martedì 28 giugno 2016

La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine

 
 
 
 
di Damiano Palano
Questo testo è apparso il 20 giugno 2016 come prima puntata della "Quindicina internazionale".

Sono passati venticinque anni dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e dal momento in cui il mondo scoprì di essere diventato «unipolare». Con la fine del Patto di Varsavia e la disgregazione dell’Urss, la politica globale non perse infatti semplicemente una delle due «superpotenze» protagoniste dalla «guerra fredda», ma le basi stesse su cui per quasi mezzo secolo si era retto l’equilibrio bipolare. Nel corso di questi venticinque anni il dibattito politologico ha cercato di fissare i tratti distintivi del «nuovo ordine mondiale», soprattutto nel tentativo di trovare precedenti storici e così di prevedere le possibili traiettorie di sviluppo. Realisti come Kenneth Waltz e John Mearsheimer formularono per esempio previsioni che – pur procedendo in una direzione diversa – concordavano sull’idea che si sarebbero riproposte le classiche dinamiche dell’equilibrio di potenza, e che dunque la riconquista di un nuovo ordine sarebbe giunta a seguito di un (problematico) processo di bilanciamento e ridefinizione delle alleanze consolidate. Altri osservatori ritennero invece che la novità del quadro emerso dopo il 1989 e il 1991 fosse tale da rendere del tutto inservibili le chiavi di lettura tradizionali. Francis Fukuyama – con una formula spesso fraintesa, eppure destinata a fissare rapidamente lo Zeitgeist degli anni Novanta – scrisse che la «Storia» (nel suo significato hegeliano) si era conclusa, perché la liberaldemocrazia occidentale aveva sconfitto per sempre i suoi storici avversari, ponendo dunque termine alla stessa «evoluzione ideologica» del genere umano. Sottolineando invece che, per la prima volta nella storia moderna, la politica mondiale era dominata da un’unica potenza, Charles Krauthammer scrisse che la nuova fase politica poteva essere descritta come un «momento unipolare». Negli anni seguenti non pochi si spinsero d’altronde a prevedere che quel «momento» era destinato a trasformarsi in una duratura «era unipolare». E qualcuno proposte anche più o meno ingegnose analogie tra l’Impero di Roma e il ‘nuovo Impero’ di Washington, o tra la lunga Pax Augustea e la stagione della Pax Americana che sembrava profilarsi dopo la conclusione della Guerra Fredda. Pur senza disconoscere almeno alcuni tratti dell’assetto «unipolare», Samuel Huntigton attirò invece l’attenzione sul ruolo che le «civiltà» – e non più gli Stati – avrebbero avuto nei conflitti del futuro. E proprio questa lettura, fissata nella formula dello «scontro delle civiltà», avrebbe fornito forse la chiave di lettura mediaticamente più efficace per interpretare gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001.
Nel quarto di secolo trascorso dalla fine dell’Urss, come sappiamo molto bene, il lungo dopoguerra non ha generato uno stabile ordine internazionale. Dopo il 2001 gli scenari di crisi non hanno anzi cessato di estendersi, giungendo fino alle porte dell’Europa, senza che neppure si siano profilate ipotesi realistiche di soluzioni durature. E anche se alcune tracce della ‘vecchia’ politica di potenza hanno fatto nuovamente la loro comparsa in Europa, le alleanze ereditate dalla Guerra fredda non sono state messe sostanzialmente in questione. Anche se l’immaginario dell’Occidente continua a essere molto simile a quello di un mondo «post-storico», la «Storia»non si è mai davvero fermata. L’«era unipolare» probabilmente non è mai neppure cominciata, e sicuramente non ha consegnato agli Stati Uniti quel ruolo di unica superpotenza globale, che avrebbe consentito di garantire la stabilità di un «impero liberale», fondato sui principi democratici e sulla libertà di mercato. Ma anche lo spettro dello «scontro delle civiltà» diventa sempre più evanescente, perché la sensazione – di fronte soprattutto ai conflitti che lacerano il Nord-Africa e il Medio Oriente – è piuttosto di avere a che fare con scontri ‘dentro’ le civiltà.
Proprio di fronte a questo quadro, la formula della «guerra mondiale a pezzi», che Papa Francesco ha proposto in diverse occasioni, deve essere presa sul serio anche sul piano teorico. «Siamo entrati nella terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli»,disse Francesco nell’agosto 2014. E non si trattava semplicemente di una provocazione, perché il Papa è tornato in altre occasione, anche di recente, su questa lettura. L’immagine della «terza guerra mondiale a pezzi» contiene infatti una vera e propria interpretazione generale, capace di tenere insieme i diversi ‘frammenti’ di un mondo in conflitto.Ma, soprattutto, è un’immagine che ci consente di cogliere le principali dimensioni problematiche che attraversano lo scenario contemporaneo. E che per molti versi rendono la costruzione di un ordine non solo‘politicamente’ complesso, ma ‘strutturalmente’ davvero difficile, sia in virtù del carattere ‘multipolare’, se non addirittura ‘apolare’, del sistema internazionale odierno, sia per il venir meno della possibilità di conflitti generali che non implichino rischi fatali per la stessa sopravvivenza dell’intero genere umano.
In primo luogo, nessuna analisi e nessuna previsione sul prossimo futuro può fare a meno di considerare, più che semplicemente il ‘declino’ relativo degli Stati Uniti, l’ascesa della Cina e di nuove importanti potenze regionali, come l’India, il Brasile, il Sudafrica, oltre che la ‘vecchia’ Russia: e proprio questa ascesa renderà inevitabilmente‘multipolare’ il sistema dei prossimi decenni. Ma questo probabilmente non comporterà – come spesso si sostiene, pensando alla transizione egemonica tra Impero britannico e Stati Uniti – che il XXI secolo sia destinato a essere il«secolo cinese». Piuttosto, come ha scritto per esempio Charles Kupchan, il mondo del futuro non apparterrà a nessuno, nel senso che sarà al tempo stesso multipolare e politicamente plurale. Il numero delle grandi potenze sarà dunque molto elevato (comunque più elevato di quanto non sia mai stato). E ognuna di esse, sulla base dei propri valori e interessi, si farà portatrice di una specifica visione di cosa sia un ordine internazionale ‘giusto’. Un nuovo ordine – la cui conquista è però tutt’altro che scontata – non potrà allora che implicare una ridefinizione degli standard che stabiliscono la legittimità e la rispettabilità internazionale di uno Stato. In secondo luogo, non si può però trascurare il fatto che la costruzione del nuovo ordine è resa oggi‘strutturalmente’ difficile, oltre che dal multipolarismo, anche dell’ingresso del mondo in un’era in cui diventa tecnicamente possibile l’autodistruzione nucleare. È infatti proprio l’impossibilità di ricorrere alla guerra generale, come estrema risorsa strategica degli attori, a rendere il sistema davvero‘anarchico’ e a rendere fragile qualsiasi ordine. E proprio per questo, come ha osservato Luigi Bonanate, i «pezzi» di guerra di cui Francesco ha colto le connessioni possono anche essere letti come l’annuncio di «un mondo in pezzi», e cioè come il segnale della «totale perdita di un’idea di ordine internazionale che possa ricomporre una vita politica pacifica» (Un mondo nuovo a ‘pezzi’ tra incubo e speranza, in «Vita e Pensiero», 2/2016).
Nel mondo multipolare e ‘disordinato’ che ci attende, non possiamo così affatto escludere l’eventualità che i diversi«pezzi» della «guerra mondiale» non possano ricomporsi in un conflitto più ampio. Ciò nondimeno, è dalla rassegnazione alla guerra e dalle tentazioni del millenarismo apocalittico che bisogna guardarsi, se non altro per evitare di adottare quelle chiavi di lettura – come quelle offerte dalla tesi dello«scontro delle civiltà» – destinate a diventare profezie autoavverantesi. Perché è solo prendendo atto della complessità degli scenari, ma resistendo alla seduzione del millenarismo, che può essere ripensata, e politicamente coltivata, la possibilità di un nuovo ordine internazionale.

domenica 19 giugno 2016

Così si "dissolve" il capitalismo. Il libro di Paul Mason





di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Paul Mason, Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro (il Saggiatore, pp. 382, euro 22.00), è apparsa su "Avvenire" il 10 giugno 2016.

Poco più di vent’anni fa, nel volume La fine del lavoro, il futurologo Jeremy Rifkin formulò una delle sue previsioni più note, secondo cui la rivoluzione informatica avrebbe comportato l’esplosione della disoccupazione tecnologica e, al tempo stesso, l’emergere di una nuova economia, non più basata sulla ricerca del profitto. L’euforia per i successi della new economy fece rapidamente dimenticare questa ipotesi (certo piuttosto semplicistica). Dopo quasi un decennio di crisi globale uno schema simile – anche se molto più raffinato – viene oggi adottato da Paul Mason in  Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro (il Saggiatore, pp. 382, euro 22.00). 
Anche il giornalista economico britannico non fornisce infatti solo un’illustrazione delle principali tendenze economiche che ci attendono, ma indica anche le linee di un programma economico volto a ‘uscire’ dal capitalismo. Mason attinge soprattutto alla «teoria delle onde» di Nikolaj Kondrat’ev, che ipotizzò l’esistenza nello sviluppo del capitalismo di cicli lunghi cinquant’anni, innescati da nuove tecnologie e investimenti in infrastrutture. Guardando agli ultimi due secoli, Mason ritiene che le ipotesi di Kondrat’ev consentano di individuare quattro grandi cicli: il primo segnato dalla macchina a vapore e dallo sviluppo di canali navigabili (1790-1848); il secondo dominato dall’esplosione delle ferrovie (1848-1895); il terzo dall’industria pesante e dalle reti telefoniche (1895-1945); il quarto dall’invenzione dei transistor e dalla scoperta dell’energia nucleare (1945-2008). Con il quinto ciclo, che inizia negli anni Novanta del secolo scorso, sembra però cambiare qualcosa. L’informatica, le tecnologie di rete e un mercato realmente globale non hanno infatti avviato la crescita sostenuta che caratterizza l’inizio di un ciclo lungo. E le motivazioni non sono solo congiunturali. Per Mason – qui sta la sua tesi principale – le tecnologie informatiche stanno infatti ‘dissolvendo’ il capitalismo, perché «corrodono i meccanismi di mercato, erodono i diritti di proprietà e distruggono la vecchia relazione fra salari, lavoro e profitto». In altre parole, l’economia di rete sarebbe incompatibile con il mercato e le sue regole. Al tempo stesso, emergerebbero attività economiche basate sulla cooperazione gratuita e sulla condivisione. E il progetto di una transizione al «postcapitalismo» dovrebbe incaricarsi di rafforzare proprio le nuove pratiche di condivisione.
Come tutte le esplorazioni ‘futurologiche’, il libro di Mason va considerato, più che per le ricette che propone, per le sue provocazioni. In questo senso, il quadro che traccia, nel momento in cui adotta la chiave di lettura di Kondrat’ev, è senz’altro efficace. Ma il discorso diventa molto meno convincente quando illustra le «contraddizioni» che esisterebbero tra il capitalismo e l’economia di rete. Innanzitutto perché la categoria «capitalismo» è sempre molto problematica da utilizzare (anche perché viene adottata con significati spesso diversissimi). Ma, oltre a questo, le visioni della sharing economy e dell’«individuo interconnesso» che Mason propone sono quantomeno ingenue. Come abbiamo imparato negli ultimi anni, le pratiche di «condivisione» che si sviluppano sulla rete possono infatti essere facilmente sfruttate per fini commerciali. E l’«individuo interconnesso», per cui non esiste più distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita (e tra giorno e notte), tende a diventare soprattutto un consumatore totale. Ma il discorso di Mason diventa debole soprattutto perché non sfugge alla tentazione di riconoscere nel presente la fase «suprema» del capitalismo. Cioè quella stessa tentazione che indusse molti esponenti del marxismo novecentesco a considerare la crisi del loro tempo come l’annuncio della «fine» del capitalismo. E proprio per questo Mason finisce in fondo col dimenticare una delle tesi più interessanti di Kondrat’ev, secondo cui il capitalismo è sempre in grado di modificarsi, trovando alimento in nuove tecnologie, in nuovi modelli d’impresa e in nuovi mercati.

Damiano Palano


venerdì 10 giugno 2016

Democrazie in transizione. Un ebook della Fondazione Feltrinelli curato da Nadia Urbinati





Le democrazie europee stanno attraversando mutamenti intensi sul versante dei soggetti politici (partiti e movimenti), sul versante istituzionale e sul versante della comunicazione grazie alle nuove tecnologie. Le nostre democrazie sono confrontate a molteplici sfide (crisi della rappresentanza, emersione dei populismi, leaderismi, cattura oligarchica delle istituzioni, etc…) e stanno attraversando una difficile transizione che ne ridefinirà le caratteristiche. 

A questi temi sono dedicati i contributi raccolti nell'ebook della Fondazione Feltrinelli Democrazia in transizione (collana "Utopie" 41), curato da Nadia Urbinati.

L'ebook può essere scaricato gratuitamente a questo link


Indice

Nadia Urbinati, Innovazione politica come problema e sfida 
Damiano Palano La democrazia nella lunga crisi 
Fabrizio Tonello e Marco Morini Alternanze di governo e grandi coalizioni nell’Unione Europea 2008-2015 
Michele Sorice Comunicazione politica e democrazia 
Massimiliano Panarari Mediatizzazione della politica postmoderna 
David Ragazzoni Leader sì, ma di che genere? Usi e abusi dei “classici” del Novecento 


domenica 5 giugno 2016

Hiroshima. Dialogo sull’uomo. Il carteggio tra Günther Anders e Claude Eatherly




di Damiano Palano

Questa recensione a G. Anders, L’ultima vittima di Hiroshima. Il carteggio con Claude Eatherly, il pilota della bomba atomica (a cura di Micaela Latini, Mimesis), è apparsa su «Avvenire» il 13 maggio 2016. 

La mattina del 6 agosto 1945 il ventisettenne meteorologo texano Claude Eatherly sorvolava la città di Hiroshima a bordo di un aereo da ricognizione. Dopo aver verificato una condizione di buona visibilità, diede il via al bombardiere che lo seguiva. Per qualche minuto il cielo però si coprì di nuvole, per rischiararsi nuovamente poco dopo. E anche per questo il pilota del bombardiere sbagliò il lancio. La prima bomba atomica – Mk1, battezzata «Little Boy» –  fu così sganciata non sul quartiere generale giapponese ma sulla città di Hiroshima, provocando la scomparsa istantanea di settantamila persone e la morte nei giorni successivi di altre settantamila. Quell’evento doveva naturalmente segnare l’ingresso dell’umanità nell’Endzeit, nel «tempo della fine», e cioè in una nuova era in cui l’apocalisse nucleare diventava un rischio tangibile. Ma quel giorno segnò anche la vita di Eatherly. Celebrato dall’opinione pubblica come un eroe, negli anni seguenti il giovane meteorologo sprofondò invece nella depressione. Per cancellare la sua immagine positiva compì allora piccoli reati, senza però ottenere la punizione che cercava. E fu invece dichiarato psichicamente infermo e ricoverato in una clinica.
Imbattutosi in una notizia che lo riguardava, Günther Anders (1902-1992) rimase folgorato dall’esperienza di Eatherly. Agli occhi del filosofo tedesco, il pilota era infatti la testimonianza vivente della condizione umana nell’era atomica. Per Anders il 6 agosto 1945 era cominciata l’età del «mondo senza uomo», in cui l’uomo ha la possibilità di annientare la vita sulla terra e di eliminare persino se stesso. E quel giorno era diventato chiaro che l’essere umano era ormai «antiquato», perché risultava incapace di concepire gli effetti delle armi di distruzione in suo possesso. Nel 1959 Anders scrisse allora a Eatherly una prima lettera, nella quale gli mostrava come il suo caso testimoniasse in modo paradigmatico gli effetti della «tecnicizzazione dell’esistenza»: una condizione in virtù della quale «indirettamente e senza saperlo, come le rotelle di una macchina, possiamo essere inseriti in azioni di cui non prevediamo gli effetti», e per cui dunque possiamo diventare «incolpevolmente colpevoli». Eatherly rispose e incominciò così un denso e appassionante colloquio a distanza, raccolto ora nel volume L’ultima vittima di Hiroshima. Il carteggio con Claude Eatherly, il pilota della bomba atomica (a cura di Micaela Latini, Mimesis, pp. 231, euro 20.00). 
Lo scambio epistolare rimane ancora oggi una testimonianza eccezionale. Non solo perché Eatherly trasse effettivamente un beneficio dal confronto con Anders. Ma soprattutto perché il caso del pilota era anche un esempio della possibilità di resistere alla «banalità del male». Come scriveva d’altronde Anders, Eatherly non era il gemello di Adolf Eichmann, il burocrate dello sterminio degli ebrei in quello stesso periodo sotto processo in Israele, ma sua «la sua grande e (per noi) consolante antitesi». A differenza del funzionario tedesco, non aveva infatti trovato nel «meccanismo» una giustificazione per la propria assenza di coscienza: si era invece assunto la piena responsabilità di un’azione di cui pure non aveva potuto immaginare le conseguenze. E, come scriveva Anders, «assumendo come propria un’azione che ha solo eseguito», Eatherly aveva allora cercato «nell’età dell’apparato, di tener viva la coscienza».