domenica 30 ottobre 2011

A cosa serve un 'sampietrino'? "Democrazia" di Gherardo Colombo





di Damiano Palano

«Ultimo mohicano / sampietrino in mano / solo qui nella via / e la barricata dove l’han portata? / non c’è proprio più. / Ultimo mohicano / sampietrino in mano / non c’è più polizia / ora a chi lo tiro?». Il sampietrino cui alludeva Gianfranco Manfredi nell’Ultimo mohicano non era ovviamente soltanto una componente dell’arredo urbano. Nell’allegoria cinematografica che reggeva l’intero album, il mohicano era il reduce del «maggio strisciante» italiano, e il sampietrino che stringeva malinconicamente tra le mani rimandava a ormai lontane battaglie urbane e alle armi improprie fornite dalla pavimentazione stradale (tornate negli ultimi giorni di particolare attualità). Con ogni probabilità, non è però a questo peculiare utilizzo che ha pensato Bollati Boringhieri, nel momento in cui ha deciso di battezzare la nuova collana «i sampietrini». L’intento dell’editore è d’altronde illustrato dal trafiletto che accompagna l’uscita del volume di apertura: «I sampietrini sono i blocchetti di basalto tradizionalmente usati per lastricare le strade e le piazze. Come i sampietrini, le idee non stanno in cielo ma sono la base che ci permette di orientarci e camminare per il mondo. Anni di propaganda ideologica e mediatica hanno reso malferma quella base e confuso i punti di riferimento della conoscenza e dell’impegno civile. Con questo libro Bollati Boringhieri inaugura una nuova collana che, affidando ad autori di fama internazionale la spiegazione di concetti basilari, si propone di ricostruire le strade di un sapere efficace e di un libero confronto pubblico per il XXI secolo». L’accostamento fra i sampietrini e le idee, non può non suscitare qualche ironia, se non altro perché il dibattito culturale contemporaneo – ben più che a una piazza lastricata di sampietrini – sembra piatto e uniforme come il manto di un’autostrada asfaltata da poco. Ma l’altezza della ambizioni della collana, composta di agili volumetti intesi quasi come voci di un’enciclopedia del sapere per il XXI secolo (è annunciato fra l’altro, tra le prossime uscite, Futuro di Marc Augé), è confermata dal primo «sampietrino», dedicato al tema Democrazia e firmato da Gherardo Colombo.
Può destare forse qualche perplessità che su un tema così impegnativo, su cui in Italia negli ultimi decenni si sono esercitati studiosi come Norberto Bobbio, Giovanni Sartori, Luciano Canfora, Michelangelo Bovero, Gustavo Zagrebelsky, Alessandro Pizzorno, Carlo Galli, Danilo Zolo, Alfio Mastropaolo, Pier Paolo Portinaro, sia chiamato un ex-magistrato, peraltro colto e raffinato come Colombo, e qualcuno non mancherà di rintracciare in questa scelta una conferma della tendenza di una parte del mondo intellettuale italiano a vedere nella magistratura una sorta di ‘governo di custodi’ e ad assegnare proprio ai giudici un ruolo politico di garanzia dell’ordine democratico. Ma il profilo specifico dell’autore di Democrazia costituisce in realtà un motivo di interesse in più, che non viene peraltro smentito dalla lettura del «sampietrino», quantomeno perché la discussione si discosta dalle più celebri discussioni intorno ai caratteri della liberal-democrazia per seguire una pista interessante.
In effetti, Gherardo Colombo imposta il volume come una sorta di lezione di educazione civica, in cui non mancano i toni accorati e le perorazioni all’impegno e alla tolleranza, soprattutto perché parte dalla convinzione che sia necessario spiegare la democrazia non a chi già la conosce, ma a quanti ne ignorano le forme, la sostanza, i principi e le dinamiche. In altre parole, scrive Colombo nell’introduzione, «è essenziale capire davvero cos’è, la democrazia, non da parte di coloro che già la conoscono, e ne discutono, approfondiscono, analizzano, pronosticano il suo futuro». Il pubblico a cui tende a rivolgersi è infatti ben diverso: «È essenziale […] parlare di democrazia con chi nella vita si è occupato di altro, svolge una professione, un lavoro per i quali il modo di organizzare la società non fa parte dei ferri del mestiere e ne ha quindi notizie indirette, vaghe, approssimative, che gli arrivano magari dagli slogan ascoltati distrattamente nei talk show televisivi o dalla affrettata lettura del titolo di un giornale. È essenziale perché la democrazia è un modello organizzativo della società che coinvolge indistintamente le persone, e non è possibile che funzioni se queste non l’hanno capito, non sanno per davvero cos’è» (p. 11).
Per sbrogliare la matassa dei molteplici significati della parola democrazia, e per chiarire quali siano i delicati equilibri che rendono effettivamente democratico un sistema politico, Colombo struttura l’argomentazione in tre sequenze principali – la forma, la sostanza e l’esercizio della democrazia – per concludere infine con una celebrazione del ruolo attivo dei singoli cittadini. In primo luogo, Colombo prende le mosse dal dibattito classico sulle forme di governo, un dibattito le cui origini più remote possono essere ritrovate nelle Storie di Erodoto e nel confronto fra Otane, Megabizio e Dario sulla migliore forma di governo. Ma la definizione che in questo modo emerge della democrazia – la forma di governo in cui governano i ‘molti’, in opposizione alla monarchia e alla oligarchia – non può che fornire solo una prima suggestione, e per questo Colombo introduce i consueti ‘correttivi’ all’idea della democrazia come governo dei molti: l’impossibilità ‘tecnica’ che i molti esercitino il governo (tutte le funzioni di governo) in grandi unità politiche come sono gli Stati: «è certamente impensabile che centinaia di migliaia, o milioni di persone possano, tutte insieme, amministrare la società o svolgere la funzione giudiziaria», ed è allora «necessario in tutti questi casi incaricare qualcuno che operi per tutti» (p. 23). Ma c’è un passaggio concettualmente più significativo nel discorso di Colombo, nel quale viene esplicitato il legame fra democrazia e libertà. A questo proposito, osserva: «la democrazia è il sistema di governo attraverso il quale i membri della società creano, applicano e verificano l’osservanza delle regole attraverso le quali tutti possano essere liberi tanto quanto gli altri (e cioè vi sia uguaglianza di fronte alla legge, vi sia isonomia). La democrazia, quindi, è lo strumento indirizzato a realizzare la società a opportunità pari, libertà concorrenti e non conflittuali. Libertà di ciascuno in concordia con le libertà di chiunque altro» (pp. 37-38). L’assegnazione alla democrazia di un obiettivo così ambizioso fa già evidentemente trapelare gli elementi del ritratto dipinto da Colombo, e forse anche intuire alcune delle riserve che potrebbero essere rivolte a un simile quadro. La libertà è infatti un tassello cruciale del mosaico democratico, un tassello che ritorna ampiamente nel momento in cui l’ex-magistrato passa a considerare la «sostanza» della democrazia. E a questo proposito, scrive: «Massima espansione della libertà è […] la sostanza della democrazia. La sostanza, la libertà di scegliere nelle situazioni pratiche e concrete dell’esistenza, si persegue attraverso il riconoscimento della libertà di scegliere i modi per attuare tale libertà» (p. 43). Da questo derivano anche una serie di doveri, nel senso che, in democrazia, i doveri sono finalizzati all’obiettivo della libertà. E, soprattutto, da ciò deriva la logica della separazione e dell’equilibrio dei poteri, che pongano ‘limiti’ all’esercizio del potere anche da parte della ‘maggioranza’.
Un quesito fondamentale che Colombo deve affrontare emerge però a proposito dell’«esercizio» della democrazia, perché in corrispondenza di questa sequenza che si trova a esplicitare il ruolo che – effettivamente – svolge il ‘popolo’ nella realtà dei sistemi democratici. Per Colombo la partecipazione non è infatti marginale, e – rivisitando e reinterpretando il primo articolo della Costituzione italiana – sostiene che la democrazia è fondata sul ‘lavoro’ che i cittadini svolgono quotidianamente affinché la democrazia si realizzi: «È necessario che i cittadini agiscano per compiere la democrazia, perché questa possa attuarsi. In caso contrario, e cioè se tutti loro, o gran parte di loro, rimanessero inesrti, evidentemente non governerebbero, e la democrazia si trasformerebbe necessariamente in monarchia o in oligarchia (perché governerebbero soltanto gli attivi, che potrebbero essere ipoteticamente soltanto uno o estremamente pochi). La trasformazione si verificherebbe di fatto, senza necessità di cambiare nemmeno una legge» (p. 74). In sostanza, benché in ogni democrazia esistano delle regole, le regole da sole non sono sufficienti: «nella democrazia le regole prevedono la possibilità di contribuire all’indirizzo della vita propria e di quella della collettività, ma se la possibilità non è usata, se manca cioè l’impegno, la democrazia svanisce. Non sono sufficienti le regole, perché le regole consentono di partecipare al governo: se manca l’impegno, la partecipazione, il governo va ad altri» (p. 76). Ma l’impegno non si limita alle varie forme di partecipazione, perché comprende – ed è un passaggio ovviamente importante – anche il rispetto delle regole da parte dei cittadini. Per questo, Colombo scrive che partecipare al governo significa soprattutto rispettare le regole formali e sostanziali della democrazia (per esempio non sollecitare e non permettere favoritismi), anche nei rapporti privati (per esempio evitando di ledere la libertà altrui)», e «rispettare anche le regole che hanno relazione indiretta con la democrazia (si potrebbe paradossalmente sostenere che la realizzazione della democrazia inizia dal rispetto delle strisce pedonali» (p. 91).
È seguendo proprio questo filo che l’ex magistrato individua il rischio più insidioso di ogni democrazia – ma in particolare della democrazia italiana – nella cultura degli stessi cittadini, una cultura non ancora adeguata alle forme e agli obblighi che richiede una democrazia reale. Ed è per questo che, nell’accorato epilogo che conclude il volume, considera in fondo  l’educazione delle persone come il pilastro più robusto con cui sostenere l’edificio democratico, e come la bussola più efficace per orientarsi in un viaggio che rimane comunque sempre accidentato e affollato di insidie: «Aiuta il cammino» - scrive nella conclusione - «considerare che oggi la pratica della democrazia è difficile e faticosa perché la cultura, il comune modo di pensare è ancora per molta parte basato sugli schemi passati, quelli del dominio, della sopraffazione, della sottomissione e della discriminazione. La pratica della democrazia è difficile e faticosa perché ancora non si è diffuso a sufficienza l’apprezzamento per la parità delle opportunità e per la diffusione della libertà. Per troppi democrazia significa conquista dell’uguaglianza con chi ha maggiori possibilità, ma mantenimento della disuguaglianza con coloro che di possibilità ne hanno meno. È necessario che si modifichi questo atteggiamento mentale. E, come sempre è successo, via via che le persone prenderanno consapevolezza di quanto essenziale sia il rispetto della dignità e dell’uguaglianza (che vuol dire il rispetto degli altri), sarà per loro meno difficile impegnarsi e partecipare per attuare e conservare quotidianamente la democrazia» (p. 92).
La ‘lezione’ di educazione civica di Gherardo Colombo non può che essere salutare, specie in un Paese che sembra avere inciso nel proprio codice genetico un’inguaribile predisposizione all’arbitrio, al clientelismo, al nepotismo e alla prevaricazione del forte sul debole (una prevaricazione che si ritrova naturalmente anche nell’amministrazione della giustizia). Ma certo alcuni tratti del discorso – di cui sono evidenti e dichiarate le finalità didattiche – non mancano di generare qualche perplessità. In questo senso,  la ripresa del significato classico del termine democrazia e soprattutto, la sua contrapposizione con la monarchia e l’oligarchia – una scelta che imposta l’intera riflessione di Colombo – crea più di qualche problema. Sulla base della concezione greca, difficilmente si potrebbero infatti definire i contemporanei sistemi occidentali come ‘democratici’, mentre, osservato con l’ottica odierna, il sistema ateniese non potrebbe essere certo definito come una democrazia. Colombo è ben consapevole del problema, per esempio quando ricorda che alcuni regimi oligarchici o monarchici si qualificano come democrazie, mentre altri che sono formalmente delle monarchie seguono le regole della democrazia. E proprio per questo invoca una certa cautela: «Non bisogna lasciarsi fuorviare, insomma, dall’uso delle parole. Sia quando queste non nascondono una realtà diversa dall’apparenza (come succede appunto per le monarchie costituzionali), sia quando, invece, l’uso dei termini è consapevolmente diretto a proporre una apparenza divergente dalla realtà. Così, alcuni paesi che si presentano ufficialmente come democrazie possono avere i caratteri della monarchia o dell’oligarchia (come accadeva per esempio per la Repubblica democratica tedesca fino alla caduta del Muro di Berlino)» (p. 31).
Il problema che affiora dalle parole di Colombo non è però affatto secondario, ed è d’altronde il nodo attorno al quale la scienza politica degli ultimi settant’anni si è arrovellata senza giungere a una soluzione del tutto convincente. Quanti hanno cercato di fissare l’analisi all’àncora di una definizione ‘realistica’ della democrazia si sono scontrati con difficoltà inaggirabili, che rimandano in fondo al carattere dei concetti politici. La parola ‘democrazia’ – come tutti i più densi concetti politici – deve probabilmente la sua longevità e il suo successo anche alla sostanziale indeterminazione, alla sua costitutiva polisemia. Se la parola ha attraversato più di duemila e cinquecento anni, non possiamo mai dimenticare che nel corso di questo lungo viaggio il concetto ha subito trasformazioni radicali. Soprattutto, non possiamo trascurare il fatto che la pressoché unanime riprovazione dei più grandi pensatori del passato è stata sostituita da un atteggiamento opposto, in virtù del quale la democrazia è diventata un valore politico indiscutibile, tanto che persino i più agguerriti rivali del regime democratico ne inalberano ufficialmente le insegne. Un simile rovesciamento rende il compito della definizione della democrazia, se possibile, ancora più difficile. E, inevitabilmente, non può che rappresentare un ulteriore ostacolo alla comprensione realistica dei mutamenti che avvengono ‘dentro’ le nostre democrazie. Probabilmente, l’unica soluzione è riconoscere che ciò che chiamiamo solennemente come ‘democrazia’ è ‘soltanto’ una configurazione specifica assunta dallo Stato moderno: una configurazione in cui vengono approfonditi e irrobustiti i meccanismi rappresentativo-elettivi e le garanzie dello Stato di diritto, e che riflette i mutamenti nel sistema internazionale e nell’assetto economico delle nostre società. In altre parole, un modo per uscire dall’impasse è forse ‘demitizzare’ la democrazia, o meglio demitizzare quelle teorie che hanno raffigurato i nostri sistemi politici come l’incarnazione ‘definitiva’ dell’ideale democratico, se non addirittura come il punto estremo dell’evoluzione ideologica della storia umana. Forse, in questo modo perderemo la soddisfatta certezza di vivere nel migliore dei mondi possibili, e cesseremo di credere in una quella sorta di postmoderna religione civile che ha fatto della democrazia esistente un inattaccabile ‘Dio mortale’. Ma, potremo scoprire nella polisemia della democrazia anche la traccia di nuove speranze. Perché, in fondo, i molti significati della democrazia – e i molti modi di concepire la democrazia – non sono altro che una conseguenza della pluralità degli esseri umani e dell’unicità di ciascun essere umano. Per questo, nonostante il suo abuso contemporaneo, il concetto di democrazia continuerà a rappresentare aspirazioni molto differenti, e a incarnare ancora a lungo le grandi ambizioni dei sistemi politici occidentali, così come - in qualche caso - a ricoprire la realtà di regimi basati sull'arbitrio e la corruzione. E così non smetterà di essere utilizzato in mille modi diversi, tanto dai governanti come strumento di legittimazione, quanto dai ‘senza potere’, come arma d’attacco contro il privilegio e la disuguaglianza. Proprio come il sampietrino.

Damiano Palano




Questo testo è ora raccolto in La dissolvenza democratica. Cronache nella crisi, un e-book che raccoglie alcuni posti apparsi sul maelstrom.

Il libro è disponibile anche in formato cartaceo.






mercoledì 26 ottobre 2011

Verso il default. Il fallimento dei Piigs non sarà una catastrofe: il “Contagio” di Loretta Napoleoni




di Damiano Palano

«Il pubblico? Il pubblico non ci pensa, digerisce soltanto. Tutto quello che noi, prima, abbiamo premasticato, preruminato, per lui. […] Dove credevi di essere capitato? Questo è il tempio dell’opinione pubblica, non è mica un posto perbene. Vedi, in fondo noi facciamo molto per il progresso. Non sembra, ma è così. Prepariamo l’affondamento del genere umano nell’idiozia. Un futuro senza pensiero. Senza idee nuove. Il nirvana, supercultura, super concentrata. Dormire, bere, mangiare e fare all’amore. E quattrini. Fare all’amore, mangiare, bere e dormire. E quattrini» (Sergio Donati, Sepolcro di carta, Mondadori, Milano, 1956, p. 48).
Più di mezzo secolo fa, in quello che rimane forse uno dei primi ‘gialli all’italiana’, era già molto chiaro, almeno per il grande Sergio Donati, quali vette di cinismo potesse toccare il mondo dell’informazione. Da allora, ovviamente, non si può dire che la situazione sia migliorata. E la prova non va ricercata tanto – o soltanto – nella marea di pettegolezzi, scandali e immondizia che popola le pagine di quotidiani, settimanali e rotocalchi popolari. La testimonianza più evidente del decadimento del mondo dell’informazione va individuata piuttosto nel profilo del dibattito ‘alto’, nelle letture proposte dagli ‘esperti’, o nelle solenni sentenze somministrate ogni giorno da legioni di opinionisti.
Naturalmente – e fortunatamente – i fiumi di inchiostro che scorrono sui nostri giornali sono quasi senza eccezioni destinati a essere dimenticati nel giro di qualche ora, così come tutti quegli editoriali, di volta in volta definiti ‘autorevoli’, ‘fondamentali’, ‘chiarificatori’, condannati a non lasciare alcuna traccia. Ai fini di una fenomenologia dell’informazione contemporanea sarebbe invece opportuno classificare sistematicamente editoriali, interviste, interventi televisivi e radiofonici di alcuni tra i principali ‘esperti’ che, in Italia o nel mondo, si esercitano ogni giorno a stilare diagnosi – ovviamente ‘impietose’ – e a dettare ricette, prevedibilmente centrate su drastiche ‘terapie d’urto’ (cui fortunatamente nessuno dà veramente retta).
Come è noto, la schiera degli esperti beneficia soprattutto del prezioso apporto dei cultori delle scienze economiche, che – in Italia, come altrove – detengono infatti un ruolo quasi egemonico nell’indirizzare il dibattito pubblico, nel censurare decisioni politiche, nell’indicare ricette, oltre che nella difficile arte della ‘previsione’. Quale sia l’esatta dose in cui nei pareri dei più noti esperti economici si combinino presunzione, arroganza e inettitudine è una questione su cui molti critici discutono da tempo. E, per quanto gli attacchi ricevuti negli ultimi tempi da questo eterogeneo gruppo professionale appaiano (e siano) probabilmente ingenerosi, una simile ostilità è ampiamente giustificata dalla scarsa lucidità mostrata dai più noti editorialisti economici.
In un libro di un paio di anni fa, Marco Cobianchi (Bluff. Perché gli economisti non hanno previsto la crisi e continuano a non capirci niente, Orme, Milano, 2009), ha raccolto alcuni degli editoriali apparsi nei mesi precedenti l’esplosione della crisi globale. Come noto, solo pochi osservatori avevano effettivamente previsto la crisi dei mutui americani, anche se alcuni economisti avevano chiaramente messo in luce le dimensioni assunte dalle attività finanziarie e i rischi cui una simile bolle esponeva. Ma, tra questi, ovviamente non si collocava nessuna della firme economiche che campeggiano sulle prime pagine dei nostri quotidiani. Per esempio, Alberto Alesina, commentatore del «Sole 24 Ore», docente nella prestigiosa Università di Harvard e paladino di un radicale liberismo economico, scriveva nell’agosto del 2007, quando la crisi dei mutui subprime aveva già iniziato a emergere: «Non ci sarà nessuna crisi del 1929 come dice Tremonti: quella in atto è una correzione come ce ne sono state tante altre, e le Banche centrali stanno reagendo in maniera appropriata. Inoltre, anche se non è possibile prevederne l’andamento giorno per giorno, i mercati quando scendono, scendono in fretta, perciò non mi stupirei se fossimo già vicini alla fine della caduta. No, non vedo in arrivo lo scoppio di una bolla come quella della New Economy. I mercati hanno i loro alti e bassi, le pause sono fisiologiche. Ultimamente si era esagerato in po’ a prestare denaro grazie a tassi d’interesse troppo bassi, ora è in atto una forte correzione, tutto qui» («La Stampa», 20 agosto 2007). E circa un mese dopo ribadiva: «Finora non è accaduto nulla di catastrofico, né a mio parere accadrà. È straordinariamente difficile prevedere quali saranno le conseguenze sulla crescita dell’instabilità dei mercati finanziari. Nessuno sa bene cosa succederà nei prossimi mesi. Quasi sicuramente nulla di disastroso» («Sole 24 Ore», 27 settembre 2007). Francesco Giavazzi, vero e proprio maître à penser del liberismo italiano, si manteneva sulla stessa linea di Alesina, in collaborazione col quale ha d’altronde firmato diversi best-seller sulla necessità per l’Italia di liberalizzare e di fare piazza pulita di caste e corporazioni che immobilizzano l’economia: «La crisi del mercato ipotecario americano è seria, ma difficilmente si trasformerà in una crisi finanziaria generalizzata. Nel mondo l’economia continua a crescere rapidamente. La crescita consente agli investitori di assorbire le perdite ed evita che il contagio si diffonda» («Corriere della Sera», 4 agosto 2007). Nei mesi in cui la crisi muoveva i primi passi, anche un altro autorevole commentatore economico del «Sole 24 Ore» non fece mancare al coro la propria voce, scrivendo, nell’agosto del 2007: «Nelle prossime settimane, una volta superata l’emergenza, si potranno valutare anche le conseguenze reali di questa crisi» («Il Sole 24 Ore»). E diversi mesi dopo, contrastando le fosche previsioni di alcuni analisti (tra cui soprattutto Nouriel Roubini), replicava il medesimo motivo: «Io non sono pessimista come Roubini né per gli Usa né per l’Europa e tantomeno per l’Italia. Grazie al dollaro debole, come sempre fanno, gli Stati Uniti stanno esportando un po’ dei loro problemi. Per questo, la loro recessioni non sarà così grave. Di questa situazione tuttavia, per forza di cose, l’Europa ne risente. Ma anch’essa sta spalmando i contraccolpi della crisi americana in tutto il mondo. L’Italia, a sua volta, eredita questi scompensi e dovrà tirare un po’ la cinghia. Si sentono tanti allarmi, tanti bla-bla. Ma se i nostri fondamentali sono buoni – e sono buoni – che importa se per un anno, questo, ci sarà crescita zero? Ripeto: io non sono pessimista. Al massimo, vorrà dire che noi tutti soffriremo un po’ di più» («la Repubblica», 29 febbraio 2008).
È naturalmente difficile capire per quale motivo esperti così stimati e autorevoli abbiano sbagliato in modo così clamoroso, non su un piccolo dettaglio, ma su uno degli eventi economici più importanti degli ultimi centocinquanta anni, e non a distanza di decenni, ma solo di alcuni mesi (o poche settimane). Le spiegazioni che sono state fornite chiamano in causa la deriva ‘tecnicista’ della scienza economica, che si affiderebbe ormai soltanto a modelli matematici, ripetitivi, senza contatto con la realtà dei processi economici, e perciò incapaci di prevedere l’irrompere sulla scena del ‘cigno nero’, ossia dell’evento imprevisto – e imprevedibile – che muta la direzione della storia. In questo modo, forse, si finisce con l’investire un immenso campo disciplinare di tutte colpe, e probabilmente vengono coinvolti in questa critica anche economisti seri e responsabili. Ma, soprattutto, si finisce col pensare che davvero quelle previsioni, così solennemente pronunciate dagli esperti citati, abbiano alle spalle una meditata riflessione, e non siano invece l’esito di convinzioni ideologiche – sempre quelle, a ben vedere – declinate, semplificate, deformate, stiracchiate fino al punto da poter diventare un abito buono per ogni stagione e per ogni situazione. D’altro canto, più ancora delle previsioni clamorosamente smentite, appaiono formidabili – nell’esemplificazione di una presunzione esaltata da una protervia nichilista – le giustificazioni elaborate all’esplosione della crisi. E addirittura proverbiale è diventata quella proposta sulle pagine della «Repubblica» da Tito Boeri e Luigi Guiso, a proposito della crisi dei mutui subrime negli Usa: «Tre fattori contribuiscono alle difficoltà dei mercati finanziari indotte dai (temuti) defaults sui muti subprime negli Stati Uniti: i) la bassa alfabetizzazione finanziaria delle famiglie; ii) l’innovazione finanziaria insista nella massiccia cartolarizzazione di attività illiquide e iii) la politica dei bassi tassi d’interesse seguita dalla Fed dal 2001 al 2003» («la Repubblica», 22 agosto 2007).
Se i clamorosi errori di valutazione accumulati negli ultimi anni rimangono un mistero, gli storici di domani probabilmente non si chiederanno perché gli economisti non abbiano previsto l’irrompere della crisi, bensì perché il mondo occidentale abbia riconosciuto (e continui ancora oggi a riconoscere) un prestigio sociale tanto elevato a osservatori le cui capacità divinatorie si sono rivelate così drammaticamente e palesemente inferiori a quelle di tanti cartomanti da trivio. Ma, prese nel loro complesso, queste posizioni confermano almeno due cose: in primo luogo, il carattere ‘ideologico’ che la scienza economica – come ogni scienza sociale – porta inscritto nel proprio codice genetico, nell’utilizzo di categorie che – come avviene per concetti all’apparenza più evanescenti, come ‘democrazia’, ‘politica’, ‘Stato’, ‘nazione’, ecc. – ‘incorporano’ un determinato assetto delle relazioni di potere; in secondo luogo, il fatto che da questa distorsione ‘originaria’ scaturiscono una serie di errori fondamentali e una lettura del tutto deformata della realtà contemporanea delle nostre economie (come, per esempio, l’idea che sia effettivamente possibile scindere l’economia reale dall’economia finanziaria, e che, dunque, sia davvero utile guardare ai «fondamentali», come se fossero qualcosa che non ha nulla a che vedere con l’economia finanziaria).
La risposta al quesito sui motivi che stanno alla base degli sconcertanti abbagli di molti osservatori non è, a ben vedere, così misteriosa. Nella logica dell’informazione, gli esperti non servono effettivamente a ‘comprendere’, ma solo a proporre qualcosa di ‘premasticato’ e ‘preruminato’, se non addirittura soltanto a riempire con qualche commento e qualche provocazione uno spazio altrimenti destinato a restare bianco. Nelle loro acrobazie, non fanno che esercitarsi sul filo di quelle convenzioni che – come ha sostenuto Francois Orléan (vedi in particolare i contributi raccolti in Dall’euforia al panico. Pensare la crisi finanziaria e altri saggi, a cura di Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli, Ombre corte, Verona, 2010) – sono il vero metro che gli operatori finanziari adottano per orientarsi. E il pubblico, in questo gioco delle parti, sembra condannato a ‘digerire’ tutto, e a procedere spedito – come scriveva Donati – verso «l’affondamento del genere umano nell’idiozia».
Anche in questi giorni, gli editoriali di osservatori, economisti ed esperti finanziari non fanno che girare attorno all’orlo di un pozzo che non viene mai nominato, se non per escludere l’eventualità che ci si possa cadere, o per agitare questa possibilità come formidabile arma di ricatto politico. Ma, nonostante tutte le rassicurazioni, è ormai chiaro che l’eventualità di una fuoriuscita dall’euro da parte dei cosiddetti Piigs è assai più probabile che la loro permanenza, così come la prospettiva del default da parte di Grecia, Italia (e forse Spagna) appare molto più realistica – e opportuna – di improbabili ‘riforme strutturali’, in grado, al tempo stesso, di tagliare la spesa pubblica, aumentare le tasse e far ripartire l’economia. Ovviamente, di tutto questo trapela ben poco sulle pagine dei nostri quotidiani, e il rischio dei prossimi mesi sarà quello di imporre a Italia e Spagna sacrifici drammatici, ma del tutto inutili, come quelli che sono stati imposti ai cittadini greci nell’ultimo anno. E con prevedibile puntualità, gli esperti non faranno mancare l’indicazione di ricette per tornare a crescere (un esempio si può trovare sul «Corriere della Sera» del 24 ottobre 2001, dove Alesina e Giavazzi, proprio quelli che non avevano previsto nulla della crisi finanziaria in arrivo nel 2008, stilano addirittura un decalogo di riforme in grado di ‘rilanciare’ l’economia italiana).
In questo mare di omertoso silenzio e di furore ideologico, il nuovo pamphlet di Loretta Napoleoni, Il contagio, benché fornisca una visione un po’ troppo apologetica degli indignados (e un po’ troppo indulgente nell’appoggiare l’inclinazione ‘impolitica’ di questa protesta), ha almeno il merito di fornire una onesta analisi dell’attuale crisi europea. La tesi di fondo di Napoleoni è che le rivolte della ‘Primavera araba’ sono destinate a contagiare anche la sponda settentrionale del Mediterraneo, e che le popolazioni di Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e forse della Francia si troveranno a combattere una pacifica rivolta contro élite corrotte e incapaci, la cui miopia ha condotto alla situazione attuale. In questo senso, Napoleoni considera gli indignados della Puerta del Sol come un’anticipazione dei movimenti che, nei prossimi mesi, costringeranno le leadership europee ad abbandonare il campo a nuove leve e, soprattutto, ad adottare nuove linee di intervento in campo economico. Forse Napoleoni sottovaluta le attitudini trasformistiche della classe politica mediterranea, ma il punto è che secondo l’economista – come scrive nel Prologo, scopertamente apocalittico – siamo alla vigilia di un mutamento radicale, forse persino ai primi passi di una rivoluzione pacifica:

«Un virus micidiale aleggia sul Mediterraneo. Dal Nordafrica viaggia verso l’Europa, apparentemente inarrestabile. A maggior rischio è la parte più giovane della società civile, ma anche i meno giovani possono infettarsi.  È la peste democratica. La pandemia rivoluzionaria minaccia persino l’America, il cuore dell’Impero occidentale globalizzato. È lo spauracchio di tutti, ma proprio tutti i politici del mondo: il contagio. Per questo virus infatti non esistono anticorpi né antibiotici, è un’infezione atipica, nuova frutto della confluenza di due epidemie: la crisi del debito sovrano e quella di istituzioni politiche ormai fuori tempo e fuori uso. La prima fiacca la ricchezza, ovvero il sistema immunitario dei Paesi, la seconda ne attacca gli organi di governo. Se non contrastato, il contagio potrebbe distruggere a Nord gli agonizzanti sistemi democratici europei con la stessa forza e determinazione con la quale a Sud si fa strage delle dittature arabe. La domanda è: sarebbe un male?» (ibi, p. 13).

L’analisi di Napoleoni sviluppa l’analogia fra le rivolte della ‘Primavera araba’, che si sono indirizzate contro oligarchie corrotte, e le prossime rivolte dell’indignazione, che in Europa stanno iniziando a mettere sotto accusa le leadership del Vecchio continente. Ma il focus della sua rilettura si rivolge soprattutto sulle origini (e sui probabili sviluppi) della crisi dell’euro. E l’inizio è individuato proprio nel fatale passaggio dei primi anni Novanta, quando si pongono le basi della moneta unica. L’entrata nell’euro viene considerata come un’opportunità positiva per Paesi ricchi e scarsamente indebitati come Germania e Francia, perché una moneta ‘debole’ (più debole del vecchio marco) può rendere più competitive le esportazioni dei loro prodotti (e infatti la Germania è oggi il secondo esportatore mondiale dopo il colosso cinese). A Paesi come l’Italia, l’adozione della moneta unica può invece consentire di accedere al mercato dei capitali in modo più agevole, ossia a tassi di interesse più bassi (dal momento che con l’euro non saranno più possibili svalutazioni delle monete nazionali). Per rispettare i parametri fissati dal Trattato di Maastricht, tutti i governi impongono una disciplina ai loro conti. Ma – come si scoprirà diversi anni dopo – spesso questa apparente disciplina nasconde una realtà ben diversa, anche perché non viene neppure intaccata la spirale di corruzione, evasione fiscale e gestione clientelare della spesa pubblica. Il caso italiano da questo punto di vista è emblematico: nel periodo dal 1993 al 2000, la spesa pubblica diminuisce in termini reali del 5,14%, ma nel periodo successivo – dal 2001 al 2008 (e cioè prima della crisi) – torna a crescere del 20% (cfr. pp. 57-58). Naturalmente, questo può stupire chi ha creduto che le riforme dell’amministrazione pubblica, le privatizzazioni, le esternalizzazioni, la riforma del titolo V, l’equiparazione dei pubblici dipendenti a quelli privati, le misure efficientistiche potessero produrre realmente una razionalizzazione della spesa dello Stato. Ma non stupisce affatto chi ha visto, nelle misure della pretesa ‘razionalizzazione’, una realtà opposta: perché si sono semplicemente aumentati i margini di discrezionalità della classe politica, si sono creati centri di spesa totalmente fuori controllo e si sono ‘legalizzati’ i legami clientelari, col risultato paradossale che a uscire rafforzata da un ventennio di ‘riforme’ e ‘liberalizzazioni’ (vere o solo proclamate) è stata soltanto quella ‘casta’ pletorica e parassitaria verso cui si indirizza – ormai quasi in modo unanime – il disprezzo dei cittadini italiani.
La crescita della spesa pubblica segue peraltro, dopo il 1993, sentieri spesso occulti. Come ormai è risaputo, la Grecia opera sulla propria contabilità una serie di operazioni finalizzate a mascherare l’effettivo superamento della soglia del 3% del Pil fissato dal Trattato di Maastricht, e altri Paesi fanno sostanzialmente la stessa cosa. Oltre a questo meccanismo, i governi nazionali riescono ad evitare il controllo sulla spesa mediante i cosiddetti currency-swaps, un tipo di derivati che nascondono un prestito trasformando un debito presente in una passività futura. Inoltre, enti locali e regioni accedono alla ‘cartolarizzazione del debito’, senza che simili operazioni vengano inserite nella contabilità nazionale. Questo meccanismo – che è stato adottato da tutti i Piigs – è il motivo principale per cui, come scrive Napoleoni, le dimensioni reali del debito greco rimangono sostanzialmente sconosciute:

«Il debito greco come quello degli altri Piigs è ingestibile soprattutto perché […] nessuno ne conosce le dimensioni reali. E vale la pena di elencare i futuri atti di questa moderna tragedia greca. Ufficialmente, ad agosto del 2011, Atene deve ripagare 6 miliardi di euro, che non ha e che l’Unione europea le ha anticipato. Nel 2012, poi, ci sono altri 14,4 miliardi da restituire entro marzo, 8 entro il 18 maggio e ulteriori 7 ad agosto, per un totale di quasi 30 miliardi di euro. Quante nuove scadenze compariranno nel corso del tempo? Da dove arriveranno tutti questi soldi se il Paese è a crescita negativa e non ha più accesso al mercato del credito? La risposta è il cosiddetto Piano Marshall europeo. Trentacinque miliardi di euro!» (ibi, p. 67).

Il punto chiave del pamphlet di Napoleoni consiste però nelle strategie di uscita da questa situazione. In sostanza, si tratta di una crisi simile a quella in cui si trovò l’Argentina nel 2001, anche perché alcune delle cause sono analoghe. Anche l’Argentina aveva infatti agganciato la propria moneta al dollaro, privandosi così della possibilità di svalutare, ma evitando il rischio dell’inflazione. Inoltre, il Paese latino-americano aveva adottato una serie di riforme strutturali, come la privatizzazione delle pensioni. Per alcuni anni, gli effetti furono positivi, ma, dopo la crisi asiatica, l’impennata degli acquisti delle obbligazioni argentine fece esplodere la bolla speculativa, mentre la crisi economica brasiliana inflisse il colpo di grazia, determinando un rallentamento della crescita e, dunque, la difficoltà da parte dello Stato di onorare il debito. L’economia argentina si disgregò nel giro di poche settimane, e la situazione politica divenne ingovernabile. A questo punto, la bancarotta argentina innescò un’inversione di marcia, e, dopo un periodo di difficoltà, il Paese adottò una formula fondata su inflazione e crescita (e dunque una formula completamente diversa da quella prescritta dal Fmi). Ed è proprio questa la strada che Napoleoni – pur con le inevitabili differenze – ritiene debba essere imboccata dai Piigs.
In effetti, oggi le economie dei Piigs si trovano stretti in una tenaglia: per rispondere alle richieste della Bce e dei Paesi ‘forti’, i Piigs dovrebbero adottare riforme ‘draconiane’, volte ad aumentare l’imposizione fiscale e a tagliare la spesa pubblica (riducendo il personale delle pubbliche amministrazione o tagliando i salari); queste misure avrebbero però effetti depressivi su una crescita peraltro già estremamente esile, e così la riduzione degli introiti fiscali aggraverebbe ulteriormente lo stato dei conti pubblici. Ma, ovviamente, il vero scopo di queste misure non consisterebbe tanto negli effetti reali sui conti pubblici, quanto negli effetti ‘psicologici’. Effetti che consistono nell’introduzione di ‘privatizzazioni’ e ‘liberalizzazioni’, oltre che  nella ‘rassicurazione’ (temporanea) dei mercati. 
Se la soluzione per Napoleoni non passa per il taglio della spesa pubblica, non può che passare invece dalla svalutazione. Ma una simile soluzione richiederebbe ovviamente l’uscita – almeno temporanea – dei Piigs dall’area dell’euro e, soprattutto, la dichiarazione della propria insolvenza. La prospettiva della bancarotta dello Stato viene presentata in termini catastrofici in modo quasi unanime. E, in effetti, ripensando al fallimento della Germania di Weimar – rievocato da Adam Fergusson, in Quando la moneta muore, Neri Pozza, 2011, preceduto peraltro da una prefazione della stessa Napoleoni – è chiaro che il default può comportare elevatissimi costi sociali (anche se è bene ricordare che il caso tedesco nasceva da una condizione opposta di sistematico ricorso alla svalutazione e di inflazione totalmente fuori controllo). Napoleoni – esaminando il caso dell’Argentina e dell’Islanda – punta invece a mostrare come l’ipotesi del default non sia né apocalittica, né necessariamente disastrosa per la popolazione. Sono da questo punto di vista da leggere con attenzione i passaggi conclusivi del pamplhet:

«Le esperienze dell’Argentina e dell’Islanda ci insegnano che un default pilotato attuisce l’impatto negativo sull’economia nazionale. Se si riesce a garantire il debito interno l’economia non precipita nell’abisso. Per farlo, un Paese come l’Italia deve trovare circa 800.000 miliardi, un po’ più della metà del debito pubblico, quella fetta insomma che hanno sottoscritto banche e cittadini. L’unico modo è una tassa secca, una tantum sul patrimonio. E dato che l’un per cento della popolazione detiene il 45 per cento della ricchezza, è già chiaro chi dovrà pagare.
Diverso è il discorso per il debito pubblico nelle mani degli operatori esteri, con i quali bisognerà negoziare una ristrutturazione. E qui entra in gioco l’effetto domino. Dato che una grossa fetta è stata acquistata dalle banche francesi e tedesche, saranno queste a incassare il colpo. Se anche il resto dei Paesi Piigs scegliesse la strada del default pilotato, allora sicuramente una buona parte di queste banche rischierebbe il fallimento.  Dunque è possibile che il default pilotato dei Paesi deficitari trascini nella stessa melma anche quelli ricchi.  Ciò che Germania e Francia vogliono evitare a tutti i costi» (ibi, p. 169).

Naturalmente, Napoleoni è ben consapevole delle difficoltà che uno scenario del genere presenta, perché la svalutazione rischierebbe di alimentare le tensioni fra gli Stati dell’Ue, e perché una decisione di questo tipo avrebbe conseguenze dirompenti a livello politico. Ma, con ogni probabilità, è proprio questo lo scenario verso cui l’Ue si muoverà nelle prossime settimane.
Dinanzi alle ricette che vedono nella ‘liberalizzazione’ la panacea capace di risolvere la crisi, sarebbe forse opportuno ricordare che la costante flessibilizzazione del mercato del lavoro, l’aumento degli orari di lavoro, la ‘rivoluzione tecnologica’ degli anni Novanta e l’ascesa del modello Walmart non hanno condotto negli Stati Uniti a un rilancio sostanziale e continuativo della crescita, e che la strutturale ‘finanziarizzazione’ nasce proprio da questa strisciante e perdurante crisi di profittabilità, così come scaturisce da questo contesto anche la vertiginosa crescita fatta registrare dal debito pubblico americano negli ultimi anni. 
Oggi bisogna forse riconoscere – come sostiene persuasivamente Napoleoni – che la prospettiva del default (di un default pilotato) è probabilmente inevitabile.  Che si tratta di una prospettiva che certo imporrà molti costi, a livello interno e a livello internazionale, e che avrà ricadute imprevedibili per lo stesso futuro dell’Unione Europea. Ma che, in ogni caso, una simile soluzione comporterà sacrifici molto meno gravi di quelli che sarebbero richiesti da un ormai sempre più improbabile salvataggio dell’euro, e che colpirebbero in modo drammatico – e duraturo – le giovani generazioni, il profilo industriale dell’Italia e l’insieme dei ‘beni comuni’. Forse è meglio iniziare a pensarci seriamente, con realismo e senza infingimenti. Per evitare di seguire la Grecia su un sentieri di drammatici sacrifici, che non condurranno ad alcun risultato.


Damiano Palano



Questo testo è ora raccolto in La dissolvenza democratica. Cronache nella crisi, un e-book che raccoglie alcuni posti apparsi sul maelstrom.

Il libro è disponibile anche in formato cartaceo.




lunedì 24 ottobre 2011

Il capitalismo multipolare. La trasformazione geo-economica nei libri di Valerio Castronovo e Andrea Goldstein

di Damiano Palano
 


 
Anche se sembra trascorso molto più tempo, sono passati solo dieci anni da quando i vertici del G-7 venivano fastosamente celebrati (e severamente contestati ) come l’organo di governo del mondo. Oggi i «sette grandi» ci appaiono infatti molto meno grandi, e la loro pretesa di ‘governare’ il mondo si rivela come drammaticamente irrealistica. Non certo perché il pianeta non abbia una necessità vitale di decisioni coordinate. Ma perché nel primo scorcio del XXI secolo la geografia del potere e dell’economia globale è cambiata radicalmente. E perché nuovi protagonisti rendono il quadro del mondo multipolare molto più complesso rispetto al passato.
Nel gruppo dei principali paesi in ascesa – i cosiddetti Bric, cui è dedicato il recente volume di Andrea Goldstein (Bric. Brasile, Russia, India, Cina alla guida dell’economia globale, Il Mulino, pp. 176, euro 15.00) – la presenza della Russia non è certo troppo sorprendente, se non altro perché raccoglie l’eredità della vecchia superpotenza sovietica. Ma, al tempo stesso, proprio l’ex impero di Mosca appare come il membro più fragile fra gli emergenti, sia perché la sua rinascita economica è legata prevalentemente all’esportazione di risorse energetiche, sia perché le prospettive future di sviluppo trovano un robusto ostacolo nel calo demografico. Un discorso ben diverso riguarda invece gli altri tre componenti del gruppo, che non solo fanno registrare annualmente notevoli tassi di crescita economica, ma mostrano anche potenzialità demografiche che non hanno precedenti nella storia.
Uno degli aspetti più importanti del mutamento – come sottolinea Valerio Castronovo nel suo Il capitalismo ibrido. Saggio sul mondo multipolare (Laterza, pp. 145, euro 12.00) – è dato dal fatto che i modelli sociali e politici dei nuovi protagonisti dell’economia globale sono nettamente diversi da quelli sperimentati dall’Occidente. La Cina ha infatti dato vita a una sorta di ‘economia socialista di mercato’, in cui alcuni elementi della vecchia ideologia maoista e un sistema politico autoritario si combinano con una ripresa del confucianesimo, all’insegna dell’immagine di una ‘società armoniosa’. L’India, invece, ha imboccato la via dello sviluppo conservando le proprie istituzioni democratiche e puntando soprattutto su una classe media istruita. Infine, il Brasile è diventato la settima economia mondiale rivisitando il vecchio populismo di Vargas, ma puntando anche su consistenti risorse energetiche e spazi geografici enormi.
Naturalmente, si tratta di paesi attraversati da profonde contraddizioni, e a un certo punto, la prosecuzione della loro marcia non potrà che scontrarsi con una serie di nodi irrisolti. La Cina dovrà per esempio riuscire a estendere i consumi interni senza alimentare una conflittualità ingovernabile. Il ‘miracolo indiano’ dovrà prima o poi fare i conti con le carenze infrastrutturali e con quegli intrecci fra politica e affari che rischiano di allontanare gli investitori stranieri. E il Brasile dovrà tenere sotto controllo i ritmi di crescita, per evitare che si crei un’ingestibile spirale inflazionistica. Nondimeno, è certo che Cina, India e Brasile saranno anche in futuro attori fondamentali dell’economia globale. E ciò pone problemi radicalmente nuovi sotto il profilo politico.
In effetti, è ormai piuttosto evidente che oggi le istituzioni internazionali costruite all’indomani della seconda guerra mondiale non sono più adeguate. Ma non è ancora chiaro quali possano essere le basi politiche su cui rifondare quelle istituzioni di cui il nostro mondo multipolare e interconnesso ha un bisogno tanto urgente. Il rischio, allora, è che finiscano col prevalere una rassegnazione fatalistica e un senso generalizzato di impotenza. E che lo spostamento dei poli geo-economici possa alimentare – sia in Occidente, sia nei paesi in ascesa – nuovi egoismi e vecchi risentimenti.


Damiano Palano

Valerio Castronovo, Il capitalismo ibrido. Saggio sul mondo multipolare, Laterza, pp. 145, euro 12.00.
Andrea Goldstein, Bric. Brasile, Russia, India, Cina alla guida dell’economia globale, Il Mulino, pp. 176, euro 15.00.


(Questo articolo è apparso, con il titolo Bric, i timonieri dello sviluppo, su "Avvenire" del 22 ottobre 2011)






sabato 22 ottobre 2011

Bric, i timonieri dello sviluppo. Oggi su "Avvenire"

Oggi su "Avvenire", Bric, i timonieri dello sviluppo, una recensione di Valerio Castronovo, Il capitalismo ibrido. Saggio sul mondo multipolare (Laterza, pp. 145, euro 12.00) e Andrea Goldstein, Bric. Brasile, Russia, India, Cina alla guida dell’economia globale (Il Mulino, pp. 176, euro 15.00).

http://www.avvenire.it/



lunedì 17 ottobre 2011

Il nuovo odio per la democrazia. Uguaglianza, politica e biopolitica (a proposito di Jacques Rancière) 2/4

di Damiano Palano

segue da:
Il nuovo odio per la democrazia. Uguaglianza, politica e biopolitica (a proposito di Jacques Rancière) 1/4

2. Lo scandalo della democrazia

Un momento importante nell’itinerario di Rancière può essere collocato alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, e, in effetti, è proprio in questo periodo che, secondo il filosofo francese, il nuovo «odio per la democrazia» inizia a prendere corpo, all’interno del dibattito sulla ‘crisi’ delle istituzioni scolastiche. Anche se la discussione era partita dal riconoscimento del fallimento delle istituzioni dinanzi al compito di garantire un’effettiva eguaglianza, e quindi di ridurre il solco causato dalla stratificazione sociale, essa aveva imboccato una direzione differente. Al suo interno, era infatti emersa una posizione piuttosto definita, che criticava nettamente l’impostazione «repubblicana», ossia l’impostazione che considera la scuola come uno strumento pedagogico in grado di rendere «omogenea» la repubblica; questa posizione recuperava i motivi della vecchia protesta elitista nei confronti dell’utopia repubblicana dell’eguaglianza, una protesta che tra Otto e Novecento aveva trovato esempi eloquenti nelle voci di Hippolyte Taine e Alfred Fouillèe, e che ora si indirizzava invece contro gli effetti deleteri dell’omogeneizzazione della società. In effetti, questa critica si risolveva in un recupero delle più consolidate argomentazioni elitiste, secondo le quali l’eguaglianza prodotta dalla democrazia non può che distruggere le gerarchie sociali naturali. Il nemico da combattere, dunque, non era la disuguaglianza sociale - osserva oggi Rancière - ma «l’alunno stesso, diventato il rappresentante per eccellenza dell’uomo democratico, l’essere immaturo, il giovane consumatore ebbro d’uguaglianza, di cui i diritti umani erano la carta» (J. Rancière, L’odio per la democrazia, cit., p. 35). Muovendo dal limitato ambito della discussione sulle istituzioni scolastiche, il dibattito si sposta gradualmente verso l’intera società, ma l’obiettivo rimane sostanzialmente lo stesso, e cioè l’«uomo democratico», un individuo che la promessa di eguaglianza ha trasformato in un individuo egoista e in un consumatore avido, incapace di limitare i propri desideri e, soprattutto, incapace di riconoscere la prevalenza di qualsiasi istanza superiore. In questo passaggio, il termine «democrazia» assume un significato ben preciso, che non indica un determinato regime politico e neppure una determinata aspirazione all’autogoverno, ma una sorta di ‘regno dell’eguaglianza’.
Ovviamente, nella tradizione francese una simile declinazione può fondarsi sul precedente teorico di Tocqueville, che in effetti nella sua opera più nota aveva fissato nel termine «democrazia» quella tendenza storica – all’apparenza inarrestabile – destinata ad abbattere le gerarchie tradizionali e a realizzare l’eguaglianza. Inoltre, lo stesso Tocqueville – in realtà solo nelle pagine conclusive della Democrazia in America – aveva descritto l’homo democraticus come un individuo mosso esclusivamente dal proprio egoismo e, potenzialmente, in grado di indebolire nel tempo l’identità collettiva alla base dell’esperimento americano. È proprio a questa idea della democrazia che si rivolgono molti degli autori criticati da Rancière, come, per esempio, Dominique Schnapper (La democrazia provvidenziale. Saggio sull’eguaglianza nella società contemporanea, Vita e Pensiero, Milano, 2004; ed. or. La démocratie provvidentielle. Essai sur l’égalité contemporaine, Gallimard, Paris, 2002), Alain Finkielkraut (L’impairfait du présent, Gallimard, Paris, 2002), B.H. Lévy (Le meurtre du pasteur. Critique de la vision politique du monde, Grasset-Verdier, Paris, 2002), o, seppur in modo in parte differente, Jean-Claude Milner (Les penchants criminels de l’Europe démocratique, Verdier, Lagrasse, 2003). Proprio richiamandosi a Tocqueville, Schnapper si riferisce così alla democratizzazione per intendere «l’allargamento a tutti i settori della vita sociale dell’idea di eguaglianza degli uomini e gli effetti di quest’allargamento» (D. Schnapper, La democrazia provvidenziale, cit., p. 15). Una simile definizione della democrazia appare a Rancière rilevante, innanzitutto, per l’equivoco rimando a Tocqueville: «Per poter fare di Tocqueville il profeta del dispotismo democratico e il pensatore della società di consumo, occorre ridurre i suoi due grossi libri a due o tre paragrafi di un capitolo del secondo libro, che allude al rischio di un nuovo dispotismo. E inoltre occorre dimenticare che ciò che Tocqueville soprattutto temeva era il potere assoluto, esercitato da un capo al vertice di uno stato centralizzato, su una massa depoliticizzata, e non questa tirannia dell’opinione democratica di cui oggi tutti parlano» (J. Rancière, L’odio per la democrazia, cit., pp. 28-29), Ma, soprattutto, perché si tratta di un’operazione basata su una triplice trasformazione del significato di «democrazia»:

«in primo luogo la democrazia viene ricondotta a una forma di società; in secondo luogo questa forma di società viene identificata con il regno dell’individuo egualitario, sussumendo sotto questo concetto le qualità più disparate, che vanno dalla grande distribuzione fino alle rivendicazioni per i diritti delle minoranze, passando per le lotte sindacali; e infine viene imputata alla ‘società individualista di massa’, identificata così con la democrazia, la ricerca di un incremento infinito, che è insista nell’economia capitalista» (ibi, p. 28).

In questo modo, nel discorso sviluppato da Schnapper, la «democrazia» viene a coincidere senza residui con l’homo democraticus, con un individuo guidato dai propri inesauribili desideri, che guarda allo «Stato-provvidenza» solo come a un erogatore di servizi e, dunque, come a un garante della propria eguaglianza. La critica verso la «democrazia-provvidenza», pertanto, coinvolge una molteplicità di attori e dinamiche, ma tende a identificare la democrazia con la figura di un homo democraticus spinto esclusivamente dai propri insaziabili appetiti. Una simile accusa – osserva polemicamente Ranciére – «pretende di descriverci lo stato del nostro mondo così come è stato modellato dall’uomo democratico nelle sue varie figure: consumatore tanto di medicine quanto di sacramenti, sindacalista che cerca di ottenere sempre di più dallo stato-provvidenza, rappresentante di una minoranza etnica che rivendica il riconoscimento della propria identità, femminista militante per le quote rosa, alunno che considera la scuola come un supermercato in cui il cliente è un re» (ibi, p. 26). E, così, «la figura del consumatore democratico ebbro d’uguaglianza sarà identificato, a seconda dell’umore e dei bisogni della causa, con il salariato rivendicativo, con il disoccupato che occupa i locali dell’ufficio di collocamento o con l’immigrato clandestino respinto nelle zone d’attesa degli aeroporti» (ibi, p. 38). L’aspetto principale che Rancière mette in luce consiste però nell’esito di questo «processo di cancellazione della figura politica della democrazia, avvenuto mediante una convergenza tra descrizione sociologica e giudizio filosofico» (ibi, p. 29). La critica della democrazia-provvidenza e dell’homo democraticus si basa, in sostanza, sulla contrapposizione netta «fra un’umanità adulta fedele alla tradizione che l’istituisce, e un’umanità puerile condotta all’autodistruzione dal suo sogno di generarsi nuovamente» (p. 38). E, in questo modo, diventa possibile fondere – attorno al tema democrazia – filoni critici ben diversi. In primo luogo, si possono individuare nella società democratica – cioè nella società in cui regna l’«uomo democratico» e in cui l’unico obiettivo è la realizzazione di un’eguaglianza che tende all’omogeneità – gli stessi tratti del totalitarismo, ossia di quella forma di organizzazione politica guidata dalla volontà di rendere omogenea la società e ‘uguali’ gli individui, anche mediante la violenza. In secondo luogo, l’enfasi sull’estensione illimitata dei bisogni e sul carattere inesauribile degli appetiti individuali - rovesciando gli obiettivi della critica al consumismo prodotta dal Sessantotto e sviluppata da intellettuali come Jean Baudrillard - richiama anche la logica di espansione del capitale descritta da Marx. All’interno della discussione sulla società democratica, questi due differenti percorsi vengono a congiungersi e, ovviamente, a mutare di segno, diventando gli strumenti affilati di una critica dell’egualitarismo e della «democrazia-provvidenza». Come osserva Ranciére:

Il tema della ‘società illimitata’ riassume in forma sintetica l’abbondante letteratura che riunisce nella figura dell’‘uomo democratico’ il consumatore di impermercati, l’adolescente che rifiuta di togliersi il velo e la coppia omosessuale che vuole avere figli. Riassume soprattutto la duplice metamorfosi che ha attribuito alla democrazia sia la forma di omogeneità sociale, precedentemente attribuita al totalitarismo, sia il movimento illimitato di autoincremento proprio della logica del Capitale. E indica così il punto culminante della rilettura francese del double bind democratico. La teoria del double bind contrapponeva il buon governo democratico al duplice eccesso rappresentato dalla vita politica democratica e dall’individualismo di massa. La rilettura francese elimina la tensione dei contrari. La vita democratica diventa la vita apolitica del consumatore indifferente di merci, di diritti delle minoranze, di industria culturale e di figli fatti in provetta. Essa s’identifica puramente e semplicemente con la ‘società moderna’, trasformandola così in una configurazione antropologica omogenea (ibi, pp. 38-39).

È piuttosto scontato che l’opposizione fra un’«umanità adulta» e un’«umanità puerile», incapace di governarsi, si accompagni al nostalgico rimpianto per il «governo pastorale», e cioè per un modello di governo basato «sulla cura del pastore divino che si occupa di tutte le sue pecore e di ciascuna di loro» (ibi, p. 41). Nella logica di questo discorso – il cui riferimento polemico è soprattutto a B.H. Lévy (Le Meurtre du Pastor. Critique de la vision politique du monde, Grasset- Verdier, Paris, 2002) – la democrazia rompe l’ordine della filiazione, ma, nello stesso tempo, perde anche ogni capacità di auto-governarsi, finendo col restare vittima del proprio sfrenato individualismo. «Al posto della ‘Voce-verso-Mosé’ è un ‘uomo-Dio-morto’ che ci governa». E quest’ultimo, osserva Ranciére, riassumendo le tesi di Lévy, «può governare solo diventando il garante dei ‘piccoli godimenti’ che mettono a profitto la nostra grande miseria di orfani condannati a errare in quell’impero del vuoto che è, indifferentemente, il regno della democrazia, dell’individuo e del consumo» (J. Rancière, L’odio per la democrazia, cit., p. 42). Proprio il riferimento al governo pastorale, come modello di «buon governo», tradisce però il nucleo cruciale della contemporanea critica della democrazia.
Pur mostrando dei caratteri inediti, l’«odio per la democrazia» ha d’altronde delle radici profonde, che non affondano soltanto nella tradizione elitaria o nella critica dell’eugualitarismo, ma nella stessa critica alla «politica». Secondo Ranciére, infatti, «sotto il nome di democrazia s’intende e si denuncia la politica stessa» (ibi, p. 43), o, meglio, quella dimensione dell’agire umano che la tradizione occidentale – a partire dall’esperienza greca – definisce come «politica». Il discorso che lega insieme la forma democratica all’egoismo sfrenato del popolo, e all’anarchia dei suoi insaziabili appetiti, è d’altronde ben presente nella filosofia di Platone, oltre che in testi come Athenaion Politeia, ascrivibili ai circoli di fuoriusciti conservatori. «Platone», nota lo stesso Rancière, «è stato il primo a inventare questa lettura sociologica che consideriamo tipica dell’epoca moderna, questa interpretazione che scova sotto le apparenze della democrazia politica una realtà contraria: la realtà di una società in cui a governare è l’uomo privato, egoista» (ibi, p. 45). In realtà, sostiene Rancière, la democrazia non consiste in questo, ma piuttosto in ciò che caratterizza la politica e ne segna la specificità fin dal principio, ossia la fine di qualsiasi principio  naturale in grado di conferire ordine all’agire umano e al governo della società. È, in altre parole, proprio dalla critica del principio della filiazione – ossia da qualsiasi principio che individua in caratteristiche ‘naturali’ il titolo all’esercizio della potestà di governo – che scaturisce la politica. «Se politica significa qualcosa, si tratta di qualcosa che si aggiunge a tutti questi governi della paternità, dell’età della ricchezza, della forza o della scienza che vigono nelle famiglie, nelle tribù, nelle officine e nelle scuole, proponendo il loro modello per la costruzione di forme più larghe e più complesse di comunità umane» (ibi, p. 56). La storia, nota infatti, Rancière, «ha conosciuto due grandi principi per governare gli esseri umani: l’uno che deriva dalla filiazione umana o divina, cioè la superiorità della nascita, l’altro che risulta dalle attività produttive e riproduttive della società, cioè il potere della ricchezza» (ibi, p. 57). La democrazia è in sostanza proprio la messa in questione di entrambi questi principi:

La democrazia non è un tipo di costituzione, né una forma di società. Il potere del popolo non è quello della popolazione riunita, della sua maggioranza o delle classi operaie. È semplicemente il potere di coloro che non hanno più titoli per governare che per essere governati. Questo potere non lo si può liquidare denunciando la tirannia delle maggioranze, la stupidità del grosso animale o la frivolezza dei consumatori. Perché allora bisognerebbe liquidare la politica. La politica, infatti, esiste solo se c’è un requisito supplementare rispetto a quelli che funzionano solitamente nelle relazioni sociali. Lo scandalo della democrazia […] sta nel rivelare che il suo requisito non può essere che l’assenza di requisiti e che il governo delle società può fondarsi in ultima analisi solo sulla propria contingenza (pp. 57-58).

L’equivalenza fra democrazia e politica, istituita da Rancière, non si riferisce ovviamente ai contemporanei «regimi democratici», fondati sulla rappresentanza parlamentare, perchè il filosofo considera la democrazia come principio che mette in causa ogni principio di governo incardinato su un piano trascendente; proprio per questo, può di fatto considerare l’irrompere della democrazia come l’elemento genetico della politica; e proprio per questo, può anche contrapporre la logica della politica alla logica della polizia: se quest’ultima è infatti individuata da Rancière nei «modelli di governi e pratiche d’autorità fondate su questa o quella distribuzione dei ruoli e delle competenze», la politica inizia invece nel momento in cui il potere dei governanti – siano essi giovani o anziani, ricchi o poveri - «deve fondarsi su un requisito supplementare, sul potere di chi non ha alcuna qualità che lo predisponga a governare più che a essere governato» (p. 58). In questo passaggio il potere diventa in senso proprio «potere politico», ossia «il potere di coloro che non hanno nessuna ragione naturale per governare su coloro che non hanno nessuna ragione naturale per essere governati» (ibidem). «Il potere dei migliori», venuta meno ogni legittimazione ‘naturale’, scrive allora Rancière, «può legittimarsi in definitiva solo attraverso il potere degli uguali» (ibidem). In questo senso, il potere politico non è allora radicato su alcun solido fondamento, anzi, osserva Rancière, un governo è politico «solo se riposa sulla propria assenza di fondamento», e «la politica è il fondamento del potere di governare in assenza del proprio fondamento» (ibi, p. 60). Si tratta in altre parole di una contraddizione costitutiva della politica, che risulta fondata proprio sull’assenza di fondamento:

Perché ci sia politica c’è bisogno di un titolo d’eccezione, di un titolo che si aggiunge a quelli che ‘normalmente’ reggono le società piccole e grandi e che sono riconducibili in ultima analisi alla nascita e alla ricchezza. La ricchezza mira al suo incremento infinito, ma non ha il potere di eccedere se stessa. La nascita vi pretende, ma può farlo solo al prezzo di saltare dalla filiazione umana a quella divina. Essa fonda allora il governo dei pastori, che risolve il problema sopprimendo però la politica. Resta l’eccezione ordinaria, il potere del popolo che non è quello della popolazione o della sua maggioranza, ma il potere di chiunque, l’indifferenza delle capacità per occupare le posizioni di governante e di governato (ibidem).

E il vero «scandalo» della democrazia consiste dunque proprio nell’assenza di fondamento, «consiste semplicemente nel rivelare che non ci sarà mai, sotto il nome di politica, un principio unico della comunità, in grado di legittimare l’azione dei governanti a partire da leggi insite nel modo in cui si formano le comunità umane» (ibi, p. 63).

(continua)

l nuovo odio per la democrazia. Uguaglianza, politica e biopolitica (a proposito di Jacques Rancière) 3/4

l nuovo odio per la democrazia. Uguaglianza, politica e biopolitica (a proposito di Jacques Rancière) 4/4


Damiano Palano


martedì 11 ottobre 2011

Quando la Germania fece bancarotta. Un libro di Adam Fergusson sull'iperinflazione tedesca negli anni di Weimar

di Damiano Palano

 
Non è certo casuale che Quando la moneta muore, il saggio dedicato da Adam Fergusson all’iperinflazione tedesca nel periodo della Repubblica di Weimar, venga tradotto e presentato al pubblico italiano proprio in questi mesi, e cioè ben trentasei anni dopo la sua prima edizione inglese. La crisi finanziaria ha trasformato infatti il default di uno Stato da una semplice ipotesi a un incubo ricorrente. E una simile eventualità ha reso di allarmante attualità il caso dell’instabilità monetaria tedesca degli anni Venti, di cui Fergusson riporta alla luce le molteplici cause, le conseguenze sociali e i costi politici.
La tappa d’avvio della vertiginosa inflazione viene individuata da Fergusson nell’entrata della Germania nella Prima guerra mondiale. Confidando probabilmente in una rapida vittoria, il governo del Reich decise di finanziare lo sforzo bellico senza ricorrere all’imposizione di tasse, ma solo attingendo al credito. Contestualmente, venne anche sospesa la convertibilità in oro dei biglietti emessi dalla Reichsbank. Il Blitzkrieg si trasformò però in un’estenuante guerra di posizione. Ben presto le spese superarono largamente le entrate, e così nuove banconote iniziarono a inondare il mercato, avviando la marcia dell’inflazione.
Se questa situazione aveva già sensibilmente indebolito l’economia tedesca, la sconfitta, l’armistizio e le clausole della pace diedero alla Germania il colpo di grazia. La Repubblica nata dalle macerie della guerra non doveva peraltro affrontare solo l’emergenza di una ripresa economica resa difficile dalle riparazioni imposte a Versailles e dalla cessione dell’Alsazia-Lorena. Una minaccia ulteriore era infatti rappresentata dai tentativi di Putsch dei nazionalisti e dai progetti insurrezionalisti dell’estrema sinistra. Anche per questo, l’ipotesi di avviare una politica di risanamento mediante tagli di spesa e misure deflattive doveva essere scartata. E la soluzione adottata fu invece quella di svalutare il marco. In questo modo, si poteva garantire la competitività delle imprese tedesche e far fronte alle richieste di aumenti salariali (ammortizzando i rischi di instabilità politica). Ma questi effetti dovevano rivelarsi solo temporanei.
L’inflazione prese infatti a diventare inarrestabile, raggiungendo fra il 1921 e il 1923 livelli impressionanti. La ferma convinzione riposta nella solidità del marco lasciò il posto all’idea che lo Stato tedesco non potesse più far fronte agli impegni e che la bancarotta fosse inevitabile. L’evasione fiscale e la fuga dei capitali divennero fenomeni generalizzati. Quei cittadini che avevano prestato denaro al Reich per sostenere lo sforzo bellico, si ritrovarono invece in possesso di titoli che non avevano più alcun valore reale. E gli investimenti della classe media si dissolsero rapidamente, travolgendo tutte le tradizionali gerarchie sociali.
L’inflazione raggiunse il culmine nel dicembre del 1923, quando il marco oro arrivò alla spaventosa cifra di un milione di milioni di marchi. A quel punto, fu introdotto il nuovo Rentenmark e iniziò una relativa stabilizzazione, che non produsse comunque un benessere duraturo. Qualche anno più tardi, emersero infatti i costi sociali, tra cui soprattutto una disoccupazione di enormi proporzioni.
Naturalmente, si possono trovare alcune analogie fra la crisi odierna e la situazione della Germania di Weimar, e proprio su questi aspetti attira l’attenzione Loretta Napoleoni nelle pagine introduttive. Si tratta però di elementi che non vanno sopravvalutati, perché le due crisi maturano in un contesto internazionale piuttosto differente. L’aspetto più interessante è invece il quadro ‘psicologico’ ricostruito dal libro di Fergusson. Un quadro il cui tratto dominante, insieme alla perdita di fiducia nello Stato, è la totale incomprensione degli eventi. Come mostra Fergusson, né i comuni cittadini, né gli uomini di governo, né le potenze straniere capirono veramente cosa stesse accadendo. Così, l’incomprensione e lo smarrimento di qualsiasi certezza finirono con l’allentare ogni vincolo morale e la vita quotidiana si trasformò in una lotta ferina per la sopravvivenza.
Per questo, il ricordo del trauma del 1923, in cui nell’arco di pochi mesi furono inghiottiti patrimoni immensi, divenne indelebile. Dinanzi all’eventualità che una simile situazione si potesse ripetere, al principio degli anni Trenta, molti tedeschi non ebbero allora troppi dubbi. E preferirono scambiare la libertà di una fragile democrazia con le illusorie promesse del nazismo.

Damiano Palano

(da "Avvenire", 1 ottobre 2011)

Adam Fergusson, Quando la moneta muore. Le conseguenze sociali dell’iperinflazione nella Repubblica di Weimar, Neri Pozza, pp. 315, euro 20.00. Introduzione di Loretta Napoleoni.




giovedì 6 ottobre 2011

Viaggio al termine della notte. Gli ottant'anni di Mario Tronti "dall'estremo possibile"



di Damiano Palano


In una scena memorabile di C’era una volta in America, Robert De  Niro, nei panni di Adam Aaronson detto ‘Noodles’, riappare dopo decenni di esilio volontario a Brooklyn, nel quartiere in cui è cresciuto, e torna nel bar in cui ha lasciato gli amici e gli amori della sua giovinezza. Nel locale deserto, ‘Noodles’ riconosce nella sagoma imbolsita del gestore il vecchio ‘Fat Moe’, un amico dei tempi lontani, e avvia una lunga discussione su tutto quello che è avvenuto in quei lunghi anni di assenza. Quando ormai più nulla è rimasto da dire, e mentre l’amico sta per lasciarlo, ‘Fat Moe’ gli chiede cosa abbia fatto in tutti quegli anni. E allora De Niro – con un velo di malinconia per tutto ciò che poteva essere – risponde al vecchio barista: «Sono andato a letto presto».
Nel 2001, al termine della prolusione con cui chiudeva la carriera accademica, Mario Tronti richiamava proprio quella sequenza. E, dinanzi agli amici, non senza ironia, si rivedeva nei panni di De Niro, mentre preannunciava  la volontà di incamminarsi verso un quieto esilio. «Ecco la scena. Voi che mi richiamate al dunque: Mario, che farai nei prossimi anni? Io che mi volto e: …andrò a letto presto» (Politica e Destino, Sossella, Roma, 2006, p. 28). In realtà, dopo aver lasciato l’insegnamento, Mario Tronti – disattendendo la promessa di ‘andare a letto presto’ – non si è affatto ritirato dalla scena pubblica. Si è anzi gettato, con una nuova, insospettabile energia, nel dibattito sulla crisi che stiamo attraversando. Invece che incamminarsi verso una tranquilla uscita di scena, sembra piuttosto aver posto fine a un periodo di volontario isolamento, a una sorta di esilio dal dibattito pubblico, cui si era costretto – più o meno deliberatamente – a partire dalla metà degli anni Ottanta. In questi anni, è così tornato riafferrare il filo di un discorso interrotto, o apparentemente accantonato. E un po’ come il De Niro del film di Sergio Leone – non per chiudere un conto in sospeso, ma per giocare un’ultima partita – anche Mario Tronti è tornato a Brooklyn.
Assumendo la guida del Centro per la Riforma dello Stato, Tronti si è impegnato in un lavoro che non è semplicemente ‘culturale’, ma ‘politico’ nel significato più nobile, e ormai desueto, del termine: un significato per cui la ‘politica’ è conflitto, potere, ma anche costruzione di identità collettive, apertura di prospettive, costruzione di progetti, conquista di un futuro che non sia solo la perpetuazione del presente. Non è allora casuale che Tronti si sia rivolto soprattutto alle nuove generazioni, a quelle generazioni di giovani e giovanissimi che sperimentano sulla loro pelle la catastrofe della crisi, oltre che tutte le conseguenze del tramonto di un modello sociale. E non è neppure sorprendente, che abbia trovato proprio in queste generazioni interlocutori attenti e talvolta persino entusiasti.
Alcuni dei recenti scritti di Tronti sono stati raccolti due anni fa in Non si può accettare (Ediesse, Roma, 2009), un denso testo curato da Pasquale Serra. Altri interventi – alcuni dei quali recentissimi, altri risalenti agli anni Novanta – sono ora proposti in Dall’estremo possibile (Ediesse, Roma, pp. 242, euro 12.00), un nuovo volume curato sempre da Serra. Fra i due libri c’è più di qualche elemento di continuità. Dall’estremo possibile può essere in effetti considerato come una prosecuzione del testo precedente, perché la conversazione introduttiva fra Tronti e Serra riprende proprio dove si era interrotta la discussione di due anni prima, e perché tocca tutti i nodi su cui la riflessione dell’autore di Operai e capitale si è soffermata recentemente. Nella conversazione con Serra anteposta a Non si può accettare, Tronti aveva sintetizzato il senso della propria riflessione in un costante equilibrio fra «un pensare estremo» e «un agire accorto». «Il pensare estremo», aveva affermato allora, «l’ho imparato da Marx», ma anche «da tutte quelle forme di pensiero incomponibili con lo stato presente, inassorbibili dall’opinione corrente, irriducibili al senso comune di massa, alternative al buon senso comune di massa». «L’agire accorto», osservava invece, «l’ho imparato da Machiavelli, l’ho inseguito nei teorici della ragion di Stato, poi alla scuola dei Gesuiti, specialmente spagnoli, quindi nella forma politica del cattolicesimo romano, l’ho ritrovato in Max Weber e in Carl Schmitt, l’ho studiato e ristudiato e dunque approfondito in Lenin, non nei suoi libri di scarso spessore teorico, ma nelle sue geniali e magistrali mosse tattiche» (Non si può accettare, cit., p. 16). Ma non è stato tanto questo l’aspetto che ha attirato di più l’attenzione delle nuove generazioni di lettori di Tronti, quanto l’enfasi posta sulla centralità del lavoro, come chiave per comprendere il presente e per articolare un progetto teorico radicale. In una simile enfasi, è forse facile ritrovare alcuni degli accenti del giovane Tronti, ossia del teorico «operaista» dei «Quaderni rossi», mentre sembra accantonata – o neutralizzata – la malinconica rassegnazione che aveva ispirato, alla fine degli anni Novanta, le pagine di La politica al tramonto (Einaudi, Torino, 1998). Se in quel libro aveva mestamente sostenuto che, insieme al Novecento, si chiudeva anche la stagione della Politica, o quantomeno della «Grande Politica», capace di rompere la continuità della Storia, più di dieci anni dopo, in Non si può accettare, pur senza indulgere a un immotivato ottimismo, Tronti intravedeva i segnali, o forse solo le tracce, di un nuovo progetto. Un progetto fondato, ancora una volta, sulla «centralità» del lavoro: una centralità da ripensare rispetto alla stagione dei «trenta gloriosi», ma da concepire – oggi come allora – in termini politici. «Anche quella del lavoro odierno» - affermava infatti Tronti nella conversazione con Pasquale Serra - «deve essere una centralità politica», perché la «centralità del lavoro non è un fatto sociologico da rilevare empiricamente», «è un’opzione soggettiva che legge, e fa leggere, la diffusione e la frammentazione, la dispersione, la precarizzazione, la stessa disoccupazione, come un interesse unico». Un’opzione che, dunque, «legge e fa leggere il multiverso dei ‘lavori’ come universo del ‘lavoro’», e che, per questo, richiede «l’esistenza di una forza organizzata che si prende in carico questo compito politico» (Non si può accettare, cit. p. 29; cfr. Un pensare estremo e un agire accorto).
Proprio questa proposta ha trovato orecchie attente nei giovani ricercatori del Crs che hanno ricostruito le dinamiche di trasformazione della Fiat di Pomigliano d’Arco (Nuova Panda schiavi in mano. La strategia Fiat di distruzione della forza operaia, DeriveApprodi, Roma, 2011), ricercatori che proprio Tronti – in opposizione al post-operaismo che teorizza il «comune» - ha definito come «neo-operaisti» (Per una critica dell’immaterialismo storico, in «alfalibri», maggio 2011, p. 11; su questa indagine, cfr. La società dentro la fabbrica. A proposito di alcune inchieste recenti). La centralità del lavoro – come punto di partenza per costruire un nuovo progetto – torna d’altronde anche nelle pagine di Dall’estremo possibile. In particolare, nel volume viene accolto l’intervento con cui Tronti salutava la vertenza tra la Fiat e gli operai dello stabilimento di Pomigliano d’Arco come un segnale, come l’espressione di un malessere che cercava – senza esito – una rappresentazione politica. Nel giugno 2010, Tronti vedeva infatti, dietro il risultato del referendum voluto dall’azienda, le tracce di «un’energia positiva, nascosta nel fondo del paese, che bisogna far emergere, e farla parlare e parlare ad essa con le parole della politica, sottraendole le parole dell’antipolitica, con cui troppo spesso è costretta ad esprimersi» (Il «Che fare» di Pomigliano, in Dall’estremo possibile, cit., p. 114). Il nodo con cui fare davvero i conti non era allora lo spettro del ‘Cavaliere’, ma ciò che Tronti definiva come «il problema del Cavallo», ossia «questo modo d’essere che occupa le nostre vite e che osa sempre di più per avere un comando assoluto, modo d’essere di privilegi intoccabili, di poteri arroganti, di ingiustizie palesi, di sistema di leggi eterne, oggettive, dicono, nei cui confronti non c’è niente da fare se non piegarsi e obbedire» (ibidem). E proprio da questo groviglio di questioni prende le mosse la nuova conversazione che apre Dall’estremo possibile.
Nel colloquio con Serra, Tronti riconosce infatti che c’è un motivo ben preciso per cui sono stati proprio i giovani a raccogliere l’invito. Tronti non cade però in quel deteriore ‘giovanilismo’ che costituisce solo una variante dello spirito antipolitico contemporaneo. Piuttosto, coglie nelle nuove generazioni un tratto tragico, che spinge alla ricerca di un punto di vista radicale. «Io vedo questa situazione: tra vecchi e giovani si è creato oggi un grande vuoto. La generazione di mezzo ha fallito. È la generazione che ha subìto tutti interi gli anni Ottanta, fino al loro esito disastroso, senza la capacità di una reazione, senza la forza di un contrasto. Ha visto l’apparire della modernizzazione e non ha colto l’essere della restaurazione» (Dall’estremo possibile, cit., p. 21). Al contrario, nuove leve di giovani intellettuali – che ovviamente non possono che essere una componente minoritaria del vasto universo giovanile – cercano un incontro con i vecchi maestri anche per la loro stessa condizione esistenziale, per il fatto cioè di essere un «precariato intellettuale» che gode del ‘privilegio’ di «non essere ancora incluso». «Ci vuole forte intelligenza e nobiltà d’animo per riuscire a sfruttare questo passaggio di esistenza, per costruirsi, lì dentro, una condizione di personale libertà politico-culturale». E – osserva Tronti – «non c’è altro modo per sfuggire alla condizione giovanile di massa esattamente opposta, di servitù volontaria nei confronti dei modelli di vita dominanti» (ibidem).
Come ricorda Pasquale Serra nelle pagine introduttive, evocativamente intitolate La linea di condotta, in omaggio a un celebre scritto trontiano degli anni Sessanta - «l’avvento della tragedia è un’occasione – un brusco salto che spezza il filo della continuità -, non una soluzione, che richiede una linea di condotta complessa e radicale» (p. 9). Il tema al centro del libro di Tronti – scrive ancora Serra – è così «la necessità di costruire una nuova linea di condotta per meglio inserirsi in una situazione, come quella presente, che torna ad essere esplosiva, una situazione, soprattutto, giovanile e intellettuale, che è tornata, appunto, ad essere tragica» (ibidem). Il livello del discorso sviluppato nel libro non è però quello dell’analisi della politica contemporanea, bensì un livello in cui si cerca una distanza dal mondo, in cui si guarda al mondo «dall’estremo possibile». «Per mantenersi all’altezza della tragedia», nelle parole di Serra, «per fare di essa un’occasione storica, occorre trovare una qualche relazione con la politica, con la manovra politica, e, dunque, con la paura, non solo per restituire ad essa identità e dignità, ma anche per evitare che sulla paura si edifichi un nuovo potere, e, alla fine, ci si accodi ad esso» (pp. 12-13).
Proprio nel rispondere a una domanda di Serra sul rapporto fra il politico e il tragico, Tronti chiarisce in cosa consista pensare – o ripensare – la politica «dall’estremo possibile»: «Liberare la politica dalla gabbia dell’immanenza è un compito del pensiero, che bisogna prendere assolutamente su di sé. Perché è questa riduzione allo spirito del tempo che ha ridotto la politica al fantasma di se stessa e ha fatto crescere di fronte a sé la potenza distruttiva dell’antipolitica. Sì, va denunciato il nichilismo dell’antipolitica, una pulsione di massa soppressiva, azzerante, distruggente, che coerentemente finisce per essere cavalcata da personalità non carismatiche ma mediatiche, incapaci proprio per questo di assumere il livello della decisione, costrette come sono a dare rappresentazione di un immediato negativo risentimento» (ibi, p. 29). Ma è estremamente significativo che Tronti indichi il passaggio indispensabile, per procedere su un simile terreno, nel teologico-politico. In altre parole, come scrive, «il teologico-politico è il modo per passare dalla coscienza tragica della condizione umana contemporanea alla ricerca di una soluzione dell’eterno problema di come sia possibile un’altra forma sociale di convivenza e di conflitto» (ibi, p. 29). E, in effetti, la teologia politica è al centro di diversi interventi accolti nel volume, come Per la critica della secolarizzazione (pp. 79-82), Perché Teologia politica (pp. 83-87), La teologia di Paolo può interessare il politico? (pp. 89-95). Proprio in quest’ultimo intervento, Tronti scrive, per esempio: «Dall’interno della politica non riusciamo a uscire dalla sua crisi. E se non usciamo dalla sua crisi, nessuno sarà più in grado di sovvertire le cose, in senso alto, in senso così altamente umano da avvicinarsi a quanto di oltre umano ci si presenta, non solo come prospettiva escatologica ma come realistica via all’assoluto. Perché, non nella politica in generale, e certamente non nella politica conservatrice, o innovatrice, che sono più o meno la stessa cosa, ma nella politica della trasformazione dei rapporti e della trasvalutazione dei valori, in questa politica l’assoluto c’è, ed è sempre qualcosa che è trascendente rispetto al tuo agire qui e ora» (ibi, p. 92).
Quando Tronti indica la necessità di percorrere la via del teologico-politico, viene in fondo a esplicitare i presupposti di una linea di ricerca che ha iniziato a seguire almeno a partire dagli anni Ottanta. Si tratta, infatti, della scoperta di una nuova autonomia del politico: una scoperta che certo si intreccia con quella compiuta negli anni Settanta, ma che in qualche modo scaturisce anche dal fallimento di quell’operazione. Da questo punto di vista, è interessante rileggere un’intervista rilasciata vent’anni fa, nel 1991, a Ida Domijanni, in cui Tronti enunciava già la necessità di «rilanciare il primato della cultura politica sulla politica pratica» (Il primato del pensiero, in Dall’estremo possibile, cit., p. 99). In quell’occasione, Tronti accennava anche una lettura autocritica sugli anni Sessanta, che avrebbe avuto modo di sviluppare ulteriormente nella Politica al tramonto, ma soprattutto non si nascondeva quale fosse la portata della trasformazione in atto. «Ora siamo a questa che non è una porta stretta, e nemmeno un sentiero interrotto: il vero nome è quello banale di vicolo cieco» (ibi, p. 100). L’unica possibilità di uscire dal vicolo cieco, l’unico modo per «incidere questa crosta del senso comune intellettuale di massa» era allora, per Tronti, «il ferro di un nuovo pensiero altro da tutto» (ibi, p. 102). E, in effetti, era proprio a questo «pensiero altro da tutto» che erano indirizzati i saggi raccolti in Con le spalle al futuro. Per un altro dizionario politico (Editori Riuniti, Roma, 1992). Il titolo di quel volume forse tradiva il fatto che, nella riflessione di Tronti, il passato pesasse molto più del futuro, o, meglio, dell’urgenza di costruire una visione politica proiettata ‘contro’ la Storia, ma verso il futuro. In quella stessa intervista dei primi anni Novanta, se da un lato riconosceva che «c’è un problema di riconquista del futuro, per quelli che stanno in basso, che stanno fuori, che stanno contro» (Il primato del pensiero, cit., p. 104), dall’altro affermava infatti di sentire «il peso del passato» (seppur non come un’inutile zavorra), di attestarsi «su una posizione di trincea» e di apprestarsi così «a pensare come i soldati nelle memorie della grande guerra, che stavano giorni e settimane nel fondo delle trincee senza vedere il paesaggio intorno, e leggendo il tempo nelle albe e nei tramonti su in cielo» (ibi, p. 104). In questa scelta, non c’è una contraddizione rispetto all’odierna posizione di Tronti. Si può anzi dire che, forse, le parole di Tronti appaiono oggi meno profetiche, e più realistiche, perché quella sorta di lungo ‘viaggio al termine della notte’ sta per concludersi, e perché le ‘illusioni del progresso’ dell’ultima sequenza del Novecento sembrano aver perso tutto, o gran parte, del loro potere seduttivo. Ma l’autore di Operai e capitale non risparmia qualche annotazione autocritica anche sul percorso intrapreso fra gli anni Ottanta e Novanta, un percorso in cui la ricerca teorica è rimasta forse a un livello eccessivamente astratto, senza perdere il contatto con la realtà, ma smarrendo la capacità di incidere sulla trasformazione della società e degli immaginari. «Forse abbiamo peccato, negli anni e nei decenni trascorsi» - dice nella conversazione con Serra - «di una eccessiva raffinatezza del discorso. Siamo stati degli intellettuali fin troppo sofisticati. I riferimenti teorici, la forma della metafora letteraria, lo stile del ragionamento, il fare intuire al posto del far capire, l’ombra che si coltivava dietro la luce della parola, sono tutte cose entrate in contrasto con il tempo della comunicazione volgarizzata, dove precipitava velocemente verso il basso la capacità individuale di intendere e di volere. Forse dovevamo di più sporcarci le mani, cioè per noi le idee, con la vigente pratica dei fatti e delle azioni. Scendere qualche gradino per avvicinarsi al sottosuolo delle cose come stanno. […] Io vivo con sofferenza la mia parte di responsabilità collettiva nel non aver saputo e potuto evitare il disastro del mio mondo di appartenenza, la sua presente debolezza, l’emarginazione e la sottomissione, che subisce il mondo del lavoro» (ibi, p. 45).
Negli ultimi anni, Tronti non si è d’altronde sottratto al compito di un ripensamento autobiografico non rituale, e tutt’altro che clemente nei confronti degli errori del passato. Da questo punto di vista, ha contribuito con un saggio importante a una riflessione retrospettiva sull’esperienza dell’operaismo italiano degli anni Sessanta (Noi operaisti, Derive Approdi, Roma, 2010, originariamente pubblicato nel monumentale volume L’operaismo degli anni Sessanta da «Quaderni rossi» a «classe operaia», a cura di Giuseppe Trotta e Fabio Milana, Derive Approdi, Roma, 2008). Ma anche in Dall’estremo possibile sono ospitati alcuni testi estremamente utili e sempre ricchi di spunti, come il ricordo di Raniero Panzieri (L’eredità di quello che è stato, in Dall’estremo possibile, cit., pp. 115-124), un testo su Cesare Luporini (Libertà e destino, ibi, pp. 63-78), un commento a due testi autobiografici intorno al Pci come Il sarto di Ulm di Lucio Magri (ibi, pp. 153-166) e Il midollo del leone di Alfredo Reichlin (ibi, 167-173), e, soprattutto, come una Autobiografia filosofica (ibi, pp. 231-242), in cui lo stesso Tronti ripercorre la propria intera avventura intellettuale. E, al termine di questo piccolo, prezioso autoritratto, l’intellettuale romano chiarisce – con lo stile asciutto di un resoconto in terza persona – il significato di quell’ultima stagione di ricerca, che è apparsa talvolta enigmatica, ermetica, quasi esoterica. «La tonalità di questo discorso» - scrive a proposito del progetto di un Atlante della memoria del movimento operaio - «sembrano acquisire le caratteristiche della tradizione antimoderna. In realtà non è così. Qui vengono portate alle ultime conseguenze le istanze innovative di una critica del moderno, dal suo interno, e da parte di forze, e di potenze, che il moderno stesso ha prodotto nella sua età classica. Il progetto della modernità, di liberazione umana, non in opposizione ma in divergente accordo con l’afflato divino che insiste nell’umano, aspetta ancora di essere strappato al privilegio di pochi e di essere esteso alle possibilità dei molti e potenzialmente di tutti» (ibi, pp. 241-242).
Nell’invito a percorrere la via della teologia politica, si trovano certo gli sviluppi del sentiero che Tronti ha imboccato a partire almeno dagli anni Ottanta. Ciò nondimeno, non possono passare inosservati alcuni nuovi accenti, che vengono a marcare una diversione almeno parziale rispetto alla ricerca degli ultimi due decenni. Anche perché attengono al ruolo – o addirittura al ‘primato’ – da riconoscere alla ‘politica’, e cioè a un aspetto che porta alla luce i motivi per cui Tronti si allontana forse – almeno implicitamente – dai suoi lettori più giovani. Attorno a questo nodo, ruota d’altronde anche Berlinguer a Pomigliano, il denso  intervento di Tronti posto in appendice all’inchiesta su Pomigliano (Nuova Panda schiavi in mano, cit., pp. 151-164). Con quell’espressione – che ovviamente richiama vecchie formule operaiste come «Lenin in Inghilterra» e «Marx a Detroit» - Tronti intende indicare la necessità della costruzione simbolica di una nuova identità politica, e soprattutto la necessità di una forza politica capace di buttare «sul tavolo da gioco la carta di un atto di potenza, capace di egemonia» (p. 164). Che si tratti di un nodo gordiano, che non è davvero possibile tagliare con scorciatoie ‘immanentistiche’, è piuttosto evidente. Ma se, ai suoi occhi, è una questione che può essere affrontata solo al livello della teologia politica, Tronti è anche ben consapevole delle difficoltà (non solo teoriche), perché l’idea che a rendere possibile un salto qualitativo sia proprio la politica – una politica intesa in senso moderno, come organizzazione e volontà, come combinazione di partito e grande teoria – è evidentemente piuttosto lontana dalla sensibilità di un ‘postmoderno’ che si è fatto senso comune fra le giovani generazioni.
Proprio per contrastare questo senso comune, Tronti insiste allora con particolare enfasi sulla necessità della politica, avviandosi anche verso una critica piuttosto netta di quel pensiero della differenza con cui pure ha intrattenuto a lungo un proficuo confronto. In molte occasioni, Tronti ha infatti reso un omaggio non episodico al pensiero femminile che – a partire dalle intuizioni di Carla Lonzi, arriva alla riflessione della Libreria delle Donne di Milano, della Comunità filosofica Diotima e di molte autrici contemporanee – ha posto la differenza al cuore di un progetto di decostruzione non solo teorico. In Con le spalle al futuro, affermava per esempio che solo sviluppando le indicazioni del pensiero femminile, solo affermando l’inconciliabilità della differenza, sarebbe stato possibile articolare, dopo il Novecento, un pensiero realmente critico. «La rivendicazione della differenza», scriveva per esempio, «diventa a questo punto la nuova frontiera per la rivolta del soggetto», perché «la politica come organizzazione delle differenze è l’unica, che conservi oggi un senso eticamente sovversivo» (Con le spalle al futuro, cit., p. 14). In seguito, ha continuato a confrontarsi con il principio femminile del «partire da sé» (si veda per esempio «Partire da sé». Fa problema (1997), in Id., Cenni di castella, Cadmo, Fiesole, 2001, pp. 127-131). E, sempre attingendo alla decostruzione del pensiero della differenza, in un importante testo del 2005, in cui enuncia i cardini del progetto di una critica della democrazia politica, ha scritto: «La critica determinata della democrazia che io avanzo ha un padre, l’operaismo, e una madre, l’autonomia del politico. Ed è una figlia femmina, perché il pensiero e la pratica della differenza hanno anticipato questa critica con la messa in questione dell’universalismo del demos, che è l’altra faccia del carattere neutro dell’individuo, e con quel “non credere di avere dei diritti” che non va più rivolto al singolo, ma al popolo» (Per la critica della democrazia politica, in M. Tarì (a cura di), Guerra e democrazia, Manifestolibri, Roma, 2005, p. 16). In uno scritto compreso in Dall’estremo possibile (e risalente al maggio 2010), Tronti sembra invece marcare uno scarto proprio rispetto alla proposta del pensiero femminile sulla politica. Uno scarto enunciato in forma addirittura estremamente secca, quando Tronti scrive, per esempio, che «quella della differenza femminile è una emergenza postpolitica» (La Politica al femminile, il Politico al maschile, in Dall’estremo possibile, cit., p. 201), che «la politica al femminile ha fatto male a contrapporsi al politico maschile», e che «la politica al femminile ha subìto l’urto di quella reazione antinovecentesca, emersa già dentro il Novecento, che si è espressa come narrazione antipolitica» (ibi, p. 205). Nel criticare il ‘politico maschile’, la politica al femminile – questa è, in sintesi, la posizione di Tronti – ha rimosso dal proprio quadro analitico il conflitto e la contrapposizione fra amico e nemico: «Ha fatto male» - scrive - «il femminismo della differenza, a declinare la relazione contro il conflitto. Era situata nella postazione migliore per introdurre la civiltà della relazione nella storia necessariamente conflittuale evocata dall’idea e dalla pratica della differenza» (ibi, p. 206). Dato che la società continua a essere lacerata da relazioni antagonistiche, la soppressione della centralità della contrapposizione fra amicus e hostis non può che implicare la stessa rinuncia a cogliere una dimensione costitutiva della realtà. «Che cosa volete che sia la politica se non il pensiero e la pratica di questo conflitto? Chi vi dice che non ci deve essere più il nemico, vi sta dicendo che è amico delle cose come stanno, che devono restare così. Qual è il novum da introdurre in quel Kriterium? È il superamento della separazione novecentesca tra Zivilisation e Kultur. Il criterio dell’amico/nemico non va soppresso, va civilizzato. Mettere la relazione nel conflitto vuol dire esattamente questo: vuol dire il conflitto senza la guerra, vuol dire la forza senza la violenza» (ibi, p. 206).
La posizione di Tronti si trova a convergere (almeno per alcuni aspetti) con alcune riflessioni che mettono in discussione la capacità del pensiero della differenza di cogliere le trasformazioni dell’economia contemporanea (un esempio, in questa direzione, è offerto dal testo di Cristina Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Ombre corte - UniNomade, Verona, 2010; su questo aspetto della rilettura di Tronti, si è soffermata anche Ida Dominijanni, La libertà di un moderno, dall’estremo possibile, in «il Manifesto», 21 luglio 2011). Ma non è difficile ritrovare, nella polemica dell’intellettuale romano, un obiettivo ulteriore: quell’idea di «un altro modo di fare politica», che risale al Sessantotto, che ha avuto una certa fortuna negli anni Settanta e di cui il pensiero della differenza riprende alcuni dei motivi di fondo (una ricostruzione di questa linea viene proposta, nel quadro di una approfondita storia dell’operaismo, da Steve Wright, Storming Heaven, Pluto Press, London, 2002). Tronti non è affatto tenero nei confronti di questo atteggiamento, da cui scaturisce d’altronde anche la sua severa lettura del Sessantotto come momento di avvio del declino della politica e del trionfo dell’«impolitico contemporaneo». Riferendosi all’idea di un «altro modo di fare politica», Tronti infatti afferma: «questa massima è all’origine dell’attuale crisi della politica, e del fatto che risultano praticamente bloccate le possibili vie d’uscita. Non esiste ‘un altro modo di fare politica’. Lo voglio dire a questo punto con chiarezza. Questa è un’idea contestatrice, a suo modo e nelle sue varie forme, antirivoluzionaria. La politica con cui abbiamo a che fare è la politica moderna. Un universo conchiuso, compatto, in sé logico, con regole e leggi, non scientificamente esatte, questo è il bello, ma mutabili e interpretabili nella contingenza, con un fondo, dentro, di irrazionalità, il caso, l’occasione, l’eccezione» (Dall’estremo possibile, cit., p. 32).


La difesa della politica di Tronti è consapevolmente una difesa ‘inattuale’, fortemente in antitesi con quella percezione che della politica (e del potere) ha consolidato il post-moderno. Tronti d’altronde propone una visione ‘altra’, quasi elitaria, della politica, quando osserva, per esempio: «L’idea che la politica è di tutti, e alla portata di tutti, è una menzogna che hanno messo in giro i potenti per ingannare i deboli» (ibi, p. 33). Oppure, quando inverte una delle più celebri massime della contestazione giovanile: «Il privato non è politico. Mai. Per diventare il pubblico deve trasvalutarsi, trascendersi, uscire dall’individuo per farsi collettività, riconoscere la propria condizione come la stessa dei molti insieme a lui. La società reale è la Lebenswelt, il mondo della vita, agita, esperita, come esistenza quotidiana, l’ambito che la Fenomenologia dello spirito hegeliano, letta da Kojève, indica come il lavoro e la lotta. In mezzo, tra il lavoratore e il padrone, c’è la politica. Sempre. Perché il rapporto di classe è un rapporto di forza» (ibi, p. 34). Ma, a ben vedere, non si tratta affatto di una forzatura, perché la consapevolezza che sia indispensabile il confronto proprio con le dimensioni, le ‘regolarità’, i cicli della politica moderna contrassegna – con sostanziale coerenza – non solo gli ultimi decenni della riflessione di Tronti, ma anche tutta la ricerca sull’«autonomia del politico», condotta negli anni Settanta, e forse persino – almeno in nuce – quel modo di intendere il livello dell’organizzazione che affiorava già in Lenin in Inghilterra o in altri scritti degli anni Sessanta. La politica è momento centrale per Tronti perché, senza politica, la società – ai suoi occhi – non può che essere trascinata dalla ‘naturalità’ dei flussi economici. «La crisi della politica», osserva allora in un breve scritto sull’eredità di Machiavelli, «deriva dal fatto che la politica somiglia alla società civile» (Machiavelli, nostro maestro, ibi, p. 178). «Se dire Machiavelli vuol dire autonomia della politica, la crisi attuale non è per troppa autonomia, ma per troppo poca, non è perché c’è stato primato della politica, ma perché non c’è più. Se la politica è fondazione del moderno, non è che si può dare sviluppo della modernità, e cioè governo della società moderna, senza la politica» (ibidem). E, allora, è del tutto comprensibile che la contemporanea ‘personalizzazione’ della politica non descriva altro che l’ennesimo volto della scomparsa della politica, nella misura in cui trasforma la ‘persona’ in ‘personaggio’. «L’attuale personalizzazione della politica» – scrive per esempio in un intervento dedicato alla riflessione teorica di Gianfranco Miglio – «non è altro che l’ultima deriva, volgare come tutte le derive contemporanee, la cui origine affonda nel percorso, con tratti pur nobili, dell’individualismo moderno» (La personalità nella grande politica, ibi, 199).
Per quanto la visione di Tronti debba scontrarsi con l’immaginario anti-politico e post-politico contemporaneo, quello stesso immaginario che anche le nuove generazioni hanno più o meno consapevolmente recepito come inevitabile, è molto probabile che un nuovo incontro con la politica – e con le sue ‘regolarità’ – sia ormai inevitabile. «Sembra che solo quando davanti all’esistenza dei singoli, e dei popoli, si apre la finestra della grande storia» - ha scritto d’altronde in Persona e politica, celebrando i novantacinque anni di Pietro Ingrao - «solo allora la persona è portata a implicarsi con il mondo secondo un principio di responsabilità, è costretta a uscire da sé, a superarsi, in qualche modo a trascendersi» (Persona e politica, ibi, p. 183). Ed è per questo che, ai suoi occhi, l’irruzione del tragico nella condizione contemporanea è forse destinata a imporre un nuovo incontro con politica.
Interrogato da Serra sul contenuto di un «testamento politico per i giovani», Tronti – che, nato il 24 luglio 1931, ha compiuto da poco ottant’anni – non cade certo nel sentimentalismo. Ma coglie un dato che incide sulla percezione del presente e del futuro. «Le generazioni più giovani sono state gettate in un’esistenza incerta, insicura, impossibile a vivere. Ecco perché sono più sensibili ai discorsi spiazzanti, disordinanti, di rottura, di salto» (Dall’estremo possibile, cit., p. 58). Così – guardando verso la conclusione di un’apparentemente interminabile viaggio nella notte – evoca l’immagine della partenza del giovane Giuseppe con il progenitore Abramo, una partenza che, dice Tronti citando Thomas Mann, aveva «un palese significato di opposizione e di rivolta». «Così partimmo tanti anni fa, per un’avventura, intellettuale sì, ma politica, e questa è rimasta la sua non conclusa identità specifica. Un inquieto peregrinare interiore dentro la storia presente, da una parte di mondo, contro un’altra parte» (ibidem). Ma quello che indica alla ‘generazione globale’ non è, o non è soltanto, un viaggio attraverso i confini, o attraverso la rete. È soprattutto – come quello compiuto da Emily Dickinson - un viaggio interiore. «È questo infinito dentro, che bisogna coltivare. E che ti porterà il più possibile lontano da qui. Alla fine, alla resa dei conti, è l’arma totale per combattere senza essere mai sconfitto» (ibidem).
 Per orientarsi nel viaggio dentro questo «infinito dentro», Mario Tronti forse non lascia una mappa nelle mani delle nuove generazioni, ma sicuramente consegna una serie di strumenti formidabili, che si riveleranno in futuro probabilmente molto più preziosi di quanto oggi molti possano soltanto sospettare. «Quando tacerà (se tacerà) la chiacchiera ‘globale’ che ci affligge e torneremo a fare i conti (non solo per ‘sedentaria filologia’) con i classici del Moderno, e tra questi con Karl Marx (come tutti i veri filosofi hanno sempre invitato a fare, Heidegger in primis)» - ha scritto Massimo Cacciari - «allora si comprenderà il ruolo svolto dal pensiero di Mario Tronti e il luogo che esso occupa nella filosofia politica contemporanea. Quando le filosofie alla moda […] avranno bruciato le ultime cartucce, allora si vedrà come Mario appartenga a una ‘tradizione’ della filosofia italiana ed europea non defunta né decrepita, ma, davvero, postuma. In qualche modo, sempre in-audita. O, se preferite, maledetta» (M. Cacciari, Dall’estremo possibile, in M. Tronti et al., Politica e destino, cit., p. 41). È d’altronde davvero difficile sopravvalutare il ruolo che Mario Tronti ha ricoperto nel panorama intellettuale italiano, l’influenza che ha esercitato – magari in modo sotterraneo – su tante generazioni. Le tappe della sua ricerca non scandiscono solo l’evoluzione della riflessione di un singolo autore. Perché Tronti ha rappresentato – per una porzione non irrilevante della storia intellettuale italiana degli ultimi cinquant’anni – uno dei capisaldi della teoria radicale, nelle sue diverse declinazioni e nelle sue varie stagioni. I nomi delle riviste cui diede vita sembrano segnare, ognuno a proprio modo, una specifica fase politico-culturale. A partire dai «Quaderni rossi» - il cui primo numero vide la luce proprio mezzo secolo fa, nel settembre del 1961 - a «Classe operaia»,  da «Contropiano» a «Laboratorio politico», ognuna di queste imprese teoriche segnò, ben più che la tappa di un’esperienza di ricerca personale, un momento di snodo centrale nel percorso di diverse generazioni intellettuali. Le anticipazioni e le ‘svolte’ – sempre ‘eretiche’ e sempre bersaglio di feroci polemiche – hanno accompagnato in modo contraddittorio ma decisivo la formazione di quella generazione di studiosi che, provenendo dal neomarxismo degli anni Sessanta e Settanta, maturò alle soglie degli anni Ottanta una nuova consapevolezza ed una nuova sensibilità verso il ‘politico’. L’uscita di Operai e capitale nel 1966 lo consacrò, poco più che trentenne, tra i più innovativi teorici marxisti italiani, ma sancì anche – come ha sostenuto Roberto Esposito (Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino, 2010, pp. 206-212)la rinascita della filosofia italiana, oltre che la genesi di quella «differenza italiana» cui oggi all’estero viene riconosciuta la straordinaria originalità (si veda, a questo proposito, il volume curato da Alberto Toscano e Lorenzo Chiesa, The Italian Difference. Between Nihilism and Biopolitics, Re.Press, Victoria – Australia, 2009). Ma soprattutto – l’ha scritto Sergio Bologna alcuni anni fa – Tronti dimostrò allora che «era possibile costruire un pensiero», recuperare «il senso di una reinterpretazione che diventava sistema»: «un sistema chiuso, coerente, costrittivo, assertorio, esposto con un pizzico di enfasi messianica, che rompeva il tran tran del dibattito quotidiano, del chiacchiericcio, spezzava gli indugi dell’empiria» (S. Bologna, Quarant’anni dalla pubblicazione di «Operai e capitale» di Mario Tronti, in Id., Ceti medi senza futuro? Scritti, appunti sul lavoro e altro, Derive Approdi, Roma, 2007, p. 259). E la scoperta della cosiddetta ‘autonomia del politico’, che Tronti compì già all’inizio degli anni Settanta, sancì l’ingresso in un nuovo territorio, che appariva allora straordinariamente fertile e gravido di clamorosi sviluppi. Se infatti con la lettura soggettivista di Marx, aveva operato rispetto alle categorie del marxismo ortodosso una vera e propria ‘rivoluzione copernicana’, Tronti si proponeva la medesima operazione anche per le categorie della filosofia politica. La critica della politica progettata da Marx e mai neppure iniziata avrebbe potuto finalmente essere intrapresa, cercando, studiando e formulando ipotesi attorno a ciò che costituiva il tratto specifico dei fenomeni ‘politici’. Quella ricerca non è ancora giunta al termine. Tronti non ha scritto l’opera progettata sulla critica della politica (e sulla critica della democrazia politica), ma il viaggio teorico prosegue. Come ha scritto Franco Milanesi, a proposito della più recente riflessione dell'intellettuale romano: «Tronti guarda curioso dentro alcune specifiche forme della diversità che increspano questo piano liscio: il popolo, come società reale contrapposta alla società "civile", intesa come articolazione postmoderna del bon bourgeois; la persona, non monadica individualità borghese né massa socializzata dallo spettacolo e dal consumo, ma zona affrancata dell'umano. Si deve quindi fare memoria, riprendere in mano le bandiere sconfitte o lasciate cadere: quella operaia, cioè del lavoro, quella dell'organizzazione partitica (oggi bersaglio delle infinite espressioni dell'antipolitica). Oppure il pensiero di genere nella sua radicalità e non nella richiesta di uniformante parificazione. La domanda percorre infine la dorsale dell'impolitico. La religio, la trascendenza possono essere uno dei terreni che scampano al vortice mortale dell'immanenza, del così è, dell'economia come destino deòl'umano? Forse sì. Purché si riporti ogni nuova forza nell'orizzonte sociale che ci è consustanziale. Se oggi non possiamo abbattere il destino, dobbiamo essere in grado di sfuggire alla sua presa, di scartare da esso, di praticare alterità» (F. Milanesi, Mario Tronti. Ottant'anni di cultura operaia, in «Liberazione», 24 luglio 2011). Forse, una nuova tappa della ricerca di Tronti sarà scandita dal libro di cui – nella conversazione con Serra – annuncia la lenta «composizione». Un libro il cui obiettivo dovrebbe essere far comprendere – come dice – che «quando parlo degli operai di Pomigliano, o della amata politique politiciènne, di sacro e secolarizzazione, di Warburg o di San Paolo, di Lenin o di Silesius, della classe o della persona, sto dicendo la stessa cosa» (Dall’estremo possibile, cit., p. 41).
Il lascito intellettuale che Mario Tronti consegna alle nuove generazioni non consiste però soltanto nelle sue intuizioni. Anche dai suoi scritti più criptici, più profetici e raffinati, trapela sempre – per chi la sa cogliere – la profonda umanità di un pensiero che non cede alla realtà. Un pensiero che, senza rinunciare alle proprie radici, guarda costantemente in alto, oltre il muro all’apparenza invalicabile del presente. Ed è per questo che solo un lettore distratto può sorprendersi dell’entusiasmo di Tronti per l’immagine in cui il nipote Renato – ossia Renato Fiacchini, il grande Renato Zero – fissa la propria idea del 'sogno di una cosa' comunista. Nella sua riflessione teorica, nel suo percorso politico, Mario Tronti non ha d’altronde mai distinto la propria collocazione sociale, il proprio ruolo intellettuale, dal mondo da cui proviene. Una frase di Operai e capitale diceva: «La classe operaia non è popolo. Però viene dal popolo. E questo è il motivo elementare per cui chi – come noi – si mette dal punto di vista operaio non ha più bisogno di “andare verso il popolo”. Noi stessi infatti veniamo dal popolo» (M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino, 19712, p. 245; I ed. 1966). Molti anni dopo, Tronti ha spiegato che non si trattava tanto (o solo) di una metafora, quanto di un riflesso autobiografico. «La ‘rude razza pagana’», dice oggi, «sono io». Tronti viene infatti da una famiglia popolare, da una famiglia «di popolo romano» che lavorava ai Mercati generali e che viveva al Quartiere Ostiense. E queste radici affiorano sempre anche alla base di tutta la sua riflessione teorica. «Quando dico ‘radici’» – ha scritto in Politica e Destino - «quelle politico-teoriche stanno negli operai torinesi, quelle storico-umane stanno nei lavoratori romani. Il senso era questo: le lotte operaie presenti vengono dal lontano della tradizione popolare, e io con loro. Poi, c’è stata da questa un passaggio di emancipazione. Ma il segno rimane, nel mondo dell’anima. Perché quella tradizione è modernità di popolo. Non è l’arcaico pasoliniano delle periferie metropolitane. È la belliana ironia sapienziale di un popolare centro urbano. La mia vera Università: di pensiero e di vita. Ho cercato di trasmetterla, culturalmente mediandola, nell’insegnamento, o meglio, nella sua negazione. Quando i miei figli andavano alle elementari, li accompagnavo qualche volta a piedi alla Nicolò Tommaseo, poco prima della Basilica di San Paolo. Percorrevamo, al mattino, la via Ostiense, passavamo davanti ai Mercati generali, brulicanti di lavoro, grida, commerci e fatica. Qualcuno da sopra una carriola, apostrofava i bambini: ahò, salutateme a’ maestra. E io ero felice, perché mi dicevo: se entrano in questa scuola con questo viatico… non si perderanno… Non si sono persi… Dicevo loro: ecco, questi sono i ‘nostri’. Adesso che i ‘nostri’ quasi non ci sono più, la semplice memoria familiare mi conforta, e ci conferma, di essere nel giusto per il solo fatto di venire da lì» (Politica e destino, cit., p. 19). Di quel popolo romano, di quel mondo, Mario Tronti – forse l’intellettuale più innovatore, raffinato, anticonformista che l’Italia del Secondo Novecento abbia conosciuto – porta con sé l’umiltà e il rigore, l’ironia e la forza. E sono proprio l’umiltà e il rigore, l’ironia e la forza – così destabilizzanti per il quieto fatalismo contemporaneo – a dettare la più preziosa, ma anche la più severa lezione impartita alle giovani generazioni. «Si può vivere bene con pochi soldi e nessuno status. Ma si vive maledettamente male senza essere liberi, nella testa, e in lotta, a tutto campo. Guardatevi intorno e scegliete di essere – essere e non apparire – altrimenti da quasi tutto quello che c’è» (Dall’estremo possibile, cit., p. 109).
Al crepuscolo di questo lungo tramonto italiano, sono pochi i motivi per festeggiare. Ma c’è invece ben più di un motivo per celebrare gli ottant’anni di Mario Tronti. Perché, pur nella «disperazione» di una condizione tragica, ancora oggi, guardando al suo lungo viaggio, possiamo ripetere con orgoglio le parole di Massimilla Doni: «Sì, in questo paese la cui decadenza è deplorata da viaggiatori stupidi e da poeti ipocriti, il cui carattere è calunniato dai politici, in questo paese che vi appare snervato, impotente, in rovina, invecchiato ancor più che vecchio, si trovano ovunque geni possenti da cui nascono rami vigorosi, come da una vecchia vite si slanciano germogli ricchi di grappoli deliziosi» (H. de Balzac, Massimilla Doni, Sellerio, Palermo, 1990, pp. 87-88).

Damiano Palano