venerdì 30 marzo 2018

La smart city sarà una società del controllo? "Tecnologie radicali" di Adam Greenfield




di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Adam Greenfield, Tecnologie radicali. Il progetto della vita quotidiana (Einaudi, pp. 321, euro 22.00), è apparsa, con il titolo Smart city. Incubo e opportunità, su "Avvenire" del 23 febbraio 2018.

«Chi non ha vissuto gli anni prima della rivoluzione non può capire che cosa sia la dolcezza del vivere», diceva una famosa frase di Talleyrand. Forse tra qualche anno anche noi rimpiangeremo nostalgicamente la «dolcezza del vivere» precedente alla rivoluzione che sta modificando rapidamente (e senza che ce ne rendiamo conto) le nostre vite quotidiane. Nell’estate del 2007, quando entrò in commercio il primo iPhone, la gran parte di noi pensò d’altronde si trattasse solo di una nuova versione di telefono mobile, un po’ più elaborata delle precedenti. In pochi avevano compreso che quell’oggetto sarebbe diventato il compagno inseparabile delle nostre giornate, il custode di tutta la nostra vita più intima, il primo oggetto che tocchiamo al mattino e l’ultimo che guardiamo prima di addormentarci. Probabilmente neppure oggi – anche se passiamo talvolta ore a strofinare i polpastrelli sullo schermo dei nostri smartphone – ci rendiamo davvero conto di cosa tutto questo comporti. E cosa significhi, per le relazioni che abbiamo con i nostri simili e per lo stesso rapporto con la realtà che ci circonda, il fatto che tutto il mondo passi da quei piccoli schermi che ci portiamo costantemente appresso.



Non sono mancate negli ultimi anni analisi anche fortemente critiche sulla trasformazione tecnologica e sui rischi che essa comporta. In questa letteratura – che certo potrebbe essere accusata di un eccesso di pessimismo, ma che offre comunque intuizioni preziose – si inserisce anche il libro di Adam Greenfield, Tecnologie radicali. Il progetto della vita quotidiana (Einaudi, pp. 321, euro 22.00), che cerca di prevedere quali saranno nel nostro immediato futuro le direzioni della trasformazione. Greenfield esamina infatti gli sviluppi imminenti di tecnologie che già ci sono familiari ma che nei prossimi anni avranno uno sviluppo ulteriore. E oltre agli smartphone, considera dunque l’internet delle cose, la realtà virtuale e aumentata, la stampa in 3D, la criptovaluta, la blockchain e l’apprendimento automatico. A tenere insieme tutte queste tecnologie – questa è la tesi centrale – è un unico obiettivo: organizzare nel modo più efficiente (e comodo) la vita quotidiana. Ma il crescente controllo che acquisiamo in questo modo sul mondo circostante è solo apparente. Per utilizzare strumenti che certo ci facilitano molte operazioni, e che per esempio ci guidano in una città sconosciuta grazie alle mappe che consultiamo sul nostro smartphone, dobbiamo cedere una parte della nostra privacy. La stessa cosa avverrà in un futuro molto vicino con l’internet delle cose, che ci consentirà di tenere sotto controllo gli elettrodomestici di casa anche da molto lontano. O mediante le pratiche della measured life, con la quale potremo monitorare il nostro stato di forma e le nostre performance sportive. Anche se non ne siamo consapevoli, in tutti questi modo cederemo (e già cediamo oggi) dati che riguardano la nostra sfera privata e persino la dimensione più intima della nostra quotidianità. E non importa che i visionari che hanno progettato molte delle nuove tecnologie avessero tutt’altri obiettivi.



Ma oltre ai problemi etici che nascono e alle concentrazioni di potere che questa enorme mole di dati implica, c’è un altro lato oscuro che Greenfield sottolinea. Tutti i tentativi di controllare la realtà ci lasciano in preda ogni volta a un senso di sopraffazione, di sfinimento, proprio perché non siamo neppure consapevoli della pressione che pesa su di noi. La nostra vita è già talmente disseminata nelle maglie dei data center, delle infrastrutture di trasmissione e dei dispositivi di interfaccia che – quasi come fossimo dei cyborg – siamo costretti ad andare ovunque ci conduca questo apparato. La nostra autonomia di scelta viene così risucchiata dentro i meccanismi di una logica che si autoalimenta. E di fatto viene esclusa ogni credibile via di uscita.

Naturalmente non è detto che tutte queste tendenze siano destinate a realizzare una distopia alla Philip Dick. E d’altronde anche Greenfield elabora diversi scenari possibili, non tutti così negativi. Ma è necessaria una dose notevole di ottimismo per immaginare che queste tendenze possano essere gestite democraticamente. O per credere che la promessa di dare a ciascuno un pieno controllo sull’ambiente e sulla propria vita non si risolva nella manipolazione pervasiva (e quasi sempre invisibile) dei nostri comportamenti. E proprio per evitare che questi scenari diventino reali – e che il miraggio della smart city si trasformi nell’incubo di una totalitaria «società del controllo» – dovremmo almeno cercare di conoscere meglio il funzionamento e la logica delle nuove tecnologie.


Damiano Palano

lunedì 19 marzo 2018

Il nuovo incubo nucleare, se la storia fa un indietro alla «Guerra fredda». Un libro di Caravelli e Foresi




di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Jack Caravelli e Jordan Foresi, La minaccia nucleare. La crisi coreana, i problemi di controllo degli arsenali, il rischio terrorismo (Nutrimenti, pp. 185, euro 16.00), è apparsa si "Avvenire" il primo marzo 2018.

Illustrando a Praga i progetti militari degli Stati Uniti, Barack Obama nel 2009 annunciò l’intenzione di ridurre sensibilmente gli arsenali nucleari di Washington. «Guideremo il mondo verso una pace senza armi nucleari», disse l’allora neo-presidente, precisando però che, fino al raggiungimento di quell’obiettivo, gli Usa avrebbero conservato i loro armamenti. A meno di dieci anni di distanza, la prospettiva evocata da Obama – su cui è tornato anche papa Francesco nel discorso alle Nazioni Unite del marzo 2017 – sembra essere piuttosto lontana. Anzi, dopo i test messi in atto dalla Corea del Nord, l’incubo di un conflitto nucleare è tornato ad aleggiare sulla politica mondiale, come non accadeva dalla stagione più cupa della Guerra fredda. E non è certo casuale che il Nobel per la Pace sia stato assegnato nel 2017 proprio alla coalizione di organizzazioni non governative Ican che ha come obiettivo la messa al bando degli ordigni nucleari. Ma la possibilità di un conflitto atomico è davvero credibile? Dobbiamo realmente preoccuparci delle minacce di Pyongyang? E il programma nucleare iraniano costituisce potenzialmente un rischio? Naturalmente non è facile rispondere a queste domande, ma un contributo utile per accostarsi a questa serie di interrogativi è offerto dal volume di Jack Caravelli e Jordan Foresi, La minaccia nucleare. La crisi coreana, i problemi di controllo degli arsenali, il rischio terrorismo (Nutrimenti, pp. 185, euro 16.00). Grazie alla conoscenza del tema di Caravelli, per oltre trent’anni analista della Cia e impegnato in diversi programmi per la non proliferazione, il volume fornisce un quadro della situazione e dei prossimi possibili sviluppi. L’intento non è tanto quello di spaventare i lettori, quanto quello di informare sulla realtà che rappresenta oggi la minaccia nucleare. Innanzitutto viene chiarita dunque la mappa del ‘club nucleare’, che comprende oggi nove membri: Usa, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, India, Pakistan, Israele e Corea del Nord. Più del novanta per cento delle armi atomiche appartiene a Washington e Mosca. E circa settanta di questi ordigni sono collocati in Italia (tra le basi di Ghedi e di Aviano). Il crollo dell’Urss e la fine dello scontro bipolare non hanno dunque modificato sostanzialmente la situazione precedente, anche perché l’arsenale nucleare sovietico – nonostante le preoccupazioni dei primi anni Novanta del secolo scorso – è rimasto saldamente in mano russa. Ma certo il mutamento degli equilibri potrebbe incidere anche su questo aspetto. E la capacità di tenere sotto controllo la proliferazione nucleare potrebbe essere messa in crisi da parte del nuovo quadro geopolitico.
La sfida della Corea del Nord e le rivendicazioni iraniane potrebbero essere già un annuncio del nuovo scenario. In realtà da questo punto di vista l’opinione di Caravelli e Foresi è piuttosto cauta. Anche se le minacce di Pyongyang creano più di qualche difficoltà a Pechino, la caduta del regime nord-coreano riaprirebbe una serie di questioni capaci di destabilizzare l’intera area. È dunque probabile che il risultato sia, almeno per ora, la conservazione dello status quo. Ma in questo modo le tensioni non verrebbero meno. La situazione iraniana potrebbe invece essere aggravata soprattutto dall’atteggiamento adottato dall’amministrazione Trump, perché il ‘decisionismo’ americano potrebbe – per questioni formali, più che sostanziali – isolare la posizione di Washington.
Specie dopo alcune dichiarazioni del presidente americano, non vanno però trascurati altri fattori di rischio, relativi all’utilizzo che degli armamenti nucleari potrebbero fare gli Stati Uniti. Una questione cruciale è legata infatti all’ipotesi di sviluppare «piccole armi nucleari», da utilizzare come armi tattiche sul campo di battaglia. Una soluzione di questo tipo modificherebbe infatti completamente la logica degli attori. L’equilibrio della Guerra fredda si fondava sulla convinzione che il ricorso alle armi atomiche avrebbe comportato la reciproca distruzione dei contendenti. Per questo nessuno avrebbe attaccato ‘per primo’. Ma evidentemente l’introduzione di armi nucleari ‘tattiche’ potrebbe cambiare drasticamente la logica. E creare situazioni di tensione davvero difficili da gestire.


Damiano Palano

mercoledì 14 marzo 2018

Se l’ordine internazionale liberale cola a picco per voluta mancanza di regole. "Titanic" di Vittorio E. Parsi


di Damiano Palano

Questa recensione al nuovo libro di Vittorio Emanuele Parsi, Titanic. Il naufragio dell'ordine liberale (Il Mulino, euro 16.00), è apparsa su "Avvenire" il 14 marzo 2018.

Nel gennaio 1941, mentre il Vecchio continente sprofondava nella barbarie della Seconda guerra mondiale, Franklin Delano Roosevelt pronunciò quello che fu subito definito il Discorso delle quattro libertà. In quell’occasione il presidente americano affermò la necessità di garantire, per tutti i popoli del mondo, la libertà di parola e di culto, ma anche la libertà dal bisogno e dalla paura. E, soprattutto, fissò gli elementi di quello che, dopo il conflitto, sarebbe diventato l’ordine internazionale liberale: un ordine capace di offrire basi più solide alla pace, grazie a una nuova organizzazione sovranazionale e mediante strumenti volti a favorire gli scambi economici e la stabilità dei cambi. Imperniato sull’egemonia di Washington, l’ordine internazionale liberale iniziò effettivamente a prendere forma già nell’ultima fase della guerra e si tradusse in un’architettura fondata su cinque istituzioni principali: le Nazioni Unite, il Fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale, l’Accordo generale sulle tariffe e sul commercio (molto più tardi sostituito dall’Organizzazione mondiale del commercio) e l’Alleanza Atlantica. Naturalmente quella sorta di ‘New Deal globale’ che si delineò a Bretton Woods nel 1944 non coinvolse davvero tutto il mondo, perché ne rimasero sostanzialmente esclusi tutti i paesi del socialismo reale. Alimentandosi anche della contrapposizione con il blocco sovietico, garantì comunque all’Occidente quasi cinquant’anni di crescita economica, di prosperità e di pace. 
Ma proprio nel momento del maggiore successo – come sostiene Vittorio Emanuele Parsi nel suo appassionato Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale (Il Mulino, pp. 219, euro 16.00) – le cose iniziarono a cambiare. Il 9 novembre 1989, quando il muro che divideva le due Germanie si dissolse, secondo Parsi anche l’architettura dell’ordine internazionale liberale iniziò infatti a sgretolarsi. Da quel momento le istituzioni varate a Bretton Woods furono progressivamente estese al mondo intero, ma incominciò a venire meno contestualmente un tassello cruciale del progetto originario. La costruzione del mercato globale era cioè perseguita mediante lo smantellamento delle regole che avrebbero dovuto organizzare (e vincolare) i nuovi flussi di merci e capitali. E oggi possiamo vedere le conseguenze negative di quel processo, che sono principalmente la concentrazione delle ricchezze e la crisi del ceto medio. «La promessa di una società più ricca di opportunità», scrive Parsi, è stata dunque «tradita a vantaggio di pochi». E, più in generale, sono state vanificate tutte le attese riposte dopo il 1989 nel nuovo «ordine mondiale». Un ordine che, dopo l’11 settembre, non si è certo rivelato più sicuro, e che ha finito anche col mettere in crisi il patto tra economia capitalista e democrazia politica.
Come il Titanic, l’ordine liberale si trova secondo Parsi a navigare in un mare sempre più minaccioso. Le insidie principali vengono sistematicamente passate in rassegna nel volume, che rappresenta per questo una preziosa bussola per orientarsi nella transizione. E sono innanzitutto la nuova distribuzione della potenza, che emerge dall’ascesa di protagonisti inediti (come ovviamente la Cina), la polverizzazione delle minacce, di cui il fenomeno terroristico è solo l’aspetto più visibile, e la tendenza degli stessi Stati Uniti a contestate le regole dell’ordine liberale (per esempio, come sta facendo Trump, adottando misure protezioniste). Ma agli occhi di Parsi il rischio maggiore viene proprio dal cuore dell’Occidente. Ed è la deriva di democrazie che «sembrano incapaci di mantenere la propria rotta, strette tra i mentori di un populismo identitario e sovranista e i cantori dell’oligarchia apolide e tecnocratica».
Il quadro che Parsi dipinge è piuttosto fosco, e la scelta del titolo è d’altronde piuttosto significativa. Ma il politologo lascia intravedere anche lo spazio per una possibile inversione di tendenza. All’interno dell’Unione europea, il riequilibrio del rapporto tra democrazia e mercato – e tra le ragioni della solidarietà e quelle della produttività – potrebbe infatti passare da una riarticolazione delle sovranità nazionali. Non per inseguire ambizioni protezioniste, ma per rispondere più efficacemente all’instabilità che il sistema internazionale scarica proprio sui singoli Stati. Il rafforzamento della sovranità che Parsi auspica richiede però condizioni che non sono così scontate. Non solo (e non tanto) perché non è detto che tutti gli Stati abbiano le risorse strutturali necessarie per adempiere a questo compito. Ma anche perché non è così certo che la classe politica sempre più debole e delegittimata che guida oggi le democrazie europee abbia la capacità, la forza e anche il coraggio necessari per raddrizzare il timone. E per portare in salvo il nostro Titanic.

 Damiano Palano




lunedì 12 marzo 2018

La politica «pura» di Gianfranco Miglio. A cento anni dalla nascita dello studioso comasco (1918-2018)



di Damiano Palano



Questo articolo è apparso su "Il Foglio.it" il 7 marzo 2018, in occasione del convegno La politica "pura". A cento anni dalla nascita di Gianfranco Miglio (1918-2018), svoltosi all'Università Cattolica, con la partecipazione di Pierangelo Schiera Mario Tronti, Massimo Cacciari, Giuseppe Duso, Carlo Galli, Luigi Marco Bassani, Alessandro Campi, Lorenzo Ornaghi, Paolo Colombo, Vittorio E. Parsi.

Concludendo nel 1988 il convegno organizzato all’Università Cattolica in occasione dei suoi settant’anni, Gianfranco Miglio non si lasciò sfuggire l’occasione di replicare ai relatori che avevano sezionato per tre giornate il suo articolato percorso di studio. E non tralasciò, fra l’altro, di respingere la qualifica di «elitista» che gli aveva attribuito Gustavo Zagrebelsky. «Coloro che ‘fanno politica’», osservò, «non sono affatto i ‘migliori’, se non in rapporto a un giudizio comparato circa la capacità di ottenere materialmente il potere». La «classe politica» ai suoi occhi non era cioè davvero un’«élite», come l’aveva definita Vilfredo Pareto, bensì solo «uno strato puramente funzionale presente in ogni convivenza umana», composto da quegli individui che «lottano per ottenere o conservare il potere politico». A trent’anni di distanza – dopo il tramonto della ‘Prima Repubblica’ e mentre ancora siamo alle prese con la lunga agonia della ‘Seconda’ – è davvero difficile resistere alla tentazione di far proprie le parole di Miglio. Ma sarebbe quantomeno riduttivo leggere in quella raffigurazione della classe politica solo una critica rivolta al ceto dirigente espresso allora dalla «Repubblica dei partiti» (e fin troppo agevolmente applicabile a quello che calca oggi il palcoscenico della politica italiana). Quando respingeva l’appellativo di «elitista», Gianfranco Miglio faceva emergere infatti un tratto distintivo della sua personalità intellettuale e un elemento che contrassegnava lo sguardo con cui osservava i fenomeni politici. Uno sguardo che senz’altro ci può apparire cinico (e che in buona parte lo era davvero). Ma che a tanti anni di distanza, pur in un mondo molto cambiato, continua a rimanere uno strumento probabilmente imprescindibile.

La sua breve esperienza politica nella Lega Nord, nei mesi infuocati che accompagnarono il tracollo della ‘Prima Repubblica’, rese Miglio un personaggio pubblico a livello nazionale. Ma la notorietà che gli diedero l’impegno politico e le apparizioni televisive finirono per cristallizzare un’immagine di Gianfranco Miglio quanto meno schematica, se non in alcuni casi addirittura caricaturale. Dipingendo il professore comasco come l’«ideologo» del federalismo si coglie infatti un dato importante e che non può essere sottovalutato, perché Miglio fu davvero (e già dalla fine della Seconda guerra mondiale) un convinto assertore della necessità per l’Italia di dotarsi di un assetto federale. Ma in questo modo si rischia di dimenticare che fu soprattutto un raffinato studioso dell’esperienza politica occidentale e un teorico originale, la cui prospettiva affondava nella tradizione del realismo politico europeo.

La principale divisa teorica di Gianfranco Miglio – che contribuì anche a renderlo un interlocutore ‘scomodo’ per molti anni – fu in effetti proprio quella del realismo. Un realismo – «perseguito al di sopra di ogni ‘umano rispetto’, e senza indulgenza per le altrui speranze», come ebbe a dire – che riteneva fosse un presupposto metodologico insostituibile per investigare i fenomeni politici. Partendo da simili premesse Miglio giunse a delineare il progetto di una teoria «pura» della politica. Dove il riferimento alla ‘purezza’ non alludeva certo a una limpidezza morale o ad altre qualità che la politica avrebbe dovuto mostrare. ‘Civettando’ con Kelsen – e, in qualche misura, capovolgendo la logica della sua reine Rechtslehre – Miglio riteneva infatti che la teoria «pura» della politica dovesse cogliere la radice più profonda (e ineliminabile) delle relazioni di potere. Naturalmente era ben consapevole del peso che esercitano in politica elementi ‘culturali’ come le grandi costruzioni dottrinarie e le «finzioni», di cui lo «Stato (moderno)» era ai suoi occhi la paradigmatica esemplificazione. Ma rifiutava di ridurre la politica e le sue dinamiche a elementi ideologici, economici, morali. Come tutti i grandi realisti, tendeva anzi a ritenere che le «regolarità» dei fenomeni politici discendessero dai tratti immutabili della «natura umana» e dunque dalla struttura originaria del rapporto di «obbligazione politica». E proprio sulla base di una simile convinzione elevò l’architettura di una teoria generale capace di unificare in un quadro organico le «regolarità» scoperte di grandi classici che – da Tucidide fino a Carl Schmitt – avevano contributo a decifrare gli enigmi del «politico».

Le Lezioni di politica pura – che Miglio annunciò più volte – non videro mai la luce. E il suo progetto di una teoria capace di sintetizzare le grandi «regolarità» rimase per molti versi un vero e proprio cantiere aperto, oggetto di costanti rivisitazioni e aggiustamenti. Ma è anche per questo che – a distanza di trent’anni dal convegno del 1988, e a un secolo dalla nascita dello studioso comasco – non è un’occasione rituale tornare a riflettere sulla sua eredità teorica, scientifica e intellettuale. Il convegno La politica «pura» organizzato all’Università Cattolica – dove Miglio compì il proprio intero percorso accademico e dove fu per trent’anni Preside della Facoltà di Scienze politiche – intende infatti riportare al centro della discussione il suo specifico «realismo», la sua ambizione di decifrare gli enigmi dei fenomeni politici, ma anche la ricchezza delle sue ricerche, che influirono sul dibattito intellettuale seguendo traiettorie sorprendenti. L’obiettivo non è certo quello di ‘cristallizzare’ in un quadro organico il suo pensiero, o magari quello di stabilirne la versione ‘ortodossa’. Compiere un’operazione del genere significherebbe anzi tradire la sua eredità intellettuale. Adottando le medesime parole che Miglio utilizzò per commemorare Carl Schmitt, possiamo riconoscere infatti che «i traguardi scientifici da lui raggiunti, proprio perché corrispondenti ad altrettanti alti problemi», rappresentano «porte aperte sul futuro della conoscenza scientifica». Raccogliere la sfida dell’esplorazione degli Arcana imperii e della «politologia concettuale» significa così ripartire da quegli stessi nodi problematici che Gianfranco Miglio affrontò e dalle ipotesi cui giunse. Magari persino spingendosi a metterle in questione, come probabilmente lui stesso avrebbe fatto, dinanzi all’incalzare delle trasformazioni contemporanee. Ma conservando la lezione di metodo del suo realismo. E senza dimenticare soprattutto che, come scrisse una volta, «a coloro che scrutano per mestiere la natura della politica» tocca sempre «il duro privilegio di chiamare le cose con il loro nome e di aiutare gli uomini a non confondere la realtà effettuale con i propri sogni»



Damiano Palano

venerdì 9 marzo 2018

Seconda Repubblica addio. Ma la Terza non può nascere. Dopo il 4 marzo


di Damiano Palano

Questo articolo è apparso sul "Giornale di Brescia" il 7 marzo 2018

Con le elezioni del 4 marzo si è definitivamente conclusa la stagione della “Seconda Repubblica”. Ma tutte le tendenze emerse dal voto indicano anche che la strada che conduce alla “Terza” risulta sbarrata da ostacoli piuttosto robusti.
Il primo risultato che le urne ci restituiscono è senza dubbio la débâcle elettorale della sinistra. Non si tratta di un dato che caratterizza solo l’Italia, perché l’ultima tornata elettorale ha fatto registrare clamorose sconfitte per le formazioni che si richiamano alla tradizione socialista anche in Spagna, Francia e Germania. Oltre alla deludente performance di Liberi e Uguali, il dato più eclatante è ovviamente il modesto risultato ottenuto dal Partito democratico (che alla Camera perde più del 7% dei voti) e dall’intera coalizione di centro-sinistra.
La sconfitta del partito guidato da Renzi deve essere però collocata all’interno anche di un’altra grande tendenza, ancora più rilevante: lo sgretolamento del centro politico. Anche se le opposizioni che si collocano sulle ali estreme non possono essere interpretate come declinazioni della destra e (soprattutto) della sinistra, è infatti evidente che lo spazio delle formazioni ‘moderate’ e tendenzialmente ‘centriste’ si è sensibilmente contratto. Per molti versi, il progetto originario del Pd, ossia quello di costruire un partito moderato di centro-sinistra «a vocazione maggioritaria» è naufragato, probabilmente per sempre, schiacciato sotto il peso di cinque anni di governo (oltre che di errori tattici e strategici). Ma è uscita fortemente ridimensionata anche Forza Italia, che rappresentava in queste consultazioni la componente ‘moderata’ del centro-destra. Inoltre, è completamente scomparsa quella fetta di spazio politico che la coalizione guidata da Mario Monti era riuscita a conquistare nel 2013, ottenendo circa il 10% dei suffragi. E nessuna delle piccole formazioni ‘centriste’ ed europeiste (come Più Europa, Civica Popolare, Noi con l’Italia) è riuscita a superare la soglia di sbarramento.
L’ulteriore macroscopica tendenza che esce dal voto è la vittoria di Movimento 5 stelle e Lega, entrambe in grado di ottenere un risultato ben superiore a quello che i sondaggi prevedevano.  Al di là di ogni valutazione, per ora è quantomeno indispensabile prendere atto della consistenza quantitativa della rottura, della «polarizzazione» dell’elettorato italiano e della forza della spinta centrifuga della competizione. Sommando i voti di M5s, Lega, Fratelli d’Italia e dei piccoli partiti che non superano la soglia di sbarramento, risulta infatti che ben più della metà degli elettori ha sostenuto formazioni ‘estreme’. Formazioni che non sono propriamente «anti-sistema», ma che comunque esprimono una critica radicale nei confronti dell’Unione europea, della classe politica e dei partiti ‘tradizionali’ (che in realtà non sono affatto ‘tradizionali’, dal momento che il più antico ha meno di un quarto di secolo di vita).
La conseguenza di un simile quadro è ovviamente l’instabilità, perché nessuna delle ipotesi di coalizione allargata sembra facilmente praticabile. Da un certo punto di vista, la situazione in cui si trova oggi l’Italia è molto simile a quella del 1992-93. Anche allora il centro, rappresentato dalla Democrazia Cristiana, si stava dissolvendo, mentre la Lega Nord e il Movimento Sociale (che si stava tramutando in Alleanza Nazionale), pur conquistando spazi e voti, erano politicamente antitetici. Nell’arco di pochi mesi, prima delle elezioni del 1994, la nebulosa diede origine a un nuovo bipolarismo, grazie alla “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, collante della coalizione di centro-destra, e anche alla scomparsa del “terzo polo” centrista (favorita della legge elettorale). La transizione fu per questo piuttosto rapida. Le condizioni oggi sembrano molto diverse. Per i due leader usciti di fatto vincitori dal 4 marzo, Di Maio e Salvini, è certo allettante la prospettiva di diventare i protagonisti di un nuovo emergente ‘bipolarismo’. Ma il tripolarismo nato nel 2013 probabilmente non scomparirà, a dispetto della sconfitta del Pd e delle altre forze centriste. Ognuno dei tre poli sembra infatti troppo debole per dar vita a un governo, ma al tempo stesso anche troppo forte per uscire di scena o essere inglobato dentro una logica bipolare. Per questo è molto probabile che l’Italia rimanga senza guida politica per parecchi mesi. E con i rapporti di forza che si sono delineati, non dobbiamo così attenderci una rapida transizione alla “Terza Repubblica”.

Damiano Palano

giovedì 8 marzo 2018

«Popolocrazia», malattia senile della democrazia. Un libro di Ilvo Diamanti e Marc Lazar


 


di Damiano Palano



«La sovranità viene dal popolo, ma non torna più indietro». Questa vecchia battuta riassume in fondo l’essenza della retorica che negli ultimi anni ci siamo abituati a chiamare «populista». I leader e i movimenti che sfidano l’establishment si proclamano infatti portavoce del popolo ‘tradito’: un popolo al quale una minoranza – di volta in volta, le élite economiche, la classe politica, la «cricca» della burocrazia, la tecnocrazia – ha sottratto lo scettro del potere. Alle molte analisi che hanno tentato di interpretare il fenomeno si aggiunge ora quella proposta da Ilvo Diamanti e Marc Lazar nel loro Popolocrazia. La metamorfosi delle nostre democrazie Laterza, pp. 163, euro 15.00). I due politologi si concentrano in special modo sull’Italia e la Francia, senza però rinunciare a individuare delle tendenze generali, che sarebbero destinate a modificare i tratti dei nostri sistemi politici.
E sostengono innanzitutto – in contrasto per esempio con quanto sostengono due studiosi del fenomeno come Cas Mudde e Jan-Werner Müller – che il populismo non può essere considerato come un’ideologia, e neppure come un’ideologia «sottile». Si tratta piuttosto di una «sindrome», o anche – come ha suggerito Pierre-André Taguieff – di «uno stile politico suscettibile di dare forma a diversi materiali simbolici». Ma quando propongono il neologismo «popolocrazia», Diamanti e Lazar intendono soprattutto riferirsi a una trasformazione che scaturisce da due processi paralleli. In primo luogo, si tratta di un effetto dell’ascesa dei movimenti populisti, che criticano la democrazia rappresentativa in nome di un popolo sovrano, sacralizzato, mitizzato e defraudato da élite corrotte. In secondo luogo, la «popolocrazia» è legata strettamente alla metamorfosi della democrazia rappresentativa, prodotta – oltre che dalla critica ai partiti e al Parlamento – dalle possibilità di connettersi ‘orizzontalmente’ fornite dai nuovi media. A emergere dalla crisi dei corpi intermedi, dalla disaffezione verso le organizzazioni della rappresentanza, dall’attacco agli «esperti» è dunque «una società ‘im-mediata’, ostile a ogni mediazione con i governi e i poteri». E in questo contesto la sfiducia diventa la principale risorsa su cui far leva per conquistare voti e spazi d’azione politica. La «popolocrazia» è allora un sistema che ‘istituzionalizza’ una serie di tendenze: la personalizzazione dei partiti e dei sistemi di governo, l’ascesa di metodi di comunicazione ‘orizzontali’ e l’adozione da parte di tutti gli attori dello stile populista. Ed è principalmente un assetto in cui il populismo «diventa una cifra sociale e culturale» capace di insinuarsi in ogni ambito e in ogni organizzazione.

Probabilmente il neologismo che Diamanti e Lazar propongono non piacerà a tutti. Nell’accezione originaria della parola «democrazia» erano infatti già impliciti molti degli elementi che dovrebbero qualificare la nuova «popolocrazia», se non altro perché il demos nell’Atene del VI e V secolo era inteso in contrapposizione con le élite privilegiate. E l’«appello al popolo», cui ricorrono oggi molti leader e movimenti alla ricerca di consensi, non è dunque un elemento nuovo. Anzi, si tratta probabilmente di un tassello costitutivo – insieme ad altri – di quell’insieme di dottrine, aspirazioni e pratiche che hanno costituito soprattutto nel corso degli ultimi tre secoli l’ideologia democratica. Ma non c’è dubbio che la loro analisi fotografi in modo efficace lo stato delle nostre democrazie. Nella «società della sfiducia», l’appello al popolo sembra infatti diventare davvero l’unica risorsa di legittimazione su cui gli attori politici possono contare. Per capire dove stiamo andando sarebbe comunque necessario anche interrogarsi sulle radici da cui nasce la sfiducia. Dovremmo per esempio chiederci se la critica indirizzata all’establishment (nelle sue diverse forme) scaturisca solo da motivazioni ‘congiunturali’, come la crisi economica, o non abbia invece cause più profonde, come per esempio lo sviluppo di un’attitudine ‘critica’, che spinge il cittadino postmoderno a diffidare di ogni autorità.

Ma c’è anche un’altra questione che varrebbe la pena affrontare. Per Diamanti e Lazar la «popolocrazia» è in fondo una trasformazione che dilata ulteriormente i tratti di quella che il politologo francese Bernard Manin definì «democrazia del pubblico»: una democrazia in cui le identificazioni partitiche si dissolvono e in cui i leader si rivolgono agli elettori come al pubblico di un teatro, avanzando proposte in cerca di un applauso (ossia del voto). Al di là dell’efficacia della formula, molti ritengono che le cose siano però un po’ diverse. Le appartenenze ideologiche e partitiche sono effettivamente in crisi da trent’anni, ma l’elettorato non è diventato davvero un pubblico omogeneo. Le identificazioni (magari solo negative, cioè ‘contro’ qualcuno e qualcosa) continuano cioè a orientare le scelte dei cittadini. E paradossalmente – pur in assenza di ideologie – tali identità tendono a diventare negli ultimi anni ancora più marcate. Lo stesso utilizzo di strumenti ‘orizzontali’ come i social network sembra inoltre rafforzare questa tendenza, contribuendo a spingere i sistemi politici occidentali verso una crescente polarizzazione. Invece di assomigliare a un pubblico omogeneo, l’elettorato delle nostre democrazie sembra allora composto da tanti segmenti autoreferenziali. E forse anche per questo l’«appello al popolo» tende ad assumere toni sempre più radicali.

Damiano Palano


venerdì 2 marzo 2018

Paura in serie. Un libro di Dominique Moïsi sulla geopolitica delle serie




Di Damiano Palano

Questa recensione  a D. Moïsï, Geopolitica delle serie tv. Il trionfo della paura, Armando, Roma, 2017, è apparsa su "Avvenire" il 17 febbraio 2018.

Negli anni della Guerra fredda i film di Hollywood si rivelarono un formidabile strumento del soft power di Washington. Quelle pellicole diffondevano, più che una vera e propria ideologia, le immagini seducenti di un nuovo ‘stile di vita’. Perché rappresentavano un mondo in cui chiunque – come i protagonisti delle commedie americane – poteva godere dei benefici del progresso tecnologico, abitare in case confortevoli e guidare automobili sportive. Naturalmente si trattava di una raffigurazione quantomeno edulcorata. Ma ciò nonostante proprio quelle immagini rappresentarono, nella contrapposizione contro l’impero sovietico, un’arma per molti versi persino più insidiosa di quella rappresentata dall’hard power, e cioè dalla forza militare e dal potere di ‘costringere’. Oggi le cose sono piuttosto differenti. Forse perché il cinema non ha più quel potere seduttivo che ebbe a lungo nel corso del Novecento. Ma anche per i motivi che considera Dominique Moïsi nel suo volume La geopolitica delle serie tv. Il trionfo della paura (Armando, pp. 143, euro. 15.00). Il politologo francese esamina infatti un campione rilevante di serie televisive, nella convinzione che proprio questo genere abbia sostituito negli ultimi quindici anni ciò che il cinema era stato nel secolo scorso. Anzi, secondo Moïsi le serie tv mostrano spesso – se non certo in tutti i casi – una capacità superiore di intercettare gli stati d’animo della società e le ansie del mondo. Lo studioso considera d’altronde le serie tv da una prospettiva specifica, che pone in primo piano la dimensione geopolitica. A suo avviso questi prodotti, qualitativamente spesso molto raffinati, offrono uno strumento indispensabile per capire «le emozioni del mondo», per anticipare il futuro e anche per ricostruire – in modo più o meno idealizzato – il nostro passato (a partire dalle nostre ossessioni presenti).

Delle numerose serie prodotte negli ultimi anni, in realtà Moïsi esamina un campione molto ridotto, che comprende Trono di spade, Downton Abbey, House of Cards, Homeland, Occupied e Balance of Power. Per quanto limitato, il sondaggio consente al politologo di formulare un’ipotesi interessante. Se le serie televisive di oggi continuano a riflettere la visione americana del mondo (benché non tutte siano prodotte a Hollywood), non sono più degli strumenti di soft power. Per alcuni versi, le serie televisive diventano anzi il canale di diffusione di una sorta di egemonia culturale a rovescio, nel senso che diffondono la paura di un mondo in declino. Secondo Moïsi le serie tv hanno cioè attinto a piene mani allo Zeitgeist diffusosi dopo il trauma dell’11 settembre, quando all’improvviso, dopo l’entusiasmo riposto nella globalizzazione, iniziò a crollare la speranza nel futuro. E proprio per questo riflettono una visione ‘realista’ del mondo, qualche volta addirittura cinica, in ogni caso molto distante dall’ottimismo un po’ ingenuo delle classiche pellicole americane.

L’annuncio dell’arrivo dell’inverno in Trono di spade è da questo punto di vista considerato come la metafora della violenza e della decadenza morale, percepite come incombenti sull’Occidente. Mentre la celebre frase del protagonista di House of Cards Frank Undwerwood – secondo cui «la democrazia è davvero sopravvalutata» – fornirebbe la raffigurazione plastica della sfiducia nelle istituzioni che attraversa le nostre società. Negli intrighi di House of Cards il sogno americano è infatti definitivamente fatto a pezzi, perché tutti sono corrotti, cinici, calcolatori e ossessionati dal potere. Ma il punto – osserva Moïsi – è che in questo modo non si riflette soltanto il malessere americano: si contribuisce anche a crearlo e a diffonderlo. Questa sorta di soft power a rovescio nutre cioè il cinismo e la disaffezione che alimentano i populismi. E inoltre autorizza i leader dei regimi autoritari a presentare i rituali la democrazia americana solo come un travestimento retorico, dietro cui si celano lotte personali tra politici senza scrupoli.

La lettura di Moïsi è senz’altro interessante, ma non può che rappresentare solo una prima esplorazione nell’immaginario ‘geopolitico’ delle serie, probabilmente molto più complesso di quanto possa sembrare. Per esempio, dall’esame del politologo francese rimane esclusa quella che alcuni mediologi hanno chiamato la zombie-renaissance, ossia la straordinaria fortuna che dopo l’11 settembre hanno incontrato i ‘vecchi’ «morti viventi» inventati da George A. Romero negli anni Sessanta. Ma non vengono neppure considerate le inquietudini legate agli utilizzi e alle implicazioni delle nuove tecnologie, al centro di una serie come Black Mirror. Ed è invece anche esplorando queste produzioni che probabilmente si può completare la mappa delle «emozioni del mondo».

Damiano Palano