venerdì 22 novembre 2019

Il rischio per la democrazia sono gli elettori pigri o i politici inadeguati? Un libro di Fabrizio Tonello




di Damiano Palano

Questa recensione al libro di Fabrizio Tonello, Democrazie a rischio. La produzione sociale dell’ignoranza (Pearson, pp. 146, euro 21.00), è apparsa su quotidiano "Avvenire" il 22 ottobre 2019. 

Trent’anni dopo il fatale 1989 la democrazia sembra aver perso il proprio fascino. L’ondata propulsiva della «terza ondata» di democratizzazione si è esaurita da tempo, mentre i regimi autoritari – tra cui in particolare il gigante cinese – sono tornati a rappresentare modelli alternativi alla democrazia liberale. Ma anche in Occidente la situazione è meno rosea che in passato. Secondo alcuni politologi i cittadini occidentali sarebbero infatti meno attaccati che in passato ai valori democratici e soprattutto le generazioni più giovani risulterebbero maggiormente disponibili ad accogliere opzioni autoritarie. Persino sotto il profilo della discussione intellettuale la democrazia viene inoltre sempre più spesso attaccata, perché negli ultimi anni è affiorata una corposa critica «epistocratica», la quale sottolinea che gli elettori sono quasi sempre ignoranti, disinformati o accecati dalle loro preferenze ideologiche. Nel suo volume Democrazie a rischio. La produzione sociale dell’ignoranza (Pearson, pp. 146, euro 21.00), Fabrizio Tonello prende di petto la questione, per contrastare gli argomenti del fronte «epistocratico». Innanzitutto, avverte che dovremmo dubitare dei sondaggi sulla competenza politica dell’«uomo della strada». Anche per Tonello è comunque innegabile che parte dell’elettorato sia pigro e disinteressato alla dinamica delle istituzioni. A suo a giudizio non dovremmo però dimenticare che questo disinteresse è la conseguenza di una serie di processi maturati gradualmente. Tra questi un ruolo rilevante spetta al mutamento nello scenario comunicativo. Se per decenni lo spettacolo televisivo ha modificato il linguaggio politico, i social media hanno creato un assetto inedito, che ha abbattuto i confini delle situazioni sociali consolidate. Il problema non è dunque riducibile alle fake news, perché, più in generale, i social media «creano per l’utilizzatore una situazione psicologica simile a quella di trovarsi in una folla, dove contemporaneamente si provano sensazioni di incertezza e ansia ma anche di onnipotenza». Al quadro complessivo contribuiscono inoltre l’«infantilizzazione» degli adulti, il decadimento della professione giornalistica, la scomparsa delle agenzie che preservavano le tradizioni di competenza e virtù civica, la trasformazione delle istituzioni educative e lo «svuotamento» delle classi medie. Il pericolo per Tonello non viene dunque dall’ignoranza – vera o presunta – dei cittadini. Semmai nasce da quella dei politici, «visibilmente incapaci di affrontare non solo sfide globali urgenti come quella del riscaldamento globale ma perfino problemi banali di amministrazione quotidiana dei rispettivi paesi». Naturalmente questa ‘assoluzione’ degli elettori dalle colpe che gli sono attribuite dai sostenitori dell’«epistocrazia» ha buoni argomenti. Al di là delle responsabilità, il ritratto che Tonello dipinge del cittadino democratico contemporaneo – infantile, emotivo, persino rabbioso nelle sue reazioni – non rende però l’analisi molto confortante. E suggerisce quantomeno che il lavoro di ricostruzione di un tessuto di civismo sarà molto complesso. 

Damiano Palano

martedì 19 novembre 2019

Quando la democrazia dei partiti cominciò a precipitare. "Governare il vuoto" di Peter Mair



di Damiano Palano


La crisi dei partiti non sembra destinata a invertirsi e pare invece lasciare sempre più spazi vuoti all'avanzata di quello che spesso chiamiamo "populista". Tra i più lucidi studiosi a cogliere questa tendenza era stato il politologo irlandese Peter Meier. Di seguito, viene riproposta una recensione al libro di Meier,
Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti (Rubbettino, pp. 166, euro 14.00) è apparsa su "Avvenire" il 2 agosto 2016.


Proprio mezzo secolo fa, nel 1966, il politologo tedesco Otto Kirchheimer iniziò a intravedere i primi segnali della trasformazione che stava investendo i partiti di massa. L’avvento della società del benessere, l’attenuazione del conflitto di classe e l’indebolimento delle grandi appartenenze stavano infatti modificando l’ambiente in cui le grandi organizzazioni politiche erano nate alla fine dell’Ottocento. E proprio per rispondere a questi mutamenti, i partiti di massa cominciavano allora a tramutarsi in catch-all-parties, in partiti «pigliatutti», che puntavano cioè a conquistare voti non più soltanto in uno specifico segmento della società, contrassegnato da una forte identificazione ideologica e subculturale, bensì in tutti i settori. In questo modo venivano abbandonati i più ambiziosi ideali di trasformazione sociale, mentre tutte le energie venivano indirizzate verso l’obiettivo della vittoria elettorale e le risorse concentrate nell’attività di comunicazione.



A cinquant’anni di distanza, non è certo difficile riconoscere come le previsioni di Kirchheimer avessero intuito, con indubbia lungimiranza, molte delle trasformazioni successive. E il volume di Peter Mair, Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti (Rubbettino, pp. 166, euro 14.00), costituisce da questo punto di vista un prezioso aggiornamento di quelle antiche ipotesi. Un aggiornamento che mostra dove abbiano condotto quelle tendenze e, soprattutto, quali rischi esse comportino. Sulla base dell’esperienza maturata in un’intera carriera di studi, il politologo irlandese – scomparso prematuramente nel 2011 – si chiede infatti se, insieme ai partiti di massa (e a ciò che ne rimane), non sia destinata a essere messa in discussione anche la stessa forma democratica dei sistemi politici occidentali. In particolare, secondo Mair, la corrosione delle basi su cui si fondano i contemporanei regimi democratici è imputabile allo svuotamento dello spazio in cui cittadini e rappresentanti politici si trovano a interagire: questo spazio era in passato occupato proprio dai partiti, ma ora rimane sempre più sguarnito. Le cause sono in primo luogo da ricercare nel crescente disimpegno dei cittadini, di cui sono tracce (non sempre però così chiaramente interpretabili) il calo della partecipazione elettorale, l’instabilità del comportamento di voto e l’emorragia di iscritti di cui hanno sofferto pressoché tutti i partiti europei. Accanto a questo primo fattore si accompagna però anche la simmetrica tendenza al disimpegno che coinvolge le élite politiche. In altri termini, i partiti hanno quasi del tutto abdicato alla funzione di rappresentanza delle istanze sociali, assunte invece da altre agenzie. E, al tempo stesso, hanno privilegiato – in termini pressoché esclusivi – la ricerca di ruoli di governo (a livello locale e nazionale). Il ‘corpo’ dei partiti, costituito dalla rete organizzativa diffusa sul territorio, si è così progressivamente atrofizzato fino a diventare esilissimo. Mentre è cresciuta la ‘testa’, stabilmente insediata dentro le istituzioni rappresentative. I grandi partiti assumono così le sembianze di ‘agenzie dello Stato’, specializzate nel compito di reclutare il personale politico, ma del tutto incapaci di stabilire un solido rapporto (fiduciario e identitario) con la società. Per questo, scrive Mair, quella che si profila all’orizzonte «è una nuova forma di democrazia in cui i cittadini rimangono a casa mentre i partiti vanno a governare».
Le previsioni di Mair – che i travagli vissuti dell’Unione europea negli ultimi anni hanno ampiamente confermato – sono in realtà ancora più cupe. Nello spazio ‘svuotato’ dal disimpegno di élite e cittadini, vanno a infatti collocarsi tanto la protesta ‘populista’ contro l’establishment, quanto la tentazione di ‘depoliticizzare’ le democrazie, ossia di trasferire le decisioni più importanti verso arene sottratte agli umori di elettorati sempre più imprevedibili. Simili soluzioni non possono però davvero colmare il fossato aperto dalla scomparsa di quell’appartenenza comune che cittadini e leader politici condividevano grazie ai partiti di massa. Proprio per questo i nostri sistemi rappresentativi rischiano allora di scivolare nella voragine sempre più profonda aperta dalla fine della «democrazia di partiti». E di precipitare nel vuoto della società liquida.

Damiano Palano


domenica 17 novembre 2019

Cosa resta della «meritocrazia»? Note critiche a margine di un vecchio fascicolo di «Paradoxa»



di Damiano Palano

La meritocrazia è tornata in queste settimane al centro delle polemiche e qualcuno ha iniziato a mettere in discussione uno dei miti più resistenti degli ultimi decenni. A questo proposito, viene riproposta una vecchia nota critica, dedicata a un fascicolo monografico di "Paradoxa" proprio sulla meritocrazia e apparsa su "Maelstrom" nel maggio 2011.
 
La storia della parola «meritocrazia» è senz’altro piuttosto singolare. La sua nascita può essere collocata con precisione, perché il termine venne proposto per la prima volta in The Rise of the Meritocracy. 1980-2033. An Essay on Education and Equality, un testo di Micheal Young pubblicato nel 1958 (Thames and Hudson, London) che ebbe anche una traduzione italiana (L’avvento della meritocrazia. 1870-2033, Comunità, Milano, 1962). Benché Young fosse uno scienziato sociale, The Rise of the Meritocracy era una sorta di romanzo fantascientifico che, collocandosi in una tradizione avviata in Inghilterra da autori come H.G. Wells, Aldous Huxley e naturalmente George Orwell, descriveva un’immaginaria società del futuro fondata sul «merito». Come Il mondo nuovo o 1984, anche The Rise of the Meritocracy era una ‘distopia’, perché si basava sulla descrizione non di un regime virtuoso, bensì di un regime totalitario e opprimente. A differenza degli scenari ritratti da Huxley e Orwell, ciò che rendeva terrificante il regime immaginario del futuro non erano né la trasformazione degli esseri umani in passivi consumatori, né la gestione totalitaria del potere da parte di uno Stato capace di sorvegliare i cittadini in tutti i momenti della loro vita. A connotare il dispotismo immaginato da Young era invece la trasformazione del «merito» nella base dell’ordine sociale. The Rise of Meritocracy era infatti una sorta di fittizio saggio storico, in cui l’autore, fermamente convinto della superiorità della società meritocratica, ne ripercorreva le origini e gli sviluppi, a partire dai primi passi, collocati già alla fine dell’Ottocento, fino alla realizzazione, avvenuta più o meno in coincidenza con la Seconda guerra mondiale. In primo luogo, i progressi nella misurazione dell’intelligenza avevano condotto alla progressiva critica dell’egualitarismo, mentre le esigenze della competizione internazionale avevano spinto lentamente verso l’introduzione dei principi meritocratici. In base a tali principi, la popolazione era suddivisa, fin dalla più giovane età, in categorie diverse, secondo il valore del Q.I., e dunque indirizzata verso percorsi educativi e lavorativi differenziati. Col tempo, la meritocrazia aveva comportato l’abolizione della scuola dell’obbligo, ma anche il tramonto del movimento socialista e dei sindacati. Inoltre, con l’affinamento dei metodi di valutazione del «merito», si erano anche evitati i rischi di misurazione disancorati dall’attitudine all’impegno. E, proprio lungo questa via, si era giunti ad affinare il criterio alla base della società meritocratica:

«L’intelligenza combinata con lo sforzo costituiscono il merito (I + S = M). Il genio pigro non è un genio. È proprio qui che i datori di lavoro hanno dato il loro contributo alla causa del progresso. L’“organizzazione scientifica del lavoro”, di cui furono pionieri Taylor, i Galbraith e Bedaux, ha reso possibile la misurazione dello sforzo. L’arte della misurazione del lavoro è diventata una scienza, con la conseguenza che le retribuzioni possono essere valutate e collegate allo sforzo in maniera più precisa» (ibi, p. 103).

Ma la società dominata dal «merito», o meglio dalla «meritocrazia», non era affatto immune dai rischi di crisi. Al contrario, lo storico cui Young faceva descrivere l’avvento del regime meritocratico scriveva mentre, in un immaginario 2034, iniziava a prendere forma un nuovo movimento di protesta, alimentato proprio dalle classi subalterne e spalleggiato da una minoranza dissidente dell’élite dominante. Tanto che, si chiedeva all’inizio del proprio trattato, se «il 2034 ripeterà il 1789 o semplicemente il 1848» (ibi, p. 25). Dopo una lunga disamina, la conclusione cui giungeva lo studioso del 2034 sembrava escludere i rischi di una rivoluzione, o anche l’eventualità di un radicale sommovimento. «Gli ultimi cento anni», affermava il sostenitore della meritocrazia, «hanno assistito ad una vastissima ridistribuzione dell’intelligenza tra le classi della società, con la conseguenza che le classi inferiori non hanno più la forza per portare a fondo la loro rivolta» (ibi, p. 193). A condannare ogni speranza di rivolta era, in fondo, proprio l’inferiorità intellettuale degli strati sociali subalterni, destinata a essere abbandonata da quelle frazioni dell’élite che temporaneamente, per effetto di una delusione del tutto contingente, si erano staccate dalla classe dominante. Proprio alla conclusione del trattato – e mentre si avvicinava l’imminente scadenza del maggio 2034, in cui era prevista una grande mobilitazione del movimento populista – lo storico formulava perciò una previsione piuttosto netta:

«questa gente declassata non potrà mai essere che una minoranza eccentrica – i populisti, come forza politica, non sono mai stati altro che questo – perché l’élite viene trattata con tutto il riguardo che si può desiderare. Senza un grammo di intelligenza nel cervello, le classi inferiori sono minacciose non più di quanto possa esserlo una plebaglia, anche se talvolta fanno il muso, e si mostrano volubili e un po’ imprevedibili. Se le speranze di alcuni dei primi dissidenti si fossero realizzate, e i ragazzi brillanti provenienti dalle classi inferiori fossero rimasti in seno a queste, per insegnare, per ispirare e per organizzare le masse, avrei un racconto da esporre. Ma i pochi che ora propongono una misura così radicale sono in ritardo di cent’anni. Questa è la previsione che mi propongo di verificare quando, nel prossimo maggio, andrò ad ascoltare i discorsi che verranno fatti dalla grande tribuna di Peterloo» (ibidem).

Il testo del narratore di The Rise of Meritocracy però si fermava qui. E Young – con una nota a pie’ pagina di sulfurea ironia – scriveva, simulando l’intervento dell’editore: «Poiché l’autore di questo saggio è stato ucciso anch’egli a Peterloo, gli editori, con rincrescimento, non hanno potuto sottoporgli le bozze del manoscritto per quelle correzioni che forse avrebbe voluto apportargli prima della pubblicazione. Il testo, anche nella sua ultima parte, è stato lasciato esattamente come egli lo scrisse. I fallimenti della sociologia sono illuminanti quanto i suoi successi» (ibidem).
Se la nota conclusiva faceva trapelare l’intento dell’intera opera di Young, i lettori successivi non sono stati sempre così arguti come lo scrittore inglese probabilmente auspicava. E così, qualcuno ha dimenticato di leggere quella piccola nota a piè di pagina, finendo col travisare completamente il significato della distopia. Tra questi lettori distratti, deve essere probabilmente annoverato anche Roger Abravanel, autore di Meritocrazia. Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto, pubblicato dall’editore Garzanti nel 2008, con una prestigiosa prefazione di Francesco Giavazzi. Come nota Mario Tesini nel numero 1/2011 di «Paradoxa», Abravanel incorre in un equivoco non da poco, dato che il suo testo è interamente centrato sul «merito» e sul valore positivo della «meritocrazia». «Piuttosto incredibilmente» - osserva infatti Tesini - «egli mostra di fraintendere completamente il senso del libro di Michael Young, assai spesso citato non solo in relazione all’origine del vocabolo, ma anche come una difesa, tutt’al più problematica, della meritocrazia: della quale, come si è visto, esso costituisce una denuncia implacabile. La forzatura del testo (in passato perfettamente inteso da interpreti tra loro assai diversi come Raymond Aron e Christopher Lasch) appare veramente curiosa. In modo del tutto arbitrario, ad esempio, in luogo dell’unico narratore se ne ravvisano due, in conflitto tra loro: con il risultato che la dimensione filosofica e sociale di Rise of Meritocracy, ed il suo stesso valore letterario, congiuntamente svaniscono» (Meritocrazia, merito e storia del linguaggio politico, in «Paradoxa», 2011, n. 1, p. 66).
Ma l’infortunio di Abravanel non è certo isolato. Non soltanto perché in Italia al termine di «meritocrazia» si è fatto ricorso quasi costantemente, nell’ultimo mezzo secolo, senza alcun riferimento né al nome di Young, né alle specifiche motivazioni che spinsero a coniare l’espressione. Ma anche perché non si tratta di una deformazione soltanto italiana, se è vero che lo stesso Young, in uno dei suoi ultimi interventi, nel 2001, sentì l’esigenza di protestare contro l’uso che della «meritocrazia» faceva l’allora Primo ministro britannico Tony Blair: un uso che, evidentemente, distorceva completamente lo spirito di The Rise of Meritocracy, tramutando, in modo del tutto acritico, la «meritocrazia» nel tassello di un’ideologia antiegualitaria (cfr. M. Young, Down with Meritocracy, in «The Guardian», 29 giugno 2001).
Negli ultimi anni, le celebrazioni della meritocrazia sono diventati l’inevitabile luogo comune con cui corredare gli attacchi alle diverse ‘caste’ che bloccherebbero lo sviluppo dell’Italia e che sarebbero la causa più profonda del suo declino economico. A ben vedere, però, in poche occasioni si è cercato di esaminare con un minimo di serietà cosa c’è, realmente, dietro il «merito» invocato a gran voce dagli alfieri della meritocrazia. Quando lo si è fatto, i risultati sono stati piuttosto deludenti, se non proprio sconcertanti (come nel caso della vibrante difesa di Abravanel, per cui il pilastro della meritocrazia è la misurazione «oggettiva» del merito). E, così, è inevitabile che un esame accurato delle ipotesi delineate dai sostenitori della meritocrazia abbia finito con lo svelare soltanto un inestricabile viluppo di luoghi comuni, ingenuità e asserzioni ideologiche (cfr. per esempio M. Boarelli L’inganno della meritocrazia, in «Lo straniero», n. 118, 2010).
In fondo, è proprio questo il risultato che emerge anche dal numero di «Paradoxa», interamente dedicato a Merito e Uguaglianza, che, oltre all’editoriale di Laura Paoletti (Le molte facce del merito), raccoglie interventi di Vittorio Mathieu, Francesco D’Agostino, Pietro Grilli di Cortona, Lucetta Scaraffia, Luigi Cappugi, Stefano Semplici, Mario Tesini, Marcello Ostinelli e Francesca Rigotti. L’istanza da cui parte il fascicolo di «Paradoxa» è una riabilitazione del merito. Come scrive la curatrice Paoletti, «ci siamo interrogati sul ‘merito’, muovendo dalla ferma convinzione che sia urgente e indispensabile farne un principio fondante del nostro tessuto civile e politico, avvilito da ben altri criteri e logiche di promozione sociale» (p. 8). Ma il risultato si allontana da un’esaltazione acritica del «merito», a proposito del quale in effetti molti autori sottolineano, in vari modi, l’impossibilità di qualsiasi misurazione ‘oggettiva’.
Non mancano – ed è comprensibile – alcuni tentativi di difendere il merito. In questo senso, vanno per esempio le caute osservazioni di Grilli di Cortona, che individua in particolare una netta contrapposizione fra il merito, che si applica al singolo individuo, e i benefici assegnati ai gruppi e ai loro componenti. «Quali sono le sfide quotidiane al merito e alla meritocrazia?», si chiede infatti. E Grilli di Cortona le ritrova nella minaccia costituita dai benefici (o dai privilegi) assegnati alle collettività, che finiscono con l’appiattire i meriti e i demeriti individuali. «Il merito», scrive, «viene penalizzato ogni qualvolta la dimensione individuale è sostituita da quella collettiva: l’individuo ottiene qualcosa non in virtù dei suoi meriti personali, ma in virtù della sua appartenenza ad un gruppo, ad un insieme di persone che condividono qualche caratteristica comune. In questo modo la rappresentatività di gruppi e categorie diviene prioritaria rispetto al criterio del merito individuale grazie all’assegnazione di quote» (Significato e ruolo sociale del merito: alcune riflessioni, p. 31). E, secondo Grilli di Cortona, i criteri possono essere molti, tanti quanti possono essere i modi in cui i ‘gruppi’ si formano e vengono riconosciuti (politico-culturali, di genere, di residenza, di età, risarcitori, parentali, ideologici).
Ben più convinta, è la difesa di Lucetta Scaraffia, che si scaglia in particolare contro la tradizione culturale italiana, cui è estranea la valorizzazione del merito che invece contrassegna le società anglosassoni. Come scrive, a questo proposito: «l’Italia, governata per secoli dalle piccole corti – spesso rette da dinastie straniere – o addirittura da potenze straniere, ha visto sempre scegliere le sue élites in base alla vicinanza e all’obbedienza al potere piuttosto che al merito. È quindi un’antica abitudine, molto radicata soprattutto nelle regioni del paese che non hanno conosciuto una rivoluzione industriale autoctona» (L’antimeritocrazia italiana, p. 36). Le condizioni per l’affermazione di una società meritocratica sono infatti diverse da quelle che hanno a lungo caratterizzato l’Italia (e molti fra i suoi territori): «il merito infatti può essere riconosciuto a una sola persona, non a un gruppo né a una famiglia», e, perciò, «la meritocrazia come sistema di selezione può affermarsi solo in società democratiche e di economia liberale, società in cui è avvenuta una rivoluzione industriale che ha visto il formarsi di una élites di imprenditori che ha avuto successo per meriti professionali» (ibi, p. 37). Va da sé, allora, che nel codice genetico italiano sia sempre stata inscritta una vocazione alla «antimeritocrazia». Questa vocazione è stata arginata dalla «scuola liberale», ossia dall’istruzione nata dall’intervento dello Stato con la Legge Coppino, che impose la scuola elementare obbligatoria, e con la scuola media unificata, negli anni Sessanta. Ma l’«antimeritocrazia» ha ripreso vigore – secondo il ragionamento di Scaraffia – a seguito dell’ondata di egualitarismo innescata dal Sessantotto:

«La crisi della nostra scuola, soprattutto quella secondaria, ha determinato quindi la quasi totale scomparsa di quella tendenza alla selezione meritocratica che la scuola liberale in qualche modo aveva diffuso, creando le condizioni per la sua esistenza. Oggi, che tutti sono promossi, che i titoli di studio non hanno più valore, è più facile che, nel selezionare, la meritocrazia lasci il passo ad altre forme di selezione, di tipo clientelare. Ma nessuno sembra preoccuparsene e, quando si parla di necessarie riforme della scuola secondaria, sono evocate solo la necessità di rendere la scuola più vicina alla vita moderna, di rinnovare le forme didattiche: non si parla mai di ripristinare la severità necessaria ad una selezione meritocratica e chi lo fa – come ha provato la Gelmini – viene subito costretto al silenzio nello sdegno generale. Il nostro sistema scolastico è stato ridotto così da una serie di interventi – avvenuti nei decenni post-sessantotto – finalizzati a garantire all’interno della scuola una totale eguaglianza fra gli insegnanti e gli alunni» (ibi, p. 38).

Quando Scaraffia evoca «una serie di interventi» che hanno condotto alla «totale eguaglianza fra gli insegnanti e gli alunni», intende l’abolizione delle note di merito e di demerito agli insegnanti (con cui i presidi riuscivano a influire sulla carriera e sulla destinazione del corpo docente), oltre che alla eliminazione della facoltà di utilizzare la «bocciatura» da parte degli insegnanti. Ma, al di là di questi elementi (che certo andrebbero valutati con maggiore attenzione), non è difficile individuare nel ragionamento un ‘cortocircuito’, se non una patente contraddizione logica. È infatti piuttosto singolare che, dopo aver sostenuto che l’«antimeritocrazia» italiana ha profonde radici culturali e storiche, e aver enunciato nettamente che una reale meritocrazia può esistere solo «in società democratiche e di economia liberale, società in cui è avvenuta una rivoluzione industriale che ha visto il formarsi di una élites di imprenditori che ha avuto successo per meriti professionali», l’unico modo per conseguire la meritocrazia sia individuato nell’intervento politico dello Stato: sia nel caso delle leggi che introducono l’istruzione obbligatoria, sia nel caso degli interventi con cui il Ministro dell’Istruzione impone – o cerca di imporre – agli insegnanti l’adozione di misure disciplinari. Si tratta, senza dubbio, di un ragionamento piuttosto interessante, perché la montagna della società aperta, delle «società democratiche», dell’«economia liberale», finisce col partorire il topolino dell’intervento dello Stato. Un topolino che, peraltro, può anche assumere il volto inquietante di un despota, non solo custode, ma anche legislatore e giudice della moralità pubblica. E un topolino la cui unica vocazione – a dispetto delle dichiarazioni di liberalità – diventa quello di raddrizzare il ‘legno storto’ della società, i suoi ‘vizi’, le sue ‘distorte’ tradizioni culturali.
Ovviamente, Scaraffia è ben consapevole – e non può non esserlo – della portata distruttiva della contraddizione che si annida nel suo discorso. E proprio per questo evoca, proprio in conclusione al suo intervento, la necessità di «una vera rivoluzione culturale, che ci porti non solo ad accettare finalmente la selezione meritocratica come necessità sociale, ma anche a ridiscutere i criteri con cui il merito viene giudicato» (ibi, p. 41). In questo senso, la polemica è diretta contro l’egualitarismo, contro «il mito della ‘scuola di tutti’», e, più o meno direttamente, contro i miti propalati dal Sessantotto. Anche in questo caso, non si tratta affatto di motivi nuovi, ma, alcuni anni fa, hanno incontrato una nuova fortuna, principalmente perché furono utilizzati nella campagna per le elezioni presidenziali da Nicholas Sarkozy. Allora, i numerosi estimatori italiani di quello che di lì a poco sarebbe diventato il nuovo Presidente francese ne accolsero con entusiasmo il vigore polemico. E, così, anche in Italia – soprattutto nei mordaci interventi di Giuliano Ferrara – riprese forza la ormai più che quarantennale battaglia culturale contro il Sessantotto e i suoi miti, ossia contro l’eguaglianza a tutti i costi, il relativismo morale, la rilassatezza dei costumi, il completo pregiudizio del merito individuale, sacrificato sull’altare di una desolante omologazione: tutti elementi che – secondo questi critici – avrebbero corroso la tempra austera e il rigore morale del popolo italiano, condannandolo al declino economico, al progressivo allontanamento dai livelli di eccellenza. Naturalmente, non si trattava di argomentazioni che potessero essere prese troppo sul serio, fondate com’erano – piuttosto evidentemente – su luoghi comuni, più che su dati di fatto. Ma è comprensibile che questo tasto, e cioè che l’idea di «una vera rivoluzione culturale», per utilizzare le parole di Scaraffia, abbia oggi perso molto del proprio mordente. Anche perché quei medesimi entusiasti sostenitori del ritorno al rigore morale e agli austeri costumi dei padri hanno preso a rivolgersi – dopo solo qualche mese – alla gaudente esaltazione del libertinismo (mostrandosi così, ancora una volta, come tenaci, consapevoli e irriducibili alfieri di un nichilismo assoluto).
Una serie di preziose osservazioni vengono anche da Stefano Semplici, che mette in guardia contro alcuni rischi che si celao nell’opzione meritocratica. Uno di questi è che «il migliore in termini di performance […] può sempre approfittare della sporgenza delle sue capacità per soddisfare il suo interesse e le sue ambizioni personali piuttosto che l’interesse comune» (Capaci «e» meritevoli, p. 48). Ma, ancora più rilevante, è la questione che sta a monte della ripartizione dei meriti, ossia la questione – già ben chiara ad Aristotele – per cui una ripartizione ‘giusta’ dei meriti «non basta a superare le divisioni su quel che vada considerato appunto come il merito da premiare, in assoluto o in paragone ad altri» (ibi, p. 49). Quest’ultimo non è d’altronde un nodo di poco conto. È, anzi, il vero e proprio convitato di pietra di tutti i dibattiti sulla meritocrazia. Perché, in fondo, chi parla di meritocrazia ha un’idea ben precisa di quale sia il merito da premiare, mentre – ed è questo il punto centrale – nessun merito è ‘oggettivamente’ percepibile, e tantomeno ‘misurabile’, se, a monte, non sta una decisione – che è anche ‘politica’ – su cosa, in una determinata società, sia meritevole e cosa invece non lo sia. Ma dire che questa decisione sia ‘politica’ non significa affermare che si tratti, sempre, di una decisione imposta dallo Stato: più semplicemente, significa solo che si tratta di decisioni che riflettono le relazioni di potere esistenti all’interno di un determinato gruppo sociale. Questo comporta anche che, all’interno di una società, si possa arrivare a far coincidere il merito con il successo di mercato, ossia che, per esempio, il successo economico di un imprenditore sia inteso come testimonianza dei suoi meriti, che lo stipendio milionario percepito da un calciatore sia percepito come la giusta ricompensa del suo merito sportivo, o che – per giocare sul filo del paradosso – la popolarità del vincitore di un reality show sia concepita come il giusto riconoscimento dei meriti conseguiti nell’arricchimento della vita sociale e culturale di un paese.
Ma è proprio nelle aporie del discorso meritocratico che affondano il coltello i due interventi di Mario Tesini e Francesca Rigotti. Tesini ricostruisce in particolare una sorta di storia dell’idea di meritocrazia e, soprattutto, dell’idea del merito. Si tratta di una storia che ha radici lontane, ma che subisce un’accelerazione improvvisa con la Rivoluzione francese e con la travolgente ascesa di Napoleone, un’ascesa cui tutto l’Ottocento avrebbe continuato a guardare come a un modello di riconoscimento del merito. L’obiezione principale che Tesini rivolge contro l’«ideologia» meritocratica è pero costituita soprattutto dalla sua funesta ingenuità, un’ingenuità che finisce col trascurare la ‘relatività’ del merito, ossia la complessità delle strade che conducono, nelle diverse società, a definire ‘cosa sia’ il merito, prima ancora che a misurarlo:

L’ideologia meritocratica (a differenza ovviamente dei ragionevoli tentativi di valorizzazione dei meriti, come umanamente percepibili e convenzionalmente valutabili), costituisce – proprio in quanto ideologia – una radicale negazione della Storia: in una parola della realtà e della complessità dell’esperienza umana. Sarebbe forse ingiusto pensare che sempre sia dettata da una mera logica di dominio mascherata di forma scientifiche. Ma anche se in buona fede, anche se originata dalla shakesperiana indignazione per lo ‘scherno’ che i meritevoli assai spesso subiscono, l’aspirazione meritocratica alimenta una pretesa eccessiva. Essa cade nel vizio costruttivistico e perfettistico di chi non riconosce il carattere inevitabilmente relativo, condizionato, in definitiva storico di ogni istituzione sociale. Nel suo uso retorico – e con la consapevolezza che di tale uso si tratta – il richiamo al valore del merito come criterio orientativo (troppo a lungo penalizzato, in particolare nel contesto italiano) può essere non solo legittimo avere una funzione positiva pratica: nel senso di una provocazione intellettuale utile. A volerne fare invece un pre-requisito scientifico e un parametro di valutazione oggettiva, riconducibile a valori quantificabili, certificabili e infine fondativi di un nuovo ordine sociale (e morale), sarebbe più facilmente l’incubo della distopia (dell’utopia negativa) descritta da Michael Young a prevalere; non l’utopia ottimistica e a volte troppo interessata degli attuali ideologi di un impossibile, e forse neppure auspicabile, potere del merito (Meritocrazia, merito e storia del linguaggio politico, pp. 66-67).

Le argomentazioni di Francesca Rigotti imboccano un’altra direzione, in un intervento il cui titolo - «Contro il merito» - rimanda esplicitamente al celebre Conto il metodo di Paul K. Feyrabend. Probabilmente quest’ultimo, osserva Rigotti, non avrebbe lesinato critiche al merito e alla meritocrazia, perché in fondo aveva levato una protesta tutt’altro che conciliante contro la prosopopea della ‘Scienza’ e di quelle élite che elevano «la propria concezione del mondo a criterio universale dell’umanità», che chiamano verità «l’ideologia dominante dei conquistatori» e che accampano «il diritto di misurare con tale criterio la felicità, le sofferenze, i desideri di altri». In realtà, però, Rigotti svolge un discorso che segue solo in parte Feyerabend. Piuttosto, si rivolge contro il mito del merito, quel mito in virtù del quale il merito «deciderebbe con equità e purezza della attribuzione di posizioni di prestigio e ben pagate, e prima ancora dell’accesso a luoghi di istruzione privilegiati che conducono a carriere di responsabilità lautamente retribuite e socialmente riconosciute». In sostanza, quel mito secondo cui «il merito sarebbe un criterio pulito, giusto ed equo per l’attribuzione e la distribuzione dei beni predetti, invocato da sinistra e da destra a sostituire i biechi criteri basati su eredità, corruzione, nepotismo» («Contro il merito», p. 83). E, partendo dal presupposto di un forte egualitarismo, la tesi di Rigotti sostiene, in estrema sintesi, che proprio l’egualitarismo non è conciliabile «con principi che richiedono e giustificano diseguaglianza e privilegi come il principio del merito» (ibidem). Più specificamente, Rigotti punta a smantellare quelle posizioni filosofiche che criticano l’egualitarismo mostrando come esso sia frutto dell’«invidia» sociale, o sia insensibile invece nei confronti della responsabilità individuale. Ma chiunque – osserva Rigotti – sa bene che non si può parlare della responsabilità pensando che tutta la responsabilità del ‘merito’ o del ‘de-merito’ sia solo una questione individuale, che sia solo il risultato delle scelte compiute dal singolo nel corso della sua vita. «Tutti sappiamo anche solo intuitivamente che così non è, come sappiamo che nascere in un certo stato, da una certa famiglia che ti segue a scuola, ti fa imparare le lingue e apprezzare la musica, nonché crescere in un ambiente che non ti distrugge bensì riesce a darti fiducia in te stesso, è importante per le scelte che sarai in grado di compiere in futuro» (ibi, p. 89). Non è dunque casuale che chi si muove contro le rivendicazioni dell’egualitarismo tenda anche a ridurre al minimo le influenze ambientali e familiari sulla formazione individuale. Se si parla di una dotazione originaria, che ciascun individuo riceverebbe in sorte dalla natura, ha dunque davvero senso parlare di merito? Ovviamente, no. E proprio qui si intravede il reale significato che la retorica meritocratica assegna al merito, in realtà misurato non in base alle capacità o agli sforzi dei singoli individui, ma in base ai risultati ottenuti sul mercato. In corrispondenza di questo snodo, si divaricano nettamente il merito (inteso come l’efficienza di mercato) e l’uguaglianza, concepito come principio di giustizia volto a premiare gli sforzi compiuti dai singoli, sulla base delle loro specifiche dotazioni. Come scrive Rigotti a questo proposito:

«Le leggi del mercato si disinteressano sovranamente degli sforzi meritori e guardano solamente ai risultati, così come non si interessano alle storie che producono merito o giustizia, ma soltanto alle vendite del prodotto finito. Alle leggi del mercato non importa un bel niente se il risultato deriva da merito attivo o da dotazione passiva: vogliono persone che rispondono ai requisiti richiesti dal momento o imposte da mode e bisogni, veri o falsi, e sono disposte a pagarle profumatamente senza alcun riguardo nei confronti di attività o passività del ‘merito’. Il fatto è che bisogna distinguere chiaramente tra leggi del mercato e giustizia e dire che le leggi del mercato che stabiliscono una concorrenza tra individui con doti diseguali e impari vocazioni allo sforzo non sono giuste. Il problema dell’ideologia è quello di confondere efficienza della società e giustizia resa all’individuo. Una società che discrimina i suoi membri meno brillanti incoraggiando solamente i dotati (di nome prestigioso, intelligenza, fortuna, buona volontà ecc.) a intraprendere carriere di privilegio, raggiungerà forse una buona efficienza produttiva ma trascurerà la giustizia dovuta al singolo» (ibi, pp. 92-93).

Oltre a tutti questi limiti, che si nascondono dentro la seducente prospettiva di una società meritocratica, Rigotti non può fare a meno di soffermarsi su una realtà d’altronde evidente a tutti, e cioè su quella che definisce, eufemisticamente, «una strana ambivalenza» propria delle nostre società di mercato:

«benché inneggino al mercato e all’eccellenza indipendenti da eredità, nepotismo e corruzione, esse mostrano di fatto una spiccata tendenza a accettare e a promuovere l’«ereditarietà delle cariche», fenomeno particolarmente evidente nel campo della politica, dello sport e dell’intrattenimento. Come si comporta di fatto una società che predica l’illibatezza della meritocrazia? Favorisce e incrementa, in Italia, in Svizzera, in Europa come oltreoceano, dinastie di politici, giornalisti, sportivi e sportive, cantanti, attori, registi e intrattenitori di vario genere, crogiolandosi nella pratica del nepotismo. Non affliggerò il lettore con lunghi elenchi dinastici, soprattutto perché tali dati nulla aggiungono alla prospettiva teorica, se non la constatazione di una contraddizione tra l’enunciazione della adesione a principi meritocratici e la messa in pratica di principi nepotistici, che conferma il sospetto che spesso si confondono efficienza della società e leggi del mercato con criteri di giustizia. E se la giustizia e il mercato collidono?» (ibi, p. 93).

È difficile non concordare con Rigotti, quando sottolinea la «strana ambivalenza» per cui quanti proclamano l’esigenza di adottare i principi meritocratici, si affidano quasi invariabilmente alle pratiche del nepotismo. Ed è anche difficile non riconoscere la fondatezza del ragionamento intorno alla contrapposizione fra un merito inteso come criterio di efficienza di mercato e i principi di eguaglianza. Ma, forse, il riferimento di Rigotti al mercato – e cioè a un merito che si definisce in base ai criteri di mercato, alle esigenze di «efficienza della società» – richiede qualche approfondimento. Quantomeno, per evitare di adottare, più o meno implicitamente, un’immagine romantica del mercato, in larga parte, se non sostanzialmente contraddetta dalla realtà del mercato, e, soprattutto, dalla realtà del mercato del lavoro delle società contemporanee. Ma, per farlo, è forse necessario tornare a ragionare proprio sul ‘contenuto’ del merito.
Nella sua difesa del merito, Scaraffia scrive: «il concetto di uguaglianza […] si è sempre dimostrato nella pratica nemico della meritocrazia: lo conferma anche la storia dei regimi socialisti, dove l’obbedienza politica ha sostituito ogni forma di selezione per merito» (L’antimeritocrazia italiana, p. 39). Nei regimi socialisti, in sostanza, il merito viene del tutto oscurato da un elemento diverso, ossia dall’obbedienza. «La dittatura», scrive infatti Scaraffia, «in ogni sua forma, significa totale conformismo, che, specie se obbligatorio, è stato sempre il nemico più accanito del merito» (ibi, p. 39). Naturalmente, Scaraffia coglie un punto quantomeno condivisibile quando sostiene che l’obbedienza è un criterio fondamentale per ogni dittatura. Ma il suo ragionamento diventa molto meno nitido sia quando individua un’opposizione insanabile fra l’obbedienza e il merito, sia quando ritiene – più o meno esplicitamente – che le democrazie liberali, a differenza delle dittature in cui viene ricompensata solo l’obbedienza, siano in grado di premiare il merito.
Dal primo punto di vista – come dimostrano anche diversi saggi contenuti nel fascicolo – parlare di merito significa solo stabilire un criterio con cui assegnare una retribuzione, che può essere positiva (un premio) oppure negativa (un castigo). Ma parlare di merito, in generale, non significa affatto indicare il contenuto specifico della qualità da premiare. Proprio perché il merito – come si è detto – è una costruzione sociale, perché i criteri con cui definire il merito, e con cui misurarlo, sono sempre l’esito di un processo sociale complesso, che ovviamente risente dei rapporti di potere, e che può essere influenzato da altre componenti. Pertanto, il ‘merito’ può assumere volti molto diversi. In una società militare, il merito è dato principalmente dalla virtù militare, con tutte le dimensioni che la storia ci mostra. All’interno di un’organizzazione criminale, il merito viene invece definito, per esempio, dall’abilità di compiere rapine, di eseguire omicidi su commissione, oltre che dalla capacità di resistere alle intimidazioni delle autorità giudiziarie e di polizia senza rivelare nulla su complici e mandanti. Nel campo dello sport, il merito viene definito in base ad altri criteri, che ovviamente rimandano – più che alla capacità in senso stretto – ai risultati ottenuti in occasione di competizioni agonistiche. Come tutti questi casi dimostrano abbastanza efficacemente, il merito non ha di per sé un contenuto, e il fatto di evocare la necessità di una meritocrazia non può in alcun modo aggirare il problema di chiarire ‘cosa sia’ il merito, a meno di non voler far passare i criteri di ‘merito’ come qualcosa di ‘naturale’, di indipendente dalle relazioni di potere, dal contesto sociale. Un’obiezione, in questo caso, potrebbe chiamare in causa l’esempio dell’«uomo di genio», capace di creare dal nulla qualcosa di nuovo. Ma si tratta di un’obiezione poco significativa, se ci poniamo in una prospettiva storica che consideri, per esempio, l’evoluzione dell’idea di ‘autore’ e di ‘artista’, o che prenda in considerazione i motivi per cui un singolo può essere premiato in quanto dotato di facoltà straordinarie.
Il secondo assunto di Scaraffia – quello che contrappone le dittature alla democrazia – richiama invece l’attenzione su un altro punto. Innanzitutto, ci si potrebbe chiedere se sia proprio così corretta l’idea che la democrazia, a differenza delle dittature, premi il merito e non l’obbedienza. Ma, da questo punto di vista, Grilli di Cortona – accordandosi in fondo con il senso comune – invita ad abbandonare soverchie illusioni, quando osserva: «la politica non è quasi mai meritocratica: tra i principi di base della politics (che definisce processi e procedure per la conquista e l’esercizio del potere), il merito è importante ma non è al primo posto»; e questo dato di fatto, continua, «probabilmente, non è del tutto estraneo alle crisi cicliche di sfiducia vissute dalla politica, con la conseguenza di periodiche attribuzioni di fiducia a forme diverse di competenza, la conoscenza, la scienza, l’esperienza» (Significato e ruolo sociale del merito, p. 27).
A ben vedere, però, non si può essere del tutto ingenerosi nei confronti dei politici che riescono a ottenere risultati. In qualche modo, anche un aspirante leader che riesce a essere eletto dimostra, sul campo, di avere qualche merito. Perché dimostra di avere quelle abilità, quelle attitudini, quelle caratteristiche che gli elettori premiano: l’abilità oratoria, la ricchezza, l’eleganza, un’elevata provenienza sociale, un passato prestigioso alle spalle, una sapiente capacità di gestire la propria immagine televisiva, un’arguzia preziosa nei talk-show, o forse persino la reputazione di una competenza tecnica. Ovviamente, si potrebbe obiettare, «questi non sono ‘meriti’», «i cittadini non sono in grado di giudicare realmente il ‘merito’ degli aspiranti governanti», «gli elettori si fanno deviare da immagini spesso distorte, da reputazioni che poco hanno a che vedere con la realtà». In obiezioni di questo tipo, però, non è difficile intravedere il disprezzo di Platone verso la massa, il dispregio verso il giudizio superficiale del demos, il disgusto verso l’insipienza della plebe e gli inganni dei demagoghi. Ed è scontato che la soluzione che scaturisce da queste obiezioni non potrebbe essere altro che l’intervento di un’autorità superiore: l’intervento, cioè, di una sorta di ‘controllore’ – forse non necessariamente dispotico, ma certamente autoritario – che fissi il ‘contenuto’ del merito e i criteri con cui misurarlo. Ma, com’è ovvio, in questo caso ci si allontanerebbe in modo irrimediabile dalla democrazia e dai principi liberali, per approdare a una gestione autoritaria, che, comunque, non svaluterebbe in sé il merito, ma attribuirebbe un altro significato al merito.
Questo insieme di considerazioni conduce però al rapporto fra merito e obbedienza. Infatti, non è affatto così scontato – come sembra ritenere Scaraffia – che il merito sia incompatibile, o irrimediabilmente opposto, all’obbedienza. Perché, in effetti, il contenuto specifico del merito può anche consistere nell’obbedienza. In una società in cui viene premiato il rispetto del dovere – e tutte le società umane non possono fare a meno del rispetto del dovere (anche se muta storicamente il contenuto ‘morale’, ‘sociale’ e ‘politico’) – il merito viene ad avvicinarsi notevolmente all’obbedienza. «Il rispetto del dovere», scrive per esempio Mathieu, «può anche ridursi a obbedire al comando del più forte, in vista della sanzione positiva, o, più spesso, negativa (pena) che egli può irrogare» (La meritocrazia come postulato, p. 13). Così, quel difetto che Scaraffia attribuisce alle dittature – e in particolare all’Urss – è in realtà un carattere presente più o meno in tutti i gruppi umani: e ciò significa non soltanto che l’obbedienza è indispensabile a ogni organizzazione, ma anche che l’obbedienza è sovente trasformata in una virtù, o forse persino nella virtù più elevata, la quale viene fatta coincidere per intero con il merito. Pertanto, ritenere che molti politici contemporanei non siano selezionati in base al merito, ma in base all’obbedienza, è logicamente scorretto, semplicemente perché, all’interno dell’organizzazione in cui essi operano, il criterio principale con cui vengono stabiliti i ‘meriti’ individuali possono anche coincidere (e spesso di fatto coincidono) con l’obbedienza, l’aderenza alla disciplina di partito, l’abnegazione, la capacità di difendere la linea anche quando vi sono forti motivi di disaccordo. Quegli stessi principi che definiscono il merito nei corpi militari, che – come diceva il vecchio motto dell’arma dei Carabinieri – sono «usi obbedir tacendo e tacendo morir». Ma l’obbedienza non è una virtù solo in campo politico. E, da questo punto di vista, è forse da prendere in esame con maggiore attenzione l’idea di Rigotti secondo cui il merito, nelle società contemporanee, viene a coincidere principalmente con «l’efficienza di mercato».
Quando evidenzia la netta contrapposizione fra i principi egualitari di giustizia e il principio di un merito che, in realtà, coincide solo con l’efficienza di mercato, Rigotti coglie un punto importante. Un punto che può essere ulteriormente sviluppato, per evitare di pensare all’efficienza al mercato in termini eccessivamente romantici. In effetti, l’efficienza assume un carattere diverso a seconda del tipo concreto di lavoro cui ci si riferisce. Per esempio, nel caso di un singolo artigiano, che produce individualmente un manufatto e che lo porta sul mercato, l’efficienza chiama in causa la sua perizia tecnica e – va da sé – anche la sua velocità nel produrre un determinato bene. In altri termini, in questo caso si può forse dire che sia effettivamente il ‘mercato’ a sancire l’efficienza del singolo operatore. Ma, ovviamente, si tratta di un esempio che riesce ben poco a cogliere la realtà del lavoro contemporaneo. D’altronde, anche nel settore manifatturiero, dal momento in cui entra in campo una cooperazione lavorativa complessa, che assegna al singolo lavoratore un compito estremamente specializzato (e spesso standardizzato), la relazione tra efficienza e mercato diventa molto meno diretta. E proprio per questo vengono introdotti altri criteri (principalmente i tempi fissati dalla direzione) per stabilire se il singolo sia più o meno efficiente: ma, ovviamente, si tratta di un’efficienza che ha un rapporto non tanto con l’effettivo risultato sul mercato (il quale dipende da molti altri fattori, come la qualità del prodotto, le campagne pubblicitarie, la capacità di innovazione, ecc.), quanto con il piano della produzione stabilito dal vertice aziendale. Senza addentrarsi in disamine troppo complesse, è scorretto affermare che qui il rapporto fra efficienza e merito viene meno: piuttosto, si può affermare che efficienza e merito coincidono del tutto con la disciplina, ossia con la disponibilità del singolo a sottoporsi interamente alle direttive e ai tempi stabiliti dal vertice della gerarchia aziendale (con tutto ciò che comporta la disciplina di fabbrica, in termini di sanzione dei comportamenti conflittuali).
Ma il quadro cambia ancora – e cambia notevolmente – quando dal terreno della produzione materiale ci si sposta ad altri settori, come quelli che caratterizzano d’altronde gran parte delle economie ‘post-industriali’. Misurare l’efficienza del singolo è molto complesso, se non impossibile, in un’organizzazione burocratica. In questi casi, i criteri che fissano il merito, e il demerito, non possono che assumere contorni arbitrari, non possono cioè che imporre come regola di misurazione dell’efficienza una serie di convenzioni: convenzioni che risentono naturalmente dei rapporti di potere o delle ‘mode’ organizzative, che possono anche trovare un legittimazione ‘scientifica’; convenzioni che mutano nel tempo (anche per effetto delle sollecitazioni esterne, che rimandano, più o meno direttamente, anche al ‘mercato’), ma che, nondimeno, rimangono ‘convenzioni’. Convenzioni che si suppone – almeno da parte dei vertici – siano in grado di produrre vantaggi di qualche genere, e che si basano non tanto sull’effettivo risultato di mercato, quanto su un’ipotesi convenzionale, cioè sull’assunto ipotetico che si tratti davvero di qualcosa di ‘efficiente’. Un simile discorso diventa ancora più complicato quando chi deve stabilire la regola ‘convenzionale’ non ha alcuna relazione con un – anche lontanissimo – risultato di mercato, ma ha invece obiettivi differenti (come avviene nel caso delle amministrazioni pubbliche, in cui gli obiettivi possono essere la conquista del voto, la visibilità, la costruzione di un’immagine di rigore e di efficienza, la manipolazione delle risorse pubbliche, la gestione clientelare della forza lavoro, ecc.). Ed è ulteriormente più intricato nel caso di tutti quei lavori che coinvolgono una dimensione relazionale di qualche genere, come avviene non solo nei lavori di cura, ma anche in tutti quei lavori che implicano un’attività di vendita e la costruzione di relazioni. In simili lavori, che in un’economia dominata dai servizi sono sempre più rilevanti, misurare il merito – inteso nei termini di efficienza di mercato – diventa un’operazione che richiede inevitabilmente il ricorso ad altri criteri (e la simulazione degli effetti dell’efficienza di mercato).
A ben vedere, d’altronde, in tutti i lavori relazionali – anche in quelli che hanno un rapporto diretto con il mercato, e soprattutto più o meno in tutti i lavori ‘intellettuali’ che caratterizzano il cosiddetto ‘capitalismo cognitivo’ – le attitudini cruciali richieste al lavoratore hanno d’altronde poco a che fare con il livello del Q.I., che Young considerava il pilastro della società meritocratica. In tutti questi lavori, la meritocrazia tende avvicinarsi a una sorta di ‘meretrocrazia’, perché i criteri che fissano il ‘merito’ diventano molto simili a quelli che contrassegnano, più o meno da sempre, il mercato della prostituzione, e perché diventa sostanzialmente impossibile scindere il ‘merito’ e l’‘efficienza’ da attitudini – cui di solito non si attribuisce un valore positivo – come l’adulazione, la dissimulazione, il servilismo. Il ‘merito’, allora, non coincide con l’‘efficienza’, o almeno coincide con l’efficienza solo se si intende quest’ultima – al di là di ogni romanticismo – come la disponibilità ad adeguarsi alla convenzione arbitraria che sta alla base dell’organizzazione del lavoro. E, dunque, si devono includere nell’efficienza del singolo lavoratore anche elementi come il servilismo nei confronti della direzione, la compiacenza, la delazione. Tanto che, forse, possiamo ritrovare la più nitida rappresentazione della meritocrazia non nella distopia di Young, ma in una delle scene finali di Una vita difficile, il vecchio film di Dino Risi. La scena in cui Silvio Magnozzi, il giornalista interpretato da Alberto Sordi, propone un’inchiesta sui braccianti al commendator Bracci, il losco proprietario del giornale per cui lavora. Con il ghigno del grande Claudio Gora, il commendatore – come è facile ricordare – non si limita a bocciare la proposta e a dare del cretino al proprio segretario. Ma, una volta di più, rammenta a Magnozzi la primaria regola che ogni lavoratore deve seguire. Quella stessa regola che, probabilmente più di ogni apologo e più di ogni affilata argomentazione, continua a svelarci l’autentico significato della meritocrazia: «Dimentichi di avere delle idee personali e faccia soltanto quello che le dico io!».

Damiano Palano






venerdì 15 novembre 2019

Meritocrazia: un’utopia «rovesciata». Rileggere il vecchio romanzo distopico di Michael Young


di Damiano Palano

La meritocrazia è tornata in queste settimane al centro di una riflessione critica. E si è cominciato a ricordare anche l'origine del termine, coniato da Michael Young in un proprio racconto distopico alla fine degli anni Cinquanta. Di seguito viene riproposta una recensione alla nuova edizione italiana del libro,
apparsa su «Avvenire» il 13 marzo 2015.

Se si dovessero ricostruire le novità intervenute nel lessico politico del XXI secolo, sarebbe davvero difficile negare la fortuna conosciuta negli ultimi anni dal termine “meritocrazia”. Spesso neppure i suoi più entusiasti alfieri sanno però che quella parola venne coniata quasi sessant’anni fa con intenzioni tutt’altro che celebrative. Il termine venne infatti introdotto dal sociologo britannico Michael Young (1915-2002), nel suo L’avvento della meritocrazia, apparso per la prima volta nel 1958 e ora riproposto dalle Edizioni di Comunità (pp. 231, euro 15.00). Nonostante Young fosse uno scienziato sociale, The Rise of the Meritocracy era in realtà un esempio di ‘fanta-sociologia’. Si trattava infatti di un fittizio saggio storico in cui un immaginario studioso del futuro, fermamente convinto della superiorità della società meritocratica, ne ripercorreva le origini e gli sviluppi. In qualche misura Young percorreva così un sentiero simile a quello tracciato da romanzi come Il mondo nuovo di Aldous Huxley o come 1984 di George Orwell. Anche la società meritocratica che descriveva era infatti un regime opprimente, ma a connotare quel peculiare dispotismo era la trasformazione del “merito” nella base dell’ordine sociale. Ciò comportava che la popolazione fosse suddivisa fin dalla più giovane età in base al valore del Quoziente Intellettivo e indirizzata verso percorsi educativi e lavorativi differenziati. 
Intervenendo nel 2001 sulle pagine del «Guardian», il sociologo notò come gli intenti che lo avevano indotto a coniare il neologismo fossero stati del tutto distorti. Se Young negli anni Cinquanta aveva scritto il suo saggio in polemica contro l’acritica celebrazione delle tecniche che misuravano il Q.I., in meno di mezzo secolo l’appello alla «meritocrazia» era invece diventato il pilastro di un’ideologia antiegualitaria. Negli ultimi decenni le polemiche sulla quantificazione del «merito» non si sono comunque esaurite. Molte voci hanno per esempo messo in dubbio che possano esistere strumenti davvero ‘oggettivi’ di misurazione. Altri critici hanno invece sottolineato come ogni criterio ‘meritocratico’ tenda a considerare solo il singolo individuo, trascurando così tutte quelle attività – per esempio nell’ambito della produzione di beni immateriali o della stessa ricerca scientifica – che sono il prodotto della cooperazione di molte persone. Ma forse il problema principale di ogni sistema meritocratico è di ordine morale (oltre che evidentemente politico). Il “merito” che si punta a misurare è infatti sempre valutato in relazione agli obiettivi di un’organizzazione. Che lo scopo sia la competitività nazionale, la produttività di un’azienda, l’efficienza di un servizio, i criteri meritocratici – anche nel caso (tutt’altro che scontato) che possano davvero funzionare – sono finalizzati a utilizzare le capacità dei singoli a vantaggio di un sistema. Il punto è però che gli obiettivi da perseguire – in vista dei quali il “merito” viene misurato – sono dei presupposti spesso sottratti al controllo di chi viene valutato. In altre parole, se i criteri meritocratici ‘misurano’ (in teoria) quanto il singolo contribuisce agli obiettivi dell’organizzazione, questi obiettivi sono stabiliti ‘dall’alto’, o addirittura dall’esterno. Col risultato che noi possiamo immaginare una piena attuazione dei criteri meritocratici persino in una società totalitaria, in cui il “merito” del singolo consiste nella capacità del singolo di perseguire gli obiettivi criminali di un regime dispotico. Ed è in fondo proprio per questo che, quasi inevitabilmente, il “merito” evocato dai sostenitori della meritocrazia rischia di diventare un obiettivo fine a se stesso. Un obiettivo del tutto indifferente al ‘senso’ delle nostre azioni.