lunedì 25 ottobre 2021

La «società civile», limite del potere. Un libro di Flavio Felice sulla tradizione del "popolarismo liberale"



di Damiano Palano

Questa recensione è apparsa sul quotidiano "Avvenire"

Nell’ultimo anno le misure straordinarie adottate per fronteggiare la pandemia hanno indotto molti osservatori a chiedersi se stia avvenendo qualcosa di simile alla trasformazione che si produsse tra le due guerre mondiali. Naturalmente ciò che abbiamo davanti ha ben poco a che vedere con i totalitarismi novecenteschi. E dunque il paragone rischia di essere del tutto fuorviante. Ma senza dubbio nuove tensioni potrebbero incidere sul rapporto tra Stato e società, oltre che sulla stessa relazione tra libertà e autorità. Per decifrare le novità nelle modalità di esercizio del potere avremmo però bisogno di un diverso vocabolario teorico. Ed è anche con questo spirito che si può leggere il volume di Flavio Felice, Popolarismo liberale. Le parole e i concetti (Scholé-Morcelliana, pp. 157, euro 13.00), che torna a Luigi Sturzo – ma anche a Lord Acton, Wilhelm Röpke e Sergio Cotta – per mettere insieme una sorta di «cassetta degli attrezzi» con cui interpretare le sfide del tempo presente. Come scrive Felice nelle pagine introduttive, l’emergenza che stiamo vivendo non sta solo modificando le nostre abitudini. Con l’obiettivo di difendere energicamente la vita umana, viene infatti investita la sfera delle libertà. Ma a ben guardare non si tratta di una dinamica davvero nuova. «L’emergenza», osserva Felice, «non fa altro che accelerare o porre in evidenza processi già in atto da tempo, ponendoci di fronte al fatto che il potere è in grado di esercitare la sovranità sospendendo parti dell’ordinamento». E, dinanzi al disorientamento della società civile, sembra prendere corpo una sorta di «paternalismo liberale», che vede il sovrano presentare se stesso come il pastore in grado di guidare il popolo in nome del suo bene. Un paternalismo che sostituisce la responsabilità individuale con forme di orientamento dall’alto dei nostri stili di vita. E che in fondo materializza lo spettro evocato da Tocqueville, quando nella Democrazia in America ipotizzava che il crescente individualismo potesse spingere verso un nuovo tipo di dispotismo: «un potere immenso e tutelare» che si incarica di assicurare i beni dei cittadini e di vegliare sulla loro sorte.


È dinanzi a questo scenario che Felice torna al «popolarismo liberale» di Sturzo. Il punto chiave del ragionamento consiste soprattutto nel riconoscere le implicazioni della cesura introdotta dal cristianesimo nel rapporto tra libertà e politica. La frase di Gesù «Rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» implica infatti la desacralizzazione dell’autorità politica, ma anche l’affermazione dell’esistenza di vincoli cui l’autorità politica è sottoposta. «La personalità umana», scriveva Sturzo in un passaggio richiamato da Felice, «diveniva, in virtù di un riconoscimento religioso, il centro e il fine di ogni attività collettiva». E quel processo di desacralizzazione comportava così la sottomissione del potere politico al regno inviolabile della coscienza e il rispetto di ciascuna persona, in forza della sua dignità trascendente. Il «popolarismo liberale» trova inoltre nella società civile un concreto baluardo contro «le pretese onnivore delle autorità politiche» e contro le «mega organizzazioni economiche». In questo caso, la «società civile» deve essere però concepita – in linea non solo con contributo sturziano ma anche con l’«economia sociale di mercato» di Röpke – come l’insieme delle diverse forme del vivere sociale in cui si riflettono le esigenze della natura umana. Ed è in una simile accezione che la società civile può svolgere «il ruolo di baluardo critico contro le pretese onnivore di coloro che detengono momentaneamente il potere».

La riflessione di Sturzo era ovviamente anche il portato della lunga stagione che aveva visto nascere nuovi regimi dispotici e che aveva gettato il Vecchio continente nell’orrore della guerra e degli stermini di massa. Quella stagione è davvero lontana dal clima in cui viviamo, e ogni paragone tra le crisi di un secolo fa e quelle che stiamo vivendo sarebbe quantomeno improprio. Ciò nondimeno sarebbe davvero colpevole ritenere che le preoccupazioni del prete di Caltagirone e la sua riflessione sulle caratteristiche di una società «plurarchica» non abbiano più nulla da dirci. Anche se le insidie che ci attendono sono nuove, quegli strumenti rimangono davvero utili. E nei prossimi anni dovremo così ricorrere spesso a quella preziosa «cassetta degli attrezzi».

Damiano Palano

lunedì 11 ottobre 2021

Norberto Bobbio e la scienza del potere. Un corso degli anni Sessanta curato da Tommaso Greco



di Damiano Palano

Negli anni Sessanta Norberto Bobbio iniziò ad allontanarsi dalla teoria del diritto per avvicinarsi agli studi politici. In realtà anche in precedenza l’intellettuale torinese si era occupato di temi politici, per esempio curando opere di Hobbes e di Marx o intervenendo nella discussione pubblica. Ma alla fine degli anni Cinquanta si convinse che la stagione delle più nette contrapposizioni ideologiche fosse finita, e che dunque fosse possibile osservare la politica con maggior distacco. 

Iniziò così a confrontarsi con Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, i due pensatori che con più energia, a cavallo tra Otto e Novecento, avevano in Italia coltivato il progetto di uno studio scientifico dei fenomeni sociali e politici. Ma, per sostenere l’utilità della lezione di questi teorici, Bobbio doveva superare due ostacoli. Innanzitutto, si trovava alle prese con il compito di rendere presentabile la riflessione di pensatori tutt’altro che generosi nei confronti dell’ideale democratico. Nei Saggi sulla scienza politica in Italia, pubblicati nel 1969, sostenne così che l’esistenza delle élite – ‘scoperte’ da Mosca e Pareto – non era necessariamente incompatibile con la democrazia, anche se quest’ultima andava concepita come un assetto in cui esistono molte élite, le quali si controllano reciprocamente e si contendono il potere di governare all’interno di un perimetro di procedure. Il secondo ostacolo era invece rappresentato dalle obiezioni degli intellettuali storicisti e in particolare di Benedetto Croce, che aveva definito il Trattato di sociologia generale di Pareto come una mostruosità e che, in generale, aveva criticato (non senza fondamento) le ingenuità e le semplificazioni del positivismo di fine Ottocento. Più che alla lezione di Mosca e Pareto, Bobbio attinse in questo caso all’immagine della «scienza empirica della politica» che giungeva allora dagli Stati Uniti.

Una testimonianza di questi interessi è ora offerta dal volume di Bobbio, curato da Tommaso Greco, Il problema del potere. Introduzione al corso di scienza della politica (Giappichelli, pp. 98, euro 15.00), che riproduce un ciclo di lezioni tenute all’Università di Torino nel 1966. Il libro restituisce il corso nella sua struttura scheletrica, dal momento che si tratta di una trascrizione. Ma consente comunque di cogliere l’impostazione di fondo. Collocando il punto focale della scienza politica nello studio del potere, Bobbio si confrontava con classici come Machiavelli e Hobbes, ma anche con Max Weber, Carl Friedrich e Harold Lasswell. E giungeva anche a esaminare il rapporto tra potere e diritto, che ai suoi occhi rappresentavano le due facce di un medesimo fenomeno.

Rileggere il corso è però interessante anche per la divisione dei compiti tra filosofia politica e scienza politica che Bobbio delineava. Costruendo una «mappa» che negli anni a venire avrebbe ulteriormente precisato, individuava molte aree di intersezione tra i due campi. Ma, in ogni caso, riprendendo (criticamente) le proposte che giungevano dagli Stati Uniti, qualificava la scienza politica soprattutto come una scienza empirica, non prescrittiva e avalutativa. «Lo scienziato politico», si legge infatti nel corso, «deve proporsi il compimento della sua indagine ‘con la mente sgombra’: senza pregiudizi ideologici». Alcuni anni dopo, la contestazione studentesca mise radicalmente in discussione la pretesa delle scienze sociali di essere davvero prive di «pregiudizi ideologici». E lo stesso Bobbio riconobbe i rischi di una «politica scientifica», solo all’apparenza libera da condizionamenti ideologici. Ma non per questo rinunciò a difendere il principio dell’«avalutatività», che rimane in effetti un criterio ancora oggi cruciale, seppur tutt’altro che privo di implicazioni problematiche, per intendere correttamente lo studio «scientifico» dei fenomeni politici e sociali.

 Dalle scienze sociali ci si debbono attendere d’altronde – nel migliore dei casi – descrizioni efficaci e spiegazioni convincenti, in grado di contribuire alla discussione pubblica e alla formulazione delle decisioni. Ma sarebbe ingenuo (e forse pericoloso) sperare che possano fornire la soluzione dei problemi, o pretendere che, in nome di una conoscenza priva di ‘infiltrazioni ideologiche’, possano compiere quelle scelte politiche, talvolta persino tragiche, che richiedono non solo di fissare gli obiettivi da perseguire, o di decidere quale sia il «male minore».

 Damiano Palano

 

 


domenica 10 ottobre 2021

Il problema della democrazia sono gli elettori? "In difesa della democrazia" di Roslyn Fuller


di Damiano Palano

Questa recensione al volume  di Roslyn Fuller, In difesa della democrazia (Ariele, pp. 225, euro 18.00) è apparsa su  quotidiano "Avvenire".

Da ormai alcuni anni il disincanto nei confronti della democrazia ha iniziato a coinvolgere l’Occidente. Forse, come sostengono alcune ricerche, gli elettori si sentono meno legati che in passato ai valori democratici. Ma è dalle fila dell’élite intellettuale che si stanno levando voci davvero critiche. Emblematico di questa tendenza intellettuale è il pamphlet Contro la democrazia di Jason Brennan, ma in una direzione simile si sono mossi per esempio Bryan Caplan e Ilya Somin, che in modo diverso hanno sostenuto che gli elettori non sono affatto ‘razionali’. Contro questa letteratura si muove il libro di Roslyn Fuller, In difesa della democrazia (Ariele, pp. 225, euro 18.00), che, con passione militante, mostra le incongruenze e i limiti di alcuni degli ‘anti-democratici’ contemporanei. Imputare agli elettori le difficoltà odierne della democrazia, accusarli di essere ignoranti o di farsi sedurre dalle proposte di abili demagoghi, secondo Fuller, non è soltanto semplicistico, ma è anche scorretto. Simili argomentazioni si basano cioè su una distorsione del reale comportamento degli elettori. E le stesse ricerche che sostengono che i cittadini sono mediamente ignoranti in campo politico sarebbero in realtà inaffidabili, perché basate su domande nozionistiche, che non hanno nulla a che vedere con l’effettiva capacità delle persone di decidere su questioni politicamente rilevanti. 

Fuller non ha così grosse difficoltà a mettere in luce l’inconsistenza di alcuni ragionamenti intorno all’irrazionalità dell’elettore, che nascono in realtà da una revisione delle teorie economiche della democrazia (basate su una rappresentazione piuttosto irrealistica del comportamento di voto). Ma Fuller non si limita a una critica, perché propone un modello alternativo di democrazia, che prevede l’innesto robusto di strumenti di democrazia elettronica, la retribuzione della partecipazione alle assemblee, il ricorso al sorteggio per supervisionare i compiti esecutivi. L’attuazione di un simile modello appare naturalmente molto problematico. Ma non è solo la fiducia riposta nella democrazia diretta (seppur rivisitata) a destare più di qualche perplessità. Lo stato di salute delle democrazie occidentali non è infatti solo relativo a ‘chi’ prende le decisioni, ma dipende anche dall’ambiente esterno in cui una democrazia è collocata, dalle condizioni da cui essa trae le proprie risorse. E dunque dal contesto in cui maturano le scelte degli elettori. Dire che gli elettori non sono ‘irrazionali’, non significa dunque che – specie in momenti di crisi sociali ed economiche – non possano compiere scelte disastrose. La storia europea, sotto questo profilo, ci fornisce più di qualche ammonimento. Probabilmente non dovremmo guardare al futuro con eccessivo pessimismo, e il libro di Fuller da questo punto di vista rimane un ottimo antidoto contro previsioni eccessivamente negative. Ma non dovremmo trascurare i problemi e vincoli strutturali con cui le «tarde democrazie» si troveranno alle prese nei prossimi anni.

Damiano Palano

 

 

 

 

 

 

domenica 3 ottobre 2021

Charles Wright Mills, l’«immaginazione sociologica» di un outsider in un libro di Diego Giachetti

di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Diego Giachetti, Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills (Derive Approdi, pp. 185, euro 17.00), è apparsa sul quotidiano "Avvenire".

Nelle ricostruzioni dedicate alle origini della contestazione studentesca, spesso si è ricordato come tra le letture che alimentarono le ansie di rivolta figurassero libri – tra loro abissalmente diversi – come Lettera a una professoressa di don Milani, L’uomo a una dimensione di Marcuse e il libretto delle citazioni di Mao. Tra gli scaffali di quella libreria forse un posto non marginale era però occupato anche dai testi di Charles Wright Mills, che editori come Einaudi, Feltrinelli, Saggiatore e Jaca Book avevano ben presto reso disponibili per i lettori italiani. Per i giovani degli anni Sessanta, i libri di Mills – in particolare I colletti bianchi, l’Élite del potere, L’immaginazione sociologica – dovevano d’altra parte risultare più attraenti del tecnicismo di gran parte delle scienze sociali del tempo, ben rappresentate dal funzionalismo di Talcott Parsons. E il linguaggio chiaro con cui metteva in luce le dinamiche spersonalizzanti e le tendenze oligarchiche presenti nella società americana suonava certamente più comprensibile delle riflessioni marcusiane. Per quanto Mills fosse allora visto in Italia come uno degli esponenti di punta della sociologia statunitense, la sua posizione nel mondo accademico d’oltreoceano rimase sempre di quella di un outsider. Come mostra Diego Giachetti nella biografia, Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills (Derive Approdi, pp. 185, euro 17.00), fu in effetti uno studioso inquieto, insofferente nei confronti delle convenzioni prevalenti. Più che ad altri scienziati sociali del tempo, può essere forse accostato ai beatniks, e non è certo casuale che la foto in copertina – che lo ritrae con un giubbotto di pelle, mentre sfreccia a bordo di una motocicletta – rimandi alle atmosfere dei romanzi di Jack Kerouac.

Nato in Texas nel 1916, Mills ottenne il dottorato in sociologia nel 1942 con una tesi sul pragmatismo. Più che l’impostazione teorica, Mills riprese da John Dewey e dagli altri esponenti del pragmatismo l’idea che l’intellettuale dovesse partecipare attivamente alla discussione pubblica. Fortemente influenzato da Max Weber, si interessò a più riprese del marxismo, pur criticandone il determinismo (e conservando sempre una valutazione negativa del sistema sovietico). E proprio ai marxisti dedicò il suo ultimo libro, pubblicato nel 1962, quando fu stroncato da un attacco cardiaco all’età di quarantasei anni. Ma si ispirò anche a Tornstein Veblen, uno dei grandi pionieri della sociologia, e alla sua Teoria della classe agiata. Forse è così anche per l’insieme di tanti eterogenei riferimenti intellettuali che la sua ricerca sulle élite negli Stati Uniti – in cui sosteneva fosse in atto una concentrazione del potere economico, militare e politico nelle mani di una compatta minoranza – può essere ancora oggi letta come un piccolo classico. E come la testimonianza della capacità di guardare alla società e alle sue trasformazioni con un’ampiezza prospettica e una profondità d’analisi che le scienze sociali sembrano aver perso da molto tempo.

Damiano Palano