lunedì 26 novembre 2018

Il mistero della Teologia politica di Carl Schmitt. Un libro di Heinrich Meier



di Damiano Palano

Questa recensione al libro di Heinrich Meier, "La Lezione di Carl Schmitt. Quattro capitoli sulla distinzione tra Teologia politica e Filosofia politica (Cantagalli, pp. 343, euro 22.00) è apparsa su "Avvenire" il 16 novembre 2018.

Nel novembre 1931 Leo Strauss, allora trentaduenne allievo di Ernst Cassirer, fece visita a Carl Schmitt per chiedergli una lettera di referenza. Negli anni precedenti, dopo aver conseguito la laurea, Strauss aveva lavorato presso l’Accademia di Studi sull’Ebraismo, che però, a causa di difficoltà economiche, si trovava ora costretta a licenziare i collaboratori. L’intenzione del giovane studioso era dunque di domandare alla Fondazione Rockfeller un contributo finanziario per proseguire i propri studi su Thomas Hobbes. E una raccomandazione di Schmitt – che era allora uno dei più illustri giuristi della Repubblica di Weimar – poteva senz’altro rafforzare la candidatura. Un mese dopo – come attestano i diari di Schmitt – Strauss inviò inoltre al più anziano e già affermato studioso un dattiloscritto in cui esponeva il proprio progetto di ricerca. La relazione stesa da Schmitt probabilmente facilitò il successo della proposta di Strauss, che in effetti a marzo poté comunicare al proprio sostenitore l’esito positivo della domanda. Il rapporto tra i due studiosi avrebbe però conosciuto l’episodio culminante alcuni mesi dopo. Nel giugno del 1932 Strauss inviò infatti a Schmitt un denso dattiloscritto dedicato a una lettura critica del suo celebre saggio sul Concetto di ‘politico’, che era apparso originariamente nel 1927 ma che quell’anno era stato ripubblicato in una nuova edizione, rivista e ampliata. Il giurista rimase davvero colpito dalle osservazioni del giovane studioso. Nelle edizioni successive del suo lavoro, richiamò infatti in diversi punti le obiezioni di Strauss, accogliendone peraltro le indicazioni. E – come dimostrano i carteggi – fece in modo che la lunga recensione fosse tempestivamente pubblicata sul prestigioso «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», la medesima rivista in cui il saggio era originariamente comparso. In seguito, Strauss scrisse ancora due volte al giurista, l’ultima volta – ormai nel luglio 1933 – da Parigi, dove si era trasferito grazie alla borsa ottenuta. Schmitt non rispose mai a quell’ultima lettera. E tra i due studiosi non ci fu da allora più alcun rapporto. Il clima politico era d’altronde radicalmente mutato. E soprattutto erano cambiate le posizioni di Schmitt, che si apprestava ormai a vivere la famigerata breve esperienza di ‘giurista di corte’ del nuovo regime nazionalsocialista. Un’esperienza che probabilmente l’ebreo Strauss – di lì a poco trasferitosi negli Stati Uniti – non poté dimenticare.

Anche se i due non ebbero mai più alcun incontro, probabilmente non cessò mai il loro dialogo ‘nascosto’. È questa almeno la tesi che sostiene da tempo Heinrich Meier, docente all’Università di Monaco e curatore dell’edizione tedesca delle opere di Strauss. Nel suo Carl Schmitt e Leo Strauss (Cantagalli) mostrava infatti come le critiche del giovane filosofo avessero indotto l’autore del Concetto di ‘politico’ a rivedere le proprie posizioni originarie. Nella Lezione di Carl Schmitt. Quattro capitoli sulla distinzione tra Teologia politica e Filosofia politica, da poco tradotto in italiano (Cantagalli, pp. 343, euro 22.00), torna più ampiamente su questa tesi, cercandone una verifica nell’intera riflessione dello studioso di Plettenberg. In particolare, mostra come la provocazione di Strauss indusse Schmitt a rivedere la propria valutazione di Hobbes. Secondo Strauss, l’autore del Leviatano doveva essere paradossalmente considerato come il fondatore ‘illiberale’ del liberalismo. E Schmitt – che in precedenza aveva accolto senza riserve la lezione hobbesiana – si rese conto di non poterne recepire per intero la visione. Tutta la riflessione schmittiana aveva infatti preso le mosse dall’indignazione contro l’«epoca della sicurezza», contro la hybris degli uomini che mettono il calcolo dei propri interessi al posto della provvidenza divina. Ma, promettendo sicurezza in cambio di libertà, di fatto l’operazione di Hobbes aveva invece innescato proprio quella ‘depoliticizzazione’ che il liberalismo avrebbe portato a compimento.

La lettura di Meier si sofferma anche su un altro aspetto importante. A suo avviso, nel ‘dialogo nascosto’ con Strauss, Schmitt fu indotto almeno in parte a esplicitare le premesse ‘teologiche’ della propria riflessione. Sezionando l’intera opera schmittiana, Meier sostiene così che la Teologia politica per Schmitt non fu semplicemente una chiave per cogliere la struttura dei concetti politici. La Teologia politica coincise per lui anche con una visione della politica saldamente radicata nella fede nella verità rivelata. E in questo si distingueva radicalmente dalla Filosofia politica, rivolta invece a rispondere alla questione del giusto solo sulla base della «saggezza umana». Anche la concezione che riconduce il ‘politico’ alla distinzione tra ‘amico’ e ‘nemico’ avrebbe allora come fondamento il dogma del peccato originale. Per non impegnarsi in una discussione teologica, secondo Meier Schmitt non esplicitò però mai le più profonde matrici del proprio pensiero. La sua autentica Teologia politica può così solo essere ‘intuita’ a partire da passaggi occasionali (peraltro dal significato non sempre univoco). Ed è probabilmente anche per questa ambiguità che – nonostante l’interpretazione di Meier risulti suggestiva, e in molti casi davvero convincente – il ‘mistero’ di Schmitt è destinato a rimanere senza soluzione, avvolto in una coltre impenetrabile di allusioni, occultamenti, giustificazioni.

Damiano Palano

 

martedì 20 novembre 2018

"Carl Schmitt" di Gianfranco Miglio. Una raccolta di scritti a cura di Damiano Palano (editrice Scholé). In libreria dal 22 novembre 2018




Gianfranco Miglio
Carl Schmitt
Saggi

a cura di Damiano Palano
Scholé
(pp. 128, euro 11.50)


I testi raccolti in questo volume scandiscono le tappe principali del dialogo intellettuale che Gianfranco Miglio intrattenne per molti anni con le ipotesi di Carl Schmitt. Benché rendesse sempre un sincero omaggio alle intuizioni del giurista tedesco, Miglio non nascose mai che il suo intento era superare i limiti oltre i quali Schmitt non aveva avuto l’ambizione di avventurarsi. Il suo obiettivo era infatti recidere definitivamente il residuo legame nostalgico con l’esperienza dello Stato moderno che aveva impedito al «grande vegliardo della politologia europea» di riconoscere il cuore oscuro e irrazionale dei fenomeni di aggregazione politica. In quel lungo confronto possiamo così riconoscere, oltre a una grande ammirazione, i segnali di una divergenza significativa. Ma anche per questo le pagine in cui, partendo da Schmitt, Miglio ambiva a procedere «oltre Schmitt», continuano a riproporci una serie di interrogativi fondamentali.



Gianfranco Miglio (1918-2001) fu per un trentennio, dal 1959 al 1989, preside della Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove insegnò Storia delle dottrine politiche e Scienza della politica. Tra il 1992 e il 2001 fu senatore della Repubblica. Tra le sue opere principali, Le regolarità della politica (Giuffrè 1988) e Lezioni di politica (2 voll., il Mulino 2011). Nella collana “Orso blu” è già apparso il suo volume Guerra, pace, diritto (con un saggio di Massimo Cacciari, 2016). Per Morcelliana ha pubblicato Genesi e trasformazioni del termine-concetto ‘Stato’ (2007).


Damiano Palano è Direttore del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove insegna Scienza politica e Teoria politica dell’età globale. Tra i suoi lavori più recenti: Partito (il Mulino 2013), La democrazia senza partiti (Vita e Pensiero 2015), Populismo (Bibliografica 2017), Il segreto del potere. Alla ricerca di un’ontologia del «politico» (Rubbettino 2018).

martedì 6 novembre 2018

Indifferenza e libertà. Alessio Musio: un’etica delle relazioni contro la «cultura dello scarto»



di Damiano Palano

Questa recensione ad  Alessio Musio, nel suo libro Chiaroscuri. Figure dell’ethos (Vita e Pensiero, pp. 183, euro 18.00) è apparsa su "Avvenire" il 6 novembre 2018.

«Io sono soltanto realista nel senso più alto, cioè raffiguro tutte le profondità dell’anima umana», scrisse una volta Dostoevskij ribattendo a quei critici che lo definivano come uno psicologo. Il suo obiettivo era cioè cogliere «l’uomo nell’uomo» e – come notava George Steiner – riconoscere la complessità della realtà umana. Tanto che i personaggi che popolano le sue pagine – così diversi da quelli dei romanzi di Tolstoj – sembrano sempre contraddittori, sopraffatti da un’ambivalenza insolubile, costantemente in bilico tra vette di nobiltà e abissi di corruzione. E proprio sulle orme dell’autore dei Fratelli Karamazov, accettando cioè la sfida di riconoscere la complessità della realtà umana, Alessio Musio, nel suo libro Chiaroscuri. Figure dell’ethos (Vita e Pensiero, pp. 183, euro 18.00), riflette sulle ambiguità che contrassegnano i vissuti dell’esperienza. Le figure dell’ethos – con cui gli esseri umani cercano di esprimere concretamente le forme di una vita moralmente buona – sono infatti sempre anche figure della libertà, dell’individuo verso se stesso, ma anche dell’individuo nei confronti degli altri. E per questo esibiscono ogni volta un’ampia gamma di chiaroscuri, di ambiguità, di ambivalenze. Il compito dell’indagine filosofico-morale di Musio è dunque diradare quei ‘chiaroscuri’, conservando la classica domanda su cosa sia bene fare, ma, al tempo stesso, senza cancellare le ambivalenze, senza cioè disconoscere quelle «profondità dell’anima umana» che le pagine di Dostoevskij restituiscono.

Esaminando alcune cruciali figure dell’ethos – come la scelta, la decisione, la ripetizione, il segreto – Musio si concentra su una serie di casi ‘estremi’, ben consapevole del rischio che ciò comporta, ma nella convinzione che proprio del ‘caso estremo’ sia necessario tenere conto per evitare idealizzazioni. Forse non casualmente il viaggio attraverso i ‘chiaroscuri’ – e attraverso le analisi di Aristotele, Kierkegaard, Sartre, Arendt e Jankélévitch – si conclude però sull’indifferenza, un’esperienza tutt’altro che ‘estrema’, e che anzi proprio per la sua travolgente ‘banalità’ rappresenta per molti versi la più enigmatica delle figure dell’ethos. L’indifferenza risulta innanzitutto stretta in un forte legame con la crudeltà. Quando lo spettacolo delle esecuzioni pubbliche viene sottratto allo sguardo pubblico, diventa infatti qualcosa di ‘saputo’ ma non ‘visto’, ossia qualcosa di cui si è a conoscenza ma di cui si può diventare indifferenti. Distogliere lo sguardo dallo spettacolo della crudeltà non significa così né eliminare il male e neppure ignorarne l’esistenza, bensì semplicemente esserne ‘indifferenti’. Ma l’indifferenza – osserva Musio – è soprattutto l’altra faccia della libertà individuale. Rendere la libertà l’unico bene in gioco nelle relazioni equivale a diventare indifferenti alle relazioni in quanto tali, ridotte semplicemente a occasioni di affermazione della libertà. E dunque la celebrazione della libertà, la sua collocazione al vertice di ogni gerarchia dei beni, innesca una doppia indifferenza: nei confronti degli altri beni e nei confronti delle persone con cui si entra in relazione. L’indifferenza, scriveva Sartre, è «una cecità nei riguardi dell’altro», o meglio – suggerisce Musio – una relazione in cui l’altro si riduce alle sue qualità. Relazioni con individui concepiti solo come il ‘punto di appoggio’ di determinate qualità non possono però che essere relazioni narcisistiche, nelle quali ciascuno rimane in fondo – dall’inizio alla fine – solo con se stesso. Se le qualità presuppongono la persona, osserva invece Musio, non sono in grado fondarla. E pur riconoscendo che le qualità rimangono per molti versi il punto di avvio di un legame, è allora necessario procedere oltre. Senza arrestarsi alle qualità e alle funzioni dell’altro, un’etica delle relazioni deve dunque essere «capace di rispettare l’unicità dei soggetti che le compongono».

Damiano Palano