mercoledì 21 novembre 2012

Il romanzo criminale di Cesare Lombroso. Rileggere "L'uomo delinquente"







di Damiano Palano

Quando Cesare Lombroso morì, nel 1909, Agostino Gemelli scrisse che, insieme ai funerali dell’uomo, si celebravano anche quelli della sua dottrina. In effetti, con il suo giudizio il fondatore dell’Università Cattolica – e studioso di psicologia sperimentale – registrava un elemento reale. L’entusiasmo per il positivismo si era allora quasi completamente dissolto, mentre la rinascita neo-idealista stava guadagnando terreno. Proprio Lombroso e la sua dottrina, i simboli paradigmatici della fiducia risposta nella scienza, dovevano essere fra i primi a fare le spese del nuovo clima. La sua ‘scuola di antropologia criminale’ continuò a resistere per qualche anno, ma perse comunque gran parte del fascino e dell’influenza che aveva esercitato negli ultimi due decenni dell’Ottocento. E, così, lo psichiatra divenne un simbolo – o forse addirittura la caricatura – delle ingenuità della stagione positivista.
Dopo un secolo, negli ultimi anni si stanno registrando i segnali di un nuovo interesse per la figura di Lombroso. Nel centenario della morte, libri e convegni sono tornati a interrogarsi sulla sua riflessione, e persino il Museo di Antropologia Criminale, che Lombroso istituì a Torino, ha riaperto al pubblico. Ora, viene anche ripubblicato, con la cura di Lucia Rodler, il testo principale dello psichiatra, L’uomo delinquente studiato in rapporto all’antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie (Il Mulino, pp. 437, euro 33.00).  
La nuova attenzione per Lombroso potrebbe destare più di qualche inquietudine, se fosse dettata dall’obiettivo di riabilitare le teorie dello psichiatra, o dal tentativo di rinvenire nei suoi studi un’anticipazione della criminologia contemporanea. Ma, probabilmente, l’interesse che ancora oggi attira il ‘caso Lombroso’ è dovuto ad altri motivi. Ed è legato soprattutto al successo che quelle teorie ebbero nell’Europa fin de siècle.
A ben vedere, la straordinaria popolarità di Lombroso non era dovuta né all’originalità delle sue ipotesi, né al rigore delle sue ricerche. Era piuttosto connessa alla sua grande capacità di rivestire di abiti apparentemente scientifici i più consolidati luoghi comuni o le più fantasiose supposizioni. La fama di Lombroso è in effetti legata alla cosiddetta teoria dell’atavismo, una teoria secondo cui i criminali sarebbero in sostanza il risultato di un arresto nel processo evolutivo: uomini e donne dalla psicologia ‘primitiva’, incapaci di adattarsi alle regole della società moderna, e che per questo continuano a utilizzare le armi di un mondo primordiale. Nell’Uomo delinquente (e soprattutto nella sua prima edizione, apparsa nel 1876), Lombroso espose effettivamente questa teoria, e cercò di riconoscere negli ospiti delle carceri del Regno i segni dell’atavismo: anomalie fisiche e soprattutto nella struttura del cranio. In seguito, lo psichiatra rivide però questa teoria, pur senza sconfessarla. E ipotizzò anche l’intervento di altri fattori, che potevano spiegare le varie condotte criminali. 
Nelle pagine dell’Uomo delinquente, non si trova così una teoria ben precisa sulla genesi del crimine. Si trovano piuttosto teorie differenti, neppure del tutto compatibili fra loro, affastellate l’una sull’altra, spesso senza reale sistematizzazione. In quelle pagine, così come nella sterminata produzione lombrosiana, ci si imbatte invece in una straordinaria galleria di volti criminali. Una galleria in cui i casi reali (spesso deformati) si affiancano a quelli letterari, in un intreccio inestricabile fra scienza e letteratura. E, probabilmente, il vero motivo del successo di Lombroso stava proprio qui. Aprendo ai ‘profani’ le porte del suo laboratorio, lo psichiatra dava al pubblico dell’Italia fin de siècle l’illusione di penetrare i recessi più riposti dell’animo umano. L’illusione di poter risolvere quei casi di cronaca nera cui la grande stampa iniziava a dare spazio. E, dunque, di squarciare il velo dei misteri criminali con il bisturi della nuova scienza.
Certo si può considerare Lombroso come un ispiratore di quei filoni scientifici che oggi puntano a trovare a livello genetico le determinanti del comportamento criminale. Ma Lombroso fu soprattutto un precursore della contemporanea criminologia prêt-à-porter, dell’ossessione macabra per i delitti che riempie le pagine dei giornali e i palinsesti televisivi. E forse per questo vale oggi la pena di rileggere L’uomo delinquente. Non come un testo scientifico, ma come un fortunato romanzo popolare.

Damiano Palano

lunedì 12 novembre 2012

La democrazia della sorveglianza. Un libro di Emilio Raffaele Papa


di Damiano Palano

Una leggenda, evocata da Hannah Arendt, racconta che un cavaliere attraversò il lago di Costanza senza neppure sospettare di muoversi su una sottilissima lastra di ghiaccio. Giunto sulla riva opposta del lago e compreso il terribile rischio che aveva corso, il cavaliere ne rimase talmente scosso da morire per lo spavento. È proprio con l’immagine del cavaliere di Costanza che si chiude la riflessione sviluppata da Emilio Raffaele Papa nel suo recente L’altra faccia della democrazia. Per una democrazia della sorveglianza (Piero Lacaita Editore, pp. 162, euro 15.00). Un po’ come il leggendario cavaliere, anche la democrazia occidentale ha camminato infatti per quasi mezzo secolo sul sottile strato ghiacciato della Guerra fredda. E, come il cavaliere, sembra paradossalmente entrare in crisi proprio nel momento in cui i suoi zoccoli non poggiano più sulla fragile superficie dell’equilibrio bipolare.
Partendo dalle sfide con cui si trovano oggi alle prese i nostri sistemi politici, il volume di Papa – congegnato come un trattatello settecentesco, e non privo di spunti polemici nei confronti di molti ricorrenti luoghi comuni politologici – ripercorre la storia della democrazia occidentale, dalle origini greche fino alle trasformazioni contemporanee. E il punto critico su cui attira l’attenzione è costituito soprattutto dalla progressiva atrofia delle assemblee elettive e dei partiti politici, ossia proprio di quegli organi cui in passato erano affidate le funzioni principali della rappresentanza politica. Naturalmente, le motivazioni alla base di tali trasformazioni sono complesse, e rimandano peraltro a un cambiamento più generale. Un cambiamento che sembra condurre a quella che Papa – mutuando una suggestiva espressione di Jacquex Géneréux – definisce come una «dissocietà»: una società di individui ‘dissociati’, sempre meno inclini alla partecipazione civica e sempre più ripiegati sugli interessi privati. Proprio questa «dissocietà», così vicina alla folla di individui egoisti prefigurata da Tocqueville, non può che inaridire il terreno su cui si reggono le istituzioni democratiche. Ed è infatti in questo contesto che proliferano sia la protesta antipolitica, sia la ricerca di soluzioni carismatiche.
A differenza del cavaliere del lago di Costanza, la democrazia occidentale è però ben consapevole dei rischi che ha corso. E, secondo Papa, ha anche le risorse per proiettarsi verso un nuovo avvenire. La strada indicata da Papa non passa comunque dai tradizionali meccanismi della rappresentanza, bensì da una consapevole «democrazia della sorveglianza», ossia da una riscoperta dell’istituto del defensor civitas. Ma il difensore civico nazionale cui pensa Papa non è un organo di accertamento, di denuncia, di dialettica. Si tratta infatti un organo di controllo. Un organo che dovrebbe tutelare i cittadini, ma che, al tempo stesso, dovrebbe essere sottratto alla logica delle contrapposizioni partigiane.
La «democrazia della sorveglianza» profilata da Papa sembra per molti versi riprendere la tradizione svedese dell’Ombudsman. Ma, da un certo punto di vista, pare anche attualizzare l’istituto romano del tribunato della plebe. E il merito principale della proposta consiste d’altronde nel tentativo di rispondere in termini originali alle difficoltà che sperimentano i sistemi rappresentativi. Se non altro perché prende atto della crescente divaricazione fra apparati politici e cittadini che abbiamo sotto gli occhi. Una divaricazione che forse non trasforma il ‘popolo’ in una ‘plebe’. Ma che, probabilmente, anche nei prossimi anni non è destinata ad attenuarsi.

Damiano Palano