domenica 29 novembre 2020

L'incubo della "Bomba" che formò le nuove generazioni. L'Occidente di fronte alla "questione nucleare" nel libro di Laura Ciglioni "Culture atomiche" (Carocci)

di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Laura Ciglioni, Culture atomiche. Gli Stati Uniti, la Francia e l'Italia di fronte alla questione nucleare (1962-1968) (Carocci, Roma, pp. 404, euro 39.00), è apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 27 novembre 2020.  

«Vedremo soltanto una sfera di fuoco più grande del sole, più vasta del mondo, nemmeno un grido risuonerà, e solo il silenzio come un sudario si stenderà». Nel 1966, con Noi non ci saremo dei Nomadi, le paure legate a un possibile olocausto nucleare approdavano nella musica leggera italiana. Ma l’incubo di una guerra atomica era già da tempo entrato nella discussione pubblica, conquistando anche le copertine dei rotocalchi, le storie dei fumetti, le sceneggiature cinematografiche. Una vasta e meticolosa ricerca su come fu vissuto in Occidente l’ingresso nell’«era atomica» è proposta dal ricco volume di Laura Ciglioni, Culture atomiche. Gli Stati Uniti, la Francia e l’Italia di fronte alla questione nucleare (1962-1968) (Carocci, pp. 403, euro 39.00): un libro che non si limita a ricostruire le discussioni politiche o i dibattiti condotti nell’ambito della ‘cultura alta’, ma passa sistematicamente in rassegna settimanali popolari, film, romanzi di fantascienza e molto altro, senza dimenticare i sondaggi di opinione. 

L’obiettivo della studiosa è infatti ricostruire le «culture nucleari», ossia «le mentalità, gli stati d’animo diffusi e gli orientamenti dell’opinione pubblica nella loro articolazione intorno a una questione politica». I differenti approcci con cui l’Occidente fece ingresso nell’«era atomica» risentivano ovviamente del contesto della Guerra fredda, ma al loro interno riaffioravano anche eredità più antiche, legate alle singole identità nazionali. E, mostrando il peso di queste componenti, la ricerca è molto utile anche per ridimensionare l’idea che l’opinione pubblica non abbia alcun ruolo nelle grandi decisioni di politica estera.

L’indagine si focalizza su Stati Uniti, Francia e Italia, e cioè su tre paesi che – pur facendo parte della comunità occidentale – nutrivano ambizioni internazionali ben diverse. Anche per questo, come mostra Ciglioni, il loro modo di affrontare le ambivalenze dell’«Atomic Age» non fu il medesimo. Negli Usa la percezione di essere entrati in una nuova stagione si delineò immediatamente, ancora prima che la Seconda guerra mondiale si chiudesse davvero. E subito vennero a intrecciarsi atteggiamenti ambivalenti, in cui l’angoscia si combinava con l’ansia di rigenerazione, e che l’industria dell’intrattenimento non tardò a sfruttare in molteplici direzioni. Quando nel 1962 la crisi dei missili di Cuba spinse il mondo sull’orlo di un conflitto nucleare, l’opinione pubblica americana aveva dunque già ampiamente familiarizzato con il tema. E il dibattito che si svolse negli anni Sessanta affrontò i problemi dell’era atomica in gran parte rilanciando schemi già definiti da tempo, che per esempio vedevano nel nucleare la nuova frontiera dello spirito americano, o che invece sottolineavano i rischi che derivavano dall’essere una superpotenza. Ma, anche se l’ottimismo fu incrinato dai dubbi e dalle critiche dei pacifisti, rimase comunque sempre piuttosto robusta la fiducia riposta nello sviluppo dell’energia nucleare.

In Francia le inquietudini emersero molto presto, e a sollevarle fu per esempio, subito dopo la guerra, Albert Camus, che scrisse che l’umanità si trovava ormai al bivio «tra l’inferno e la ragione». Ma dopo la crisi di Suez gran parte dell’opinione pubblica si persuase che il paese dovesse volgersi al nucleare, in grado di compensare la perdita del ruolo di potenza coloniale e dunque di scongiurare l’uscita dal novero delle «grandi potenze». Non solo la costruzione di un arsenale atomico, ma anche lo sviluppo del nucleare per obiettivi civili vennero percepiti come priorità indispensabili per la conservazione dell’indipendenza nazionale. Ma, più in generale, attorno all’atomo si coagularono le speranze di rigenerazione, radicate in una salda fede nella scienza, oltre che in una forte identità nazionale, e destinate a orientare la discussione fino al termine della Guerra fredda.

Un sentiero molto differente fu invece percorso dall’Italia, in cui per molto tempo la «questione nucleare» era rimasta del tutto marginale, forse anche perché si volevano dimenticare i traumi della guerra. Come negli anni altri paesi occidentali, anche qui le bombe di Hiroshima e Nagasaki avevano impresso una cesura ben più che semplicemente politico-militare. Ma al principio degli anni Sessanta gli italiani parevano ancora molto poco informati sui rischi dell’era atomica, e la discussione risultava segnata così da una sorta di ‘rimozione’ del problema. Progressivamente, il lancio dello Sputnik sovietico, lo scoppio della prima bomba francese nel 1960, la sperimentazione della «superbomba» sovietica nel 1961, oltre che la crisi dei missili di Cuba, modificarono la situazione. Ma iniziarono anche a rafforzare una percezione negativa dell’energia nucleare, alimentata peraltro dal clamore nato attorno al cosiddetto «caso Ippolito» e dalle accuse di sprechi e inefficienze indirizzate all’ente incaricato di promuovere il nucleare per fini civili. La rinuncia a dotarsi di un arsenale atomico da parte dell’Italia, sancita con il Trattato di non proliferazione, fu così accolta in termini sostanzialmente positivi dalla maggioranza degli italiani, anche se di fatto ciò comportava una retrocessione del paese a potenza di ‘secondo rango’. L’atteggiamento nei confronti della guerra era stato modificato in profondità anche dal magistero della Chiesa, oltre che dalla formazione di una «coscienza atomica» più consapevole.  Come mostra Ciglioni, la speranza di una rigenerazione nazionale da conseguire in questo modo fu così del tutto assente e gli entusiasmi sempre piuttosto limitati. Prevalsero in gran parte le inquietudini, i sospetti e una vera propria ostilità. Che probabilmente ebbero più di qualche ruolo anche nel referendum popolare svoltosi molto tempo dopo, nel 1987, quando gli elettori italiani decisero di rinunciare alle centrali nucleari.

 Damiano Palano

 

 

 

 

 

 

giovedì 26 novembre 2020

La rivolta della società. L’Italia nella «grande trasformazione» contemporanea Con Francesco TUCCARI, Agostino GIOVAGNOLI e Damiano Palano - GIOVEDI 26 NOVEMBRE 2020, ORE 18.00 - IN DIRETTA SOCIAL


 Giovedì 26 novembre

Ore 18.00
La rivolta della società.
L’Italia nella «grande trasformazione» contemporanea

Con Francesco TUCCARI e Agostino GIOVAGNOLI

Introduce e modera Damiano Palano

Una conversazione a partire dal libro di Francesco TUCCARI, La rivolta della società. L’Italia dal 1989 a oggi  (Laterza)

In diretta sui canali social dell'Università Cattolica

L'incontro è inserito nel ciclo Stato di emergenza. Discussioni sulla politica sospesa al tempo del virus

Il ciclo di incontri è organizzato nell’ambito dei corsi di Scienza politica della Facoltà di Scienze politiche e sociali delle sedi di Milano e Brescia.
Tutti gli incontri saranno trasmessi in diretta sui canali social
@unicatt: Youtube – Linkedin
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@Cattolica_News: Twitter


venerdì 20 novembre 2020

"Antropologia politica. Umano, biopolitica, giustizia" di Marco Cangiotti. WEBINAR con Michele Nicoletti, Gabriella Cotta, Paolo Gomarasca, Damiano Palano. VENERDI 20 NOVEMBRE, ORE 15.00


VENERDI 20 NOVEMBRE 2020
ORE 15.00
(Piattaforma Teams)

Giornata di studi a partire dal libro di 
Marco CANGIOTTI,
Antropologia politica. Umano, biopolitica, giustizia, Scholé (2020)

Introduce e modera

  • Damiano PALANO

Intervengono

  • Marco CANGIOTTI
    Università degli Studi di Urbino Carlo Bo
  • Gabriella COTTA
    Università Sapienza di Roma
  • Paolo GOMARASCA
    Università Cattolica del Sacro Cuore
  • Michele NICOLETTI
    Università di Trento

Il seminario si svolgerà sulla piattaforma Teams.


Per informazioni e iscrizioni scrivere a: antonio.campati@unicatt.it

Fai clic qui per partecipare alla riunione
Piattaforma Microsoft Teams

 

martedì 17 novembre 2020

"Massa-Folla /1". Il primo fascicolo dedicato da "Filosofia politica" alle figure dei "molti" nel lessico politico europeo

 


Esce in questi giorni il primo di due fascicoli della rivista "Filosofia Politica" dedicati a "Massa-Folla" e alla ricostruzione delle rappresentazioni dei "molti" nel lessico politico europeo.

Il primo fascicolo ospita saggi di Giovanni Giorgini, Francesco Marchesi, Matilde Cazzola e Raffaele Laudani, Damiano Palano, Francesco Gallino.

La rivista può essere acquistata dal sito della casa editrice Il Mulino.

Di seguito il sommario della sezione monografica:


Massa-Folla / 1

Damiano Palano

Editoriale. La massa e la folla


Giovanni Giorgini

"Plethos", "Ochlos", "Demos". Moltitudine e popolo nella Grecia antica


Francesco Marchesi

Antinomie di Machiavelli. Le figure del "popolo" e della "plebe" tra "Principe" e "Istorie fiorentine"


Matilde Cazzola e Raffaele Laudani

Ascesa e declino della moltitudine inglese. Per una genealogia della "mob"


Damiano Palano

L'enigma della sfinge. La "folla" nell'immaginario ottocentesco: linee di letture


Francesco Gallino

L'automatismo come paradigma. Gustave Le Bon e la fisiologia del midollo spinale


lunedì 16 novembre 2020

Pochi contro molti. Il conflitto politico nel XXI secolo. Una discussione con Nadia Urbinati, Vittorio Emanuele Parsi e Damiano Palano - giovedì 19 novembre 2020, ore 18.00 - IN DIRETTA SOCIAL



Giovedì 19 novembre 2020
Ore 18.00
in diretta social

Pochi contro molti. Il conflitto politico nel XXI secolo
Una discussione con Nadia Urbinati, Vittorio Emanuele Parsi
Introduce e modera Damiano Palano

L'incontro è inserito nel ciclo Stato di emergenza. Discussioni sulla politica sospesa al tempo del virus
Il ciclo di incontri è organizzato nell’ambito dei corsi di Scienza politica della Facoltà di Scienze politiche e sociali delle sedi di Milano e Brescia.
Tutti gli incontri saranno trasmessi in diretta sui canali social
@unicatt: Youtube – Linkedin
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I leader e le loro storie, prima e dopo la pandemia. Con Sofia Ventura, Anna Sfardini e Damiano Palano. IL VIDEO DEL WEBINAR



Una conversazione a partire dal libro di Sofia VENTURA
I leader e le loro storie. Narrazione, comunicazione politica e crisi della democrazia (Il Mulino)

Il video del webinar

Con Sofia VENTURA e Anna SFARDINI

Introduce e modera Damiano Palano


inserito nel ciclo Stato di emergenza. Discussioni sulla politica sospesa al tempo del virus


I leader politici e lo storytelling, sedurre prima che convincere

di Giorgio Colombo*



Tra i tanti punti di vista da cui si possono esaminare i cambiamenti imposti alla politica dalla pandemia, lo storytelling è una delle prospettive meno battute: può essere utile affrontarlo da una prospettiva storica per poi vedere come si sia adattato all’emergenza Covid.

Il termine storytelling viene importato in Europa nel 2007 e indica qualcosa di più specifico rispetto alla semplice narrazione, ovvero una narrazione unita al marketing politico in cui «non solo si raccontano storie, ma la costruzione di storie è molto specializzata e mira a obiettivi specifici tramite l’utilizzo degli strumenti mediatici che provengono prima dalla televisione e oggi dal web» spiega Sofia Ventura, docente di Scienza Politica all’Università di Bologna e Autrice de I leader e le loro storie (Il Mulino, 2019). L’intento, prosegue Ventura, è di «produrre una diffusione virale di queste storie con lo scopo di raccogliere consenso in maniera mirata e diversificata anche grazie al web e ai big data». Proprio nel 2007 viene eletto Presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy che ha fatto largo uso dello storytelling, sulla falsa riga dell’esperienza americana. Infatti, il primo leader a utilizzare strumenti retorici per sedurre prima ancora che convincere è Ronald Regan adattando il suo repertorio comunicativo al principale media a lui contemporaneo, la televisione, anche se è poi Bill Clinton a sovrapporre definitivamente marketing e storytelling e portare il culto della personalità del presidente-superstar a un livello superiore. Facendo un salto in avanti, bisogna ricordare anche Emmanuel Macron che si serve di «strategie comunicative tradizionali, big data, incontri Facebook per costruire un’immagine di leadership e un partito personale».

 

Da questo breve excursus storico appare chiaro che media e politica abbiano un rapporto biunivoco che restituisce un mix tra informazione e intrattenimento: Anna Sfardini, docente di Comunicazione interculturale all’Università Cattolica, spiega infatti che «i media svolgono un ruolo molto importante come ambienti per forgiare il funzionamento della società e della politica” e che l’ambiente comunicativo del web ha rivoluzionato non solo lo storytelling politico ma addirittura ha portato a “una trasformazione delle modalità cognitive del pubblico e dei cittadini»: la fame dei followers chiede nuove storie quotidiane e viene sfamata con una web politica che ricorre spesso a nette semplificazioni arrivando a deformarsi per adattarsi alla brevità di Twitter.

 

Maestri della web politica a tratti smodatamente eccentrica sono quelli che Christian Salmon descrive nel libro La tirannia dei buffoni che, ricorda Ventura, si sono dimostrati incapaci di rispondere alla pandemia in modo efficace, così come sono stati non adeguati a gestire crisi diverse i politici che, a partire dal 1989, hanno utilizzato l’ottimismo, prima, e la rabbia, poi, come arma di seduzione di massa.

 

È dunque probabile che aumenterà la domanda di 'una dimensione di normalità': la risposta potrebbe essere, questa la tesi di Ventura, un nuovo tipo di storytelling meno ossessionato dal consenso, cui invece ha mirato la narrazione durante la pandemia di Macron e del premier Giuseppe Conte, molto attenti a esaltare il proprio operato ricorrendo spesso a toni patriottici. Questo nuovo storytelling potrebbe avere come esempio lo stile retorico della Cancelliera Angela Merkel – e forse anche quello del presidente eletto Joe Biden –, solita a discorsi in cui si limita a trattare con obiettività «del problema che è in corso e di come il suo governo stia cercando di risolverlo».

 

In questi mesi di pandemia è stato inoltre attribuito dalla politica un ruolo istituzionale alla scienza: tuttavia, «la complessità e il procedere per ipotesi del metodo scientifico poco si adattano all’immediatezza richiesta oggi alla comunicazione; per questo motivo – ha concluso Sfardini riprendendo il capitolo da lei curato all’interno dell’e-book L’altro virus (Vita e Pensiero, 2020) - il tentativo di conciliare scienza e storytelling è risultato poco efficace».


studente del terzo anno corso di laurea triennale in Scienze politiche e delle relazioni internazionali, curriculum Istituzioni e relazioni internazionali, facoltà di Scienze politiche e sociali


mercoledì 11 novembre 2020

I leader e le loro storie, prima e dopo la pandemia. Con Sofia Ventura, Anna Sfardini e Damiano Palano. VENERDI 13 NOVEMBRE, ORE 16.00 - IN DIRETTA SOCIAL



Venerdì 13 novembre
I leader e le loro storie, prima e dopo la pandemia
Con Sofia VENTURA e Anna SFARDINI

Una conversazione a partire dal libro di Sofia VENTURA,
I leader e le loro storie. Narrazione, comunicazione politica e crisi della democrazia (Il Mulino)

Introduce e modera Damiano Palano

L'incontro sarà trasmesso in diretta sui canali social dell'Università Cattolica

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L'incontro è inserito nel ciclo Stato di emergenza. Discussioni sulla politica sospesa al tempo del virus




martedì 10 novembre 2020

La difficile sfida di pacificare gli Stati Uniti. Le incognite del dopo-Trump secondo Vittorio Parsi

di Vittorio Emanuele Parsi

Questo articolo è apparso sul “Messaggero” il 9 novembre 2020

Se vorrà riuscire a essere il presidente di tutti gli americani, Joe Biden dovrà dimostrare di non essere “un uomo per tutte le stagioni”. Le sfide che lo attendono sono talmente gigantesche che soltanto una leadership salda ed efficace potrà produrre la riunione sotto una sola bandiera di una nazione lacerata. Queste sfide si chiamano, rispettivamente: disintossicazione della società dal mix esplosivo di sovraeccitazione e bugie che hanno caratterizzato questa stagione; gestione responsabile della pandemia; riequilibrio “dell’economia dell’1%”; rilancio della leadership americana nel mondo. L’effetto più devastante di quattro anni di presidenza Trump è stato di aver legittimato e amplificato un clima di scontro permanente e ridicolizzazione della verità. È la tossina peggiore che può essere inserita nel corpo della democrazia, in grado di staccare la carne della società dallo scheletro delle sue istituzioni, come un botulismo della politica. Trump ne ha fatto un uso massiccio e crescente, a mano a mano che il dilettantismo e l’incompetenza della sua azione veniva amplificata dalla magnitudine dei problemi che non riusciva ad affrontare. A una settimana dalle elezioni, il presidente in carica (e sconfitto) si ostina a contestare la legittimità del mandato del presidente eletto (perché vittorioso). È l’ennesimo gesto di un uomo che ha sistematicamente anteposto i propri interessi personali a quelli delle istituzioni, della comunità e della Costituzione che aveva giurato solennemente di difendere. Ora Joe Biden dovrà dimostrare di saper rendere nuovamente potabili i pozzi avvelenati della democrazia. Dovrà essere capace di ristabilire il prestigio della verità e l’autorità dei fatti di fronte alla nebbia della calunnia, dell’insinuazione e della discordia che il suo predecessore ha alimentato.

Nell’affrontare il Covid-19 Trump ha dimostrato una colpevole negligenza e questo, quasi certamente, gli è costato la rielezione. Paradossalmente, in questo campo l’azione del nuovo presidente partirà avvantaggiata, tanto è stata negativa la gestione della pandemia da parte del suo predecessore. Già prendere più seriamente la minaccia marcherà la differenza, anche se ciò ovviamente non sarà sufficiente per sconfiggerla.

L’impatto asimmetrico del Covid, che ha colpito i neri più dei bianchi e i poveri più dei ricchi, ha esasperato le diseguaglianze crescenti della società americana, che da almeno quarant’anni sta replicando il sentiero che, quasi un secolo fa, sfociò nella Grande Depressione. Decenni di “rivoluzione conservatrice” hanno finito col polarizzare culturalmente l’America, tra coste e pianure centrali, tra metropoli e campagne, lungo una frattura alimentata dalle superstizioni creazioniste e dalla diffidenza nei confronti della scienza tipiche della destra ultrareligiosa. È quel “pessimismo nostalgico politicizzato” di cui scrive Colin Crouch nel suo ultimo saggio, che non scompare certo con Donald Trump e che la durezza dei tempi che viviamo alimenta.

Biden dovrà dimostrare che proprio la tragica grandezza della sfida può esaltare le qualità di chi è chiamato a confrontarsi con essa. Come fecero Roosevelt e Johnson, capaci di cogliere la drammaticità dei tempi che si trovarono a vivere e di cambiare l’America: non limitandosi a contemplare le ragioni delle divisioni del passato, ma offrendo una visione per il futuro, con il New Deal e la Great Society. Entrambi presero sulle spalle un Paese diviso e piegato e lo traghettarono oltre. Perché era la sola cosa da fare, certo, ma anche perché lo seppero e lo vollero fare. Erano uomini “pragmatici”, che capirono che proprio il pragmatismo imponeva di fare scelte forti, “radicali”, perché un colpo di barra deciso è la sola possibilità per uscire dall’angolo morto e tornare al vento.

Biden ha annunciato in un programma di interventi pubblici e di nuova regolamentazione dell’economia persino superiore a quelli presenti nel programma di Obama. È la sola rotta percorribile, per quanto ardua, affinché gli Stati Uniti possano tornare a essere il Paese leader delle democrazie.

Le angosce che hanno gonfiato le vele di populismo e sovranismo rimangono tutte. E devono essere affrontate senza illudersi che un ritorno al passato sia la soluzione. Una globalizzazione meno selvaggia, un mercato più inclusivo ed equo, uno sviluppo più attento alla salvaguardia del pianeta, una società che non mortifichi qualità e aspirazioni della sua metà femminile: sono tutti obiettivi più a portata di mano con l’America che senza l’America o contro l’America. Ecco perché la vittoria di Joe Biden è stata accolta con tanta soddisfazione da tutti i leader europei.

Da sola non basterà a rimettere in carreggiata multilateralismo e internazionalismo liberale, né risolverà magicamente i problemi ambientali. Neppure cambierà la realtà di una crescita relativa del ruolo cinese nel mondo o delle tensioni esplosive del Medio Oriente: ma ci fa guadagnare tempo, ci fornisce rassicurazioni sul metodo e sulla responsabilità con cui Washington si muoverà nei prossimi quattro anni. Ci offre, in sintesi, maggiori speranze di successo.

 Vittorio Emanuele Parsi

lunedì 9 novembre 2020

"Un ideale da molti anni coltivato. Materiali per la storia della Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica". Un ricco volume pubblicato da Vita e Pensiero. TRA POCO IN LIBRERIA


 Un ideale da molti anni coltivato. Materiali per la storia della Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica

a cura di Damiano Palano

Vita e Pensiero

TRA POCHI GIORNI IN LIBRERIA 


La mattina del 7 dicembre 1921, Agostino Gemelli, nella nuova veste di rettore, diede avvio al primo anno accademico dell’Università Cattolica. Quello stesso anno, nel palazzo neoclassico di via Sant’Agnese, iniziarono anche le attività della Facoltà di scienze sociali, una delle due Facoltà con le quali i fondatori vollero cominciare a dar corpo all’«ideale da molti anni coltivato» di un Ateneo dei cattolici italiani. Ripercorrendo le differenti tappe della sua storia ormai secolare, questo volume intende esplorare proprio le radici dell’attuale Facoltà di Scienze politiche e sociali. I saggi e i documenti presentati in queste pagine mettono così in luce la fisionomia di un’istituzione accademica originale, partendo dalle origini e giungendo alla riorganizzazione seguita alla riforma nata dal cosiddetto «progetto Maranini-Miglio», che nel 1968 modificò l’ordinamento delle Facoltà di Scienze politiche. Senza limitarsi a una celebrazione rituale, questi materiali si propongono però soprattutto una riflessione sulle dinamiche di sviluppo, sugli snodi critici e sulle dimensioni problematiche di una Facoltà che, dinanzi a una società e a un mondo in rapida trasformazione, si trovò a ripensare quasi costantemente la propria identità e la propria funzione.

 

Damiano Palano Professore ordinario di Filosofia politica e Direttore del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Fa parte del Comitato di gestione dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (Aseri), presso cui dirige il Master in Advanced Global Studies (Mags). È membro della redazione di «Vita e Pensiero» e del comitato direttivo di «Filosofia politica», dei «Quaderni di Scienza politica», di «Rivista di Politica» e di «Soft Power». Tra i suoi lavori: Fino alla fine del mondo, Napoli, 2010; Partito, Bologna, 2013; La democrazia senza qualità, Milano-Udine, 2015; Populismo, Milano, 2017; Il segreto del potere, Soveria Mannelli, 2018; Bubble democracy, Brescia, 2020. Ha recentemente curato il volume di Gianfranco Miglio, Carl Schmitt. Saggi, Brescia, 2018, La forma dell’interesse, Milano, 2018, insieme a Paolo Colombo e Vittorio E. Parsi e La politica pura, Milano, 2019. Per Vita e Pensiero ha pubblicato Il potere della moltitudine, Milano, 2002; Geometrie del potere, Milano, 2005 e La democrazia senza partiti, Milano, 2015.

 


domenica 8 novembre 2020

"Alla scoperta della Bubble Democracy". Una discussione a Goodmorning Finance. IL VIDEO DELL'INCONTRO

 


Una discussione su Bubble Democracy. La fine del pubblico e la nuova polarizzazione (Scholé-Morcelliana)

con Marco Cigna e Giulia Fortunato di Professione Finanza. 

Il video dell'incontro è ora disponibile su Youtube.




La politica dopo (e durante) la pandemia. Un dibattito con Alessandro Campi ed Emidio Diodato, moderato da Damiano Palano. IL VIDEO DELL'INCONTRO


Alessandro Campi ed Emidio Diodato, protagonisti del terzo dibattito del ciclo "Stato di emergenza". 

Il video dell'incontro è ora disponibile su Youtube.






La politica dopo (e durante) la pandemia 


Questa sintesi dell'incontro è apparsa su CattolicaNews


di Costanza Saporito*


Come la pandemia può cambiare la politica, l’economia e le relazioni internazionali? Questa la domanda al centro del terzo webinar del ciclo “Stato di emergenza. Discussioni sulla politica sospesa al tempo del virus”. Ad animare il dibattito, moderato da professor Damiano Palano, i politologi Emidio Diodato, docente di Politica internazionale all’Università per Stranieri di Perugia, Alessandro Campi, docente di Scienza politica all’Università di Perugia, editorialista e curatore del libro Dopo. Come la pandemia può cambiare la politica, l’economia, la comunicazione e le relazioni internazionali (Rubbettino Editore).

 

Quest'ultimo ha tentato di dare una risposta quando è apparso chiaro che la pandemia avrebbe avuto un impatto pervasivo sulle nostre vite. Ad oggi, il tono pessimista caratterizzante la sua riflessione si è dimostrato coerente con quanto accaduto. La tensione prodottasi a livello sociale e internazionale si è infatti concretizzata in parte in una sindrome complottista facilmente prevedibile.

 

«In tempi di crisi – ha spiegato Campi - il bisogno pressante di dare un senso a fenomeni che non si riescono a spiegare nella loro complessità lascia campo libero ai cosiddetti “imprenditori del caos” che, agevolati dalla forza propulsiva di strumenti tecnologici facilmente accessibili, rispondono ad una necessità di rassicurazione attraverso l’individuazione di capri espiatori».

 

«Il problema – ha aggiunto – sta nel fatto che, tanto gli scienziati quanto le istituzioni internazionali non si sono dimostrati all’altezza di fornire chiavi di spiegazione del reale più semplici e maggiormente plausibili, capaci di combattere, smontandolo, un complottismo diventato ormai una mentalità sempre più difficile da sradicare».

 

Il fallimento delle istituzioni internazionali e il conseguente crollo della fiducia in esse sono stati sottolineati da Emidio Diodato, politologo esperto di geopolitica e politica estera italiana: «Questo a causa della perdita di credibilità subìta da un lato dall’Oms, tacciata dagli Usa di coinvolgimento in un complotto orchestrato dalla Cina per la diffusione del virus dall’altro dall’Onu, in seno alla quale il tema della pandemia, quale problema di sicurezza internazionale, non è stato neppure discusso dal Consiglio di sicurezza che non ha adottato alcuna risoluzione sul punto».

 

Secondo Campi la scarsa capacità operativa delle istituzioni internazionali fa da contraltare ad una riacquisita centralità da parte dello Stato, sicuramente uno dei maggiori effetti politici e culturali della pandemia, destinato a perdurare nel lungo periodo.

 

«È necessario però – ha aggiunto Campi - che la fiducia ritorni centrale soprattutto nel rapporto con le istituzioni. Attraverso queste è infatti necessario che gli Stati recuperino la capacità di collaborare tra loro in politica internazionale; l’alternativa è, come afferma Diodato, una “politica di potenza” che nessun attore oggi sarebbe in grado di sostenere, neppure gli Usa».

 

In questo contesto il grande tema della politica contemporanea riguarda gli Stati Uniti che ormai non hanno più il ruolo di una volta: «Gli “Usa multiculturali” - ha spiegato Campi - hanno funzionato finché “c’era qualcuno che era più uguale degli altri”; la crisi della tolleranza attuale ci restituisce pertanto l’immagine di un Paese altamente diviso e polarizzato, in cui i conflitti tra molteplici gruppi portatori di diverse istanze si riflettono irreparabilmente sulle istituzioni, concretizzandosi in un’incapacità di dialogo tra le due forze politiche tradizionali che non riescono più a mettersi d’accordo sui valori fondamentali».

 

E con questo chiunque vinca le presidenziali in corso dovrà fare necessariamente i conti. «Gli elementi di continuità, in caso di vittoria di Biden, saranno, secondo Diodato, maggiori degli elementi di discontinuità. La rinuncia al multilateralismo sarà meno radicale, ma è certo che il ripiegamento sui problemi interni avverrà a discapito dell’interventismo».

 

Guardando alla Cina, invece, ci si è chiesti se l’efficienza dimostrata nella gestione della crisi pandemica, la renda un modello alternativo vincente. Secondo Diodato ciò è da escludere: «La Cina, la cui crescita è dovuta principalmente alla globalizzazione, si troverà infatti in difficoltà nel gestire i processi di deglobalizzazione innescati dalla pandemia e dovrà necessariamente ricorrere a nuove strategie».

*

sabato 7 novembre 2020

Behemoth 2.0. La ‘tribalizzazione’ dell’America e la fragilità delle nostre democrazie.


di Damiano Palano

Le elezioni americane del 3 novembre confermano le divisioni profonde dell’elettorato americano. Una tribalizzazione rafforzata dalle tecnologie, che erodono la cultura civica e il capitale sociale su cui si basavano questa e altre democrazie occidentali. 

Questa nota è apparsa su VPplus il 7 novembre 2020.

All’alba del 9 novembre 2016, scoprimmo un’America molto diversa da quella che avevamo conosciuto. Il responso delle urne non ci disse soltanto che a insediarsi alla Casa Bianca sarebbe stato Donald Trump, l’originale miliardario newyorkese che per mesi era stato ritratto dalla stampa e da molti osservatori come un fenomeno da baraccone e come un candidato sconfitto in partenza nella competizione con Hillary Clinton. Il risultato di quelle elezioni ci disse soprattutto che una fetta cospicua di cittadini aveva creduto nello slogan «Make America Great Again» inalberato durante la sua campagna, che non si era scandalizzata per i toni razzisti del tycoon, per le fake news che popolavano i suoi tweet, per il suo passato burrascoso, che non aveva giudicato risibili molte delle promesse lanciate nei suoi comizi. In altre parole, avevamo scoperto che una parte dell’America aveva riconosciuto in Trump un outsider capace di difendere i propri interessi e i propri valori. Un outsider a cui veniva consegnato il compito di difendere, dalla globalizzazione e dalle élite liberal, gruppi sociali che erano abissalmente lontani da quello da cui l’immobiliarista newyorkese proveniva.

Quattro anni dopo sappiamo che l’America non è diventata di nuovo grande come era stata nella seconda metà del Novecento. L’economia ha certo beneficiato delle ricette dell’amministrazione Trump, ma gli effetti positivi sono stati mandati in fumo dall’irruzione della pandemia. Sotto il profilo internazionale, gli Usa hanno invece visto ulteriormente incrinarsi la legittimità del loro ruolo di egemone globale, e sarà molto difficile che – anche a dispetto degli sforzi che Joe Biden potrebbe riporre in un rilancio del multilateralismo – la situazione torni sui vecchi binari. Ma, soprattutto, i risultati delle elezioni del 3 novembre ci confermano che l’America è un paese diviso, lacerato come probabilmente non è mai stato nel corso dell’ultimo secolo. E il punto non è tanto che l’esito del voto si giochi – a dispetto, ancora una volta, di ciò che ci avevano predetto i sondaggi da molti mesi – su una manciata di schede, quantomeno negli Stati in bilico. I dati su cui riflettere sono piuttosto l’intensità della partecipazione e la distanza, davvero marcata, che esiste tra i due gruppi di elettorato. Non è una scoperta che giunga davvero inaspettata. Molti politologi e molte indagini ci avevano ripetuto negli scorsi anni che nelle democrazie occidentali, e soprattutto negli Stati Uniti, stava crescendo il livello della “polarizzazione”. In altre parole, la distanza ideologica tra democratici e repubblicani stava crescendo, non solo tra le leadership politiche, ma tra le stesse basi elettorali, al punto tale da mettere in discussione quella tolleranza reciproca e quell’autocontrollo che rappresentano i pilastri più solidi di una democrazia dell’alternanza. I risultati delle urne ce lo confermano in modo quasi clamoroso, anche perché l’affluenza al voto – nonostante le circostanze eccezionali della pandemia – ha raggiunto il livello più alto da oltre un secolo, dimostrando così che la società americana è probabilmente molto più politicizzata ora rispetto al passato. Non sono però solo i risultati delle urne, o le stesse contestazioni che li accompagnano (e li accompagneranno probabilmente a lungo), a palesare le proporzioni della “polarizzazione”. A fornirci una fotografia forse ancora più efficace – e inquietante – sono molti degli eventi che hanno preceduto e seguito le elezioni del 3 novembre: la contestazione delle procedure elettorali, la delegittimazione dell’avversario, l’allusione (neppure troppo implicita) alla possibilità di ricorrere alle armi, la comparsa di una violenza politica non più praticata da attori marginali ma da soggetti che risultano per molti versi interni alla dialettica delle forze istituzionali.

Dinanzi a questa America divisa in due, in fondo riscopriamo ciò che avevamo sempre sospettato. E cioè che, al di là della retorica dell’american dream, il paese dello Zio Sam era sempre stato lacerato da profonde diseguaglianze e discriminazioni. I politologi statunitensi degli anni Cinquanta e Sessanta scrivevano che il segreto dell’esperimento democratico americano era la civic culture: una cultura politica contrassegnata dalla coesione intorno ai valori di fondo della comunità nazionale, una cultura che trasformava la competizione elettorale in un ‘gioco’, perché nessuno dei contendenti era percepito come una minaccia e perché nella tornata successiva il risultato si sarebbe potuto ribaltare. Quell’immagine era già allora sin troppo generosa, perché trascurava la forza delle linee di divisioni ereditate dal passato, che l’esito della Guerra civile, il New Deal e la Guerra fredda non avevano cancellato. Quelle profonde fratture tornano per molti versi a riaffiorare con maggiore evidenza oggi, ‘incapsulando’ dentro vecchi contenitori identitari il disagio che nasce dalle nuove diseguaglianze, dall’impoverimento dei ceti medi, dalla paura verso i “nuovi arrivati”, dal risentimento verso quell’establishment che ha tradito molte delle proprie promesse.

Se possiamo ravvisare nell’America polarizzata del 2020 molti lasciti dell’America di ieri, forse dobbiamo però anche riconoscere nella ‘tribalizzazione’ contemporanea qualcosa di più che la semplice riemersione del passato. Molti anni fa, Marshall McLuhan, con una delle sue formule fulminanti, scrisse che mentre «le tecnologie specialistiche detribalizzano», ogni tecnologia non specialistica «ritribalizza». E la polarizzazione di oggi è in effetti anche un prodotto di quella tecnologia non specialistica che – veicolata soprattutto dagli smartphone che teniamo in tasca – ha colonizzato le nostre vite. In una società come quella americana – una società sempre più individualizzata, sempre più priva delle vecchie riserve di capitale sociale – la radicalizzazione è cioè anche l’esito di quei flussi comunicativi “personalizzati” che viaggiano sui social media. Le identità collettive di oggi, a differenza di quelle del passato, sono in sostanza costruite e rafforzate dentro quelle “bolle” autoreferenziali in cui ciascuno di noi – come disse Barack Obama nel suo ultimo discorso da presidente – tende sempre di più a chiudersi, alla ricerca di sicurezze e di conferme alle proprie convinzioni. Anche questo rende le contrapposizioni di oggi tanto differenti da quelle che abbiamo conosciuto nel Novecento. Ed è anche per questo che non sono eccessivi i timori sui rischi che questa polarizzazione potrebbe comportare per la stabilità delle istituzioni democratiche americane. Priva degli argini garantiti nel passato dai partiti di massa, e in un paese tutt’altro che abituato a gestire col compromesso le spinte conflittuali, la ‘tribalizzazione’ può davvero innescare una spirale di turbolenze che non è destinata a esaurirsi con l’uscita di scena di Donald Trump.  

In questi mesi, dinanzi alle risposte fornite dagli Stati all’emergenza sanitaria, l’ombra del vecchio Leviatano di Hobbes è tornata spesso ad aleggiare sul futuro delle nostre democrazie. Molti hanno infatti attirato l’attenzione sulla possibilità che, per rispondere alla pandemia, i cittadini occidentali debbano cedere una parte delle loro libertà in cambio della tutela della loro salute. Ma il clima politico che ha preceduto (e che forse seguirà) le elezioni presidenziali del 2020 sembra piuttosto evocare il mostro biblico con cui Hobbes volle identificare il lungo conflitto che, nella prima rivoluzione inglese, oppose Carlo I al Parlamento. Perché, se le forze politiche non si impegneranno a trovare un nuovo compromesso, la situazione degli Stati Uniti di domani potrebbe assomigliare davvero a una sorta di Behemoth 2.0.

Damiano Palano

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giovedì 5 novembre 2020

Alla scoperta della Bubble Democracy. Giovedì 5 novembre 2020, alle ore 9.30. DIRETTA SOCIAL


Giovedì 5 novembre

Ore 9.30

in diretta su Professione Finanza

una discussione su Bubble Democracy. La fine del pubblico e la nuova polarizzazione (Scholé-Morcelliana)

La puntata sarà live su Linkedin alla pagina di ProfessioneFinanza: 

https://bit.ly/LinkedinPF 

sul  sito www.goodmorningfinance.it 

sui canali Youtube e Facebook di Professione Finanza





martedì 3 novembre 2020

Congiure e complotti all’epoca del Covid-19. Un testo di Alessandro Campi tratto da "Dopo. Come la pandemia può cambiare la politica, l'economia, la comunicazione e le relazioni internazionali"


di Alessandro Campi

Questo testo è tratto da un più ampio saggio compreso nell'ebook curato da curato da Alessandro Campi, "Dopo. Come la pandemia può cambiare la politica, l'economia, la comunicazione e le relazioni internazionali" (Rubbettino). L'intero ebook può essere scaricato gratuitamente sul sito della casa editrice. Alessandro Campi sarà ospite, insieme a Emidio Diodato, di un incontro del ciclo "Stato di emergenza. Discussioni sulla politica sospesa al tempo del virus" GIOVEDI 5 NOVEMBRE 2020 alle ore 18.00. L'incontro sarà introdotto e moderato da Damiano Palano e sarà trasmesso in diretta streaming sui canali social dell'Università Cattolica. 

Come in tutte le fasi di emergenza storica, che ci si trovi coinvolti in rivoluzioni politiche, catastrofi naturali, guerre distruttive, profonde turbolenze sociali o tracolli economico-finanziari, anche la pandemia globale da Covid-19 ha rappresentato, sin dai primi giorni, uno straordinario incubatore di teorie, ovvero di fantasie, complottiste, che la rete – particolarmente golosa di un simile cibo – s’è subito incaricata di diffondere e accreditare. Era già accaduto, in modo analogo e altrettanto intenso, con l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, che aveva anch’esso prodotto un profluvio di interpretazioni e congetture di stampo cospirazionista ancora oggi largamente circolanti, la gran parte delle quali tese a smentire l’idea – considerata falsa in quanto troppo evidente e scontata – che si fosse trattato di un attacco terroristico pianificato e realizzato da estremisti islamici.

Le finalità delle teorie del complotto odierne in materia di virus sono quelle tipiche da sempre di questo peculiare approccio alla storia e alla realtà, che nella cultura contemporanea rappresenta non solo un genere narrativo a sé stante, ma anche una piccola e assai fiorente forma di industria editoriale: spiegare (meglio: svelare), al di là delle verità fornite dai governi, dagli scienziati e dal sistema dei media, sospette e poco credibili per il solo fatto di venire da fonti ufficiali, le vere cause di un fenomeno o di un evento, altrimenti destinate a restare occulte e nella disponibilità di cerchie assai ristrette. In questo caso, parliamo delle ragioni effettive che hanno prodotto lo scoppio del contagio prima in Cina poi nel resto del mondo: ragioni tutt’altro che imputabili a fattori naturali,  secondo la versione più diffusa e accreditata dalle autorità pubbliche e dagli studiosi (che insistono nel dire che si sia trattato di uno sfortunato ma tutt’altro che improbabile caso di spillover di un agente patogeno dall’animale all’uomo), frutto piuttosto di un’azione deliberata (diffondere il virus in un territorio con lo scopo evidente di recare un danno economico irreparabile al proprio nemico) o, nella meno criminale delle ipotesi, di un errore commesso in qualche laboratorio segreto durante la manipolazione di geni virali in provetta.

Ma non basta. Quello che i complottisti, guardiani autoeletti della verità e della democrazia, intendono portare all’attenzione pubblica è anche la complessa rete di interessi e complicità, di manovre occulte e alleanze trasversali, che si nascondono dietro quella che – ci viene spiegato – non è solo una grave crisi sanitaria che i diversi Paesi hanno affrontato scambiandosi aiuti materiali e informazioni medico-scientifiche, ma anche (se non soprattutto, in prospettiva) una lotta senza esclusione di colpi per il potere mondiale o, più prosaicamente, per esercitare sul “mondo di domani” un’influenza e un controllo sempre più grandi: lotta combattuta grazie al virus, e attraverso le diverse strategie adottate per contenerlo, tra Stati sovrani, multinazionali farmaceutiche, agenzie di intelligence, colossi dell’informatica e delle telecomunicazioni, bande criminali transnazionali, società segrete della più diversa ispirazione, lobbies finanziarie, organizzazioni umanitarie e fondazioni private finanziate da questo o quel multi-miliardario, complessi militar-industriali nazionali ecc.

Ne sono nate ipotesi e interpretazioni le più diverse. Nella versione più estrema, si è arrivati a sostenere che la diffusione del virus e lo stesso allarme pandemico siano stati prodotti ad arte con l’obiettivo di realizzare un poderoso esperimento di ingegneria sociale. Confinare milioni di cittadini nelle loro case, giocando sulla facile paura del contagio, è servito per prefigurare quello che si vuole che sia l’ordine globale del futuro: società rette da una rigida disciplina collettiva, sottoposte al controllo di un potere più paternalista che dispotico e governate da una new class di scienziati-tecnocrati sganciati da qualunque legittimazione popolare o democratica (non abbiamo forse visto, in questi mesi, la politica adeguare le sue decisioni alle prescrizioni vincolanti di virologi ed epidemiologi?).

Non meno allarmistica l’idea che la pandemia, comunque causata, sia l’occasione che i pochi colossi nel settore dei Big Data aspettavano con ansia per imporsi, una volta per tutte, come i veri padroni del mondo. Se la politica, sino a pochi mesi fa, ancora si illudeva di imporre loro regole e divieti riguardo il modo con cui essi raccolgono e gestiscono le informazioni (anche quelle private) relative a miliardi di persone, l’emergenza sanitaria ha del tutto vanificato questa velleità da Stato di diritto ormai al tramonto: il fatto che i dati presenti nelle loro banche informatiche si siano dimostrati strumenti fondamentali per affrontare la pandemia dal punto di vista epidemiologico (ad esempio attraverso il tracciamento digitale da remoto) ha accresciuto a dismisura la capacità negoziale delle High-Tech Corporations nei confronti sia dei governi che delle diverse istituzioni internazionali. La loro forza, già enorme dal punto di vista finanziario e tecnologico, è oggi divenuta politica a tutti gli effetti.

C’è poi chi vede nella corsa di Stati, aziende e centri di ricerca (privati e pubblici) alla scoperta di un vaccino un obiettivo che non è solo quello di realizzare profitti immensi, piuttosto di acquisire un potere globale talmente grande da arrivare a condizionare gli equilibri internazionali del futuro. La potenza che per prima disporrà del vaccino si troverebbe – secondo alcuni – nella stessa condizione di chi per primo dispose dell’arma atomica: potrà dettare le regole del gioco al resto del mondo. Ma se quel qualcuno fosse una multinazionale o addirittura un miliardario travestito da filantropo?

Infine, sul piano della psicologia sociale, l’obiettivo occulto che alcuni vedono come la vera posta in gioco di questa pandemia (“strana” e non del tutto fortuita per alcuni, attesa e largamente prevedibile secondo molti altri) è che attraverso la minaccia – destinata ormai a divenire costante – di malattie potenzialmente in grado di sterminare gran parte dell’umanità, si voglia in realtà “addomesticare” la popolazione mondiale: persone impaurite dallo spettro della morte, tenute in uno stato di allarme costante, saranno per definizione più obbedienti e remissive nei confronti di un potere (anche quello delle democrazie cosiddetti liberali) che nel futuro potrà giustificare qualunque abuso o prevaricazione – compresa la sospensione del diritto vigente e delle libertà fondamentali – nel nome della salute individuale e pubblica.

Rispetto a queste speculazioni – che pur partendo da preoccupazioni in parte reali e motivate finiscono poi per approdare tutte a quello che è da sempre lo spauracchio polemico dei complottisti: il Governo Mondiale degli Illuminati, la Dittatura Universale degli Eletti, il Big Government globale – è forte la tentazione di rispondere con un atteggiamento scettico se non irrisorio: soprattutto quando ci si trova dinnanzi a “teorie” come quelle che ad esempio imputano la diffusione del virus all’indebolimento del sistema immunitario causato dal nuovo standard di trasmissione dati 5G, un business notoriamente controllato, secondo chi la sa lunga, dalla Massoneria in combutta con chissà quali altri centrali occulte. Cos’altro è il complottismo, soprattutto quando assume queste forme estreme e quasi folcloristiche, se non un insulto alla ragionevolezza, al buon senso e alle nostre capacità critiche? Ovvero, per essere clementi, una filosofia della storia o una visione della società fumettistica? Ma un simile rigetto, improntato ad uno sdegno intellettuale tipicamente illuministico, per quanto comprensibile, non basta a spiegare alcune questioni che, trattando del complottismo, non possono essere eluse.

Innanzitutto, perché le teorie che esso ispira vengano prese sul serio, o considerate credibili, da un così gran numero di persone (che sulla base di queste convinzioni tendono poi a orientare le loro scelte politiche e i loro comportamenti elettorali, oltre ad essere attivissime sul piano della cosiddetta contro-informazione e per questo in grado di esercitare una grande influenza). Si tratta solo di ignoranza di massa, della naturale tendenza che alcuni hanno a bersi le fantasie più assurde o di un retaggio mentale infantile fatto di mostri invisibili, forze segrete e maghi cattivi che altri si trascinano inconsapevolmente anche nell’età adulta? In seconda battuta, resta da capire quale sia il meccanismo – psicologico, intellettuale, sociale – che favorisce, soprattutto in certi momenti storici particolarmente convulsi, la nascita e la produzione di tali teorie, col loro strano e ben riconoscibile mix di cultura del sospetto permanente, pseudo-scientificità degli argomenti, vittimismo persecutorio, capacità di trasformare le coincidenze e le causalità in fatti e prove.

C’è chi le vede, soprattutto quelle che fioriscono ai giorni nostri grazie all’attivismo dei social media e alla loro forza moltiplicatrice di qualunque informazione purché “esagerata” e capace di stimolare i sensi, come un diversivo propagandistico ben organizzato e finalizzato a creare confusione: il complottismo sarebbe dunque una forma di manipolazione deliberata della realtà, un modo per inquinare la sfera pubblica immettendovi fatti inventati, notizie eclatanti ma non verificabili, interpretazioni cosiddette alternative di questo o quell’evento, avendo come unico scopo di disinformare, di accrescere il caos sociale, di gettare fango sui propri nemici o di scacciare da sé eventuali sospetti. È quello che si sostiene quando si denuncia l’uso della fake news da parte di alcuni grandi potenze (la Russia, la Cina…) come strumento della cosiddetta infowar: una tecnica di propaganda che sfrutta a proprio vantaggio la tendenza al sensazionalismo che ormai governa il sistema dei media mainstream, dove una notizia falsa diventa vera allorché trova un pubblico che tale la considera. Ma c’è il rischio, ragionando in questo modo, di spiegare il complottismo col… complottismo: nel senso che coloro che diffondono artatamente in rete “ipotesi di complotto” sarebbero coloro che a loro volta complottano sul serio, il che significa creare un gioco di specchi all’interno del quale si rischia di perdersi.

In realtà, l’uso manipolatorio delle notizie false e delle spiegazioni in chiave di retroscena bizzarri e fantasiosi, che pure rappresenta una realtà preoccupante, non esclude affatto che le teorie cospiratorie abbiano spesso una genesi spontanea e un’origine dal basso: nascono cioè come risposta credibile o verosimile ad un bisogno effettivo di conoscenza (gli uomini non possono sopportare alcun vuoto cognitivo a proposito di ciò che accade intorno a loro, hanno sempre bisogno di una spiegazione, di un nesso causa-effetto che dia loro l’impressione di padroneggiare mentalmente la realtà); sono la chiave d’accesso al mondo reale che molti – senza alcun bisogno di essere indottrinati dall’alto o sedotti dalla propaganda – ritengono la più autentica e veritiera per il semplice fatto di vedersi offrire, attraverso esse, una spiegazione causale, semplice e diretta, di fatti complessi e altrimenti inspiegabili, anche quando tale spiegazione non è altro che la razionalizzazione di preconcetti, giudizi e fantasie già esistenti e radicati.

Si tratta di un meccanismo mentale e psicologico ben spiegato a suo tempo da Marc Bloch nel suo classico lavoro (poche pagine, poco più di una recensione, ma quanto ancora oggi illuminanti!) sulle “false notizie di guerra”, sulle credenze e gli stati d’animo collettivi diffusi tra i combattenti all’epoca della Prima guerra mondiale.  Una falsa notizia – di guerra o di pace a questo punto non fa differenza –  nasce sempre, per riprendere le parole dello storico francese, «da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita; essa solo apparentemente è fortuita, tutto ciò che in essa vi è di fortuito è l’incidente iniziale, assolutamente insignificante, che fa scattare il lavoro dell’immaginazione; ma questa messa in moto ha luogo soltanto perché le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento. […] la falsa notizia è lo specchio in cui la “coscienza collettiva” contempla i propri lineamenti». Il che è come dire che attraverso il complottismo si dà corpo ai fantasmi – dunque alle paure e ai pregiudizi – che già abbiamo nella nostra mente. Mai trascurare inoltre – sempre per dirla con Bloch – quanto «una mente depressa in un corpo stanco» (sembra la fotografia di una porzione di umanità nei mesi del Covid-19) finisca per essere facile preda delle emozioni, poco incline ad esercitare il proprio senso critico e dunque disposta a credere a qualunque fandonia purché ben confezionata.

Veniamo così alle domande fondamentali. Cosa spiega in sé la mentalità o visione complottista del mondo? Perché essa – un tempo pericoloso trastullo di piccoli gruppi socialmente borderline o di singole personalità tanto fantasiose quanto emotivamente instabili e dunque portate a cacciare i fantasmi (ma parliamo di minoranze e personalità deviate che con le loro paranoie spesso hanno causato tragedie, operato persecuzioni e realizzato crimini) – è oggi divenuta un fenomeno di massa altrettanto pericoloso? E quanto la pandemia globale può contribuire a radicarla ancora di più? Proviamo a dare alcune risposte.

Partiamo dal fatto che il complottismo è una forma di immaginazione sociale che, in tutte le sue diverse manifestazioni, oscilla sempre tra demonologia (il Male muove la storia) e apocalisse (la Fine della storia come possibilità reale): tra l’idea che pochi esseri potenti e malvagi (incarnazioni dell’Anticristo) tramino nell’oscurità per imporre il loro dominio sugli uomini e sul mondo e l’idea che l’umanità un giorno sarà chiamata a rispondere delle sue colpe e dei suoi peccati su questa terra potendo però sperare nella redenzione celeste o in una qualche forma di salvezza (di solito riservata ai puri, ai giusti e agli innocenti). Queste credenze o fantasie non sono recenti. Sono nate, come è noto, nel Medio Evo, alimentate da speculazioni pseudo-teologiche di stampo millenarista, dai pregiudizi sociali tipici delle società chiuse e arretrate, dalle grandi ondate di paura causate dalle guerre e pestilenze ricorrenti e dalla suggestionabilità delle masse sempre in cerca di un capro espiatorio cui addossare le proprie sventure. Esse sono state intaccate dal razionalismo della modernità solo all’apparenza e in minima parte: in realtà hanno continuato a vivere in forma sotterranea, alla stregua di una memoria o rappresentazione collettiva pronta a riemergere tutte le volte che la “paura della fine” (a causa di un conflitto armato o di un disastro naturale) si è impadronita delle società. È in questo coacervo di pregiudizi e idee malsane che si radica, per fare un solo esempio, il più potente e diffuso mito cospiratorio della storia: quello relativo al governo segreto ebraico, esploso tragicamente nel Novecento, sino a produrre lo sterminio di milioni di uomini, ma frutto appunto di una tradizione demonologico-millenaristica che già nel XIII-XIV secolo vedeva nei giudei dei “figli di Satana” uniti dal disegno di sopraffare e dominare il popolo cristiano, come tali da considerare un nemico tanto assoluto quanto subdolo e spesso addirittura invisibile (esattamente come un “nemico invisibile” è oggi considerato il Covid-19).

Il problema è che questo immaginario contorto e irrazionale, epurato per ovvie ragioni da qualunque richiamo esplicito all’antisemitismo e trasformato in un canovaccio narrativo-spettacolare variamente composto da agenti terrestri del Maligno o da Satana in persona, da esseri che vengono dall’oltretomba o dallo spazio extra-terrestre, da sette segrete capaci di qualunque macchinazione, da salvatori in extremis dell’umanità, da potenze oscure indecifrabili o invisibili e da ogni possibile scenario di “fine del mondo” (l’invasione aliena, il virus o batterio sterminatore, l’impatto di un asteroide col pianeta Terra, l’innalzamento catastrofico dei mari, l’incidente nucleare causato da un errore umano o da uno scienziato pazzo, una nuova epoca di glaciazione, il collasso climatico, la rivolta contro gli uomini delle macchine, il ritorno dei morti dalle tombe ecc.) – quest’immaginario, dicevamo, nell’epoca contemporanea è stato ampiamente coltivato dal cinema, dalla letteratura popolare, dall’universo dei fumetti e dalle serie televisive, sino a farne appunto una mentalità di massa che ormai fatica persino a distinguere la finzione a fini d’intrattenimento dal mondo reale. La pandemia da Covid-19, secondo una “trama” già vista in molti film e letta in molti romanzi, non ha forse definitivamente radicato la convinzione che la prima si limita ad anticipare il secondo?

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L'intero saggio può essere scaricato gratuitamente sul sito dell'editrice Rubbettino