la dimensione sovrastatale rappresentata dall’Unione europea. E d’altronde il ritorno del nazionalismo – che andrebbe distinto tanto dal populismo, quanto dal ‘sovranismo’ (seppure siano tra loro spesso legati) – trova alimento proprio dalla critica indirizzata contro l’Ue, la cui direzione di marcia appare – a torto o a ragione – sottratta a qualsiasi influenza da parte delle opinioni pubbliche e dei cittadini del Vecchio continente. Forse, ancor più che l’enfasi sui partiti come soggetti capaci di garantire l’unità nazionale, a contrassegnare il discorso di Violante è l’accento posto sull’importanza della memoria. «Molti cambiamenti ci sono di fronte», scrive infatti l’ex Presidente della Camera dei Deputati: i «fenomeni che chiamiamo crisi potrebbero essere forse soltanto passaggi. Saranno crisi se non interverremo, se lasceremo correre; saranno passaggi se avremo la capacità di dirigere i processi» (p. VII). Per evitare che la crisi degeneri, osserva Violante, è necessaria «la memoria della democrazia, delle sue sconfitte e delle sue vittorie, dei suoi valori e delle sue difficoltà», ed è anche necessario «che questa memoria passi di generazione in generazione», perché «altrimenti si resta prigionieri dei pregiudizi» (p. VII). E come precisa verso la conclusione: «Se assistiamo inerti e senza memoria ai processi che si svolgono sotto i nostri occhi, il declino della democrazia sarà inevitabile. Occorre invece cogliere i segni del nuovo, collocarli in una rinnovata visione del mondo e impegnarsi ad attuare i valori della democrazia in un contesto profondamente cambiato. Se l’epoca è nuova, non è sufficiente mettere a lucido i vecchi arnesi, rispolverare le vecchie cassette degli attrezzi e abbandonarsi alle nostalgie. Innovare alcune volte significa scoprire vie nuove, altre volte significa recuperare ciò che di positivo si è perduto» (p. 99).



 Le parole di Violante denotano quantomeno la consapevolezza che le difficoltà che stiamo incontrando negli ultimi anni andrebbero affrontate seriamente, e che non si tratta di piccoli incidenti di percorso, o di insidie del tutto congiunturali, destinate a essere dimenticate nel volgere di qualche mese. Ma il pamphlet di Violante, per la verità, non contribuisce granché a capire dove vada ricercata quella sorta di «terza via» tra memoria e innovazione in cui si potrebbe trovare la strada per mutare la «crisi» in «passaggio». E non si tratta certo di un nodo da poco, anche perché, a ben guardare, negli ultimi trent’anni, tutti coloro che inalberavano la bandiera del «nuovo» contro il grigio, ostile, corrotto conservatorismo allignante in ogni piega della società, alla prova dei fatti si sono trovati a sostenere più o meno sempre le stesse ricette, magari colorate con qualche slogan più o meno evocativo. Ma ciò non toglie che le considerazioni di Violante non debbano essere prese sul serio, valutate con attenzione e magari – soprattutto a proposito di alcuni aspetti particolarmente problematici – anche contestate puntualmente.

Se la lettura di Violante coglie alcuni aspetti cruciali della trasformazione contemporanea, c’è però una questione – relativa proprio al nesso tra democrazia e memoria – che dovrebbe essere presa più seriamente in considerazione. Perché forse dovremmo avere l’onestà intellettuale di riconoscere che non è detto che la crisi che stiamo vivendo sia davvero un «interregno», che rappresenti effettivamente il preludio di una nuova stagione storica, e che il guscio del futuro debba prima o poi dischiudersi per consegnarci una nuova stagione di progresso e giustizia. Proprio per questo dovremmo prendere invece in considerazione l’ipotesi meno consolatoria. Cioè che quel logoramento delle istituzioni democratiche di cui molti hanno riconosciuto la gravità nel corso degli ultimi anni sia in realtà il segno di un declino, destinato a condurre – in forma più o meno brutale e repentina, ma comunque irreversibile – verso altre forme istituzionali. E non è affatto scontato che, in questa transizione, la memoria della democrazia, invocata con molto buon senso da Luciano Violante, possa rivelarsi davvero utile.



Damiano Palano

sabato 24 giugno 2017

Se il populismo diventa un «Sarchiapone». "Populismo e Stato sociale" di Tito Boeri





di Damiano Palano



Sperimentato a lungo in teatro e poi divenuto celebre nella versione televisiva, lo sketch del Sarchiapone rimane ancora oggi uno dei pezzi più famosi di Walter Chiari. L’idea nacque probabilmente da un frammento di discorso raccolto su una spiaggia di Napoli, ma il comico milanese arricchì per anni la scenetta, dilatandone in modo smisurato la lunghezza, grazie anche alla solida spalla offerta da Carlo Campanini. Come molti ricordano, lo sketch era ambientato in un affollato scompartimento ferroviario, in cui a un certo punto uno dei viaggiatori (proprio Campanini), frugando nel bagaglio collocato sulla reticella, fingeva di essere morso da qualcosa che si trovava dentro il bagaglio. Per chiarire l’incidente, Campanini spiegava di avere chiuso nella cesta un raro esemplare di «Sarchiapone americano». Senza avere il coraggio di ammettere la propria ignoranza, Walter Chiari ostentava di fronte agli altri viaggiatori di conoscere perfettamente cosa di celasse dietro quel nome misterioso, e così tentava di indovinare, con una serie di affermazioni puntualmente smentite da Campanini, almeno qualche caratteristica dell’enigmatico animale. A ogni scambio di quella surreale discussione, emergeva un nuovo dettaglio del «Sarchiapone americano», e diventava chiaro soprattutto che si trattava di un animale estremamente aggressivo e pericoloso. Tanto che gli altri viaggiatori, biasimando l’incauto proprietario che trasportava nel bagaglio un carico così minaccioso, finivano con l’abbandonare in tutta fretta lo scompartimento. Solo allora a Chiari era offerto di poter vedere, anche solo per un attimo, un animale tanto sinistro. Ma proprio allora Campanini svelava l’arcano al buon Walter e agli spettatori: il «Sarchiapone americano» ovviamente non esisteva, ma era solo un mostruoso animale immaginario, evocato per sgomberare uno scompartimento un po’ troppo affollato e viaggiare tranquillamente.


Nella discussione degli ultimi anni il «populismo» sembra molto spesso diventare una sorta di «Sarchiapone americano», perché politici, commentatori e studiosi spesso attribuiscono a leader e movimenti populisti le più atroci perversioni politiche, le ideologie più abiette e gli obiettivi più sconvolgenti. Talvolta però, esaminando a fondo le caratteristiche che dovrebbero contrassegnare l’«essenza» del populismo, si scopre che si tratta di tratti molto comuni, tanto comuni da essere condivisi da pressoché ogni forza politica (o quantomeno da qualsiasi forza che ottenga un minimo grado di successo). In altri casi, prendendo sul serio quelle raffigurazioni così inquietanti del modello paradigmatico di populismo, si scopre che in realtà i diversi esempi risultano distanti (talvolta in modo significativo) da quel modello. E che dunque – come mezzo secolo fa osservò Isaiah Berlin – il principe azzurro è destinato a non trovare mai la Cenerentola capace di calzare perfettamente la scarpetta del ‘vero’ populismo (ma per un approfondimento su questa discussione, rinvio alla sintesi proposta in D. Palano, Populismo, Editrice Bibliografica, Milano, 2017).

A rendere ancora più problematica questa ricerca è il fatto che, da almeno una ventina d’anni, il termine «populismo» è entrato nel lessico europeo in un’accezione fortemente spregiativa. Nel linguaggio giornalistico e nella discussione politica, il termine è diventato infatti una sorta di sinonimo di «demagogico», «irresponsabile», ma anche di «nazionalista», «anti-democratico», «razzista» (e forse un modo meno impegnativo per qualificare una forza politica o un leader come «fascista»). Tutto questo rende probabilmente una missione impossibile sottrarre il termine al suo utilizzo quotidiano e ‘depurarlo’ dalle sue incrostazioni polemiche. Ciò nonostante la parola «populismo» non cessa di essere utilizzata anche da studiosi autorevoli, i quali di fatto la adoperano nella stessa accezione adottata nella contesa politica, ma che cercano anche di colorare il volto di questo enigmatico fenomeno con tinte invariabilmente sinistre. Un’illustrazione di questa tendenza – ma se ne potrebbero fare davvero centinaia – giunge per esempio dalla voce autorevole di Sergio Fabbrini, che in un editoriale apparso sul «Sole 24 Ore» ha descritto il riaffacciarsi del populismo italiano come una conseguenza della bocciatura del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Per Fabbrini la bocciatura della riforma da parte degli elettori sancisce infatti l’interruzione della «spinta alle riforme finalizzata ad avvicinare l’Italia agli standard istituzionali e di politiche pubbliche europee», oltre che la frantumazione della «coalizione della modernizzazione che aveva aggregato settori della sinistra e della destra, del mondo delle imprese e del lavoro, delle conoscenze e delle professioni, in una prospettiva di europeizzazione dell’Italia». Ma il punto più significativo del discorso di Fabbrini consiste nella descrizione dei tratti della «visione populista», che lo snodo del 4 dicembre avrebbe fatto riemergere. Si tratta infatti, a suo avviso, di una visione che «considera l’Italia come un Paese a sé stante, auto-referenziale, dominato dall’unicità della propria vicenda storica». In questa visione, «non solamente l’Italia è diversa dagli altri Paesi, ma la sua struttura la rende impermeabile ai modelli istituzionali o alle pratiche di governo che connotano le moderne democrazie», anche se, in realtà «si tratta di una visione utilizzata per giustificare l’Italia socialmente corporativa, culturalmente populista, economicamente protetta», perché «è l’Italia che usa il linguaggio dei diritti a fini di conservazione, è l’Italia degli scioperi del micro-sindacalismo populista […] o delle sentenze dei tribunali amministrativi che bocciano la scelta di direttori di musei nazionali ‘perché stranieri’» (S. Fabbrini, L’Italia non si rassegni al populismo e all’elitismo, in «Il Sole 24 Ore», 18 giugno 2017, p. 16).

Nella descrizione di Fabbrini il mostro populista diventa tanto vorace da inghiottire non solo più o meno tutte quelle ‘anomalie’ che – a torto o a ragione – di solito sono state dipinte come specifiche del ‘caso italiano’, ma anche l’intera tradizione storicista italiana, ossia quella tradizione culturale – del tutto trasversale alle divisioni tra destra e sinistra, e che congiunge per esempio Mazzini, Croce e Gramsci – per cui l’Italia ha alcune proprie specificità storiche, che la rendono diversa dalla Francia e dal Regno Unito. Naturalmente sarebbe ingeneroso giudicare con il metro del rigore analitico un discorso evidentemente politico come quello di Fabbrini, ma il punto è che, indossando le lenti della polemica politica, si può correre il rischio di non vedere ciò che avviene nella società e di inveire dunque contro la realtà per il semplice motivo che quest’ultima non aderisce al proprio modello normativo.



In un simile rischio incorre anche il recente volumetto di Tito Boeri, Populismo e Stato sociale (Laterza, pp. 48, euro 9.00), che riproduce in realtà il testo della Lectio magistralis tenuta dal Presidente dell’Inps nel marzo 2017 alla Biennale Democrazia. Prima di essere chiamato a ricoprire il suo attuale incarico, Boeri è stato per anni Senior Economist all’Ocse, consulente della Banca Mondiale e della Commissione europea, oltre che docente di Economia del Lavoro all’Università Bocconi. Più ancora che la sua prestigiosa carriera, i suoi lavori dimostrano sempre un grande rigore, e suoi interventi pubblici denotano una serietà e un’attenzione ai problemi reali della società italiana che non sempre è facile ritrovare tra gli economisti.  Non è peraltro escluso che proprio queste pregi – non disgiunti da un’intelligenza brillante e da un’indubbia capacità comunicativa – possano presto aprire una carriera politica a Boeri, il cui profilo potrebbe effettivamente colmare un vuoto di leader e proposte difficile da negare. Tutti queste doti non emergono però dal volumetto su Populismo e Stato sociale, in cui il discorso di Boeri finisce con lo schiacciare tutti i motivi di crisi, di critica e di disaffezione dentro la sagoma di un populismo evidentemente immaginario. E anche se si può concedere a Boeri l’attenuante della licenza retorica talvolta richiesta dalle occasioni pubbliche, il rischio cui il suo testo contribuisce è invece di inquinare il dibattito, di rendere la discussione sempre più confusa e di intersecare piani di confronto molto diversi.

La premessa da cui procede l’economista milanese è esplicitata chiaramente fin dalla prima pagina. In una sorta di rivisitazione europeista del mussoliniano «Chi si ferma è perduto», Boeri sposa la vecchia frase di Jacques Delors, secondo cui l’integrazione europea sarebbe come una corsa in bicicletta, nella quale «o pedali e vai avanti oppure ti fermi e quindi cadi». Ma in questa pedalata i leader europei devono affrontare un’impervia salita. E il pericolo che minaccia di far cadere l’Ue, sostiene Boeri, ha un nome ben preciso: «Si chiama populismo, la possibile affermazione di partiti che offrono un messaggio semplice quanto pericoloso: interrompere il processo di integrazione europea e chiudere le frontiere agli immigrati, per meglio proteggere le persone più vulnerabili dalle sfide della globalizzazione. È un messaggio che mina alle basi il principio della libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione europea su cui si fonda, a partire dal Trattato di Roma, il processo di integrazione politica ed economica europea» (p. X). La connessione stretta tra populismo e chiusura delle frontiere agli stranieri è decisiva nel discorso di Boeri, anche per lo specifico discorso che intende svolgere sui sistemi di protezione sociale, ma anche perché la sua difesa dell’Ue punta soprattutto sull’idea che proprio il principio di circolazione delle persone offra una via di salvezza ai giovani italiani, che in questo modo possono senza troppe difficoltà emigrare all’estero per cercare quel lavoro che non trovano nel loro Paese. Dal punto di vista retorico, questo tipo di argomentazione non è probabilmente così efficace, ma l’analisi di Boeri è comunque più strutturata, perché intende portare alla luce quali sono le radici dell’insorgenza populista, prima di proporre un rimedio.

Innanzitutto l’economista si propone di delimitare il fenomeno. Per questo attinge alla definizione del politologo olandese Cas Mudde, per il quale il populismo è un’ideologia «leggera», ossia un’ideologia che «considera la società come composta da due gruppi omogenei, da due blocchi monolitici, tra di loro contrapposti: da una parte il popolo, dall’altra l’élite corrotta (declinata al singolare)» (p. 5). Il nemico del populismo è dunque «tutto ciò che sta nel mezzo», «i cosiddetti corpi intermedi: dall’associazionismo ai partiti, dalle rappresentanze di interessi (a partire dai sindacati alle istituzioni di garanzia, dalle autorità indipendenti di controllo ai dirigenti indipendenti di amministrazioni pubbliche» (pp. 5-6). In sostanza, dunque: «La democrazia dei populisti è la democrazia diretta che assegna un potere assoluto alla maggioranza, trasformandosi paradossalmente nella dittatura della maggioranza paventata da Alexis de Tocqueville in La democrazia in America» (p. 6). In questa definizione, a ben guardare, Boeri non si limita a riprendere la generica definizione di Mudde (una definizione, come ha per esempio osservato Marco Tarchi, tutt’altro che priva di aspetti problematici), ma introduce una forzatura, che non riguarda tanto l’utilizzo un po’ disinvolto di Tocqueville, quanto un’operazione di ridefinizione dei «corpi intermedi». Senza dubbio la tradizione democratica ‘populista’ – che Jacob Talmon in un celebre lavoro definì «democrazia totalitaria», rintracciandone le origini nell’esperienza rivoluzionaria giacobina – può vedere nei «corpi intermedi» un ostacolo, ma il punto è che la posizione ‘intermedia’ di questi ultimi dipende dal fatto che si collocano tra lo Stato e l’individuo, ossia tra l’enorme apparato burocratico dei pubblici poteri e una società intesa in termini atomistici. Il fatto che Boeri collochi i «corpi intermedi» tra popolo ed élite non è naturalmente una ‘svista’, che distorce il senso della tradizionale valorizzazione ‘anti-statalista’ e ‘anti-burocratica’ dei «corpi intermedi», ma è un’operazione teorica e retorica che ha un obiettivo politico ben preciso, ossia qualificare le articolazioni dello Stato come espressione dei «corpi intermedi», e dunque come espressione di una società ‘virtuosa’, capace di correggere i vizi del populismo. E non è infatti certo casuale che Boeri, nelle pagine conclusive, affidi il compito di contrastare il populismo proprio a «quei corpi intermedi, le pubbliche amministrazioni, chiamiamole pure burocrazie, che possono battere il populismo» (p. 38). Una simile operazione probabilmente lascerebbe piuttosto perplesso il vecchio Tocqueville, che vi riconoscerebbe forse qualcosa della vocazione assolutista propria della storia francese, ma comunque imprime una triplice distorsione al discorso di Boeri: per un verso, il populismo è definito come un’ideologia che contrappone il popolo (moralmente sano) a delle élite (corrotte); in secondo luogo, il populismo è qualificato come ostile ai corpi intermedi; in terzo luogo, i corpi intermedi vengono a ricomprendere le istituzioni statali e l’intero apparato burocratico. Ma ovviamente questa triplice distorsione è tutta finalizzata a configurare il populismo come una minaccia – alla democrazia, allo Stato sociale, alla competitività economica e alla sicurezza – cui può e deve rispondere lo Stato, mediante le sue articolazioni. E proprio per questo l’operazione teorica di Boeri deve apparire particolarmente persuasiva a quanti vedono nel «neo-liberalismo» l’insieme di dispositivi istituzionali che ‘creano’ e ‘ricreano’ costantemente quelle condizioni favorevoli all’economia di mercato (che ‘naturalmente’ e ‘spontaneamente’ non esisterebbero).



Boeri non rinuncia naturalmente a fornire una spiegazione dei motivi da cui nasce il successo delle formazioni populiste. E individua il motivo in «una tensione latente fra domanda e offerta di protezione sociale», perché, per un verso, «una crescente vulnerabilità ai cambiamenti tecnologici e alla globalizzazione di vasti strati della popolazione alimenta una forte domanda di protezione», mentre, per un altro verso, «non ci si fida di chi dovrebbe offrire questa protezione e, dunque, si avverte la necessità di rivolgersi ad outsiders che non abbiano apparentemente alcun legame con la classe dirigente» (p. 11). In sostanza, «una ragione economica (la perdita di reddito e di sicurezza) e una motivazione di tipo culturale (la sfiducia verso le classi dirigenti)» costituiscono la «base della resurrezione dei populisti» (p. 11). Boeri cioè riconosce, per un verso, che i processi di globalizzazione e le trasformazioni delle economie occidentali hanno determinato un impoverimento (relativo) dei ceti medi (e della componente inferiore dei ceti medi) delle democrazie industriali. E, inoltre, ritiene che ciò abbia fatto nascere una nuova richiesta di protezione sociale. Ma, al tempo stesso, questi settori manifesterebbero «una profonda sfiducia nei confronti di chi dovrebbe offrire protezione sociale». Osserva inoltre: «poco importa se le classi dirigenti dei diversi paesi hanno effettivamente responsabilità nella crisi o se questa sia dovuta a fattori esterni. Quel che conta è che le classi dirigenti vengono percepite come corrotte e lontane anni luce dai cittadini» (p. 13).

L’utilizzo di un’espressione generica come «classe dirigente» certo non rende il discorso di Boeri particolarmente cristallino, perché evidentemente una simile espressione ricomprende la classe politica, il ceto imprenditoriale, le élite tecnocratiche, l’alta burocrazia, una parte del mondo del mondo della comunicazione e forse persino una parte del mondo intellettuale. E anche il ragionamento per cui, per effetto di un «grande paradosso, si rifiuta chi potrebbe offrire la protezione sociale, risulta davvero poco nitido, perché non è affatto chiaro se il rifiuto di cui si parla sia il rifiuto di una determinata classe politica, o sia invece del rifiuto di una linea politica, o di un determinato partito, o più semplicemente dello Stato (perché, a ben guardare, chi offre protezione sociale non è un leader politico o un partito, bensì lo Stato). Il «grande paradosso» può infatti trovare qualche applicazione al caso statunitense e alle elezioni di Donald Trump, ma sembra davvero poco appropriato per quanto concerne le formazioni ‘populiste’ europee. Più rilevante il fatto che Boeri consideri come distintiva del populismo la rivendicazione di un recupero di sovranità nazionale. Ma anche in questo caso, in modo piuttosto sommario, Boeri suggerisce che i populisti puntano a recuperare sovranità soltanto mediante il controllo e il blocco dei flussi migratori, benché – come dimostra – l’afflusso di manodopera straniera in realtà abbia effetti positivi sulle casse previdenziali.

Ad ogni modo, la conclusione della requisitoria di Boeri è netta: «Il populismo offre […] risposte sbagliate ai problemi da cui trae la propria forza. Di più: induce a pensare che i problemi più spinosi possano essere risolti semplicemente sostituendo i politici corrotti con rappresentanti del popolo, che possibilmente non abbiano alcuna esperienza di governo» (p. 23). Ma le soluzioni che suggerisce non sembrano certo indicare strade particolarmente innovative: da un lato, «affrontare i problemi alla radice anziché accettare le libere associazioni della propaganda populista» (p. 23); dall’altro, «rimuovere quelle iniquità che trasmettono all’opinione pubblica l’immagine di una classe dirigente corrotta che pensa esclusivamente ai propri interessi» (p. 23). Più precisamente, Boeri riprende il tema classico della propaganda antipolitica (o populista) e attacca i vitalizi dei parlamentari, ma sostiene anche l’introduzione di un «reddito minimo garantito» per coloro che, pur lavorando, rimangono al di sotto della soglia di povertà o che per quanti sono disoccupati. Infine, suggerisce l’opportunità di introdurre un codice europeo di protezione sociale, che dovrebbe consentire la portabilità dei diritti sociali tra paesi membri dell’Ue.

Le proposte di Boeri sono senz’altro meritevoli di discussione, anche perché nascono da una conoscenza approfondita dei meccanismi di protezione sociale (e dei loro limiti attuali). L’intera lettura che Boeri propone del fenomeno ‘populista’ appare invece quantomeno discutibile. Come si è visto, la definizione del campo populista è fin dal principio viziata da una serie di distorsioni. Al populismo viene attribuita una visione moralista e manichea della società, che contrappone un popolo ‘buono’ a un popolo ‘cattivo’. E inoltre viene attribuita al populismo una pervicace ostilità ai «corpi intermedi», che si estendono in questo caso fino a comprendere gli apparati burocratici dello Stato. Inoltre, ai populisti è attribuito l’obiettivo di riconquistare sovranità nazionale bloccando i flussi migratori e la circolazione dei lavoratori tra gli Stati membri dell’Ue. Ma il problema – o meglio, uno dei problemi – è che Boeri non chiarisce mai davvero chi siano i populisti. E ciò rende quantomeno problematico confrontare quella sorta di sinistro identikit tracciato dall’economista con una serie di partiti e leader reali.

In effetti, non c’è alcun dubbio che alcune forze politiche possano davvero presentare tutte le caratteristiche indicate da Boeri come distintive del populismo. Ma – se ben pochi mostrano davvero tutte le caratteristiche – quasi tutti gli attori presenti sulla scena politica contemporanea hanno nel proprio Dna almeno qualche ingrediente di quel cocktail fatale che secondo il Presidente dell’Inps è alla base dell’insorgenza populista. Le perplessità che desta l’impressionistica definizione proposta da Boeri non possono non risultare inoltre confermate anche da quell’elenco di formazioni populiste su cui si basano le affermazioni sul successo dei partiti populisti. In questa lista, riportata in appendice, si trovano infatti, uno accanto all’altro, la Coalizione della sinistra radicale greca (Syriza) e Alba Dorata, il Front National e Podemos, Alternative für Deutschland e il Partito Socialista olandese, il Movimento 5 Stelle e la formazione ungherese Jobbik, il Partito dei finlandesi e lo Ukip britannico. Che si tratti proprio di quelle formazioni per cui di solito viene scomodato il termine «populismo», ci sono pochi dubbi. Ma risulta un’impresa davvero ostica riconoscere nei partiti compresi nell’elenco quei tratti che Boeri considera come qualificanti del populismo. Forse Podemos e Syriza potrebbero essere interpretati come portatori di una concezione radicale della democrazia, ma è davvero difficile attribuire loro un rifiuto dei corpi intermedi (dal momento che nascono da un processo aggregativo di associazioni e gruppi locali), come d’altronde è piuttosto discutibile attribuire loro la volontà di bloccare i flussi migratori (in generale, ma soprattutto all’interno dei paesi membri dell’Ue). Invece ci si potrebbe chiedere per quale motivo il partito conservatore britannico non sia compreso nella lista, dal momento che (come e forse più dello Ukip) ha proposto sia un referendum popolare sull’uscita del Regno Unito dall’Ue e in seguito (per ora senza grande successo) l’espulsione dei lavoratori stranieri dai propri confini. Per quanto riguarda le formazioni italiane, è inoltre scontata la presenza nella lista del Movimento 5 Stelle, della Lega Nord, di Fratelli d’Italia, i quali certo si avvicinino almeno in parte all’identikit (anche se per la verità nessuna di queste forze politiche ha mai davvero proposto una chiusura delle frontiere ai lavoratori provenienti dai paesi dell’Ue). Ma ci si potrebbe anche in questo caso chiedere – con una provocazione volta a mettere in luce la fragilità di tutta l’operazione –  per quale motivo il Partito democratico non sia compreso nella lista. Perché è piuttosto evidente che ben pochi leader hanno agitato il cocktail populista più efficacemente di Matteo Renzi; perché l’attuale segretario del Pd ha per molti versi costruito la propria ascesa su una contrapposizione moralistica tra un popolo ‘buono’ e una «casta» da rottamare; perché nel proprio esecutivo ha reclutato persone prive di qualsiasi esperienza istituzionale, la cui unica credenziale era proprio l’assenza di precedenti politici; perché ha a lungo rappresentato il proprio cammino come una battaglia contro i «corpi intermedi» rappresentati da sindacati e organizzazioni sociali, nel nome di una democrazia «immediata»; perché si è impegnato (almeno mediaticamente) in una lotta contro la «cricca» della burocrazia; e perché forse di nessuno, come proprio di Matteo Renzi, si può sostenere ciò che dice Boeri a proposito dei populisti, ossia che il loro successo è dovuto al fatto che una parte della società «avverte la necessità di rivolgersi ad outsiders che non abbiano apparentemente alcun legame con la classe dirigente».

Ed è proprio per questa serie di distorsioni e ambiguità che, a dispetto dell’interesse delle proposte che il pamphlet di Boeri suggerisce al dibattito pubblico, l’operazione compiuta in Populismo e Stato sociale appare davvero molto debole, se non addirittura intellettualmente scorretta. Attribuire ogni colpa alla mostruosa presenza del populismo impedisce infatti di considerare davvero le radici della crisi contemporanea. E allora quel famigerato «populismo» - cui vengono attribuiti tutti i peggiori vizi della società e tutte le colpe della crisi, delle riforme mancate e del ritardo italiano – alla fine tende ad assomigliare davvero al «Sarchiapone americano» di Walter Chiari e Carlo Campanini. Perché, aperta la valigia che lo dovrebbe costudire, si rivela essere solo un fantoccio immaginario con cui allarmare l’opinione pubblica. E grazie al quale assolvere dalle loro responsabilità le élite politiche, economiche e intellettuali del presente e dal passato.


Damiano Palano

giovedì 8 giugno 2017

Se il migrante diventa un'arma. "Armi di migrazione di massa" di Kelly M. Greenhill



di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Kelly M. Greenhill, Armi di migrazione di massa. Deportazione, coercizione e politica estera (Leg, pp. 482, euro 20.00) è apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 6 giugno 2017.

Nel 1979, durante uno storico incontro con Deng Xiaoping, il presidente americano Jimmy Carter pose la questione del mancato rispetto dei diritti umani da parte della Repubblica Popolare. E dichiarò che, se il regime non avesse concesso ai propri cittadini la possibilità di emigrare senza restrizioni, gli Stati Uniti non avrebbero potuto commerciare liberamente con la Cina. La replica di Deng lasciò però Carter letteralmente disarmato: «Va bene. Allora, esattamente quanti cinesi le piacerebbe avere, signor presidente? Un milione? Dieci milioni? Trenta milioni?». La minaccia di Deng non si concretizzò mai. Ma l’episodio – ricordato da Zbigniew Brzezinski – può essere considerato come una testimonianza della fragilità che le democrazie liberali spesso mostrano dinanzi alla prospettiva di essere investiti da flussi migratori di massa. Una fragilità che, in qualche caso, può essere sfruttata politicamente da alcuni Stati per ottenere concessioni, o comunque per esercitare pressione.
Proprio a questo tema è dedicato il volume di Kelly M. Greenhill, Armi di migrazione di massa. Deportazione, coercizione e politica estera (Leg, pp. 482, euro 20.00). Greenhill sostiene infatti che, almeno in alcuni casi, le migrazioni progettate coercitive – ossia movimenti transfrontalieri deliberatamente creati o manovrati da Stati o organizzazioni non statali – possano essere sfruttate per ottenere concessioni politiche, militari ed economiche. Nel periodo compreso tra il 1951 e il 2010, la politologa ne riconosce ben cinquantasei casi. Le proporzioni della popolazione coinvolta e lo stesso profilo degli attori protagonisti furono ovviamente, di volta in volta, molto diversi. Nel 1953, l’allora cancelliere della Repubblica Federale tedesca Konrad Adenauer tentò per esempio di sfruttare l’improvviso afflusso di circa trecentomila profughi dalla Germania Est (dipinto come un deliberato piano di destabilizzazione ordito dall’Unione Sovietica) per ottenere aiuti straordinari dagli Stati Uniti. Un caso analogo vide protagonista l’Austria, che nel 1956 dichiarò che non avrebbe più accolto i rifugiati in fuga dall’Ungheria, se gli Stati Uniti non avessero fornito un consistente supporto finanziario per la gestione dell’emergenza. In altre occasioni le migrazioni furono invece direttamente innescate (o favorite) da parte di chi esercitava la pressione. Fidel Castro alimentò per esempio varie volte i flussi di profughi cubani verso la Florida per riaprire la contrattazione con Washington. E nel 1993 l’ex presidente haitiano Jean-Bertrand Aristide ebbe probabilmente un ruolo nel promuovere quell’afflusso di boat people verso le coste degli Stati Uniti che indusse l’amministrazione Clinton a intervenire nell’isola.
Il testo di Greenhill offre sicuramente una chiave di lettura. Ma – è importante sottolinearlo – i suoi risultati non possono essere fraintesi. In particolare, i flussi di profughi e migranti che negli ultimi anni hanno investito l’Europa non possono essere considerati semplicisticamente come il frutto di un deliberato calcolo politico, diretto a indebolire il Vecchio continente mediante una «bomba demografica». Anche se certo alcuni attori hanno tentato di utilizzare e manipolare quei flussi per ottenere benefici (non solo economici). Quasi sempre la coercizione per mezzo di migrazione sfrutta d'altronde flussi innescati da altri processi (spesso ben più complessi). Inoltre questo strumento di pressione – come mette in luce la politologa – riesce a far leva sul fatto che, nelle democrazie liberali, la popolazione tende a considerare la limitazione dei flussi migratori come un imperativo molto più rilevante rispetto a qualsiasi altra questione di politica estera. Al tempo stesso, gli Stati democratici considerano spesso troppo elevato ciò che Greenhill chiama il «costo dell’ipocrisia», ossia il costo in termini di credibilità e reputazione derivante dal mancato rispetto di quei diritti che pure vengono solennemente dichiarati inviolabili. Proprio una simile debolezza rende infatti gli Stati occidentali bersagli sensibili alla minaccia di diventare oggetto di flussi migratori. E dunque spesso disponibili ad accogliere le richieste di quegli attori che usano i migranti come un’arma per ottenere concessioni.

 Damiano Palano