mercoledì 31 agosto 2011

Rileggere "La Lotta politica in Italia" di Alfredo Oriani

di Damiano Palano

«Questo libro attenderà il suo lettore». Quando Alfredo Oriani decise di porre la frase di Keplero in apertura alla Lotta politica in Italia. Origini della lotta attuale (476-1887) – pubblicata nel 1892 e in questi giorni riproposta dall’editore Aragno – forse presentiva il cammino accidentato che l’opera avrebbe avuto. In effetti, la fortuna editoriale sarebbe arrivata molti anni dopo. E avrebbe seguito un itinerario tutt’altro che lineare.
Al momento della pubblicazione della Lotta politica, Oriani (nato nel 1852) aveva alle spalle alcune prove narrative accolte con sostanziale disinteresse dal pubblico e dalla critica, oltre che una produzione saggistica di cui Fino a Dogali (1889) era stato probabilmente l’esito più fortunato. Proprio dalla saggistica Oriani sperava d’altronde di poter ottenere il sospirato riconoscimento. E per questo si gettò a capofitto nella stesura di un’opera singolare come La lotta politica, il cui obiettivo – dichiarato fin dal sottotitolo – consisteva nel portare alla luce le cause della crisi che lacerava l’Italia post-unitaria. Ma, per raggiungere una piena comprensione della crisi, Oriani si spingeva molto a ritroso nel tempo, coprendo un arco storico estremamente vasto.
Oriani riteneva che La lotta politica potesse soddisfare un «bisogno nazionale» sempre più forte. Ma l’opinione dell’editore Treves dovette essere differente, dal momento che rifiutò il manoscritto, soprattutto a causa degli ultimi capitoli, in cui si dipingeva per l’Italia un destino di espansione coloniale. Oriani escluse qualsiasi ipotesi di modifica, e decise così di pubblicare a proprie spese il libro, che uscì presso l’editore Roux nel 1892. L’opera fu accolta però dalla più totale indifferenza. E lo stesso scrittore raccontò molto più tardi a Luigi Federzoni di avere svenduto le ultime trecento copie a un «libraio da panchetto».
La vera riscoperta di Oriani avvenne in effetti solo dopo la sua morte, avvenuta nel 1909. Fu Benedetto Croce a dare avvio a un fenomeno che divenne rapidamente un caso letterario. Proprio Croce vide infatti in Oriani – soprattutto nell’autore della Rivolta ideale (1908) – un originale precursore della rinascita dell’idealismo, e scorse inoltre nella Lotta politica l’esempio di una «storia fuori dei partiti politici, governata dall’imparzialità». Tanto che, ai suoi occhi, il libro di Oriani costituiva «un ottimo punto di partenza per giungere a una chiara visione comprensiva della storia d’Italia».
Lo stesso Croce propose all’editore Laterza la ristampa di alcune delle opere di Oriani. E il successo dell’operazione fu tale che ben presto tutti i suoi scritti – anche quelli decisamente meno riusciti – furono riproposti a un pubblico che, questa volta, li accolse entusiasticamente. La lotta politica in Italia non ebbe una sorte differente. A riproporre il monumentale volume di Oriani furono però, già nel 1913, le edizioni della «Voce» di Prezzolini. Il notevole successo registrato dalla nuova pubblicazione segnalava un mutamento radicale nel clima intellettuale, all’interno del quale le componenti espansioniste del pensiero di Oriani dovevano essere ulteriormente esasperate. L’autore della Rivolta ideale assunse così rapidamente i tratti dell’«anticipatore» del nazionalismo. E, in seguito, Mussolini – che peraltro riprese dallo scrittore romagnolo il gusto per la retorica magniloquente – alimentò la visione di un Oriani «precursore» del fascismo, incaricandosi persino di curarne l’Opera omnia.
A quasi centoventi anni dalla prima edizione, La lotta politica non può certo trovare il lettore che Oriani si augurava. Forse, però, oggi si può riconoscere nella Lotta politica il primo esempio di una rilettura critica del Risorgimento (apprezzata fra l’altro da Gobetti e Spadolini), oltre che una prima formulazione di molti temi tuttora al centro del dibattito. Tra cui, soprattutto, la tesi di un Risorgimento segnato dal mancato incontro fra l’istanza mazziniana e la componente conservatrice della monarchia, all’origine della frattura fra «Italia legale» e «Italia reale».
Naturalmente, al lettore di oggi non possono passare inosservati gli eccessi polemici e persino le contraddizioni della Lotta politica. Ma d’altro canto, come scrive Lorenzo Ornaghi nella Postfazione, «la biografia della ‘grande opera storica’ di Oriani, se è un tassello essenziale dell’autobiografia d’Italia, lo è proprio in quanto le sue pagine – assai più (e ancor prima) di rispecchiare molte delle antinomie della storia unitaria – costituiscono esse stesse un’antinomia». E proprio per questo, La lotta politica ci conferma, ancora una volta, le difficoltà di fare in modo che – ieri come oggi – «una ‘memoria’ la più possibile condivisa e custodita orienti lo sguardo del Paese sul proprio comune futuro».

 Damiano Palano



domenica 28 agosto 2011

La soglia biopolitica. Appunti su una discussione contemporanea 2/4

di Damiano Palano


2. Vite indegne di essere vissute

In modo piuttosto evidente, il ragionamento svolto da Sartori negli anni Cinquanta sui «minorati» sembra presentare sinistre analogie con la riflessione sul concetto di lebensunwerte Leben, la «vita indegna di essere vissuta», che ispirava l’eugenetica nazionalsocialista. Ciò non significa, naturalmente, che la filosofia di Sartori sviluppi ambiguamente – sotto le vesti di una apparente liberalità – il disegno nazionalsocialista di un’igiene razziale, ma significa semplicemente che condivide con essa alcuni presupposti, che sono d’altro canto un esito, probabilmente il più inquietante, delle trasformazioni nelle tecniche del potere. In generale, però, ciò che appare più sorprendente è che la riflessione di Sartori appaia in una posizione ambigua, quasi ‘in bilico’, fra passato e presente. Per un verso, infatti, Sartori coglie perfettamente le potenzialità offerte dalla nuove tecniche, capaci per esempio di limitare le nascite o di progettare lo sviluppo demografico, come, d’altronde, si mostra piuttosto inquieto sugli effetti deleteri che la predominanza del linguaggio visivo potrebbe innescare sia sotto il profilo politico, sia sotto il profilo sociale, con il fatale passaggio da homo sapiens a homo videns. Per l’altro verso, invece, Sartori sembra adottare la medesima distinzione fra bios e zoé che contrassegna il pensiero greco, nel senso che pare far propria – senza alcuna cautela – la convinzione che esista una vita puramente animale, ben distinta dalla vita ‘qualificata’ umana. Soprattutto, sembra pensare che i confini fra queste due dimensioni – fra la vita animale e vita qualificata, fra zoé e bios – siano confini ‘naturali’, ossia confini immutabili. E che, dunque, il potere si debba limitare a prendere atto di tali distinzioni.
In realtà, uno dei dibattiti più interessanti di questi ultimi anni – un dibattito cruciale, che rompe realmente con la modernità e con tutte le visioni ‘progressiste’ della storia – mette in questione proprio il carattere ‘naturale’ di quel confine e si interroga sul rapporto problematico, insidioso, inquietante, fra potere e vita. Molte delle intuizioni che stanno al centro di questa discussione sono suggerite dalle vecchie ricerche foucaultiane intorno alla «biopolitica» e al «biopotere», avviate nei volumi della Storia della sessualità, ma venute pienamente alla luce solo grazie alla pubblicazione dei corsi tenuti dall’intellettuale francese al Collège de France tra gli anni Settanta e Ottanta. In modo ancora più significativo, però, la soglia biopolitica e le sue tante incognite hanno incominciato a essere sottoposte al vaglio della riflessione teorica per merito del saggio di Giorgio Agamben. Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita (Einaudi, Torino, 1995), il primo capitolo di un’indagine ancora in corso, oltre che, probabilmente il testo più importante – o, quantomeno, uno dei due o tre libri più importanti – degli ultimi trent’anni, sia per le ipotesi che ha proposto, sia per le sollecitazioni che ha fornito alla discussione e alle scienze sociali. Pubblicato a metà degli anni Novanta, quel libro – benché possa forse apparire oggi singolare – puntava principalmente a riflettere sul «nuovo ordine mondiale», nato dalla fine della Guerra fredda, sulla nuova dottrina della «guerra umanitaria» e sulla condizione dei migranti. Ma – connettendo la riflessione di Foucault con l’analisi del totalitarismo di Hannah Arendt e con le ipotesi schmittiane sul ‘politico’ e sullo ‘stato di eccezione’ – proponeva anche una nuova, sorprendente interpretazione del concetto occidentale di politica. Da quel momento, la ‘biopolitica’ è entrata a pieno diritto nel dibattito teorico, alimentando riflessioni e riletture che, in gran parte, hanno messo in questione alcuni elementi cruciali della visione moderna, grazie, per esempio, ai contributi di Roberto Esposito e anche agli interventi (di segno differente) di Donna Haraway, Michael Hardt e Antonio Negri, Peter Sloterdijk.
Un’ottima introduzione a questo dibattito è offerta da Laura Bazzicalupo nel volume Biopolitica. Una mappa concettuale (Carocci, Roma, 2010), in cui vengono esposte in modo sintetico le coordinate principali della discussione, insieme al contributo dei principali autori intervenuti. Nel suo testo, Bazzicalupo ricostruisce innanzitutto la genesi del termine, le cui radici più profonde risalgono alla cultura positivista di fine Ottocento e all’organicismo agli inizi del Novecento (per esempio alla teoria di Rudolf Kjellen, che, oltre a essere tra i primi a formulare l’idea di una «geopolitica», utilizza anche la nozione di «biopolitica»), e il cui sentiero si incrocia però – verso gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso – anche con una serie di riflessioni che progettano un ‘miglioramento’ della vita a partire dal rispetto delle norme biologiche. All’interno di quest’ultimo insieme di indagini, il cui momento di avvio può forse essere ritrovato in un testo dello studioso inglese Robert Morley, pubblicato alla fine degli anni Trenta (dal titolo significativo Biopolitics. An Essay on the Physiology, Pathology and Politics of Social and Somatic Organism), la scienza biologica viene considerata come uno strumento in grado di offrire strumenti utili al governo della società, alla prevenzione del disordine, al mantenimento dell’ordine. E, così, si tratta di una riflessione che non può non incrociarsi con quelle ipotesi – sostenute per esempio, nel contesto nord-americano, da studiosi come Albert Somit, David Easton, John C. Wahlke – che puntano a rinvenire proprio negli studi biologici uno strumento per l’estensione della ricerca politologica, oltre che un supporto per una più efficace di governo. In realtà, come nota Bazzicalupo, «in questi studi non viene usato in genere il termine ‘biopolitica’», ma, comunque, la ricerca sociobiologica di matrice anglosassone fa affiorare un tratto importante, perché la prospettiva che adotta «è quella della naturalizzazione dell’umano stando al ruolo che gli indicatori fisiologici e biologici giocano nel comportamento sociale, nel suo trattamento, nella valutazione e potenziamento delle attitudini politiche» (ibi, p. 29). Ma – e ciò è forse ancor più significativo – questo filone di ricerca, che vive il momento di maggior fortuna fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, ma che viene ulteriormente sviluppato nel quadro dell’indagine neo-darwinista, «manifesta una significativa efficacia persuasiva in un quadro di senso comune, nel quale la tecno-scienza offre una indiscussa veridizione e supporta un immaginario collettivo impegnato in un incessante incremento della vita e del benessere» (ibidem). E sono così per molti versi scontate, e inevitabili, le riserve che un simile progetto – al di là delle sfumature che assume nelle diverse prospettive – è destinato a sollevare, nel momento in cui punta ad offrire al potere di governo nuovi strumenti di controllo e manipolazione, che non possono non richiamare alla mente le politiche eugenetiche adottate nella prima metà del Novecento non solo dal regime nazionalsocialista tedesco, ma anche dagli Stati Uniti (in chiave di selezione della popolazione immigrata, fra il 1910 e il 1930). Di segno nettamente opposto è invece un altro ambito di riflessioni che, più o meno contemporaneamente alla definizione della «sociobiologia» anglosassone, prende corpo soprattutto in Francia, e che influenza la genesi del contemporaneo dibattito sulla biopolitica. In questo caso, infatti, la prospettiva non è tecnocratica ma «umanistica», nel senso che gli obiettivi non solo quelli di offrire conoscenza in grado di rafforzare la capacità di ‘governare la vita’, bensì quelli di riconciliare uno sviluppo materiale distruttivo con la dimensione ‘spirituale’ della vita. E così, per esempio, Edgar Morin può riferirsi alla biopolitica per indicare una politica che si occupi della vita tenendo conto della complessità del vivente, e che ritrovi il suo rapporto con la natura umana.
Per quanto questi contributi siano importanti, nella misura stessa in cui segnalano quanto e come il rapporto tra vita e politica divenga un oggetto di studio e di riflessione di discipline così diverse, è però scontato che essi attengono alla ‘preistoria’, più che alla ‘storia’, del dibattito sulla biopolitica. In effetti, la ‘reinvenzione’ del concetto e la stessa rimodulazione complessiva del dibattito sulla biopolitica trovano il punto di avvio nella riflessione di Foucault. Lo studioso francese, a partire dalla Volontà di sapere e dai suoi corsi al Collège de France, non si limita infatti a mutare il segno di un’indagine ottimistica, che si propone di riconciliare vita e politica, ma di fatto – come chiarisce puntualmente Bazzicalupo – modifica il quadro concettuale entro cui collocare la biopolitica:

«più radicalmente Foucault inventa da capo il termine e lo problematizza, individuandovi una modalità di relazione di potere che l’autorappresentazione del moderno – giuridica e politica – aveva oscurato, modalità nella quale l’oggetto «vita» non è una semplice estensione o variazione della presa in carico del potere, ma condiziona ed è condizionato dal sapere finalizzato a governarla. La vita stessa – dunque l’immanenza, la fatticità del vivere – è il criterio e il fine in base ai quali si esercita il potere; il che implica che la vita sia oggetto di un giudizio politico di valore tanto per selezionarla che per migliorarla. Con questa svolta concettuale che apre allo sguardo analitico una dimensione opaca e persistente delle relazioni di potere, Foucault offre alla riflessione filosofica, sociale e politica uno strumento concettuale che si rivela particolarmente illuminante per interpretare le nuove forme di vita e di potere» (ibi, p. 33).

Nella sua ricostruzione, Bazzicalupo trova naturalmente delle anticipazioni della riflessione sulla biopolitica anche in Nascita della clinica e in Sorvegliare e punire, ossia nei lavori in cui Foucault ancora non utilizza esplicitamente il termine. Ma, ovviamente, i cardini della nuova prospettiva non possono che essere rintracciati nell’ultimo capitolo della Volontà di sapere, nelle pagine in cui lo studioso francese esplicita l’idea di una transizione nella forma del potere sovrano: una transizione – collocata più o meno tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento – per cui, accanto al tradizionale potere «prelievo», si accostano nuove «funzioni di incitazione, di rafforzamento, di controllo, di sorveglianza, di maggiorazione e di organizzazione delle forze che sottomette», e nel corso della quale dunque prende forma «un potere destinato a produrre delle forze, a farle crescere e ad ordinarle, piuttosto che a bloccarle, a piegarle, a distruggerle» (M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 120). Sono però i corsi tenuti al Collège de France nel 1975-76, nel 1977-78 e nel 1978-79, e pubblicati in realtà più di due decenni dopo (cfr. M. Foucault, «Bisogna difendere la società», Feltrinelli, Milano, 1997; Id., Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano, 2005; e Id., Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano, 2005), a innescare una ripresa di quelle ipotesi che nella Volontà di sapere erano solo accennate. In particolare, in «Bisogna difendere la società», esaminando la genesi del razzismo moderno, Foucault veniva a esplicitare un aspetto su cui molti teorici successivi si sarebbero concentrati, e che consisteva nell’idea secondo cui, in seguito alla transizione verso la biopolitica, la politica si assume il compito di definire la natura stessa dell’essere umano, di stabilire effettivamente la soglia fra umano e inumano (o parzialmente umano), fra la vita ‘degna’ o ‘indegna’ di essere vissuta. E proprio da questa intuizione, Agamben e altri avrebbero preso le mosse negli anni Novanta per svolgere le loro ipotesi.
Pur trovando in Foucault il momento di cesura in cui si avvia il dibattito contemporaneo, Bazzicalupo non può evitare di segnalare come, all’interno del quadro delineato dall’autore di Sorvegliare e punire, rimangano, oltre a un carattere fortemente sistematico, un’ambivalenza relativa al modo di intendere la biopolitica e le sue potenzialità. Nel contributo foucaultiano, osserva infatti Bazzicalupo, «si può leggere […] sia la capacità del potere di stimolare e ricomprendere in sé stesso una resistenza che ne rafforza la logica, sia la vitalità naturalistica, un’energia precedente al biopotere che, riattivata all’interno del codice di governo, sfugge alla colonizzazione» (L. Bazzicalupo, Biopolitica, cit., p. 64). Certo – precisa Bazzicalupo – «Foucault sostiene l’inefficacia teorica del dualismo biopotere-biopolitica», dal momento che, ai suoi occhi, «la potenza è coestensiva al potere, non è l’altro selvaggio, forse non è neanche il residuo di naturalità, l’eccedenza: è intrinseca al potere e collusiva al dispositivo che la governa attraverso il processo di soggettivazione» (ibi, p. 64). Ma, d’altra parte, anche nelle pagine dello studioso francese si può trovare quell’ambivalenza fra un «biopotere», esercitato sulla vita, e una «biopolitica», affermativa e potenzialmente capace di opporre una resistenza, che contrassegna la discussione contemporanea. Ed è in effetti questa stessa ambivalenza che emerge in seguito, e distingue prospettive come quella di Agamben, che enfatizza la vocazione costitutivamente tanatopolitica della biopolitica, da quella di Hardt e Negri, che invece assegna alla biopolitica della moltitudine il compito di opporsi ai meccanismi del «biopotere». Per un verso, infatti, «in Agamben, il biopotere ricalca l’unicità della monologica della sovranità: non c’è potere alcuno dei soggetti dominati e il potere si definisce in una linearità unidirezionale, perdendo la complessità relazionale e generativa che era implicita nella sua produttività»; e, così, «la storia diventa un continuum negativo e confermativo di quel nucleo di senso, laddove la genealogia foucaultiana era discontinua e ‘positiva’» (ibi, pp. 88-89). Dall’altro, l’idea, avanzata da Hardt e Negri, di «utilizzare la biopolitica contro il biopotere», e di «mobilitare la potenza della moltitudine contro il biopotere imperiale che l’ha fatta crescere solo per utilizzarla», sembra concepire la biopolitica nei termini di una forza «simile alla libido che negli scritti freudo-marxiani, cari alla lotta sessantottina, doveva essere liberata e liberare» (ibi, p. 93).
Al di là della valutazione di ciascuno dei singoli contributi al dibattito, e al di là anche delle differenze talvolta marcate che divaricano le prospettive dei numerosi teorici che si sono accostati al nodo della biopolitica, ci sono comunque una serie di elementi di portata generale, che Bazzicalupo mette opportunamente in luce. Il primo è il successo stessa della formula «biopolitica», una fortuna cui certo si è accompagnata la dilatazione del suo significato, ma che, nondimeno, segnala un fenomeno significativo. «Il fatto che il termine si sia diffuso, per esempio nel linguaggio giornalistico o nei commenti degli opinionisti nei talkshow televisivi», nota Bazzicalupo, «implica indubbiamente non solo una sua crescente vaghezza (ma questa è propria di qualunque tropo retorico), un crescente discostarsi dal suo significato originario, utilizzato dagli specialisti del pensiero politico, ma anche una sua particolare mobilità semantica, una instabilità che è prova della vitalità del termine e dell’esigenza che si avvertiva di trovare un nome/concetto che permettesse la messa a fuoco di comportamenti e di relazioni che il lessico tradizionale non riusciva più ad afferrare e orientasse una serie di fenomeni nuovi» (ibi, p. 13). Fenomeni apparentemente molto lontani – che vanno dalla gestione delle emergenze umanitarie al dibattito sulla regolamentazione giuridica della «fine della vita», dal trattamento dei migranti alla cura del corpo – sono infatti accomunati, come osserva Bazzicalupo, da un elemento di fondo:

«sono fenomeni politici nei quali ne va direttamente della vita biologica degli uomini, dell’uomo in quanto essere vivente. Si tratta di fenomeni assai diversi: alcuni nel cono d’ombra della morte e della violenza, altri sembrano rimandare alla sollecitudine accattivante della terapia e del culto della vita. Eppure questi fenomeni hanno in comune la curvatura della politica in direzione della vita biologica: come se la politica avesse preso in carico la gestione della vita biologica inserendola in un programma di protezione e di incremento che sconfina nella produzione dell’umano e nella domesticazione dell’essere, […] selezionando e rigettando l’in-umano e nel sub-umano quelle vite patogene che la minacciano o che semplicemente sono inadeguate» (ibi, p. 20).

In altre parole, la necessità di un nuovo termine – biopolitica – e la sua adozione per indicare processi molto diversi sono il riflesso della necessità di cogliere qualcosa di nuovo, qualcosa che sfugge completamente alle nozioni classiche della vita e, soprattutto, che sfugge del tutto alle più classiche categorie politiche, come per esempio le coppie ‘pubblico’/’privato’ e ‘collettivo’/’individuale’. A dispetto della polisemia che il termine ha assunto, dunque, la biopolitica riflette, forse persino ambiguamente, una trasformazione in cui la politica stessa non può che mutare le proprie caratteristiche:

«l’aver preso ad oggetto, immediatamente, la vita ha modificato – e significativamente – quella pratica cui tradizionalmente attribuiamo il nome di ‘politica’. Si modificano la forma, il linguaggio e la logica del suo esercizio; si svuotano le strutture giuridiche e politico-istituzionali proprie della modernità; si fa appello diretto al consenso popolare; la costituzione materiale appare più significativa di quella astratta e giuridica; le motivazioni delle sentenze giurisprudenziali si rivolgono direttamente al senso comune etico, alla sensibilità estetica, all’ethos condiviso; l’esercizio del potere – politico in senso lato – si disloca dai luoghi canonici al sociale, all’economico, al religioso, all’associazionismo privato, in quell’intreccio di fonti normative che si usa chiamare governance» (ibi, p. 22).

Nonostante tutte le ambiguità del dibattito, e le ambivalenti interpretazioni proposte negli ultimi due decenni, la discussione intorno alla biopolitica coglie dunque la portata di processo in cui la vita diventa il principio attorno al quale la politica cerca la propria legittimazione. Un processo, dunque, in cui «scelte e decisioni politiche vengono sempre più di rado giustificate nel quadro del diritto, ma attraverso appelli diretti al sentire pubblico che viene posto di fronte ad alternative appassionate, che coinvolgono la vita o la morte, il benessere o la povertà» (ibi, p. 23). E in cui la vita finisce col diventare un irresistibile polo di attrazione tanto per istanze di riconoscimento e di liberazione, quanto per le logiche di controllo di un potere capace di innestarsi dentro le dimensioni più private dell’esperienza individuale.

(continua)

Damiano Palano


domenica 21 agosto 2011

Il tempo sospeso di Boccalone. Rileggere il primo romanzo di Enrico Palandri

di Damiano Palano


Quando uscì nel 1979 per la piccola casa editrice milanese L’Erbavoglio, Boccalone. Storia vera piena di bugie di Enrico Palandrida poco ripubblicato da Bompiani (pp. 187, euro 9.50), divenne una sorta di piccolo best seller. A determinare quel successo non furono probabilmente solo la storia e lo stile del libro. A trasformare quel romanzo, pubblicato da un minuscolo editore, in un caso letterario (e politico) fu anche il fatto che Boccalone  poteva essere letto – a dispetto delle intenzioni dell’autore – come un ritratto dei ventenni della fine degli anni Settanta, e in particolare dei ventenni di Bologna, e cioè della Bologna del 1977, di Radio Alice e di un movimento che aveva manifestato, in modo clamoroso, la totale divaricazione fra la sensibilità di una rivolta giocosa, esistenziale, libertaria, e la disciplina, il rigore, l’austerità, la retorica del lavoro del Pci berlingueriano. In altri termini, il libro di Palandri poté essere interpretato – e tanto apprezzato quanto criticato – come una sorta di manifesto letterario della generazione dei ‘non garantiti’, come un’espressione della ‘seconda società’ di cui Alberto Asor Rosa aveva scritto a proposito del movimento del Settantasette e della cacciata di Luciano Lama dalla Sapienza. E, così, persino Massimo D’Alema – esercitandosi nell’attività di critico letterario – non mancò di notare come il quadro dipinto da Palandri (così esplicito soprattutto nel rimarcare la dimestichezza dei giovani bolognesi con le droghe leggere) risultasse del tutto inopportuno e ingiusto nei confronti del capoluogo emiliano.
In realtà, la storia – nient’altro che una breve, tormentata storia d’amore fra due ragazzi, Enrico e Anna (i cui nomi sono scritti rigorosamente con l’iniziale minuscola) – non ha di per sé alcuna connotazione specificamente politica. Anche se naturalmente i due giovani – o, in verità, solo Enrico, perché Anna appare soltanto attraverso la mediazione del narratore-protagonista – si muovono nella Bologna del ’77, in un nomadismo inarrestabile, nel brulicare del formicaio di Piazza Maggiore. «L’azione del libro» - scriveva Pier Vittorio Tondelli (che condivise con Palandri la formazione nel medesimo humus politico e culturale) - «si situa a ridosso del marzo 1977, dei mesi della rivota creativa, dei carri armati invitati a presidiare la cittadella unversitaria, della latitanza di Bifo e del traseversalismo, dell’assedio di Radio Alice. Episodi che di Boccalone costituiscono lo sfondo e lo scenario principale, come nelle tavole di Andrea Pazienza. Ma Boccalone  è soprattutto una storia d’amore, prima ancora che di crisi politica, la storia di come un innamoramento possa far scoppiare i propri equilibri, creare intensità nuove. […] Boccalone è la trascrizione, ora eccitata, ora depressa, ora ironica o addirittura comica, di come un rapporto d’amore vissuto con limpidezza o sincerità possa far crescere, e anche abbandonare quelle cose che prima si definivano come abitudine. Boccalone è soprattutto un libro che testimonia una crescita, del suo autore innanzitutto, del suo personaggio, del giro degli amici» (Enrico Palandri, in P.V. Tondelli, Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, Bompiani, Milano, 1990, p. 213). Ma, al di là di questo, ciò che probabilmente contrassegnava il libro di Palandri era l’adozione di uno stile sperimentale, in cui confluivano le esperienze bolognesi del ‘mao-dadasimo’ di «A/Traverso» e di Radio Alice (se ne possono trovare tracce nei libri del periodo di Franco Berardi, o anche in un libro come Bologna marzo 1977… fatti nostri…, Bertani, Verona, 1978, cui lo stesso Palandri collaborò), ossia esperienze che cercavano di fondere – con un indubbio gusto per la dissacrazione goliardica – il patrimonio delle avanguardie artistiche novecentesche con le istanze di un movimento libertario, sempre più insofferente per i linguaggi e per la pratica dell’estrema sinistra. E, in effetti, ciò che più colpisce – e forse appare anche più datato – di Boccalone è proprio lo stile, irrispettoso nei confronti della punteggiatura, delle regole della grammatica, che, con la propria fluidità – solo all’apparenza frutto di spontaneità – intendeva riflettere uno modo di vita e corrispondere fedelmente alla destrutturazione dell’esperienza giovanile. Da questo punto di vista, più che dall’intreccio, l'elemento davvero originale di Boccalone era così il clima emotivo che emergeva dalle pagine del romanzo. Un clima di cui è sufficiente leggere alcuni passi per cogliere la densità:

«Appartengo al popolo dei camminatori: notturni, silenziosi, attraversiamo la città e non temiamo le distanze; camminiamo per ore con le mani in tasca, parliamo o stiamo in silenzio, non temiamo le distanze
Facciamo andare le gambe, ci stiamo sopra, divoriamo la strada e non temiamo le distanze
Qualche tempo fa giancarlo mi ha detto che sono cresciuto, sono un popolo alto anch’io! ogni tanto vi capita certamente di incontrare un popolo alto, lo riconoscete, se lo riconoscete, da come cammina, con le mani in tasca, i passi veloci e tranquilli, non teme le distanze.
Auguro a tutti i popoli alti camminatori una buona notte in compagnia, a camminare per le strade, in silenzio o in compagnia, con le gambe veloci che ti portano avanti.
Questo popolo è disperso in tutte le città che ho conosciuto, a volte non cammina neppure, non conosce i suoi passi, non va da nessuna parte, dimentica da cove viene, resta immobile ed aspetta la morte, con o senza la dignità proverbiale del suo popolo.
Io non so bene dove vado, ma mi muovo lo stesso, provo piacere nel farlo, amo camminare, amo la notte, amo le stelle.
Cosa non si ama quando si è felici? amo anche il giorno e il prato aperto, il colore delle stelle che qualcuno dirà non si vede bene, e le lucciole e tutti gli animali; tuttavia non posso garantire nulla a queste cose amate, non so quanto questo amore possa durare, né quanto sia sincero.
Sono bugiardo, che per uno che dice dice, scrive scrive, è un difetto notevole» (E. Palandri, Boccalone. Storia vera piena di bugie, Bompiani, Milano, 2011, pp. 92-93).

Boccalone andava a inscriversi all’interno di un filone che, proprio negli anni Settanta (o, meglio, alla fine degli anni Settanta), aveva avuto una fortuna notevole. A ben vedere, però, l’avvio di quella sorta di sotto-genere letterario, centrato specificamente sul mondo giovanile e sulle sue culture, aveva iniziato a prendere forma già alla metà degli anni Sessanta, quando anche in Italia i ‘giovani’ avevano iniziato a mostrare un’identità definita, spesso percepita come – pericolosamente – distante dai valori degli adulti. Con qualche ritardo rispetto ad altri paesi occidentali – basti pensare ai ‘ribelli senza causa’ americani, o anche a una certa cinematografia francese – i giovani in Italia divennero infatti una categoria rappresentata dal cinema, dalla stampa e dalla letteratura solo al principio degli anni Sessanta, a partire dalla breve fiammata dei teddy boys, esauritasi in realtà nel breve arco di alcuni mesi. 

Più o meno partire da questo momento, il ‘giovane’ – con le sue mode, la sua musica e (spesso) i suoi eccessi – prese a diventare il simbolo stesso di una società in crisi, di una società che pareva incapace di trasferire i valori tradizionali della disciplina, del lavoro, del senso del dovere, ai figli di un benessere improvviso, attratti da successo apparentemente alla portata di chiunque. E anche la letteratura – in verità una letteratura spesso minore – tentò di fornire rappresentazioni efficaci di questa trasformazione. Esempi possono essere rintracciati nei romanzi polizieschi di Giorgio Scerbanenco e in alcuni dei racconti di Milano calibro 9 (si pensi a Bravi ragazzi bang bang, da cui Romolo Guerrieri trasse nel 1976 Liberi armati pericolosi, un buon film di ‘genere’ con Tomas Milian, Eleonora Giorgi e persino un esordiente Diego Abatantuono), in cui giovani provenienti da oneste famiglie di lavoratori sembrano gettarsi in disperate attività criminali solo per noia o per cogliere un attimo di fuggevole notorietà. Ma un esempio forse più significativo – anche perché estraneo alla letteratura di genere – è offerto da Freddo Furore (Sugar, Milano, 1966), un romanzo poco noto di Ugo Pirro, uno dei più importanti scrittori del cinema italiano (sceneggiatore, fra l’altro, di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e di La classe operaia va in paradiso). In Freddo furore, Pirro si calava infatti nel mondo dei giovani della ‘Roma bene’ della metà degli anni Sessanta, un mondo ‘motorizzato’, che risultava dominato dalla presenza ossessiva di automobili sportive. 
Ovviamente, la velocità delle auto dei giovani rampolli della buona borghesia capitolina era un simbolo, ben più che un semplice motivo realistico. Era infatti il simbolo di una trasformazione sociale (e urbana), ma anche il simbolo di un modo di vivere, di consumare senza sosta emozioni, rapporti, esperienze destinate a lasciare solo insoddisfazione e noia. Per rappresentare questo stato emotivo, questa instabilità irrequieta e insaziabile, Pirro ricorreva a sperimentazioni stilistiche senza dubbio piuttosto ardite, che avrebbero trovato degli epigoni, più o meno consapevoli, e più o meno originali, molto più tardi, nei ‘cannibali’ letterari degli anni Novanta. Così, rileggendo oggi le pagine di Pirro, alcuni passaggi non possono che colpire per la capacità visionaria, ma anche per qualche eccesso che finisce col risultare addirittura caricaturale. E, da questo punto di vista, è emblematica la descrizione dell’Altare della Patria, visitato in una delle tante scorribande notturne:

«Riprendemmo a salire lungo il colonnato indecentemente brutto. Sfiorammo il piedistallo su cui è poggiato l’enorme monumento equestre nero e oro. Un odore stantìo di orina usciva dagli angoli in ombra e rendeva più acuto quel tanfo di morte che vagava nell’aria. Proseguimmo come in un labirinto, ma calmi, rassegnati a perderci. Dall’alto guardiamo Roma. Luna sputò giù. La Via dell’Impero, dall’altro, sembrava una lunga pista per scarabei sfuggiti alle tombe dei cesari. Ovunque colonne spezzate e divorate in parte dai venti; capitelli giganteschi abbattuti sui depositi di scheletri rispettabili. E poi, giù in fondo, il Colosseo con le sue viscere di leoni morti, di gladiatori uccisi, di ceneri santificate, di statue morte, di spade, corazze, elmi morti.
Luna fissava quel cimitero fluorescente e cinematografico disteso sotto i suoi piedi con il massimo possibile della inespressività, come se fosse ferma, sia pure per un attimo, in una condizione animale fuori del suo tempo. Mi staccai da lei sfinito, il tempo di guardarmi intorno, di cercare una via di scampo, mentre Luna, facendosi forza sulle braccia, si sedeva sulla balaustra, volgendo la schiena al vuoto. La vidi guardare sempre più in alto, seguii il suo sguardo cercando con lei qualcosa nel cielo cremisi» (U. Pirro, Freddo furore, Sugar, Milano, 1966, p. 23).

In un altro passaggio del romanzo, l’ingresso in un bar diventa il pretesto per una formidabile allucinazione, un’allucinazione che – per i suoi effetti involontariamente comici – non sarebbe passata inosservata all’impietoso sguardo di Nanni Moretti. E, in effetti, in Ecce bombo, quando l’emaciato e straordinario Fabio Traversa recita truculente poesie al gruppo di amici in attesa dell’alba (che ovviamente non arriverà) sulla spiaggia di Ostia, cita (pur non esplicitamente) proprio un brano del romanzo di Pirro:

«Entrammo in un bar. Il bancone su cui poggiava la vetrina dei sandwich e la macchina per gli espressi, somigliava alla cassa da morto di mia nonna e per un attimo la sentii sepolta nel ghiaccio in mezzo ai Campari soda» (U. Pirro, Freddo furore, cit., p. 13).


Naturalmente, non era casuale che Moretti infierisse sul romanzo di Pirro, perché, in effetti, Ecce bombo rappresentava un po’ una summa satirica del discorso sociologico, letterario e cinematografico sui ‘giovani’, oltre che sulle ossessioni e le mode di uno specifico mondo giovanile, che corrispondeva a quello della borghesia intellettuale capitolina. Nel film di Moretti – per molti versi irresistibile, anche se probabilmente proprio al successo di Ecce bombo dovrebbero essere attribuite alcune delle responsabilità del rapido decadimento della cinematografia italiana degli anni Ottanta – venivano infatti prese di mira le chiacchiere inconcludenti delle radio libere, la cialtroneria dei festival giovanili, la velleitaria ‘semplicità’ dei ristoranti macrobiotici, ma anche quella letteratura ‘giovanilistica’ di cui il romanzo di Pirro aveva rappresentato uno dei primi esempi. 


D’altro canto, in un'altra scena di Ecce bombo, proprio Moretti/Michele propone alla ragazza con cui tenta di imbastire una sorta di relazione sentimentale, e che è peraltro fidanzata con un amico del protagonista, di raccogliere il racconto di questo menage a trois, visto dalle tre diverse prospettive, e di sottoporlo a qualche piccolo editore. E, in questo senso, il riferimento piuttosto esplicito era alla casa editrice Savelli, uno dei pilastri del panorama editoriale dell’estrema sinistra degli anni Sessanta e Settanta, che aveva inaugurato da qualche tempo una fortunatissima collana, «Il pane e le rose», sensibile alla cultura giovanile (per esempio al fenomeno dei cantautori) e a tematiche lontane dalla tradizione ideologica del marxismo-leninismo. In questa collana, era apparso per esempio L’ultimo uomo. Quattro confessioni-riflessioni sulla crisi del ruolo maschile (Savelli, Roma, 1977), un libro curato da Marco Lombardo Radice, in cui erano raccolti gli interventi di quattro autori – nascosti da pseudonimi (Andrea, Guido, Marcello, Roberto) ed espressione di differenti categorie (l’«intellettuale»,  il «compagno di base», il «politico», il «giovanissimo») – sul rapporto con la sessualità, messo in discussione (forse persino in ‘crisi’) dalla critica femminista. 



Proprio nella collana «Il pane e le rose» era d’altronde stato pubblicato nel 1976 – come volume inaugurale – Porci con le ali, il romanzo, scritto dallo stesso Marco Lombardo Radice e da Lidia Ravera, che fu senza dubbio il caso letterario più singolare degli anni Settanta, oltre che un vero e proprio best seller, capace di resistere (più di ogni altro lavoro coevo) alle ingiurie del tempo e di essere così costantemente ristampato in nuove edizioni. È d’altro canto Porci con le ali – molto più di Boccalone – che, forse, può essere considerato come l’autentico momento di avvio di una letteratura ‘giovanilistica’ che, nei decenni seguenti, sarebbe esplosa, fino a costituire una sorta di ‘genere letterario’. Al di là degli esiti successivi e degli epigoni più triviali del ‘giovanilismo’, Porci con le ali ebbe il merito di riuscire a costruire un ‘romanzo di formazione’ in grado di restituire (o quantomeno di costruire credibilmente) la realtà della generazione cresciuta dopo il cataclisma del Sessantotto, dentro la retorica della ‘rivoluzione sessuale’, nel pieno di un decennio segnato da un esorbitante consumo di politica. Il romanzo fu stampato in un migliaio di copie dalla Savelli e venne pubblicato nell’estate del 1976. Ben presto, le copie diventarono molte di più (circa duecentomila in meno di un anno), e quello che doveva essere un libro destinato a un pubblico estremamente limitato divenne un – imprevisto e imprevedibile – successo editoriale (tanto che i redattori de «Il pane e le rose» dovettero prendere posizione sia per distanziarsi dalla scelta dell’editore di aumentare il prezzo di vendita del volume, sia per chiarire l’ammontare degli introiti: cfr. Per una discussione sul prezzo dei libri, in appendice a L’Ultimo uomo, cit., pp. 145-152.). 
Il caso letterario venne certo favorito dalla scelta degli autori di celarsi dietro i nomi dei due sedicenni protagonisti del romanzo, Rocco e Antonia, col risultato che Porci con le ali fu davvero percepito – almeno alla sua uscita – non come un romanzo, ma come un ‘documento’ sociologico, come un ‘diario’, come un ritratto in presa diretta di quel mondo dei giovanissimi che appariva sempre più lontano dagli occhi degli adulti. Un ritratto che – dato che Porci con le ali si concentrava non solo sulla tormentata storia d’amore fra i due protagonisti, ma soprattutto sulle loro avventure sessuali – doveva attirare l’attenzione dei lettori interessati più agli aspetti pruriginosi del romanzo, che ai suoi obiettivi politici e al suo profilo strettamente letterario. Anche per questo, il dibattito innescato dall’uscita del romanzo si concentrò, in larga parte, sulla credibilità del ‘documento’, sulla veridicità (più ancora che sulla verosimiglianza) del ritratto che emergeva dalle pagine di Lombardo Radice e Ravera. Così, alcuni misero in discussione soprattutto il fatto che quel libro fornisse davvero un quadro realistico della gioventù italiana, mentre altri sottolinearono come quel testo si limitasse a offrire lo spaccato di una piccolissima porzione del mondo giovanile, una porzione – in fondo del tutto coincidente con quella rappresentata dallo stesso Moretti in Io sono un autarchico ed Ecce bombo – circoscritta ai giovanissimi rampolli di una certa borghesia illuminata della capitale, ad alcuni quartieri e ad alcuni licei. Alberto Abruzzese scrisse, cogliendo proprio questo aspetto, che il romanzo non poteva essere «contrabbandato come espressione diretta della cultura giovanile», perché, piuttosto, si trattava di un testo che attingeva ai «‘graffiti’ automaticamente sovrappostitisi e intregratisi in forme ibride ed effimere sulle pareti dei cessi di scuole, fabbriche, ospedali, manicomi, carceri». Su questi graffiti, Lombardo Radice e Ravera avevano «‘lavorato di cucito’, non per niente a più mani, sul linguaggio parlato della generazione postsessantottesca e sugli standard ‘triviali’ della stampa di massa, con la capacità tecnica di tradurre in modo solleticante e disincantato il pulviscolo sociologico sopravvenuto alla ‘politica’ degli anni ’60 e ‘70». Dentro questo linguaggio, l’esasperazione del sesso aveva una funzione specifica, «in polemica con il calvinismo politico delle generazioni passate, l’inutilità delle ‘grandi’ utopie, la vuotezza arida delle pratiche ‘concettuali’, il moralismo dei quadri di movimento e i ‘buoni sentimenti’ della famiglia». E, sempre secondo il giudizio di Abruzzese, Porci con le ali apparteneva così alla «letteratura che viene dopo miti, certezze, sistemi e ragionamenti ma che, pur avendo la ‘presunzione’ di esserne fuori e di rivolgersi al futuro, ne continua ad usare i detriti, non se ne solleva, al massimo ne esaspera e protrae la fine» (A. Abruzzese, Antagonismo e subalternità della scrittura, in A. Asor Rosa, Letteratura italiana, Einaudi, Torino). 
Il linguaggio di Rocco e Antonio – così vicino, eppure così lontano dallo sperimentalismo giocoso, ma anche sofferto di Palandri – nasconde forse anche qualcosa di più, qualcosa in cui forse si può ritrovare la cifra più autentica del romanzo. Si tratta di un linguaggio ovviamente separato, distinto da quello degli adulti, dei loro genitori progressisti. È un linguaggio – ha scritto Ottavio Cecchi – che, «quando non è ostinato mutismo, è un confuso affastellarsi di gutturali cioè, chettecredi e chennesò». E, in effetti, «non è la lingua ricreata in laboratorio da Pier Paolo Pasolini per i suoi ragazzi di vita, non è il semiromanesco ufficiale della televisione e non è neppure un parlata borgatara adottata per far dispetto ai padri che hanno scoperto la Mitteleuropa; non è d’altronde l’artefatto bon ton della vecchia piccola borghesia colta, né la lingua dei nonni contadini che storpiava le parole a furia di metatesi: è una lingua, e un linguaggio, della timidezza e dello smarrimento». Perché «Rocco e Antonio inventano il loro linguaggio per dirci che il tempo del Progetto è finito» (O. Cecchi, Introduzione, in L. Lombardo Radice – L. Ravera, Porci con le ali, l’Unità, Roma, 1993, p. IX). E se la lettura di Cecchi è corretta, non è allora sorprendente che, già al momento dell’uscita del romanzo, qualcuno – come Luigi Manconi, che pure dei due autori fu sodale politico e amico, e che con Lombardo Radice scrisse più tardi anche un singolare, anticipatore romanzo come Lavoro ai fianchi (ripubblicato recentemente da Maestrale) – avesse attaccato Porci con le ali sul piano politico. In un vibrante articolo pubblicato a quattro mani con Marcello Sarno su «Ombre rosse» (rivista vicina non solo a «Lotta continua», ma anche alla stessa collana «Il pane e le rose»), Manconi definiva infatti il libro come «profondamente sbagliato», e ne demoliva l’impianto generale, la latente tendenza all’esaltazione di atteggiamenti individualistici, l’opinabile verosimiglianza sociologica. Ma soprattutto, Manconi e Sarno si indirizzavano verso le scelte stilistiche adottate dai due autori, scelte che aggravavano la sensazione di un libro scritto da adulti (consapevoli ed emancipati) che ‘fingevano’ di essere sedicenni (inconsapevoli e non emancipati). E, da questo punto di vista, vale davvero la pena soffermarsi sul rilievo della critica:

«È un linguaggio misto e composito che tenta di impastare il paradosso concettuale e l’esasperazione verbale, da un parte, e il distacco sociologico e l’ironia intellettuale, dall’altra. Il risultato è pressoché disastroso e, soprattutto, altamente improbabile; sembra intenzionalmente caricaturale e non lo è; è, più semplicemente, il frutto di un tentativo di mimetismo linguistico che ha preso la mano agli autori diventando genere. Ricorda le volgarizzazioni (alla Luca Goldoni) – fatte dieci anni fa – del linguaggio adolescenziale, quando si tentò di far credere che i giovani chiamassero i loro genitori matusa e in realtà non c’era uno, ma nemmeno uno a pagarlo a peso d’oro, che chiamasse davvero matusa i propri genitori (e ci fu persino uno sciagurato che su un fittizio gergo giovanile scrisse un dizionario). […] Il linguaggio immaginifico diventa parodia grossolana e la comicità di Paolo Villaggio sembra aver ispirato i dialoghi di un Rocco/Verzo piccolo-medio-borghese. La storia d’amore di Antonio e Rocco assume inevitabilmente e ancor più il taglio di una ‘storia rosa’, nel senso ‘Bolero film’ del termine, con un rinnovamento di superficie (nel lessico, nei costumi, negli atteggiamenti) analogo a quello che c’è stato appunto, nella superficie di ‘Bolero film’ (che ha anche mutato la sua precedente testata in quella di ‘Bolero Teletutto’» (L. Manconi – M. Sarno, Porci (?) con le ali (?), in «Ombre rosse», n. 17, 1976, p. 69).

Per quanto eccessivamente severe (ma la severità del giudizio era probabilmente favorita anche dallo strabiliante successo ‘commerciale’ del libro, che non poteva non mutarne il profilo), le critiche di Manconi e Sarno coglievano i limiti del romanzo di Lombardo Radice e Ravera. E, forse, presentivano già i rischi che Porci con le ali potesse favorire la nascita di quel genere di cui, anni dopo, Federico Moccia sarebbe divenuto il campione indiscusso. Ma, in realtà, quelle osservazioni nascevano anche dal fatto che, probabilmente, Manconi e Sarno erano ben consapevoli che Porci con le ali era destinato a imporsi per la storia e per i personaggi, lasciando del tutto in ombra quelle che erano le reali intenzioni degli autori. Per una sorta di alchimia irriproducibile, le cartelle scritte in una quindicina di giorni da Lombardo Radice e Ravera – sulla base di un brogliaccio ridotto a uno schema di poche righe (l’ha ricordato proprio Ravera) – erano infatti destinate a mostrare subito quella leggerezza, quella spontaneità che quasi mai contrassegna i prodotti effettivamente ‘letterari’. Fatalmente, proprio quella leggerezza e quella spontaneità – che il pubblico avrebbe riconosciuto subito, e che fanno sì che ancora oggi il libro venga ristampato, letto e amato – dovevano ‘soverchiare’ i due autori e i loro intenti. Come ha scritto Lidia Raveva, ricordando la genesi del libro: 

«doveva essere un pamphlet, un libello a circolazione interna, come gli atti di un convegno, come un gran volantino. È stato stampato in mille copie, mille copie dovevano essere distribuite a mille particolari interlocutori. Non c’entrava l’idea di ‘pubblicare’. C’entrava la politica, quella magnifica menzogna, graziosa come le illusioni e pratica come i trucchi per abbordare il genere umano, c’entrava quella gigantesca balera postsessantottarda in cui tutto sembrava possibile, improbabile, e comunque doveroso. C’entrava un imperativo categorico: ‘Cambiamo la vita prima che la vita cambi noi’. Non volevi che la vita cambiasse te, che avevi appena vent’anni. Né loro. Gli altri. I più piccoli, i tuoi sodali minori: forte della tua paura di essere costretta a diventare adulta, ti rivolgevi ai sedicenni, in bilico fra un leninismo da mestrina e una fiducia da missionario in cerca di tribù da salvare. Volevi insegnare alle ragazze, credevi di potere, a fare l’amore, a non farsi schiave dello stereotipo di libertà sessuale come le loro mamme erano state schiave di quello della verginità, volevi che tutti, ragazzi e ragazze, imparassero a non vergognarsi né delle pulsioni autoerotiche né di quelle omosessuali, ma soprattutto volevi che tutti, ragazzi e ragazze, continuassero a sognare d’essere i migliori, quelli che avrebbero cambiato, se non la politica grande dei rapporti di forza fra le classi, almeno quella piccola della vita individuale, affettiva, dei rapporti fra le persone» (L. Ravera, Prefazione, a Rocco e Antonia, Porci con le ali, Corriere della Sera, Milano, 2003, p. 17).

A ben vedere, l’intento principale di Porci con le ali era ‘politico’, nel senso che puntava a svolgere una sorta di azione ‘pedagogica’, capace di incidere sulle nuove generazioni. In questo senso, allora, il vero modello del romanzo non era affatto Il giovane Holden, il paradigma della letteratura giovanilistica, oltre che il libro che senza dubbio ne ha definito i canoni (anche sotto il profilo stilistico). Il vero modello – ovviamente implicito, e forse persino inconsapevole – cui guardavano Lombardo Radice e Ravera era il tanto vituperato Cuore, perché, come Edmondo De Amicis, anche gli autori di Porci con le ali si proponevano di scrivere – ben più che un romanzo di successo – un romanzo capace di ‘insegnare’ qualcosa. «Lombardo Radice», ha scritto in questo senso Manconi, ricordando l’amico scomparso alla fine degli anni Ottanta, «credeva nella ‘funzione pedagogica’ di un messaggio – quel libro, appunto – che sdrammatizzasse il sesso, ne rivelasse il possibile ruolo emancipatorio e il possibile contenuto trasgressivo: ne segnalasse, in particolare, il significato di esperienza e di conoscenza che poteva assumere nella vita di un adolescente. E di un adolescente della metà degli anni Settanta. Ma quella ‘funzione pedagogica’, perché fosse efficace, doveva negarsi in quanto tale; doveva, dunque, rifiutare la stessa figura di autorità di chi lanciava il messaggio: doveva dissimulare il pedagogo e occultare l’adulto» (L. Manconi, Il desiderio e il sacrifico, in M. Lombardo Radice – L. Ravera, Porci con le ali, l’Unità, 1993, pp. 176-177). Come nel caso di Cuore, anche in Porci con le ali, la forma, la leggerezza del testo e i personaggi dovevano assumere una tale forza da separarsi per sempre dai loro autori e dalle loro finalità pedagogiche. Tanto che, effettivamente, come il narratore Enrico di Cuore – ma anche come Garrone, Derossi, Coretti, Nelli, Votini (i quali acquistano una fisionomia distinta rispetto all’autore De Amicis) –, così anche Rocco e Antonia si distaccano da Lombardo Radice e Ravera, per diventare – con il loro successo – forse anche un peso insostenibile per i loro creatori. Se Cuore viene ricordato non per la celebrazione delle istanze egualitarie della scuola unitaria, ma per il ricorso a un facile sentimentalismo, per l’implicita esaltazione dell’autoritarismo di istituzioni scolastiche che condannano l’«infame» Franti, per il patriottismo stucchevole, anche Porci con le ali viene oggi ricordato – e verrà letto domani – non per gli (ingenui, forse persino commoventi) intenti pedagogici di una generazione di rivoluzionari ventenni, che sperava di costruire una nuova umanità partendo dalla vita quotidiana e dalla ‘rivoluzione’ dei rapporti personali, ma solo per quella giocosa (e un po’ forzata) esibizione di una sessualità libertina. 
L’istanza ‘pedagogica’, centrale in Porci con le ali, non si limitava soltanto a conferire al racconto – soprattutto se osservato con uno sguardo attento – un certo carattere ‘fittizio’, ma di fatto riproduceva anche una distinzione fra autore e lettore. Dal momento che Lombardo Radice e Ravera assumevano, più o meno esplicitamente e consapevolmente, la funzione di ‘maestri’ – che dovevano condurre, indirizzare, guidare, la formazione delle nuove generazioni – essi finivano solo col travestire, con l’occultare, quella funzione ‘politica’ di guida delle masse, che pure intendevano abbandonare, in nome di una critica integrale della separazione tra ‘Politica’ e ‘vita quotidiana’, fra il regno dell’ideologia e la realtà dei rapporti umani. Ma l’esito di questa operazione – forzando un po’ questa lettura – non investiva semplicemente i presupposti politici del romanzo. Quella distinzione fra ‘politica’ e ‘vita quotidiana’ – fra l’esigenza di sintesi della politica e la peculiarità analitica del linguaggio letterario, fra il ‘noi’ della dimensione collettiva e l’‘io’ della dimensione privata – non poteva che riemergere prepotentemente nel momento stesso in cui la tensione ideologica, l’appartenenza di gruppo, la retorica del conflitto si dovevano allentare. E proprio in questo – rileggendo oggi i due testi – stava probabilmente la distanza principale fra Boccalone  e Porci con le ali.
Nella scelta stilistica adottata da Palandri – una scelta solo all’apparenza simile a quella di Lombardo Radice e Ravera – c’era, infatti, un rifiuto della letteratura del tutto ‘letterario’, ossia un rifiuto del ruolo e delle regole del lavoro letterario che si inscriveva pienamente all’interno della coordinate dell’avanguardia novecentesca, se non addirittura, a ben vedere, anche in un certo ‘romanticismo’ che non è difficile intravedere nelle pagine di Boccalone. E, d’altro canto, lo stesso Palandri ha confessato – a trent’anni di distanza – come proprio questo aspetto lo allontanasse dal contesto intellettuale della Bologna del periodo: «Al Dams ero allievo di Gianni Celati, di Umberto Eco, di Alfredo Giuliani, sostenitori di una narrativa connotata da un piglio spontaneo e naïve. Rifuggivano anche da ogni romanticismo mentre io, anche se avevo solo 22 anni, mi sentivo sollecitato dalla frase di Leopardi ‘solo l’amore e la morte sono degne dell’essere umano’ e volevo confrontarmi con le più profonde vicende esistenziali» («Boccalone studente ribelle ieri come oggi, in «TuttoLibri – La Stampa», 8 gennaio 2011, p. XI). In questo senso, l’epigrafe anteposta alla prima edizione – «A quelli che capiranno che questo non è un romanzo e che io non sono uno scrittore, che di stronzi è già pieno il mondo» - era, più che una cautela da esordiente, la conseguenza di un modo di intendere e percepire il rapporto tra vita e letteratura fissato persino nella scelta stilistica. Non era così sorprendente che nel risvolto di copertina della prima edizione si leggesse: «Dopo questo libro non si potrà più dire che i giovani non sanno scrivere». Perché, in effetti, la gran parte delle energie di Palandri si indirizzava proprio verso quello stile capace di restituire l’immediatezza, la fluidità, la destrutturazione temporale di una condizione emotiva in cui ‘individuale’ e ‘collettivo’ (ben al di là della retorica sul carattere ‘politico’ del ‘privato’) risultavano effettivamente ‘fusi’ insieme, stretti inestricabilmente l’uno all’altro. Tanto che la scrittura pareva persino ‘scomparire’, dissolversi, assorbita dalla registrazione delle forme di comunicazione orale di una tribù in costante movimento, come segnalava d’altronde lo stesso «boccalone» al centro del romanzo: 

Non ho uno stile nello scrivere, e neppure nel parlare; parlo un po’ come maurizio, un po’ come gianni, un po’ come gigi eccetera eccetera, cioè chissà come quanti altri; così ho anche voglia di leggere e di ascoltare come tanti altri; così anche se non era finito (ma lo sarà mai) ho fatto leggere queste pagine a maurizio, gianni, clorinda, ad anna (ache lo ha trovato noiosissimo a pagina cinque e non ha più letto nulla); anna se lo è preso con la forza e di nascosto, come suo solito; e ancora tantissimi altri lo hanno letto e ne hanno parlato con me; siccome non sono mai sicuro di quello che dico e le cose individuali fanno tutte schifo, e anche le personale individuali mi fanno tutte schifo, le cose che gli amici mi hanno detto, sul libro, o che col libro non c’entravano nulla, sono tutte entrate nel racconto, lo hanno tutto bucato di cose che succedevano nel frattempo, nel mentre che lo scrivevo; allora do un consiglio sul modo di leggerlo, anche se alla fine non ve ne fate nulla; allora è un consiglio sul modo di pensarlo, di volergli bene come a questo oggetto; lui (il libro) è un brusio leggero, un racconto che non riguarda nessuno, e allo stesso tempo parla di tutti, così come sono le mie giornate, piene di confusione e di persone; non sono e non voglio essere precisamente enrico palandri, ma qualcosa di simile; credo che questo sia un oggetto collettivo; il collettivo non appartiene più al progetto, fa parte dei miei sogni, del mio modo di passare il tempo, di vivere la vita, di stare nella merda, come di cercare di uscirne; ed è sussurrato, non declamato; in molti punti vorrei essere interrotto, costretto a cambiare registro: qui è troppo romantico, qui non è credibile, qui è falso; è questa la vera sfiga di scrivere soli, che si lascia andare una voce sola (E. Palandri, Boccalone, cit., pp.175-176).

E, allora, non era neppure così singolare – benché potesse apparire in clamoroso e totale contrasto con lo spirito dell’epigrafe (eliminata peraltro nelle edizioni successive) – che Palandri confessasse a Tondelli, già nel 1979: «Scrivere. È la cosa più importante che ho, perché non solo riempie certi scarti della vita, ma soprattutto perché scrivere mi serve per studiare il mio linguaggio, per essere finalmente padrone delle parole, usarle, combinarle». D’altronde, Tondelli ritrovava proprio in questa – quasi sconcertante – fiducia nella letteratura il merito principale di Palandri, il merito per cui il giovane scrittore poteva essere considerato effettivamente come l’autore che aveva aperto la strada a una nuova generazione: «Enrico Palandri», scriveva Tondelli, «ha dimostrato, con semplicità, con urgenza quasi, che è ancora possibile per un giovane risolvere la frattura tra quotidiano e fantastico, ricercare con le parole una propria identità; soprattutto è possibile affidare alla letteratura, al libro, la comunicazione di una propria esperienza e di un proprio linguaggio reali» (Enrico Palandri, cit., pp. 214-215).
Il distacco di Palandri dal proprio alter ego «boccalone» sarebbe stato duro, lacerante, drammatico, e avrebbe inevitabilmente comportato una netta rottura sia con il mondo della Bologna alternativa e irridente del Settantasette (che d’altronde era destinata a scomparire rapidamente), sia con quello stile che pure aveva segnato in modo così inconfondibile il suo esordio. I romanzi successivi di Palandri dovevano nascere d’altronde, e forse non casualmente, da una sorta di ‘esilio’ volontario dall’Italia, e dovevano risultare estremamente lontani da Boccalone, anche perché quella fusione fra io e noi, fissata nel linguaggio di Palandri non avrebbe avuto più ragione di esistere, se non per il semplice gusto del revival. È probabilmente questo il motivo per cui Boccalone oggi rimane muto, non parla più al lettore del 2011, o comunque non riesce più a comunicare, come faceva trent’anni fa, un irripetibile stato emotivo. E, invece, sta proprio nella differenza che distanza Porci con le ali da Boccalone la spiegazione del perché il romanzo di Rocco e Antonia – di Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera – continui a parlare, e continuerà a parlare a lungo, a tutti i suoi nuovi, giovani lettori. 
Forse, avevano in fondo ragione Manconi e Sarno quando scrivevano che, a ben vedere, Rocco e Antonio – a dispetto degli obiettivi degli autori del romanzo, a dispetto della loro buona fede ‘politica’ – non apparivano per nulla diversi dai loro coetanei di dieci, venti anni prima e, forse, anche di venti o trenta anni dopo:

 Che cosa, in sostanza e concretamente, rende l’atteggiamento di Rocco e Antonia nuovo e qualitativamente diverso dall’atteggiamento di analoghi giovani del passato? Che cosa divide (e contrappone) il tradizionale egoismo qualunquista […] dalla riduzione che la parola d’ordine ‘il personale è politico’ assume nel comportamento di Rocco e Antonia? Dov’è la storia (che oggi, come non mai, è storia anche di giovani)? Rocco e Antonia scopano più di quanto non faccia il Federico Moreau di Flaubert, estenuato nella contemplazione della sua signora Arnoux, ma se questo è forse progressivo, non è detto che sia sovversivo (L. Manconi – M. Sarno, Porci (?) con le ali (?), cit., p. 72).

Quello che per Manconi e per Sarno era un limite – e lo era effettivamente, rispetto alle intenzioni degli autori del romanzo – era invece, probabilmente, la forza principale di Porci con le ali, quella forza che avrebbe consentito a un piccolo libro, un libro scritto quasi per scherzo e senza ambizioni letterarie da due ragazzi all’interno di un clima segnato in modo quasi ossessivo dalla onnipresenza della politica, sopravvivesse miracolosamente al rapido tramonto di quel mondo e delle illusioni degli anni Settanta. In questo senso Giuliano Zincone coglie allora un punto reale, quando scrive che Rocco e Antonia rappresentano «un’avanguardia postpolitica e postmoderna», perché «se ne fregano della lotta di classe e dei destini dell’umanità» (G. Zincone, Un’intuizione postmoderna e profetica, in Rocco e Antonia, Porci con le ali, Corriere della Sera, Milano, 2003, p. 8). Laddove in Boccalone individuale e collettivo si fondevano, in Porci con le ali queste due dimensioni tornavano a divaricarsi irrimediabilmente, lasciando i due protagonisti soli, pur dentro una coreografia di bandiere e di slogan. 
A ben guardare, per quanto Boccalone e Porci con le ali tentino entrambi di restituire – anche linguisticamente e stilisticamente – la dimensione di ‘separatezza’ dei giovani rispetto all’universo degli ‘adulti’, e benché in entrambi i romanzi i protagonisti paiano muoversi dentro un tempo ‘sospeso’, in cui le uniche scansioni sono offerte dalle percezioni emotive, in realtà la temporalità cui essi alludono è radicalmente differente. In Boccalone, la sospensione del tempo è quella che scaturisce dalla costruzione di un mondo ‘separato’, di una vita che – in fondo – si esaurisce e si realizza nel qui e ora, al di fuori delle sequenze temporali della scuola, della fabbrica, della caserma e, in generale, dell’ordine sociale. Se si vuole, è il tempo ‘sospeso’ della rivolta esistenziale, il tempo ‘dilatato’ di una sorta di bohéme postmoderna, il tempo del sartriano ‘gruppo in fusione’. Al contrario, il tempo di Porci con le ali è solo il tempo sospeso dell’adolescenza, il tempo segnato da una fremente attesa di qualcosa che (forse) avverrà, di un futuro che attende, di una maturità che prima o poi giungerà, con tutti i suoi obblighi e problemi, ma di cui ci si può – almeno per ora – disinteressare, ripiegando verso una sorta di oblio temporaneo. 
Forse, in questo modo, più di Boccalone, il romanzo di Rocco e Antonia percepiva – magari non del tutto consapevolmente – qualcosa che stava avvenendo dentro la struttura soggettiva delle nuove generazioni. Qualcosa che, pur all’interno di una galassia segnata dalla politica, dall’ideologia, dall’immaginario della rivoluzione, preludeva a una fatale divaricazione dalla ‘Storia’ e dalla ‘Politica’. Ciò che forse presentivano gli autori di Porci con le ali – o che si rifiutavano ancora di ammettere pienamente – era il coagularsi, dentro l’esperienza dei giovanissimi degli anni Settanta, di quell’immaginario ‘postpolitico’ che solo pochi anni dopo si sarebbe dispiegato nella sua portata. Un immaginario per il quale non è semplicemente la ‘rivoluzione’ a essere impossibile, ma all’interno del quale – senza più connessione con il divenire della Storia, con le sue trasformazioni, con le sue rotture più o meno radicali – il fluire stesso della vita quotidiana si dilata, si estende irrefrenabilmente in un eterno, immutabile presente, scandito solo dal vorace, insaziabile metabolismo del consumo. 
I protagonisti di quel piccolo romanzo – e forse qui sta il vero motivo del suo duraturo successo – venivano così a prefigurare la condizione emotiva in cui tutti noi ci troviamo a vivere. Una condizione emotiva che dilata all’infinito i tempi dell’‘educazione sentimentale’, che viene a calibrare la qualità della vita sui ritmi animali della sessualità, che ci trasforma costantemente – giovani e vecchi, ricchi e poveri – in eterni, insaziabili adolescenti, che ci costringe in una condizione di ‘minorità’ invalicabile e di precarietà esistenziale. Una condizione emotiva che ci priva di ogni ‘Storia’ che non sia la semplice conservazione di un presente identificato con un livello accettabile di consumo. Ma che finisce anche per assolverci da ogni colpa e da ogni responsabilità. E, soprattutto, dalla nostra rassegnazione. 

Damiano Palano














domenica 7 agosto 2011

Miglio, politica 'pura'. Le lezioni di Gianfranco Miglio a dieci anni dalla scomparsa

di Damiano Palano

Nei dieci anni trascorsi dalla scomparsa, avvenuta il 10 agosto 2001, Gianfranco Miglio è stato ricordato soprattutto per i progetti di riforma istituzionale e per l'esperienza politica condotta, nei primi anni Novanta, a sostegno di una revisione in senso federale della Costituzione italiana. In questo modo, la sua eredità intellettuale certo non è stata effettivamente tradita. Ma, senza dubbio, si è finito col dare una rappresentazione limitata, se non proprio fuorviante, di un intellettuale il cui itinerario fu ben più complesso.
Prima (e forse più) che un teorico del federalismo, Gianfranco Miglio fu soprattutto uno scienziato della politica. Nel corso di circa mezzo secolo, a partire dagli anni Quaranta del Novecento, dedicò infatti la gran parte delle proprie energie intellettuali all'esplorazione dei caratteri originari del politico. E la sua intera attività di ricerca appare indirizzata alla decifrazione di quelli che definiva - con una formula tacitiana, già adottata da Pietro De Francisci - come gli arcana imperii, ossia le strutture più profonde dei rapporti di potere. All'interno della sua teoria, un ruolo cruciale era rivestito dall'ipotesi che esistessero due tipi differenti tipi di relazioni umane, entrambe originarie e strutturalmente irresolubili l'una nell'altra: l'"obbligazione politica" e il "contratto-scambio". Ma la sua convinzione - soprattutto a partire da un certo momento - era in particolare che la politica fosse sostanzialmente irriducibile al diritto e a ogni regolamentazione giuridica. Il vincolo politico era dunque destinato, inevitabilmente, a disordinare ogni ordinamento, oltre che a mostrare il proprio carattere originario.
Un carattere originario contrassegnato dalla relazione personale di dominio del capo sul proprio seguito, dalla contrapposizione con un nemico esterno, dalla produzione di ideologie, dalla redistribuzione di rendite garantite. Il disegno complessivo della sua teoria doveva essere esposto in quelle Lezioni di politica pura che Miglio promise più volte ai suoi lettori, ma di cui non riuscì mai a portare a termine la stesura. Per questo motivo, nei contributi dello studioso comasco - raccolti soprattutto nei due volumi delle Regolarità della politica (Giuffrè) - le riflessioni sul "cristallo" dell'obbligazione politica risultano solo accennate. Tanto che il quadro teorico che Miglio aveva elaborato affiora solo nei suoi contorni generali. La struttura di quell'opera incompiuta si può invece ritrovare nei corsi universitari di Miglio, tenuti nell'arco di circa un trentennio presso la facoltà di Scienze politiche dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, e ora finalmente pubblicati dal Mulino, con il titolo Lezioni di politica e la presentazione degli allievi Pierangelo Schiera e Lorenzo Ornaghi. I due volumi - Storia delle dottrine politiche (pagine 352) e Scienza della politica (520 pagine), in libreria dal 25 agosto e curati rispettivamente da Davide G. Bianchi e Alessandro Vitale - riproducono infatti le trascrizioni delle registrazioni dei corsi di Miglio, conservate gelosamente per decenni da allievi e studenti.
E, soprattutto, consentono di ritrovare lo scheletro di quelle che dovevano diventare le Lezioni di politica pura. Naturalmente, nelle pagine di questi due volumi non mancano le semplificazioni, d'altronde inevitabili in un'esposizione di carattere didattico. Ma, ciò nonostante, accostarsi oggi a queste Lezioni è una straordinaria opportunità per ricordare lo studioso comasco e per ripensarne il lascito intellettuale. Perché non significa soltanto incontrare - di nuovo, o per la prima volta - un Miglio spesso dimenticato, e forse realmente conosciuto solo da coloro che furono suoi studenti. Leggere oggi le sue Lezioni vuol dire soprattutto tornare a confrontarsi con le inflessibili "regolarità" della politica. E riprendere il filo di una ricerca - tutt'altro che definitivamente racchiusa in un organico sistema teorico - sui grandi processi di trasformazione dei sistemi politici. Fissare in un quadro cristallizzato e privo di interne incoerenze il pensiero di Gianfranco Miglio significherebbe d'altronde impoverire gli esiti di un'indagine che egli stesso si rifiutò sempre di considerare conclusa una volta per tutte. Come, d'altro canto, trasformarlo nella figurina caricaturale da collocare in un maldestro pantheon ideologico vorrebbe dire tradire l'eredità di un intellettuale che, peraltro, fu sempre - quasi visceralmente - insofferente nei confronti delle retoriche di partito e delle appartenenze ideologiche. Ripartire, ancora una volta, proprio dalla sua scienza del potere, e puntare lo sguardo sui problemi irrisolti -forse persino sulle aporie - della sua riflessione, è invece il modo migliore per proseguire la ricerca di Miglio. E, soprattutto, è il modo migliore per raccogliere davvero la sfida di uno studioso che dedicò le proprie energie intellettuali a una costante, inesausta, interminabile esplorazione dentro il cuore più impenetrabile degli arcana imperii.

Damiano Palano



Da "Avvenire" (6 agosto 2011)

sabato 6 agosto 2011

Un ricordo di Gianfranco Miglio. Oggi su "Avvenire"

In occasione del decennale della scomparsa di Gianfranco Miglio, avvenuta il 10 agosto 2001, oggi appare su "Avvenire" un ricordo dello studioso comasco, di cui stanno per essere pubblicati dal Mulino - con il titolo Lezioni di politica - i corsi universitari, tenuti nel corso di circa un trentennio presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università Cattolica.


Damiano Palano, "Miglio, politica pura"