di Damiano Palano
Questa nota è apparsa su quotidiano "Avvenire" il 25 giugno 2021.
Nel 1962 Philip K. Dick pubblicava The Man in the High Castle, uno dei suoi romanzi più fortunati, noto in italiano con il titolo La svastica sul sole. La trovata più originale consisteva nell’immaginare che la storia mondiale avesse seguito un binario differente. La Seconda guerra mondiale era stata infatti vinta da Germania e Giappone, e gli Stati Uniti erano stati divisi in aree di influenza. Negli ultimi anni l’«ucronia» di Dick è stata nuovamente riscoperta, e il genere – che interseca storia, fantascienza e politica – si è arricchito di nuove varianti. Ma, se Dick immaginava di far ‘scivolare indietro’ la storia del mondo, anche molti politologi hanno interpretato in modo non troppo differente il possibile crollo della democrazia. Naturalmente gli studiosi di politica non si sono dedicati a narrazioni fantapolitiche, ma hanno in qualche misura continuato a concepire la decadenza delle istituzioni liberaldemocratiche utilizzando come modello l’ascesa al potere del fascismo e del nazionalsocialismo. Ed è proprio questo modo di immaginare le minacce della democrazia a essere messo oggi sempre più spesso in discussione dagli studiosi di politica.
Quasi trent’anni fa, Samuel Huntington proponeva una spiegazione di tre grandi «ondate» di democratizzazione, che dall’inizio dell’Ottocento avevano visto una progressiva espansione dei paesi democratici. Dopo ogni ondata, osservava Huntington, si era sempre registrato anche un «riflusso autoritario». E anche per questo invitava a diffidare dell’ottimismo che era seguito al crollo del Muro e ad attendersi, presto o tardi, un nuovo «riflusso». In effetti alcuni politologi riconobbero una simile inversione di tendenza a partire dal 2006, notando in particolare ciò che stava avvenendo in Russia, in Bielorussia e in Venezuela. E i rapporti annuali di Freedom House – l’organizzazione non governativa che quasi da cinquant’anni monitora costantemente lo stato della libertà del mondo – sembrerebbero confermare la tendenza a un declino globale della democrazia, che nel 2020, dopo quindici anni di costante peggioramento, avrebbe raggiunto la punta più elevata. Non tutti gli studiosi concordano con questa lettura, ma la discussione sulla «crisi della democrazia» impegna comunque sempre più intensamente i politologi.
Alcuni anni fa, Steven Levitsky e Daniel Ziblatt cercarono nei casi di crollo democratico del Novecento una guida in grado di indicare quando un sistema politico corresse realmente il rischio di un’involuzione autoritaria. Più di recente, Adam Przeworski, in Crises of Democracy, ha preso in esame tutti i sintomi del logoramento, attirando l’attenzione soprattutto sulla polarizzazione. Altri si sono invece chiesti come si debba concepire secolo il «riflusso» autoritario nel XXI secolo, e cioè in un contesto ben diverso da quello novecentesco. Prima del 1989 era infatti relativamente semplice individuare una netta linea di demarcazione fra regimi democratici e non democratici. Da una parte si trovavano paesi in cui i governanti erano scelti mediante elezioni competitive. Dall’altra, stavano invece regimi in cui il potere era detenuto – a seconda dei casi – da un partito unico, da un leader autocratico o da una giunta militare, e in cui gli apparati repressivi controllavano stabilmente i dissidenti. A partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso le cose sono invece notevolmente cambiate. Nel corso dell’ultimo ventennio un numero crescente di Stati è andato a collocarsi in una sorta di «zona grigia» al confine tra democrazia e non democrazia. Molti regimi non (pienamente) democratici hanno iniziato a ricorrere stabilmente a elezioni, per mostrare al mondo di godere di una forte legittimazione popolare. Gli stessi margini di libertà concessi ai dissidenti e alle forze di opposizione sono diventati più ampi, oltre che variabili a seconda della congiuntura. E anche il lessico politologico si è così arricchito di nuove categorie teoriche, talvolta discutibili, come per esempio «regime ibrido», «democrazia elettorale», «democrazia illiberale», «pseudo-democrazia», «autoritarismo elettorale», «autoritarismo competitivo». Ma proprio alla luce di una simile trasformazione è del tutto legittimo chiedersi se sia ancora calzante l’immagine del «riflusso» autoritario. E cioè se lo si possa concepire ancora nei termini di un backsliding, di uno «scivolamento all’indietro», o se invece questa rappresentazione non rischi di suggerire una lettura distorta. Il problema di fondo sta nelle stesse categorie utilizzate per identificare il punto di partenza e quello di arrivo. L’immagine dello «scivolamento all’indietro» tende infatti a concepire la trasformazione come una transizione dalla democrazia a un regime autoritario (e viceversa). Come hanno osservato Lidia Cianetti e Seán Hanley sul «Journal of Democracy», la traiettoria può invece essere meno lineare. Innanzitutto, perché molti fattori (di breve e lungo periodo) possono interagire tra loro, dando luogo a risultati differenti. Ma anche perché nei «regimi ibridi» i confini tra democrazia e autocrazia sono tanto permeabili da essere soggetti a frequenti mutamenti e a fluttuazioni (in un senso o nell’altro).
Qualche tempo fa, David
Runciman ha osservato che l’«immaginazione politologica» è rimasta ferma al
Novecento, e cioè continua in larga parte a concepire il crollo democratico
sulla scorta delle immagini della marcia su Roma, dell’incendio del Reichstag e
dell’assedio della Palazzo della Moneda. Naturalmente, il Putsch non è
totalmente scomparso dall’armamentario delle forze antidemocratiche, e in
questo caso è sufficiente pensare al recente colpo di Stato in Myanmar. Continuare
a immaginare il «riflusso» autoritario come uno «scivolamento all’indietro» potrebbe
però davvero finire col deviare il nostro sguardo da cambiamenti altrettanto
rilevanti, anche se forse meno clamorosi.
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