sabato 30 giugno 2018

Sorteggiare i governanti? Da "Solar Lottery" di Philip Dick a David Van Reybrouck, una vecchia idea e nuove sperimentazioni. Una critica



Con una delle sue provocazioni, Beppe Grillo ha in questi giorni proposto di designare i membri del Senato mediante un sorteggio e non con le elezioni. Il sorteggio fu in effetti a lungo lo strumento privilegiato dalle democrazie antiche e dalle repubbliche medievali, che diffidavano delle elezioni, ritenute strumenti destinati a favorire i gruppi sociali più abbienti. E anche di recente varie voci (tra cui quella di David van Reybrouck) hanno sostenuto l'opportunità di integrare i meccanismi elettivi con il ricorso al sorteggio, e alcune sperimentazioni hanno tradotto in pratica (con molti limiti) questa idea. 
A proposito di questa discussione, "Maelstrom" ripropone un articolo, apparso in origine sulla rivista "Spazio filosofico", dedicato proprio a una lettura del pamphlet "Contro le elezioni" di van Reybrouck e all'ipotesi di tornare a sorteggiare i detentori delle cariche pubbliche .


di Damiano Palano


Rileggendo oggi Solar Lottery di Philip K. Dick, è quasi scontato riconoscere come già in quel primo romanzo fossero presenti molti dei motivi che avrebbero in seguito contrassegnato la produzione dello scrittore americano. Risulta in effetti evidente sin dalle prime pagine come la sua idea della science-fiction tendesse a fuoriuscire dal perimetro di una letteratura di genere destinata allora prevalentemente a un pubblico di giovani (e giovanissimi) lettori, e come la sua raffigurazione di un remoto futuro fosse in realtà una critica della società americana degli anni Cinquanta. Ma più di sessant’anni dopo la sua pubblicazione, si può forse intravedere in Solar Lottery anche una sorprendente prefigurazione delle società dell’inizio del XXI secolo e dei processi che investono le democrazie occidentali. In quel vecchio romanzo Dick immaginava infatti che le società occidentali avessero adottato il sistema della lotteria non solo per distribuire le merci ma anche per assegnare il potere politico. I governanti non erano dunque scelti dagli elettori e le procedure di voto erano state sostituite dall’estrazione a sorte di un Quizmaster, al quale era affidato un potere sostanzialmente assoluto. E proprio per questo, se certo la distopia di Dick prefigurava la nascita dell’«azzardo di massa», lo scenario allestito nel romanzo può essere letto anche come l’anticipazione – certo estrema – di un ripensamento del ruolo che il momento della scelta elettorale ricopre nelle democrazie contemporanee. L’insoddisfazione nei confronti del canale elettivo – inteso come criterio qualificante di un assetto democratico – è in effetti cresciuta negli ultimi due decenni, alimentando un fitto dibattito sulla «crisi» e sul «disagio» della democrazia. A partire soprattutto dagli anni Novanta, molti osservatori hanno riconosciuto un paradosso almeno in parte inedito. A fronte di un significativo aumento del numero complessivo delle democrazie nel mondo, hanno iniziato a rilevare un ‘deterioramento’ delle democrazie «mature». In sostanza, i sistemi politici occidentali continuano a presentare quegli elementi che il dibattito politologico – sulla scorta della vecchia definizione di Joseph A. Schumpeter – non cessa di considerare distintivi di un regime democratico, ossia l’utilizzo di elezioni competitive come strumento per selezionare i leader cui assegnare, per un periodo di tempo limitato, la funzione di governo. Ma, secondo molte voci, il ricorso alle elezioni non rappresenta più una garanzia di reale democraticità, sia perché la competizione risulta ristretta ad attori politici con piattaforme programmatiche molto simili, sia perché la formazione delle decisioni politiche principali sembra passare da altri canali, sia perché la partecipazione popolare alla vita politica si riduce, approfondendo sempre più il distacco tra cittadini e classe politica.
Nel suo ultimo libro, Sheldon Wolin definì per esempio la forma di regime vigente negli Stati Uniti come un «totalitarismo rovesciato», un sistema «apparentemente guidato da poteri totalizzanti astratti, e non dal dominio personale», il quale «si alimenta incoraggiando il disimpegno politico più che la mobilitazione di massa», e che «si affida più ai media ‘privati’ che alle istituzioni pubbliche per diffondere la propaganda atta a consolidare la sua versione ufficiale degli eventi»[5]. Utilizzando immagini forse meno energiche, altri hanno riconosciuto invece i segni di un processo di «de-democratizzazione»[6]. Nella proposta forse più celebre, Colin Crouch ha identificato inoltre la tendenza dei sistemi politici occidentali ad assumere i tratti della «postdemocrazia», ossia di una nuova forma di regime, in cui le istituzioni formali della democrazia liberale continuano a esistere, ma nelle quali il ruolo dei cittadini si limita alla scelta elettorale e in cui le decisioni vengono prese da un ristretto gruppo di attori politici ed economici. Sebbene la «postdemocrazia» continui dunque a presentare gli elementi distintivi della democrazia liberale, e nonostante le elezioni si svolgano regolarmente (e in forma competitiva), «il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi», mentre «la massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve». Nello scenario postdemocratico, dunque, «a parte lo spettacolo della lotta elettorale», «la politica viene decisa in privato dall’interazione tra i governi e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici». In termini ancora più radicali, anche Michelangelo Bovero ha proposto di riconoscere «un processo di degenerazione che tende a far assumere alla democrazia i connotati di una forma di governo diversa», ossia di una sorta di «autocrazia elettiva», la cui logica di funzionamento risulta solo all’apparenza simile a quella democratica». E con una diagnosi altrettanto pessimista, secondo Massimo L. Salvadori i sistemi politici occidentali sono attraversati da trasformazioni tali da mettere in dubbio la loro stessa natura di regimi democratici. Processi come la globalizzazione economica, il restringimento del potere di controllo degli Stati, lo sgretolamento dei partiti di massa avrebbero infatti innescato un progressivo mutamento, segnato dall’ascesa di potenti oligarchie economiche, in grado di manipolare un’opinione pubblica inerte. In questa situazione, l’attributo primario della democrazia – «quello di consentire ai governati di esercitare il potere ultimo sui governati» – tende a dissolversi, proprio perché lo strumento delle elezioni non sembra più in grado di garantire un controllo degli eletti. E proprio per effetto di una simile dinamica, i sistemi occidentali dovrebbero essere definiti, non più come democrazie, bensì come «governi a legittimazione popolare passiva».
Accanto a questo dibattito, e spesso contestualmente alla formulazione di diagnosi critiche sulla «crisi» della democrazia, sono state avanzate anche proposte di riforma – più o meno radicali – volte a garantire un maggiore controllo sull’attività degli eletti, grazie per esempio a meccanismi di vigilanza nei confronti della classe politica, oppure a integrare le ‘tradizionali’ forme di partecipazione dei cittadini, mediante gli strumenti della democrazia elettronica, o mediante procedure analoghe a quelle sperimentate nel caso dei «bilanci partecipativi». Ed è proprio nell’ambito di questo dibattito che è emersa la proposta di ritornare a utilizzare il vecchio strumento del sorteggio per selezionare giurie di cittadini chiamati a valutare le politiche pubbliche o addirittura a prendere decisioni politicamente rilevanti. In effetti, a partire dagli anni Settanta, in diverse realtà si è fatto ricorso a giurie di cittadini formate grazie all’estrazione a sorte, dapprima negli Usa e nella Rft e in seguito in Danimarca, Regno Unito, Spagna e anche Italia. Inoltre, è stata oggetto di numerose sperimentazioni anche la pratica dei «sondaggi deliberativi», ideata inizialmente da James Fishkin. Ed è proprio poggiando su queste esperienze, più o meno di successo, che il giornalista, scrittore e poeta belga David Van Reybrouck ha indirizzato a un vero e proprio «J’accuse!» alla democrazia rappresentativa fondata sulle elezioni. In un pamphlet molto fortunato, Contro le elezioni – che non casualmente si apre che la celebre frase del Contratto sociale, in cui Rousseau compiangeva il popolo inglese, che riteneva di essere libero, nonostante lo fosse soltanto il giorno delle elezioni – sostiene per esempio che ormai, come recita il sottotitolo italiano del suo testo, «votare non è più democratico», e che una soluzione per superare la crisi in cui versano i sistemi democratici occidentali consisterebbe nel ritorno all’estrazione a sorte come criterio per formare collegi deliberativi.
L’idea di affidare al caso la designazione dei governanti (o meglio dei legislatori) è stata in realtà avanzata negli ultimi anni – sebbene in termini meno netti – da molte parti, spesso sulla scorta della convinzione che alcuni strumenti di «democrazia deliberativa», affiancati alle classiche istituzioni rappresentative, possano consentire di rafforzare sia la partecipazione dei cittadini alla vita politica, sia la qualità delle stesse decisioni pubbliche. Proprio perché in larga parte attinge a questa discussione (e al bagaglio non estesissimo di sperimentazioni sul campo), il pamphlet di Van Reybrouck ha il merito di riproporre in forma sintetica tanto i pregi quanti i limiti di una proposta teorico-politico tutt’altro che irrilevante. Soffermandosi proprio su una discussione del testo di Van Reybrouck, questo articolo si propone di ‘prendere sul serio’ l’affermazione secondo cui «votare non è più democratico», oltre che l’ipotesi secondo cui l’introduzione dell’estrazione a sorte consentirebbe di superare le difficoltà – o addirittura la «crisi» – delle democrazie rappresentative occidentali. In particolare, nelle pagine che seguono sarà considerata l’interpretazione delle diverse cause della «crisi» della democrazia rappresentativa, alla quale il ritorno del sorteggio dovrebbe porre rimedio, e saranno messi in luce alcuni elementi problematici, relativi proprio all’‘insufficienza’ del canale elettorale nel garantire la democraticità dei sistemi politici occidentali. Saranno dunque prese criticamente in considerazione le argomentazioni che sostengono che il sorteggio dovrebbe consentire di superare, o comunque di ridurre, il combinato disposto di crisi di efficienza e crisi di legittimità che contrassegna i sistemi politici occidentali. L’obiettivo di questo articolo è infatti contrastare l’argomentazione che sorregge la proposta di Van Reybrouck, e dunque mettere in luce come la «crisi» delle democrazie occidentali non scaturisca semplicemente dalla debole legittimazione garantita dal sistema rappresentativo-elettivo.

venerdì 29 giugno 2018

Il sorteggio salverà la democrazia? Rileggere il pamphlet "Contro le elezioni" di David van Reybrouck




Con una delle sue provocazioni, Beppe Grillo ha in questi giorni proposto di designare i membri del Senato mediante un sorteggio e non con le elezioni. Il sorteggio fu in effetti a lungo lo strumento privilegiato dalle democrazie antiche e dalle repubbliche medievali, che diffidavano delle elezioni, ritenute strumenti destinati a favorire i gruppi sociali più abbienti. E anche di recente varie voci (tra cui quella di David van Reybrouck) hanno sostenuto l'opportunità di integrare i meccanismi elettivi con il ricorso al sorteggio, e alcune sperimentazioni hanno tradotto in pratica (con molti limiti) questa idea. 
A proposito di questa discussione, "Maelstrom" ripropone una recensione critica di "Contro le elezioni" di van Reybrouck.



di Damiano Palano

Una battuta di spirito attribuita a Clement Attlee dice che la democrazia è il governo attraverso la discussione, ma che il governo può effettivamente attuarsi solo se a un certo punto si riesce a far smettere le persone di parlare. Al di là del sarcasmo, la frase di Attlee coglie la tensione strutturale tra la partecipazione e la decisione che caratterizza la forma democratica, e che per molti versi ne garantisce la vitalità. Secondo molti osservatori dei nostri sistemi politici proprio la relazione tra questi due elementi sembra oggi entrare in crisi. Per un verso, molti segnali testimoniano la crescita della sfiducia dei cittadini non tanto verso la forma democratica, quanto verso la classe politica, i suoi leader e i partiti. Per l’altro, gli strumenti a disposizione dei governi sembrano sempre più inadeguati a controllare e regolare i flussi di un mondo globalizzato. Se più o meno tutti gli studiosi sono concordi nel rilevare i sintomi del «disagio» delle nostre democrazie, le opinioni sono però molte diverse a proposito del riconoscimento delle cause profonde del processo. E naturalmente sono abissalmente distanti soprattutto le soluzioni proposte per rivitalizzare le istituzioni democratiche. 
In questo fitto dibattito si inserisce anche Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico (Feltrinelli, pp. 158, euro 14.00), un pamphlet del saggista e poeta belga David van Reybrouck, già noto in Italia per il reportage Congo (Feltrinelli). La tesi di van Reybrouck è in fondo molto semplice (e probabilmente semplicistica). Secondo la sua lettura, la «sindrome da stanchezza democratica» è causata principalmente dal fatto che la democrazia rappresentativa odierna si basa esclusivamente sulle elezioni. «Abbiamo ridotto la democrazia a una democrazia rappresentativa e la democrazia rappresentativa a delle elezioni», scrive per esempio l’intellettuale belga. Se fino a qualche decennio fa le elezioni erano il «combustibile fossile della politica», ora la situazione sembra infatti almeno parzialmente cambiata. In primo luogo, la logica della ‘campagna permanente’ induce i leader politici a pensare alle prossime elezioni, più che all’efficacia della propria attività di governo. Inoltre, la legittimità degli attori politici – esposti costantemente sotto la luce dei riflettori – tende a diventare sempre più fragile. E così una democrazia che si basi ‘soltanto’ sulle elezioni rischia di diventare, al tempo stesso, meno efficiente e meno legittima. 
L’aspetto più controverso del pamphlet di van Reybrouck consiste però nella proposta di reintrodurre il sorteggio come criterio per selezionare i rappresentanti politici. A differenza di quanto facciamo oggi, nell’Atene democratica del V secolo a.C., l’elezione era considerata uno strumento quasi inevitabilmente oligarchico. Al contrario, l’estrazione a sorte dei magistrati era concepita come lo strumento in grado di consentire la legittimità e l’efficacia degli organi politici: perché garantiva una reale rappresentanza della base sociale, perché impediva la concentrazione del potere in gruppi ristretti, e perché rendeva possibile la partecipazione dei cittadini all’esercizio del potere. E sono questi stessi elementi che dovrebbero indurre anche oggi a reintrodurre il metodo del sorteggio. Non tanto per sostituire integralmente gli organi rappresentativi eletti, quanto per affiancarli con consigli di rappresentanti estratti a sorte, come è per esempio avvenuto in alcune sperimentazioni di democrazia deliberativa condotte (non sempre con successo) in Canada, Irlanda, Islanda e Olanda.
Nel pamphlet non è certo difficile riconoscere ben più di qualche semplificazione. Quando ritrova nell’Atene del V e IV secolo il modello di una democrazia basata sul sorteggio, van Reybrouck sottovaluta per esempio il fatto che in fondo conosciamo molto poco di come effettivamente avvenissero le operazioni di sorteggio. Inoltre, quando ricostruisce la genesi della democrazia rappresentativa, trascura quasi del tutto il fatto che le radici istituzionali e dottrinarie del sistema rappresentativo-elettivo affondano nella storia inglese (e non solo dunque nella costituzione americana e nella Francia rivoluzionaria). Ma nel discorso dell’intellettuale c’è un problema forse più rilevante. Il ragionamento prende infatti le mosse dal rapporto problematico tra legittimità ed efficacia dell’attività di governo. In altri termini, la crescente sfiducia dei cittadini nei confronti della classe politica si combina con la percezione della sempre più evidente incapacità dei governi nazionali di controllare e regolare i flussi di un mondo globalizzato. Ma van Reybrouck sembra aggirare completamente questo aspetto, riconducendo la mancata efficienza della democrazia solo alla classe politica e dunque ai tentativi di quest’ultima di preservare margini di potere, a scapito dell’effettiva capacità di governo. Non si tratta certo di un motivo sconosciuto in Italia, perché van Reybrouck – in questo davvero influenzato dal contesto politico belga – non fa altro che rispolverare la vecchia polemica contro il «proporzionalismo», che renderebbe strutturalmente fragili e incapaci di decidere i governi di coalizione. Scrive per esempio: «Ogni sorta di mali, più o meno definiti, indica che diventa sempre più difficile esercitare una gestione attiva. I parlamentari impiegano a volta una quindicina d’anni a votare una legge. I governi fanno sempre più fatica a formarsi, sono spesso meno stabili e, alla fine del loro mandato, sono puniti sempre più severamente dagli elettori. Le elezioni, cui partecipano sempre meno cittadini, costituiscono sempre più spesso un ostacolo all’efficienza». L'analisi di van Reybrouck non è singolare solo perché pare sottovalutare il peso che avuto negli ultimi trent’anni la ‘presidenzializzazione’ in molti paesi europei, ma anche perché dimentica come l’autonomia della classe politica sia stato uno strumento che ha consentito storicamente di limitare, o comunque contrastare, l’autonomia della burocrazia: un’autonomia che oggi non ha più il volto che aveva un secolo fa, ma che si presenta nella forma dei vincoli ‘tecnici’ all’azione di governo, e in particolare – nel Vecchio continente – sotto le spoglie del fatale «vincolo esterno». Ed è proprio la presenza di uno stabile apparato burocratico che modifica radicalmente la prospettiva con cui gli ‘antichi’ guardavano al sorteggio: ad Atene quasi tutte le cariche venivano assegnate per sorteggio e per periodi limitati di tempo, perché di fatto non esisteva una ‘macchina’ amministrativa deputata alla gestione degli affari comuni e formata da personale stipendiato. Ma ovviamente questa non può più essere la nostra prospettiva, ed è davvero ingenuo pensare che quei vincoli ‘tecnici’ che neppure organi legittimati dalla procedura elettorale riescono a rimuovere (o aggirare), possano essere superati virtuosamente da organi sorteggiati. D’altronde, è evidente che il sorteggio non può fare molto per risolvere gli enormi problemi ‘strutturali’ – come la ‘crisi fiscale’ dello Stato o l’invecchiamento della popolazione – che i sistemi occidentali si troveranno ad affrontare nei prossimi anni. E se proprio questa ‘dimenticanza’ rende quantomeno surreale la proposta di van Reybrouck, c’è un'altra dimensione problematica che sembra del tutto sfuggire alla sua attenzione. Non è infatti neppure detto che i rappresentanti estratti a sorte siano davvero immuni dalle pressioni cui sono soggetti i rappresentanti eletti. E non è dunque affatto scontato che, per il solo fatto di non puntare a un nuovo mandato, debbano rivelarsi davvero più ‘liberi’, meno soggetti all’influenza dei media e impermeabili ai mutevoli umori dell’opinione pubblica.

Damiano Palano

mercoledì 13 giugno 2018

L'estate in cui diventammo campioni del mondo. Il mito del Mundial di Spagna nelle pagine di "Italia-Brasile 3 a 2" di Davide Enia



In questi giorni si aprono in Russia i mondiali di calcio, che - sessant'anni dopo l'edizione del 1958 - non vedono tra i partecipanti la nazionale italiana, eliminata nelle qualificazioni. "Maelstrom" ripropone un testo, originariamente apparso sul blog "Mompracem" nel giugno 2010, e dedicato al libro di Davide Enia, "Italia-Brasile 4-3", nel quale lo scrittore e attore palermitano rievocava le storiche giornate in cui la nazionale guidata da Enzo Bearzot conquistò la coppa del mondo.

di Damiano Palano

Tra le date che scandiscono il cambiamento d'epoca, e il passaggio dall'Italia di ieri all'Italia di oggi, una non può essere dimenticata, perché continua a parlare - più di altre - a molti italiani, e soprattutto alle generazioni nate tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta. Per le ragazze e i ragazzi nati in quel periodo, le date che hanno scandito la storia italiana, imprimendo una cesura profonda, un taglio netto fra il 'prima' e 'dopo' - date come, per esempio, il 16 marzo 1978 o il 14 ottobre del 1980 - non hanno infatti un grande significato. E se ancora oggi conservano un valore, l'hanno assunto molto più tardi, in un processo di rielaborazione culturale successivo. Non certo perché non fosse ben chiaro già allora, persino a un ragazzino, cosa fosse accaduto in Via Fani, ma perché il significato reale di quei fatti e il peso che avrebbe avuto nella costruzione della memoria collettiva del paese sarebbero diventati chiari molti anni dopo. C'è però un'altra data, in cui quelle generazioni - e, insieme a loro, buona parte dell'Italia, al Sud come al Nord - sono nate davvero. E, per così dire, hanno scoperto il mondo come prima non avevano neppure mai osato pensarlo. Quella data è l'11 luglio del 1982. Perché in quella notte, la nazionale italiana di calcio, quella di Zoff, Gentile, Cabrini, Conti, Rossi, ecc., saliva per la prima volta - o, meglio, dopo le vittorie (lontanissime) del '34 e del '38 - sul tetto del mondo.


Per quanto si trattasse 'soltanto' di un evento sportivo, quella notte e l'intera estate del 1982 furono con ogni probabilità un momento di snodo cruciale per la ridefinizione dell'identità italiana. Un momento che incise molto più di altre vicende politiche, pur importanti. Non soltanto perché quella notte venne vissuta da molti come il più importante avvenimento nell'esperienza collettiva del paese, e persino nelle vite individuali di ciascuno. Ma anche perché fu un momento che venne a dividere la storia dell'Italia contemporanea fra un 'prima' e un 'dopo'. Un 'dopo' in cui nulla sarebbe stato più come prima.

Davide Enia, un attore e autore di grande talento, ha dedicato il suo monologo probabilmente più popolare al momento cruciale dell'avventura della nazionale di Bearzot. In Italia-Brasile 3 a 2 - un monologo andato in scena per la prima volta nel 2002, pubblicato anche in volume dall'editore Sellerio di Palermo, e diventato ormai una sorta di piccolo classico contemporaneo - Enia rievoca proprio la straordinaria partita che contrappose la rappresentativa italiana alla nazionale verde-oro. Ma non tocca certo le corde della nostalgia. I pochi che non hanno visto lo spettacolo - sempre entusiasmante - o letto il libro possono infatti stare tranquilli, perché non c'è proprio nulla di quello che abbondava a piene mani in un testo teatrale all'apparenza simile, come Italia-Germania 4-3. In quest'ultimo lavoro (scritto da Umberto Marino e trasposto anche sul grande schermo da Andrea Barzini), l'unica nota che emergeva, alla fine, era solo un patetico alone di malinconia e di commiserazione. E la vittoria italiana nella semifinale di Mexico '70 era solo il pretesto per intonare l'ennesima elegia per una generazione in crisi di identità. In Italia-Brasile 3 a 2 non c'è nulla di tutto questo. Perché Enia, riuscendo a mettere a frutto le proprie qualità di autore e di interprete, racconta quella partita nell'unico modo possibile. Dato che Italia-Brasile - quella Italia-Brasile - è ormai una parte di noi, dato che le sequenze di quello scontro sono diventate un momento decisivo nell'esperienza collettiva, Enia non mette in scena la 'vera' partita, ma la partita - ancora più vera - giocata nel soggiorno di casa Enia, dinanzi al televisore (un solenne, avveniristico, quasi minaccioso, Sony Black Trinitron) nel torrido pomeriggio del 5 luglio 1982.


Dinanzi al racconto di quei febbrili novanta minuti, tutti noi non possiamo che riconoscerci negli indimenticabili personaggi del teatrino allestito da Enia, nei loro comici (ma così familiari) rituali scaramantici, nei loro odi viscerali, nelle loro passioni travolgenti, nei loro passaggi repentini dal più nero pessimismo alle più triviali spacconate. E non possiamo che tornare al soggiorno di casa nostra, o in qualsiasi altro luogo abbiamo seguito quello scontro epico, per incontrare ancora una volta la sagoma flemmatica di Socrates, le geometrie imprevedibili di Falçao, o le punizioni di Zico. Per rivivere le cavalcate di Bruno Conti e le gagliarde entrate di Claudio Gentile, o per ritrovare il punto esatto in cui il vecchio patriarca Dino Zoff riuscì a fermare sulla linea la spietata incornata di Leandro. Ma, soprattutto, non potremo mai dimenticare il momento in cui, indossando la maglia con il fatidico numero 20, il rachitico Paolo Rossi partiva verso le sue indimenticabili, rapaci, imprevedibili accelerazioni. Il momento in cui indirizzava il suo piede - così apparentemente legnoso, eppure così implacabile - verso l'angolo più lontano della porta del Sarrià di Barcellona. 


Ed è forse proprio la figura di Paolo Rossi - o "Paolorrossi", come lo chiama Enia, nel suo vernacolo palermitano, ricco di invenzioni e persino di richiami classici - a racchiudere in sé gran parte della storia di quel mondiale:

"Paolorrossi... quello che 'non tornerai mai più il giocatore di calcio che sei stato un tempo'... quello che 'tornatene a casa'... 'sei la vergogna dell'Italia...'
Paolorrossi... quello che in 232 minuti cambia tutto.
Dal 5' minuto di Italia-Brasile al 57' minuto di Italia-Germania, Paolorrossi nato a Prato segna 6 gol consecutivi:
3: al Brasile
2: alla Polonia, in semifinale
1: il primo nella finalissima alla Germania Ovest
cambiando di fatto la storia della competizione mondiale
cambiando la storia della nazionale italiana di calcio che dal 1938 non vinceva suddetto titolo
cambiando la storia dell'Italia che si trova unificata nella più grande festa popolare di piazza da Aosta a Palermo dai tempi della Liberazione dal nazifascismo
cambiando la sua storia professionale, conseguendo il titolo di capocannoniere della competizione mondiale e venendo eletto quell'anno il migliore giocatore di calcio al mondo
e cambiando, sopra ogni cosa, la sua vicenda umana passando dalla merda che quotidianamente gli veniva gettata addosso infangandolo alla santificazione in vita per miracoli conclamati sul terreno di gioco" (pp. 45-46).


Quella partita, insieme all'epilogo della vittoria sulla Germania, al Santiago Bernabeu di Madrid, non si sarebbe semplicemente impressa nell'immaginario collettivo di una generazione. Ne sarebbe diventata l'unico tratto realmente autobiografico, l'unico momento realmente condiviso. E, soprattutto, sarebbe diventata il grande racconto attorno al quale annodare la trama di tutte le singole esistenze di giovani privi di qualsiasi rilevante riferimento ideologico, politico, culturale. Così, ognuno di loro - di tutti quelli che avevano spinto la testa e il piede di Pablito nelle fatali giornate spagnole - avrebbe vissuto i periodi di difficoltà, lo scherno degli amici, l'incapacità di ingranare, come se si trattasse della prima fase del Mundial. Come se si trovasse dinanzi al Perù e al Camerun: avversari tutto sommato inferiori, ma di cui risulta difficile venire a capo. Ognuno di loro avrebbe confidato che queste difficoltà fossero solo il 'primo turno', solo la fase di riscaldamento prima dello slancio. Nella convinzione che, dopo il risicato, sofferto passaggio del turno, le cose sarebbero cambiate del tutto. Nella certezza che la cavalcata sarebbe cominciata, travolgendo uno dopo l'altro - dinanzi allo stupore di tutti, contro tutti i pronostici, contro il discredito di tutti i critici e della stampa - le loro personali Argentina, Brasile, Polonia e Germania. Nella speranza che, alla fine, quello che tutti ritenevano un giocatore finito, si rivelasse - proprio come Paolo Rossi - l'imprevedibile, immarcabile centravanti capace di diventare, davanti agli occhi increduli del mondo, un grande campione. E che tutto si sarebbe concluso con il liberatorio, immortale urlo di Marco Tardelli.



Ma non è stato solo un sogno individuale. E non è stato soltanto il sogno di una generazione di ragazzi, che per anni – nei momenti più esaltanti, come in quelli di maggiore difficoltà – sarebbe tornata a quella notte, a tutta la cavalcata del Mundial di Spagna. È stato il sogno di un intero Paese, che, con la vittoria al Mundial di Spagna, si scopriva diverso. Un paese che cambiava pelle proprio nella canicola di quelle indimenticabili giornate dell’estate dell’82. Un paese che, in quei giorni, si lasciava alle spalle il passato. E si indirizzava davvero verso gli anni Ottanta. Abbandonando qualche zavorra. Ma lasciandosi dietro anche qualcosa di più.
In un libro ricco di sollecitazioni sugli anni Ottanta, Marco Gervasoni ha ovviamente ritrovato proprio nel Mundial spagnolo lo snodo di un mutamento culturale profondo (M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia, 2010). Nella sua ricostruzione, Gervasoni ritrova per esempio nel Pertini del Santiago Bernabeu (e in quello che giovava a scopone sull’aereo presidenziale, insieme a Bearzot) i tratti di «un italiano nuovo e antico al tempo stesso», qualche volta insofferente verso le regole del protocollo, persino protagonista di gaffe imbarazzanti, ma al tempo stesso «immagine di un paese vitale, dinamico, di cui ci si poteva sentire orgogliosi» (ibi, p. 29). Un Pertini, insomma, che anticipava già alcuni dei tratti personalistici che avrebbero in seguito segnato la politica italiana. Ma, soprattutto, Gervasoni riscopre il senso (culturale e persino politico) che, già allora, veniva assegnato alla vittoria da alcuni commentatori del Mundial. Gianni Brera, nelle sue corrispondenze dalla Spagna, esaltava per esempio il catenaccio della nazionale di Bearzot come un ritratto fedele dell’identità italiana, perché il catenaccio esprimeva una «paura canina, cioè in certo modo feroce, perché è assodato che i cani mordono quando hanno paura». Ma, dopo la vittoria, Brera non si ritraeva certo dalle celebrazioni della «cara vecchia e smandrappata Italia», che aveva «sfruttato appieno le virtù della sua indole»: «al diavolo i malevoli i cacaminuzzoli gli invidiosi gli incompetenti i pirla i fessi ai quali non è piaciuta la vittoria italiana. Io triumphe, avventurata Italia. Dovessi per un mese cantare le tue caste glorie, ebbene, lo farei con grato entusiasmo. […] Il terzo titolo mondiale dell’Italia non si discute come non si discutono i miracoli veri» (da «la Repubblica», 14 luglio 1982, citato da Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta, cit., p. 32). E ancora più esplicito era Mario Soldati, inviato dal «Corriere della Sera» in Spagna per seguire gli aspetti di colore dei mondiali, che scriveva, all’indomani della notte di Madrid: «è la prima volta, dal lontanissimo (avevo dodici anni ma mi ricordo) 1918, durante la festa della vittoria nella guerra ‘15-’18, la prima volta che mi sento patriottico all’antica […] Non c’è stato anche il 24 luglio? Non c’è stato anche il 25 aprile? Sì, senza dubbio, ma in queste due date certamente più gloriose, purtoppo l’Italia era ancora divisa, divisa dentro di sé. Oggi non più […]. C’è qualcosa di nuovo nell’aria» (M. Soldati, Ah! Il Mundial!, Sellerio, Palermo, 2008, p. 120, citato sempre da Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta, cit., p. 32). E gli entusiasmi andavano ben al di là delle consuete iperboli dei commentatori sportivi. Persino «l’Unità», quello che era ancora il quotidiano del Pci di Berlinguer, non si sottraeva all’entusiasmo, leggendo addirittura nella rinascita patriottica un segnale di rinnovamento politico. Proprio sull’«Unità» del 13 luglio 1982 si leggeva, infatti: «è avvenuto qualcosa di inedito, di travolgente, forse di effimero eppure di indimenticabile: qualcosa su cui occorre riflettere, scavare, come merita un momento così sorprendente della nostra biografia collettiva […]. Tutto ciò è converso nell’elemento simbolico, costantemente esibito, del tricolore, cioè della nazione, da parte di un popolo che, come molti riconoscono, non è né sciovinista, né xenofobo, a cui anzi si rimprovera un deficit di unità, di cultura e di identità». E la medesima lettura avrebbe spinto l’allora sindaco di Roma, il comunista Ugo Vetere, a vedere, nell’entusiasmo delle masse capitoline all’arrivo degli azzurri nella capitale, l’annuncio di una trasformazione sociale: «dalla pagina che è stata scritta tutti insieme», secondo le parole di Vetere, «può crearsi la possibilità di trasformare questa gioia, questa voglia di stare insieme in ricerca, speranza, volontà collettiva, di avere di conquistare una società più giusta, più bella, più umana» (ibi, p. 30). 
Certo, nell’atmosfera di quei giorni la retorica non poteva che abbondare, diventando una vera e propria marea montante. Ma, effettivamente, quella notte e quell’estate, l’Italia, improvvisamente, si ritrovò unita attorno al tricolore e alla maglia azzurra, riconquistando, dopo le divisioni e le lacerazioni anche dolorose degli anni precedenti, un’omogeneità nuova. Un’omogeneità che, al di là della retorica, neppure gli anni del terrorismo e dell’emergenza avevano realmente garantito. E che, invece, la grande cavalcata spagnola aveva magicamente ricomposto. Anche perché l’Italia poteva – o voleva – riconoscersi nell’exploit imprevedibile di Paolo Rossi, nella gloria tardiva di Dino Zoff, nella grinta di Claudio Gentile, nel catenaccio di Bearzot. Nella sua ricostruzione, Gervasoni ritrova così nell’estate del 1982 il passaggio emotivo, simbolico, culturale, dall’Italia degli anni Settanta all’Italia degli anni Ottanta, o, meglio, da un’Italia segnata dalla violenza e dal conflitto a un’Italia ottimista e rampante:

Gli italiani con il tricolore sentivano di poter uscire da un paese credendo in loro stessi, in una nazione nuova, solidale sì (il messaggio thatcheriano non poteva passare), ma allo stesso modo della squadra di calcio, fondata sul merito delle singole individualità. L’Italia immaginata dai tifosi era la stessa nazionale informale del ‘catenaccio’, delle piccole imprese e dei distretti snobbati dall’establishment economico, l’Italia degli stilisti, che venivano dal nulla e dalla provincia, guardati con sospetto dalle grandi industrie e dal cosiddetto salotto buono del capitalismo italiano. Era la nazione istituzionale incarnata, più di tutti, da Pertini, quella che alle regole e ai protocolli contrapponeva ‘l’umanità’ e ‘l’imprevisto’. […] Il Mondiale rappresentò la conferma di un nuovo stato d’animo – e fu sprone ad andare avanti – che valeva per tutti, al di là delle appartenenze politiche, culturali, sociali e, a quel punto, anche geografiche. Lo spirito di ottimismo generato dalla vittoria della coppa poté così convivere, nei mesi successivi, con eveti gravi, lo scandalo Ior, l’assassinio di Dalla Chiesa, nuovi attentati del terrorismo. Gli italiani, però, si sentivano già in un clima nuovo: anche se omicidi, scandali, crisi caratterizzarono gli anni successivi, tutti erano proiettati verso un mondo nuovo (M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta, cit., pp. 32-33).

Naturalmente, nella parole di Gervasoni non è difficile ritrovare l’intento di riabilitazione degli anni Ottanta, che d’altronde sostiene il suo volume. Ma, effettivamente, la vittoria ai mondiali spagnoli fu un episodio chiave dell’autobiografia nazionale. Un episodio che incise in profondità, perché, a partire da quel momento, l’Italia non rappresentò più se stessa allo stesso modo. Dopo quell’estate, però, l’Italia perse forse per sempre qualcosa. E questa perdita – rileggendo quegli eventi quasi trent’anni dopo – non può che emergere in modo chiaro.
La vittoria nella notte di Madrid e quella nella canicola del Sarrià furono infatti le vittorie del ‘catenaccio’, il gioco all’italiana per eccellenza, l’arma nobile dei poveri, l’arma delle squadre prive di talento ma ricche di passione. Ma, dopo la vittoria al mondiale, le cose cambiarono rapidamente. Il campionato italiano diventò – o iniziò a essere rappresentato – come ‘il più bello del mondo’, quello in cui giocavano grandi campioni stranieri come Platini, Zico e Maradona. E, ben presto, lo spettacolo televisivo richiese, o impose, una svolta spettacolare anche al calcio. Il catenaccio fu abbandonato, la zona sostituì la marcatura a uomo, e così, il calcio all’italiana, se non sparì del tutto, divenne l’emblema del ‘vecchio’, un antico retaggio di cui la ‘nuova’ Italia si doveva liberare, non solo per rimanere al passo coi tempi, ma anche per aderire alla nuova fisionomia di un paese vincente, individualista e rampante. Ma, insieme al catenaccio, che aveva regalato al paese la più grande gioia sportiva della sua storia, l’Italia doveva liberarsi anche del proprio passato. Un passato di divisioni profonde, radicate, che non venivano affatto rimarginate o superate, ma semplicemente rimosse da una sorta di ri-unificazione puramente emotiva, destinata a dissolversi rapidamente. Alla fine degli anni Ottanta, infatti, molti dei motivi su cui era cresciuto il mito del successo italiano si dovevano svelare come semplici illusioni. E, una volta scemato l’entusiasmo, sul tappeto dovevano rimanere soltanto il rancore, il risentimento e il rimpianto.
Ma tutto questo doveva venire dopo. L’estate del 1982 fu davvero irripetibile. E l’avventura spagnola dei ragazzi di Bearzot fu una cavalcata straordinaria e imprevedibile. Una cavalcata che solo l’epica può raccontare, e che il monologo di Enia, con i suoi indimenticabili personaggi, stretti attorno al solenne Sony Black Trinitron, riesce ogni volta a far rivivere. Facendoci ridere e commuovere. E restituendoci, almeno per un attimo, l’innocenza perduta.

Damiano Palano



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martedì 12 giugno 2018

Se il migrante diventa un'arma. Un libro di Kelly M. Greenhill sull'utilizzo delle migrazioni come strumento di condizionamento politico



di Damiano Palano

In questi giorni la vicenda della nave Aquarius ha riaperto la discussione sull'utilizzo delle migrazioni come strumento di condizionamento politico. Non si tratta infatti di un caso inedito perché in diverse occasioni i flussi migratori - reali o minacciati - sono diventati strumenti con cui gli Stati hanno richiesto e ottenuto vantaggi economici o politici. A questo proposito, "Maelstrom" ripropone una recensione al volume di Kelly M. Greenhill, Armi di migrazione di massa. Deportazione, coercizione e politica estera (Leg, pp. 482, euro 20.00), apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 6 giugno 2017.

Nel 1979, durante uno storico incontro con Deng Xiaoping, il presidente americano Jimmy Carter pose la questione del mancato rispetto dei diritti umani da parte della Repubblica Popolare. E dichiarò che, se il regime non avesse concesso ai propri cittadini la possibilità di emigrare senza restrizioni, gli Stati Uniti non avrebbero potuto commerciare liberamente con la Cina. La replica di Deng lasciò però Carter letteralmente disarmato: «Va bene. Allora, esattamente quanti cinesi le piacerebbe avere, signor presidente? Un milione? Dieci milioni? Trenta milioni?». La minaccia di Deng non si concretizzò mai. Ma l’episodio – ricordato da Zbigniew Brzezinski – può essere considerato come una testimonianza della fragilità che le democrazie liberali spesso mostrano dinanzi alla prospettiva di essere investiti da flussi migratori di massa. Una fragilità che, in qualche caso, può essere sfruttata politicamente da alcuni Stati per ottenere concessioni, o comunque per esercitare pressione.
Proprio a questo tema è dedicato il volume di Kelly M. Greenhill, Armi di migrazione di massa. Deportazione, coercizione e politica estera (Leg, pp. 482, euro 20.00). Greenhill sostiene infatti che, almeno in alcuni casi, le migrazioni progettate coercitive – ossia movimenti transfrontalieri deliberatamente creati o manovrati da Stati o organizzazioni non statali – possano essere sfruttate per ottenere concessioni politiche, militari ed economiche. Nel periodo compreso tra il 1951 e il 2010, la politologa ne riconosce ben cinquantasei casi. Le proporzioni della popolazione coinvolta e lo stesso profilo degli attori protagonisti furono ovviamente, di volta in volta, molto diversi. Nel 1953, l’allora cancelliere della Repubblica Federale tedesca Konrad Adenauer tentò per esempio di sfruttare l’improvviso afflusso di circa trecentomila profughi dalla Germania Est (dipinto come un deliberato piano di destabilizzazione ordito dall’Unione Sovietica) per ottenere aiuti straordinari dagli Stati Uniti. Un caso analogo vide protagonista l’Austria, che nel 1956 dichiarò che non avrebbe più accolto i rifugiati in fuga dall’Ungheria, se gli Stati Uniti non avessero fornito un consistente supporto finanziario per la gestione dell’emergenza. In altre occasioni le migrazioni furono invece direttamente innescate (o favorite) da parte di chi esercitava la pressione. Fidel Castro alimentò per esempio varie volte i flussi di profughi cubani verso la Florida per riaprire la contrattazione con Washington. E nel 1993 l’ex presidente haitiano Jean-Bertrand Aristide ebbe probabilmente un ruolo nel promuovere quell’afflusso di boat people verso le coste degli Stati Uniti che indusse l’amministrazione Clinton a intervenire nell’isola.
Il testo di Greenhill offre sicuramente una chiave di lettura. Ma – è importante sottolinearlo – i suoi risultati non possono essere fraintesi. In particolare, i flussi di profughi e migranti che negli ultimi anni hanno investito l’Europa non possono essere considerati semplicisticamente come il frutto di un deliberato calcolo politico, diretto a indebolire il Vecchio continente mediante una «bomba demografica». Anche se certo alcuni attori hanno tentato di utilizzare e manipolare quei flussi per ottenere benefici (non solo economici). Quasi sempre la coercizione per mezzo di migrazione sfrutta d'altronde flussi innescati da altri processi (spesso ben più complessi). Inoltre questo strumento di pressione – come mette in luce la politologa – riesce a far leva sul fatto che, nelle democrazie liberali, la popolazione tende a considerare la limitazione dei flussi migratori come un imperativo molto più rilevante rispetto a qualsiasi altra questione di politica estera. Al tempo stesso, gli Stati democratici considerano spesso troppo elevato ciò che Greenhill chiama il «costo dell’ipocrisia», ossia il costo in termini di credibilità e reputazione derivante dal mancato rispetto di quei diritti che pure vengono solennemente dichiarati inviolabili. Proprio una simile debolezza rende infatti gli Stati occidentali bersagli sensibili alla minaccia di diventare oggetto di flussi migratori. E dunque spesso disponibili ad accogliere le richieste di quegli attori che usano i migranti come un’arma per ottenere concessioni.

 Damiano Palano