domenica 22 dicembre 2013

La scorciatoia. La battaglia di Luciano Canfora contro «il vero volto del maggioritario»



di Damiano Palano

Questo testo è apparso sul sito dell'Istituto di Politica-Rdponline.

Nonostante sia stabilmente entrata anche nel lessico politologico, l’espressione “Seconda Repubblica” rimane solo una formula giornalistica, per molti versi persino fuorviante. In effetti, la ‘transizione’ che si avviò fra il 1993 e il 1994 non innescò un rilevante cambiamento della Carta costituzionale, ma si ridusse al (parziale) mutamento degli attori della politica nazionale e del quadro ideologico di riferimento dei principali partiti. La ‘transizione’ si tradusse cioè nel passaggio da un «pluralismo polarizzato», come l’aveva definito Giovanni Sartori, a un «bipolarismo» che si sarebbe rivelato in seguito piuttosto frammentato, segnato da una certa instabilità e paradossalmente piuttosto ‘polarizzato’. Ovviamente si trattava di un cambiamento che doveva produrre conseguenze rilevanti. Ma è significativo che l’unica reale trasformazione – o quantomeno quella che più doveva incidere sull’effettiva dinamica del confronto politico – non coinvolgesse tanto l’architettura delineata nella Carta del 1948, quanto la legislazione elettorale, e cioè il sistema elettorale proporzionale che aveva contrassegnato la prima stagione repubblicana. Così, se qualsiasi seria ricostruzione storica del tramonto della ‘Prima Repubblica’ non potrebbe certo tralasciare di considerare le implicazioni della fine della Guerra fredda o il ruolo rivestito dalla magistratura nell’uscita di scena della classe politica del vecchio «pentapartito», difficilmente si potrebbe contestare il peso che, nel dar forma alla ‘transizione’, ebbe proprio la legge Mattarella, adottata sulla spinta propulsiva dei referendum popolare dei primi anni Novanta. E forse proprio per questo rimane scritto nel destino della “Seconda Repubblica” che il suo travagliato percorso debba essere costantemente accompagnato da un’inesauribile discussione sulla necessità di una ‘riforma elettorale’, oltre che, ovviamente, sul metodo che potrebbe consentire all’Italia di diventare finalmente un Paese ‘normale’. 
Comprensibilmente il dibattito non poteva non riaprirsi dopo le elezioni del 24-25 febbraio, coinvolgendo la legge Calderoli, diventata l’oggetto di un dileggio pressoché trasversale, eppure capace di resistere – nei suoi ormai otto anni di vita – a mutamenti di maggioranza, crisi  di governo ed emergenze nazionali. Nella contesa si cala ora anche Luciano Canfora, con un vibrante pamphlet il cui titolo – La trappola. Il vero volto del maggioritario (Sellerio, pp. 98, euro 10.000) – non lascia molti dubbi sull’opinione nutrita dall’antichista verso quello che nel gergo politico e giornalistico è ormai diventato il Porcellum. Il risultato delle consultazioni di febbraio – ossia l’esorbitante premio di maggioranza assegnato alla Camera alla coalizione di centro-sinistra, pur a fronte di un risultato di sostanziale parità in termini di voti popolari – viene infatti definito da Canfora come «il più grande scandalo mai verificatosi nella storia politica italiana», un risultato «più scandaloso persino del risultato ottenuto dal ‘listone’ mussoliniano (e associati), grazie alla legge Acerbo, nelle elezioni politiche dell’aprile 1924» (p. 9). In questo senso, Canfora si rivolge certo contro la logica di un sistema che distorce l’effettiva volontà degli elettori, creando artificialmente una maggioranza inesistente nelle urne. Ma il vero obiettivo della sua polemica non è tanto il sistema elettorale, quanto la classe politica del centro-sinistra, e cioè il gruppo dirigente della forza che ha beneficiato del premio di maggioranza previsto dalla legge Calderoli, e che paradossalmente «discende da quei partiti (Psi e Pci) che a suo tempo avevano condotto la più fiera e bene argomentata battaglia contro il feticcio del ‘premio di maggioranza’: contro quella che è passata alla storia come la ‘legge truffa’» (p. 10). Il pamphlet di Canfora può in effetti essere letto, oltre che come un manifesto polemico contro il sistema maggioritario, come l’ennesimo episodio di una battaglia contro la «metamorfosi» culturale della sinistra italiana (e del suo ceto dirigente), cui viene imputata la responsabilità di essere passata, «in pochi anni, dalla difesa del suffragio universale al principio-base delle corse dei cavalli» (p. 10). E, per quanto si tratti di una battaglia che a molti può apparire ricoperta di uno spesso strato di nostalgia, la cura filologica con cui viene condotta la rende comunque meritevole di un’attenta lettura.
Il percorso si snoda fra alcune tappe cruciali della storia elettorale italiana, ma prende avvio da un fatto destinato ad avere ripercussioni notevoli. Riprendendo una ricostruzione svolta da Calogero Salomone, Canfora sostiene infatti che l’articolo 75 della Carta costituzionale, nel quale vengono definite le materie che possono essere oggetto di referendum, sia viziato a causa di una «omissione», attribuibile principalmente a Meuccio Ruini. In sostanza, nella discussione condotta all’Assemblea Costituente il 31 gennaio 1947, l’Aula emendò gli articoli 72 e 73 del testo predisposto della Commissione dei Settantacinque, inserendo anche le leggi elettorali fra le materie escluse da consultazioni referendarie. Quando gli articoli 72 e 73 vennero però accorpati ad opera del Comitato dei Diciotto (rappresentante in Aula della Commissione dei Settancinque), la parola «elettorali» scomparve, o meglio fu «tacitamente omessa» (p. 15). Tanto che, come scrive Canfora riportando il giudizio formulato dallo stesso Ruini alcuni dopo, «il testo dell’articolo 75 risulta viziato a causa di quella omissione» (p. 17).
Il vulnus riportato alla luce da Canfora finisce naturalmente col gettare un velo di sospetto sull’intera vicenda della “Seconda Repubblica”, che, in qualche modo, sarebbe nata quasi mezzo secolo dopo proprio per effetto di quella «omissione», e che dunque risulterebbe addirittura in contrasto con lo spirito della Carta. Ma l’attenzione dello storico si concentra soprattutto sulla cosiddetta «legge truffa» e sul dibattito che in Parlamento ne precedette l’approvazione. Più che i risvolti politici del confronto, a Canfora interessano però quei rilievi che allora misero in discussione la costituzionalità della legge, proprio in quanto essa andava a violare il principio del voto libero e uguale fissato nella Carta, e dunque il principio di proporzionalità verso cui erano andate le preferenze dei costituenti. E, in questo senso, è comprensibile che nel pamphlet venga ripubblicato l’intervento contro il disegno di legge Scelba pronunciato da Palmiro Togliatti nel dicembre 1952. L’approfondita argomentazione di Togliatti – che occupa circa un terzo del volume – ricorreva alle posizioni di pilastri della storia italiana e della dottrina giuridica, come Gian Domenico Romagnosi, Cavour, Sidney Sonnino, Ruggero Bonghi, Giovanni Amendola e Vittorio Emanuele Orlando. La tesi principale del segretario del Pci era che la nuova legge modificasse l’ordinamento costituzionale e lo violasse in alcuni punti cruciali. In un passaggio importante del discorso affermava infatti: «In qual modo e perché questa legge è sovvertitrice dell’ordinamento costituzionale? Essa lo è perché nella nostra Costituzione vi è una determinata definizione del diritto di voto e la Costituzione stessa determina il modo dell’esercizio di questo diritto. Questa definizione del diritto di voto, e la determinazione del modo dell’esercizio di questo diritto non sono cosa a sé, atto di contingenza politica, ma conseguenza diretta del modo come è definito, nella Costituzione repubblicana, l’ordinamento costituzionale dello Stato. Ecco, quindi, il profilo esatto della mia eccezione di costituzionalità. Qui è violato l’articolo 56, che prevede il modo come viene eletta la Camera dei deputati ed è violato in particolare in relazione all'articolo 48, che sancisce l’eguaglianza del voto dei cittadini. Dall’esame di questi articoli e della violazione dei principi che essi asseriscono risalgo agli articoli 1, 3 e 49 della Costituzioni repubblicana, che rispettivamente definiscono e sanciscono la natura giuridica e politica del nostro Stato, l’eguaglianza politica dei cittadini e infine la funzione di determinati organismi politici – i partiti – di cui la Costituzione stessa parla all’articolo 48» (p. 48).
Se certo nel discorso di Togliatti non possono sfuggire alcune forzature argomentative, lo stile, la struttura e i riferimenti dell’intervento dell’allora segretario del Pci non possono non confermare – una volta di più – l’impressione della distanza che separa la classe politica della prima stagione repubblicana da quella che occupa oggi il proscenio della “Seconda Repubblica”. Al di là di questo, la decisione di ripubblicare quella che, non senza enfasi, viene definita come «la lezione di diritto costituzionale di Palmiro Togliatti», può forse indurre qualche lettore a liquidare l’intera discussione condotta da Canfora. In realtà, l’inserimento della dissertazione togliattiana nel pamplhet non ha solo un valore documentario, un valore nei confronti del quale la passione filologica di Canfora non può peraltro risultare indifferente. La «lezione» del Migliore è infatti destinata ad acquistare un peso politico, nella misura in cui viene indirizzata proprio contro quei leader politici che sono – più o meno direttamente – eredi della tradizione politica del Partito Comunista Italiano. Gli autentici bersagli della polemica di Canfora sono d’altronde proprio i vertici della sinistra italiana, cui viene imputata la responsabilità di avere abbandonato bruscamente, fra il 1989 e il 1991, il tradizionale sostegno al sistema proporzionale, sposando la causa del maggioritario, per un articolato insieme di cause. «Cambio di cultura, persuasione di poter ‘vincere al tavolo da gioco’ la battaglia elettorale, sfiducia forse nella propria capacità di conquistare consensi e illusione che nella lotta politica esistano scorciatoie: tutto questo determinò il passaggio alla ‘cultura del maggioritario’ proprio al vertice della forza politica che più aveva, e così a lungo, presidiato il principio fondamentale della democrazia: ‘un uomo/un voto’» (pp. 65-66). 
In altre parole, il vero motivo che alimenta il volumetto di Canfora è proprio una critica spietata alla convinzione, coltivata dai dirigenti del Pci/Pds/Pd, che gli ostacoli sulla strada verso il potere potessero finalmente essere aggirati, più che veramente superati, da una sorta di ‘scorciatoia’, e cioè da un sistema elettorale che – semplificando il gioco politico, ma distorcendo anche il voto degli cittadini – consentisse di conquistare la maggioranza in Parlamento, anche senza godere di una reale maggioranza nel Paese. La responsabilità, oltre che agli umori dell’elettorato, è dunque addossata soprattutto ai gruppi dirigenti del Pci, usciti dal travaglio dell’Ottantanove: «non tolleravano più di restare ai margini del governo, in posizione ‘morganatica’ rispetto ai governanti eterni includenti ormai stabilmente anche i socialisti (dal 1963). L’invenzione dell’‘arco costituzionale’ non soddisfaceva più; il potere locale (regioni etc.) non bastava; era ormai nato un ceto governativo (amministratori pragmatici e competenti ma del tutto indifferenti agli schieramenti ‘di principio’) al quale sembrava un assurdo intollerabile non poter governare in prima persona. Caduta l’Urss non esisteva nemmeno più il cosiddetto ‘fattore K’: dunque bisognava tentare, magari proprio con la scorciatoia del maggioritario, di ‘andare al governo’» (pp. 76-77).
Dopo il 24-25 febbraio 2013, le speranze riposte nelle virtù del premio di maggioranza, già messe in seria crisi delle precedenti performance della legge Calderoli, sono state definitivamente dissolte, anche se la capacità di conservare le rendite di posizione del duopolio Pd/Pdl rende piuttosto incerta l’eventualità di una riforma elettorale. Ma, in questa prospettiva, Canfora si esprime nettamente a favore del ritorno al proporzionale, spingendosi al massimo a concedere l’introduzione di una clausola di sbarramento simile a quella prevista dal sistema tedesco. In particolare, la sua difesa si basa su tre diversi ordini di argomentazione. In primo luogo, chiama in causa una motivazione di principio forte, ossia l’idea che la democrazia sia possibile solo in presenza di un effettivo suffragio universale, e soprattutto che – come sosteneva Togliatti – solo il sistema proporzionale «rispetti il principio del suffragio universale e uguale» (p. 68). In secondo luogo, celebra il sistema proporzionale perché «costringe le forze politiche alla ricerca di un compromesso» indispensabile in particolare «nelle società industriali avanzate (dette anche ‘complesse’)», nelle quali «la ricerca del compromesso è l’unica alternativa al conflitto, ed è perciò necessaria» (pp. 68-69). Infine, considera gli effetti prodotti sui cittadini, ossia la capacità di ridurre – se non certo di eliminare – l’«analfabetismo politico», perché il sistema proporzionale evita «che una forza politica capace di convogliare su di sé le simpatie degli elettori meno preparati (più facili, proprio per ciò da sedurre) possa trovarsi, grazie ad un ‘marchingegno’ maggioritario, a fare un indebito pieno di eletti assicurandosi così una schiacciante e devastante maggioranza parlamentare» (p. 97). In altre parole, dunque: «Il meccanismo proporzionale costringe i partiti ad essere veramente tali, cioè a guadagnarsi davvero, e quotidianamente, il consenso, non già a studiare con quale combinazione riuscire vincitori al tavolo da gioco. Costringe dunque i partiti a ridiventare veicolo di educazione politica di massa (unica vera risposta efficace all’obiezione di principio sull’‘incompetenza’ dell’elettore) quali furono i grandi e meno grandi partiti che costruirono la nostra Repubblica» (pp. 97-98).
Il primo elemento evocato da Canfora – l’argomento togliattiano del suffragio universale e uguale – può naturalmente risultare condivisibile in linea di principio, ma è scontato che debba sollevare più di qualche obiezione, suggerita peraltro anche da un esame comparato del funzionamento dei sistemi politici occidentali. In questo senso, si potrebbe ribattere a Canfora che Regno Unito e Stati Uniti utilizzano varianti del sistema elettorale maggioritario, con effetti peraltro fortemente distorcenti del voto popolare, senza che nessuna forza politica rilevante ne abbia mai messo in discussione il carattere democratico. Ma anche in questo caso è prevedibile una contro-obiezione rivolta, oltre che a rilevare le specificità storico-politiche di quei regimi, a metterne in discussione l’effettiva democraticità (o la piena democraticità). Al di là di questo, sono però soprattutto le altre due argomentazioni di Canfora ad apparire al tempo stesso più suggestive e più deboli, e non certo perché non abbiano qualche fondamento. Al contrario, si tratta di argomenti che riflettono l’esperienza storica del Parteienstaat postbellico, ossia di uno Stato in cui i partiti presenti in Parlamento avevano effettivamente – come voleva Kelsen – la funzione di stipulare un «compromesso» fra le componenti di una società sempre sull’orlo della guerra civile, e in cui svolgevano una funzione di educazione delle masse. In quel contesto, il sistema proporzionale aveva realmente la capacità di evitare il riacutizzarsi di vecchie fratture e dunque di ‘civilizzare’ il conflitto politico. Il punto debole del ragionamento di Canfora non consiste dunque nella descrizione della funzione che il sistema proporzionale svolse in quel contesto, ma nell’implicita convinzione che il sistema elettorale sia di per sé in grado di produrre quegli effetti sui partiti e sulla società. In questo modo, Canfora finisce infatti col cadere nello stesso vizio che imputa ai propri bersagli polemici. In altre parole, i dirigenti del Pci/Pds, a un certo punto, si convinsero effettivamente, come rileva Canfora, che alcune caratteristiche di fondo della società italiana potessero essere superate grazie alle virtù dell’«ingegneria elettorale», e che cioè la sinistra potesse finalmente accedere alla ‘stanza dei bottoni’ grazie a un sistema elettorale ben congegnato, e soprattutto capace di consentire finalmente l’alternanza di governo. Ma, benché segua una strada molto diversa, anche Canfora sviluppa in realtà un ragionamento simile, perché anch’egli finisce con l’imboccare una sorta di «scorciatoia», e col cedere dunque alle seduzioni dell’«ingegneria elettorale». In fondo, anche Canfora assegna infatti al sistema elettorale proporzionale la facoltà di produrre partiti forti, strutturati sul territorio e persino capaci di educare i cittadini al gioco democratico. Così, non diversamente dai referendari dei primi anni Novanta, giunge a ritrovare nella legge elettorale la chiave per risolvere l’eterna ‘anomalia italiana’. Ed è invece proprio da queste illusioni che è necessario guardarsi. Non certo perché il ritorno a un sistema proporzionale, magari con correzioni simili a quelle previste nel sistema tedesco, non sia sostenibile, auspicabile o persino augurabile. Ma perché sarebbe illusorio ritenere che solo il ritorno al proporzionale possa davvero ricostruire in Italia quei partiti omogenei, coerenti e relativamente stabili, senza i quali ogni sistema elettorale è per molti versi destinato a produrre una sostanziale instabilità.

Damiano Palano

lunedì 16 dicembre 2013

Il senso perduto dell’economia. "Il nuovo governo del mondo" di Georges Corm


di Damiano Palano

Questa recensione di Georges Corm, Il nuovo governo del mondo. Ideologie, strutture, contropoteri (Vita e Pensiero, pp. 271, euro 22.00) è apparsa su "Agorà-sette", il nuovo inserto letterario di "Avvenire", venerdì 12 dicembre 2013.

Proprio vent’anni fa Georges Corm dava alle stampe Il nuovo disordine economico mondiale. In quel testo, per molti versi profetico, lo studioso libanese prevedeva che il sistema economico avrebbe assunto forme selvagge e regressive, destinate a innescare crisi sempre più gravi. Ma, soprattutto, denunciava la “perdita di senso” della scienza economica, la quale, perseguendo l’obiettivo delle formalizzazione matematica, aveva smarrito la propria capacità di comprendere il mondo e la sua complessità. Nel suo Il nuovo governo del mondo. Ideologie, strutture, contropoteri, pubblicato in questi giorni da Vita e Pensiero (pp. 271, euro. 22.00), Corm riprende tutti i motivi di quella polemica, che è peraltro diventata oggi ancora più radicale. Negli ultimi vent’anni l’autore ha d’altronde avuto modo di trovare nuove conferme alle ipotesi iniziali anche grazie alla conoscenza diretta del funzionamento delle istituzioni internazionali. Perché, oltre a dedicarsi all’attività accademica, Corm ha ricoperto importanti incarichi istituzionali e di consulenza che gli hanno consentito di esaminare da vicino come operano le organizzazioni internazionali, e in particolare quelle che si occupano di cooperazione e sviluppo. 
Il libro si concentra soprattutto sulle tappe che – a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, e poi sempre più rapidamente dopo gli anni Sessanta – hanno condotto alla formazione del “potere mondializzato”. Con quest’ultima espressione Corm non intende comunque un vero e proprio governo sovranazionale. Il “potere mondializzato” ha infatti una struttura al tempo stesso piramidale e orizzontale, ed è costituito da una rete transnazionale e transettoriale di attori, pubblici e privati, che riesce a indirizzare (e vincolare) le scelte degli Stati. Questo potere poggia su una enorme burocrazia, composta dai leader e dai funzionari degli Stati, dei partiti politici e delle Nazioni Unite, ma anche dai dirigenti delle multinazionali, dai ricercatori dei think tanks, dalla stampa internazionale, dai dirigenti delle grandi Ong. Ciò che unisce davvero la rete del “potere mondializzato” non è però tanto un interesse condiviso, quanto il linguaggio comune della scienza economica. Un linguaggio che – come i codici di tutte le burocrazie – tende a essere autoreferenziale. E così a trasformare i principi della dottrina neo-liberista in dogmi indiscutibili.
Nel suo testo, oltre a segnalare gli effetti perversi prodotti dal “potere mondializzato”, Corm non manca di individuare alcune tracce di possibile cambiamento. A suo avviso una prospettiva credibile di ‘de-mondializzazione’ può passare soprattutto da una ‘regionalizzazione’ della politica mondiale, e dunque dalla creazione di grandi blocchi regionali organizzati in forma federale. Ma, dato che il cuore del “potere mondializzato” sta nel dogmatismo economico e nella condivisione acritica della dottrina neo-liberista, il problema principale è soprattutto di ordine intellettuale. In altre parole, l’economia politica dovrebbe tornare alla sua funzione primaria e non dovrebbe sentirsi dispensata dalla necessità di adottare criteri di moralità e giustizia. Non è così affatto casuale che, polemizzando con la retorica dello ‘scontro di civiltà’, Corm ritrovi nell’apporto delle grandi religioni un possibile antidoto contro le derive più selvagge della ‘mondializzazione’. E, soprattutto, non è sorprendente che lo studioso libanese riconosca anche nella Dottrina sociale della Chiesa – e in particolare nella Caritas in veritate di Benedetto XVI – l’indicazione della strada che l’economia dovrebbe imboccare, per tornare a essere davvero una “scienza morale”.

Damiano Palano

giovedì 12 dicembre 2013

PER NATALE REGALA E REGALATI L'ABBONAMENTO 2014 ALLA "RIVISTA DI POLITICA" - COSTA SOLO 30 EURO!

La "Rivista di Politica", che sta entrando nel suo quinto anno di vita, si è ormai affermata come una delle voci più originali del panorama italiano. In quattro anni, sono stati pubblicati inediti di grandi pensatori del Novecento e sezioni monografiche su autori e temi (il complotto, mito e politica, gli anni di piombo, religione e politica, ecc.) sempre affascinanti e fonte di stimoli.


Consulta qui gli indici dei numeri arretrati


Uno degli aspetti che rende la "Rivista di Politica" un esperimento originale e per molti versi unico è la capacità di tenere insieme diverse prospettive di indagine e differenti sensibilità culturali, accomunate però dall'intento di comprendere la "Politica" nei suoi molteplici aspetti.


Anche per questo la "Rivista di Politica" non si rivolge solo a un pubblico di specialisti o a quelle nicchie disciplinari in cui l'accademia contemporanea - per molti motivi, non tutti lusinghieri - tende a scomporsi, ma anche a un pubblico più ampio, che comprende in special modo tutti coloro che - con lo strumento della teoria e le armi offerte dalla grande tradizione del realismo politico - intendono andare al fondo dei fenomeni politici.

Anche la "Rivista di Politica" ha però bisogno di sostegno!

Sottoscrivi l'abbonamento 2014 alla "Rivista di Politica". Costa solo 30 (trenta!) euro l’anno per quattro fascicoli, ognuno dei quali di circa 200 pagine

Il costo è comprensivo delle spese di spedizione.

L’importo può essere versato sul
conto corrente postale n. 343509
intestato a Licosa-Sansoni, Via Duca di Calabria 1/1 - 50125 Firenze.

Oppure si può utilizzare il conto corrente bancario su Banca Intesa, Filiale di Firenze con il seguente  numero di IBAN
IT88 Z 01030 02869 000004160064.

In entrambi i casi, dopo aver effettuato il pagamento, bisogna inviare la ricevuta alla Licosa-Sansoni. Per mail a laura.mori@licosa.com, per fax al n. 055.641257 oppure per posta a Licosa - Via Duca di Calabria 1/1 - 50125 Firenze.

Quando si effettua il pagamento bisogna sempre indicare nella causale il nome della “Rivista di Politica” e l’anno per il quale si intende far decorrere l’abbonamento. Se si indica il 2013 si riceveranno tutti e quattro i fascicoli della rivista già usciti. Se si indica il 2014, l’abbonamento avrà il suo corso nel nuovo anno.


lunedì 9 dicembre 2013

L'Occidente? Stazionario. Il j'accuse di Niall Ferguson

di Damiano Palano 

Questa recensione al nuovo volume di Niall Ferguson, Il Grande Declino. Come crollano le istituzioni e muoiono le economie (Mondadori, pp. 134, euro 17.00), è apparsa (in una versione leggermente diversa) su "Agorà sette", il nuovo inserto culturale di "Avvenire", di venerdì 6 dicembre 2013.

In un passo della Ricchezza delle nazioni Adam Smith descrisse le condizioni di una società ‘stazionaria’, ossia di un paese in precedenza ricco che ha smesso di crescere. In queste condizioni, osservava Smith, il salario della gran parte della popolazione risulta piuttosto basso, ma il dato forse più significativo è che le élite diventano corrotte e cercano di sfruttare il sistema giuridico e amministrativo per consolidare il loro potere. Naturalmente l’economista scozzese si riferiva allora alla Cina, che, dopo essere stata per secoli una società florida, nella seconda del Settecento aveva ormai smesso di crescere, a differenza dell’Inghilterra e delle sue colonie americane, che si trovavano al principio della loro ascesa. A distanza di due secoli e mezzo, nel suo Il grande declino. Come crollano le istituzioni e muoiono le economie (Mondadori, pp. 133, euro 17.00), Niall Ferguson torna invece alle pagine di Smith per riconoscere come la situazione appaia oggi sostanzialmente invertita. Mentre la Cina è al centro di una crescita con pochi paragoni, l’intero Occidente sembra presentare tutti i tratti di una società stazionaria. Lo studioso di Harvard non si limita però a riconoscere che nelle democrazie occidentali la diseguaglianza è in aumento e che le élite tendono a assumere un ruolo regressivo. Il suo intento è piuttosto portare alla luce le vere motivazioni del declino. E, da questo punto di vista, si concentra soprattutto sull’importanza delle istituzioni. La sua convinzione è che proprio nell’infrastruttura istituzionale si nascondano tanto il segreto di una società dinamica quanto la spiegazione del suo deterioramento storico.
L’analisi non può che partire dall’indebitamento pubblico che accomuna tutti gli Stati occidentali, un fenomeno in cui Ferguson ravvisa il sintomo della rottura del contratto sociale fra le generazioni. Ma lo studioso sostiene anche che il grande declino occidentale dipende in misura significativa dall’eccesso di regolamentazione pubblica, e da questo punto di vista si discosta dalle letture più comuni. Per esempio, ritiene che la crisi finanziaria sia stata determinata non da un’insufficiente regolamentazione dei sistemi finanziari, bensì dall’eccesso di normative ipercomplesse e per questo difficili da far rispettare. D’altronde, secondo lo storico è proprio la proliferazione di regolamentazioni a tramutare i principi dello Stato di diritto nei presupposti di un «governo dei legulei». Infine, riecheggiando le tesi del politologo Robert Putnam, Ferguson ritiene che le società occidentali stiano declinando anche perché hanno dilapidato il loro ‘capitale sociale’, e cioè perché il tessuto associativo (non solo politico) su cui si reggeva la vitalità delle democrazie si sta logorando.
In questo nuovo lavoro Ferguson riprende alcune delle tesi già sviluppate in modo più ampio in Occidente (Mondadori). Ma in questo caso lo studioso capace di ricostruire con rapide pennellate le grandi tendenze storiche cede il passo al polemista interessato a incidere sul dibattito pubblico. E il rigore logico delle argomentazioni tende a essere rimpiazzato da formule retoricamente efficaci ma spesso fuorvianti. Ciò accade per esempio proprio quando si sofferma sul tradimento del patto generazionale o sulle conseguenze negative dell’eccesso di regolamentazione. Certo di tratta di fenomeni evidenti a chiunque osservi le nostre società. Il punto è però che lo studioso britannico tende a presentare questi elementi come le ‘cause’ principali del declino economico e politico dell’Occidente, e non come gli elementi di un quadro estremamente complicato. E proprio per questo il disegno del “grande declino” risulta alla fine tanto stilizzato da diventare quasi una caricatura. 

Damiano Palano

Leggi anche

lunedì 2 dicembre 2013

La legittimità schiacciata nella macchina della legalità. La rinuncia di Benedetto XVI nella lettura di Giorgio Agamben



di Damiano Palano

Questo testo è apparso sul sito dell'Istituto di Politica-Rdponline.

Alcuni giorni dopo la rinuncia di Benedetto XVI al ministero petrino, sulla prima pagina di «Repubblica» comparve un breve editoriale, in cui Giorgio Agamben invitava a ritrovare nel clamoroso gesto di Papa Ratzinger una lezione capace di sottolineare la radici più profonde della crisi del nostro tempo. Quella decisione, osservava infatti Agamben, «richiama con forza l’attenzione sulla distinzione fra due principi essenziali della nostra tradizione etico-politica, di cui le nostre società sembrano aver perduto ogni consapevolezza: la legittimità e la legalità». «Se la crisi che la nostra società sta attraversando è così profonda e grave», argomentava, «è perché essa non mette in questione soltanto la legalità delle istituzioni, ma anche la loro legittimità», e non soltanto «le regole e le modalità dell’esercizio del potere, ma il principio stesso che lo fonda e legittima» (G. Agamben, Cosa insegna la rinuncia di Ratzinger, in «la Repubblica», 16 febbraio 2013, p. 1).
L’intervento apparve a qualcuno piuttosto sorprendente, sia perché Agamben non è uso prestare le sue doti di fine intellettuale al commento giornalistico, sia perché la lettura politica del gesto di Ratzinger che emergeva dal breve editoriale poteva risultare forzata, e anche per questo lontana dall’abituale misura di un filosofo che ha fatto dell’allusione alla realtà politica quasi una cifra stilistica. In realtà, la tesi che veniva solo accennata nel commento apparso su «Repubblica» aveva alle spalle una assai più meditata riflessione, le cui coordinate vengono esplicitate nell’opuscolo Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi (Laterza, pp. 68, euro 7.00), diventato nell’arco di alcuni mesi quasi un piccolo best seller. Nel saggio principale compreso nel volume, Agamben torna infatti sulla distinzione fra legittimità e legalità, precisando che i due elementi vanno intesi – a differenza di come sono stati concepiti da buona parte della dottrina dello Stato otto e novecentesca – come «le due parti di un’unica macchina politica, che non solo non devono mai essere appiattite l’una sull’altra, ma devono anche restare sempre in qualche modo operanti perché la macchina possa funzionare» (p. 7). Quando uno dei due elementi prevale sull’altro, si giunge infatti alla degenerazione, esemplificata per un verso dai regimi totalitari del XX secolo, «in cui la legittimità pretende di fare a meno della legalità», e per l’altro dalla condizione delle democrazie contemporanee, nelle quali «il principio legittimante della sovranità popolare si riduce al momento elettorale e si risolve in regole procedurali giuridicamente prefissate», con il risultato che «la legittimità rischia di scomparire nella legalità e la macchina politica è ugualmente paralizzata» (p. 8). Il gesto di Benedetto XVI, secondo Agamben, deve essere allora letto come una messa in questione dello stesso titolo di legittimità della più antica istituzione occidentale: «Di fronte a una curia che, del tutto dimentica della propria legittimità, insegue ostinatamente le ragioni dell’economia e del potere temporale, Benedetto XVI ha scelto di usare soltanto il potere spirituale, nel solo modo che gli è sembrato possibile, cioè rinunciando all’esercizio del vicariato di Cristo» (p. 8).
Agamben sostiene inoltre che la decisione di Ratzinger ha radici profonde, testimoniate innanzitutto dalla scelta di deporre sulla tomba di Celestino V, già nell’aprile 2009, il pallio ricevuto al momento dell’investitura, ma soprattutto dalla sua visione del corpo della Chiesa. In questo senso, Agamben ritrova infatti la chiave interpretativa del gesto in un saggio pubblicato dal giovane Ratzinger nel 1956, nel quale veniva analizzato il concetto di Chiesa delineato nel Liber regularum da Ticonio, un teologo della seconda metà del IV secolo. In sostanza, a differenza di Agostino (che distingue nettamente fra Gerusalemme e Babilonia), secondo Ticonio esiste un’unica città bipartita, una sola città con due lati, uno ‘sinistro’ e uno ‘destro’. Il corpo della Chiesa è dunque unico, ma al tempo stesso bipartito, composto cioè da un aspetto colpevole e da uno benedetto. Se nello stato presente questi due lati del corpo della Chiesa risultano inseparabili, la grande discessio avverrà invece, come scrive Ticonio, alla fine dei tempi: «Questo avviene dalla passione del Signore fino al momento in cui la Chiesa che si trattiene sarà tolta di mezzo dal mistero del male (mysterium facinoris), affinché, quando il tempo è venuto, l’empio sia rilevato, come dice l’Apostolo». Ovviamente il riferimento di Ticonio alla «Chiesa che trattiene» allude alla Seconda Lettera di Paolo ai Tessalonicesi, e in particolare all’oscuro passaggio in cui viene evocato il katechon, la forza «che trattiene», sulla cui identità si sono accumulate in due millenni le più differenti ipotesi (fra l’altro ricostruite di recente anche da Massimo Cacciari in Il potere che frena, Adelphi, Milano, 2013). L’idea di Ticonio era che il katechon non fosse l’Impero romano ma la Chiesa stessa, o meglio il suo carattere bipartito. 
Ratzinger, ricorda Agamben, non si limitò a dedicare a Ticonio uno studio giovanile. Nel 2009, Benedetto XVI avrebbe infatti evocato nuovamente Ticonio, in un’udienza generale, definendolo addirittura un «teologo geniale». Il punto è però che Ratzinger – secondo Agamben – concepisce la fine dei tempi in modo diverso dal teologo del IV secolo, ossia non come la fine del tempo, ma come «il tempo della fine», come «la trasformazione interna del tempo che l’evento messianico ha una volta per tutte prodotto e la conseguente trasformazione della vita dei fedeli» (p. 16). In altri termini, la consapevolezza del carattere bipartito del corpo della Chiesa non può risolversi nella passiva attesa della fine dei tempi, «ma deve ispirare in ogni istante la consapevolezza delle sue decisioni nel mondo» (p. 17).
Senza alcun dubbio affascinante, l’interpretazione proposta da Agamben conferma quantomeno, una volta di più, la densità intellettuale – oltre che ovviamente teologica – del lascito che Benedetto XVI consegna alla nostra epoca. Se le argomentazioni sviluppate sul versante teologico dal filosofo richiederebbero un’analisi approfondita, è però anche interessante riflettere sulla dimensione più strettamente ‘politica’ del discorso di Agamben, ossia su quella dimensione che, procedendo dal gesto di Benedetto, viene a mostrare il vulnus che lacera le nostre democrazie. Secondo Agamben anche il corpo delle nostre società è infatti ‘bipartito’, commisto di crimine e onesta, di giustizia e ingiustizia. Ma il punto è che nelle democrazie contemporanee questo problema viene risolto sul piano delle norme: «Anche qui, come è avvenuto per il problema della legittimità, esso viene liquidato sul piano delle norme che vietano e puniscono, salvo a dover poi constatare che la bipartizione del corpo sociale diventa ogni giorno più profonda. Nella prospettiva dell’ideologia liberista oggi dominante, il paradigma del mercato autoregolantesi si è sostituito a quello della giustizia e si finge di poter governare una società sempre più ingovernabile secondo criteri esclusivamente tecnici. Ancora una volta, una società può funzionare solo se la giustizia (che corrisponde, nella Chiesa, all’escatologia) non resta una mera idea, del tutto inerte e impotente di fronte al diritto e all’economia, ma riesce a trovare espressione politica in una forza capace di controbilanciare il progressivo appiattimento su unico piano tecnico-economico di quei principi coordinati ma radicalmente eterogenei – legittimità e legalità, potere spirituale e potere temporale, auctoritas e potestas, giustizia e diritto – che costituiscono il patrimonio più prezioso della cultura europea» (pp. 17-18).
La conclusione del discorso di Agamben fa affiorare nitidamente il cuore di un’interpretazione che spesso il filosofo ama avvolgere in una ragnatela di raffinate digressioni e rimandi eruditi. L’idea che emerge dai passi finali del Mistero del male è infatti sviluppata in modo molto più esteso in Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo (Neri Pozza, Vicenza, 2007), oltre che in altri testi recenti, e consiste nella tesi secondo cui il problema centrale della politica non è rappresentato dalla sovranità, bensì dal governo, e cioè dalla macchina governamentale che il corpo sovrano mette in movimento. Come sintetizza in un saggio recente: «Se oggi ci troviamo di fronte al dominio schiacciante dell’economia e del governo su una sovranità popolare che è stata progressivamente svuotata dal suo senso, ciò è forse perché le democrazie occidentali stanno pagando il prezzo di un’eredità filosofica che esse avevano accettato senza beneficio d’inventario. Il malinteso che consiste nel concepire il governo come semplice potere esecutivo è uno degli errori più carichi di conseguenze nella storia della politica occidentale. Il risultato è che la riflessione politica della modernità si è perduta dietro vuote astrazioni come la Legge, la Volontà generale e la Sovranità, lasciando impensato il problema in ogni caso decisivo, che è quello del governo e della sua articolazione rispetto al corpo sovrano» (G. Agamben, Nota preliminare a ogni discussione sul concetto di democrazia, in G. Agamben et al., In che stato è la democrazia?, Nottetempo, Roma, 2010, p. 12). Il sistema politico occidentale risulta così contrassegnato dall’articolazione dei due elementi eterogenei della razionalità politico-giuridica e della razionalità economico-governamentale, ossia, per un verso, da una ‘forma di costituzione’ e da una ‘forma di governo’. E la politeia si configura stretta da un’anfibolia, le cui implicazioni – osserva ancora Agamben – non sono soltanto teoriche: «È probabile che, finché il pensiero non si deciderà a misurarsi con il nodo e con la sua anfibolia, ogni discussione sulla democrazia – sulla democrazia come forma di costituzione e sulla democrazia come tecnica di governo – rischierà di ricadere nella chiacchiera» (p. 13).
Forse può stupire la fiducia nell’esercizio della filosofia che trapela in filigrana dal discorso di Agamben, quantomeno nel momento in cui riconosce l’origine della crisi delle democrazie contemporanee, come d’altronde dello stesso terrore totalitario, nelle perverse implicazioni di un’eredità filosofica. L’analisi sulle matrici teologiche dell’economia e del governo svolta da Agamben non risulta comunque per questo meno suggestiva e meno meritevole di quell’approfondimento critico che forse – almeno in Italia – le è stato per molti versi negato. Ciò che però rimane in gran parte in questione è invece quale sia la via lungo la quale Agamben ritiene si possa uscire dalla crisi delle democrazie contemporanee, o addirittura se egli ritenga che una via del genere davvero esista. Perché, se i libri di Agamben riescono come pochi altri a ‘decostruire’ le logiche della politica moderna e a mostrare la fondazione ‘tanatologica’ del potere sovrano, nel suo pensiero rimane del tutto in ombra proprio ciò si oppone a quel soverchiante potere. Se talvolta si intravede affiorare, ma solo ai margini, la figura del tutto evanescente dell’«inoperosità» - una forma di rifiuto radicale, estranea a ogni identità, a ogni appartenenza, a ogni comunità – è infatti piuttosto complicato immaginare come una simile «inoperosità» possa assolvere alla funzione che, per ciò che concerne la vita della Chiesa, Agamben attribuisce al gesto di Benedetto XVI. E, soprattutto, appare piuttosto complesso provare a ipotizzare come proprio questa sfuggente «comunità che viene» possa «controbilanciare il progressivo appiattimento su unico piano tecnico-economico di quei principi coordinati ma radicalmente eterogenei – legittimità e legalità, potere spirituale e potere temporale, auctoritas e potestas, giustizia e diritto – che costituiscono il patrimonio più prezioso della cultura europea», senza al tempo stesso diventare un soggetto, senza esprimere un potere, e – va da sé – senza riprodurre l’eterna logica degli arcana imperii.

Damiano Palano

lunedì 25 novembre 2013

Le seduzioni della democrazia elettronica. Qualche considerazione a margine del nuovo numero di «Paradoxa»



di Damiano Palano

Le elezioni del febbraio 2013 hanno rappresentato un evento senza precedenti nella storia politica italiana, non solo perché hanno segnato la conclusione della Seconda Repubblica e del suo ‘bipolarismo’, ma anche perché una nuova formazione politica, alla sua prima partecipazione, è stata in grado di aggiudicarsi circa un quarto dei voti validi. Se questo risultato è addirittura superiore a quello fatto registrare da Forza Italia nel suo battesimo elettorale del 1994, ci sono però altri motivi che rendono le elezioni del 2013 un evento che ha attirato sull’Italia – ancora una volta – gli occhi dei politologi di buona parte del mondo. E questi motivi sono naturalmente costituiti dal profilo unico del Movimento 5 Stelle, dall’utilizzo che esso ha fatto delle nuove tecnologie, dal suo rifiuto di definirsi ‘partito’, dal ruolo dirigente (e per alcuni aspetti persino ‘proprietario’) ricoperto da un uomo di spettacolo, e infine dalla sua ideologia, che profila la possibilità di sostituire – o quantomeno di integrare – la democrazia rappresentativa con una nuova democrazia elettronica. 
I primi mesi di esperienza parlamentare dei deputati e senatori pentastellati hanno incominciato a mettere duramente alla prova molti degli iniziali motivi ispiratori, e soprattutto hanno scalfito non poco la convinzione che la soluzione dei problemi della politica italiana sia 'semplice'. Alle prese con regolamenti parlamentari e procedure complicate, gli onorevoli del M5S si sono probabilmente resi conto che la quotidianità dell’attività parlamentare è molto lontana da quella di un consiglio comunale, in cui si può discutere davvero se costruire o meno un inceneritore, o se avere più o meno spazi verdi per la cittadinanza. Ma, come era facile prevedere, hanno iniziato a entrare in crisi tanto la pretesa del M5S di non essere un ‘partito’, quanto, soprattutto, la concordia fra il ceto parlamentare del movimento e il leader extra-parlamentare, che ovviamente ha perso il monopolio della comunicazione e che spesso si è così trovato costretto a ‘correggere’, ‘bacchettare’, ‘sanzionare’, ‘minacciare’ quanti – più o meno nettamente – deviavano dalla linea giudicata corretta.
Nonostante il panorama sia in costante evoluzione, come sovente capita alle forze politiche giovani (e travolte dal loro stesso successo), rimane però ancora in piedi – quantomeno come riferimento ideale – l’utopia di una democrazia elettronica, che ovviamente rimane ancora il principale obiettivo di lungo periodo del M5S. Ed è proprio a questo insieme di convinzioni (per la verità non molto organico) che è dedicato il nuovo fascicolo della rivista «Paradoxa» (3/2013), curato da Franco Chiarenza e realizzato dalla Fondazione Nova Spes in collaborazione con la Fondazione Luigi Einaudi. L’oggetto del fascicolo – che è come sempre molto interessante – è infatti l’e-democracy, e non è affatto casuale che, nel titolo, questa formula sia seguita da un punto interrogativo. Perché, in effetti, quasi tutti i contributi – pur concordando sul fatto che le nuove tecnologie possano offrire un contributo alla vitalità della democrazia liberale – tendono a sottolineare che la democrazia elettronica non può costituire né un’alternativa alle istituzioni rappresentative, né prefigurare un loro superamento. Come scrive Chiarenza nel contributo introduttivo: «se internet sarà in grado di riproporre a un pubblico smisuratamente più grande quelle opportunità di dialogo e di competizione che furono presenti – anche scontrandosi – nell’agorà, esso potrà rappresentare uno strumento formidabile di diffusione del modello politico maturato nella tradizione occidentale, in cui la democrazia si associa alla tutela infrangibile dei diritti individuali; se invece, come già accadde duemila e cinquecento anni fa, si trasformerà in un veicolo di demagogia inarrestabile, le conseguenze potrebbero essere terribili. La domanda è: saranno le future generazioni in grado di servirsi della rete per fare una buona pesca senza restarne impigliati?» (p. 17).
Nonostante i contributi siano rivolti a una discussione di carattere generale, è piuttosto inevitabile che l’occhio sia quasi costantemente rivolto a quella specifica versione dell’e-democracy di cui il M5S ha fatto una bandiera identitaria. Mario Morcellini e Serena Gennaro danno un quadro generale delle possibilità che la rete offre per un recupero della fiducia da parte della classe politica, ma anche per un dibattito meno semplificato di quello consentito dal mezzo televisivo. C’è però un punto che le ricerche hanno sino ad ora messo in luce, anche nel caso del M5S. In sostanza, come sottolineano Morcellini e Gennaro, i partecipanti più attivi sulla rete sono più o meno gli stessi che sono attivi nelle politica off-line, e ciò significa che la gran parte dei ‘comuni cittadini’ si limita a svolgere una funzione del tutto passiva. Esaminando invece uno dei capisaldi del programma pentastellato, ossia la reintroduzione di una sorta di mandato imperativo, Fulco Lanchester ricostruisce il dibattito condotto in campo giuspubblicistico nel corso di circa due secoli. E mette in luce come il tentativo di controllare e limitare l’autonomia del rappresentante non sia certo una novità, ma sia in qualche modo connesso con l’ingresso delle masse sulla scena politica e con l’affermazione dei partiti novecenteschi. Secondo Lanchester, il vecchio principio del divieto di mandato imperativo rimane però ancora oggi valido, proprio come baluardo contro vecchie e nuove derive elitiste. Con una prospettiva differente, che guarda alla realtà dei partiti italiani, Enrico Morando riconosce altresì che la rete potrebbe offrire lo strumento per superare tanto il vecchio partito di massa, quanto il partito personale: in questo modo, potrebbe prendere forma un partito reticolare, in cui comunque la rete sarebbe uno mezzo capace di consentire uno scambio con il vertice nazionale, ma non certo un’alternativa in grado di sostituire del tutto i partiti.
Puntando lo sguardo in modo un po’ più esplicito verso il M5S, Saro Freni sostiene che questa forza politica è riuscita a raccogliere una protesta che montava nella società italiana, ma prevede anche che sia piuttosto improbabile che una simile capacità rimarrà inalterata nel futuro, perché nuove forze potrebbero sottrarre al partito di Grillo il monopolio della protesta e della sfiducia. Sempre concentrandosi sul movimento pentastellato, Davide Bennato, dopo aver ricostruito la mappa delle diverse declinazioni (più o meno utopiche) della e-democracy , cerca di mostrare quali sono gli strumenti effettivamente utilizzati, dalle piattaforme meetup e liquid feedback, fino al blog di Grillo (che rimane ovviamente il principale elemento di aggregazione e anche di identificazione). E, a questo proposito, il bilancio stilato da Bennato è in chiaroscuro. Nel senso che riconosce al M5S il merito di avere introdotto in Italia «forme emergenti di partecipazione politica (il cyber partito) e nuove ideologie (legate all’idea di cyber democrazia) che mescolano ottimismo tecnologico, tecnopolitica, populismo elettronico, mostrando delle caratteristiche che sembrano ascrivere il movimento alle forme ideologiche ‘contro’». Ma, d’altro canto, osserva Bennato, si tratta di un atteggiamento che «può portare a delle pericolose manipolazioni da parte degli ideologi del movimento, che al momento godono di molto potere all’interno del movimento per quanto riguarda visibilità (Beppe Grillo) e decisioni sulla componente tecnologica attraverso la quale esercitare il potere» (p. 96). E, d’altronde, tutte le critiche sulla scarsa trasparenza interna di un movimento che aveva paradossalmente fatto della trasparenza il proprio vessillo non fanno che testimoniare l’esistenza di una serie di problemi che sono strettamente ‘politici’ (e non semplicemente ‘tecnici’).
Per molti versi, il vero cuore del fascicolo di «Paradoxa» è però rappresentato dai due interventi di Paolo Becchi e di Dino Cofrancesco, nei quali – comprensibilmente – la discussione si sposta in termini più diretti (e polemici) sull’esperienza del Movimento 5 Stelle. Nel suo contributo, Cyberspazio e democrazia. Come la rete sta cambiando il mondo, Becchi – che, a torto o ragione, è stato spesso rappresentato come una delle guide intellettuali del movimento di Grillo – non può che difendere a spada tratta la visione della e-democracy, non rinunciando neppure a qualche pennellata utopica. Il ragionamento di Becchi – che è peraltro autore di molti interessanti studi di filosofia del diritto e di bioetica – è piuttosto lineare. In sostanza, argomenta, la rete sta producendo conseguenze enormi sulle nostre organizzazioni sociali, conseguenze paragonabili a quelle innescate nel passato da altre grandi innovazioni tecnologiche. Riecheggiando Carl Schmitt, Becchi sostiene così che non siamo più nell’era della terra o dell’acqua, ma in quella dell’aria, ossia di «uno spazio aereo che avvolge l’intero pianeta e non ha un sovrano» (p. 71). E la conseguenza principale è che la rete ci fa entrare nella fase della «disintermediazione», una fase storica in cui tramonta ‘tecnicamente’ la necessità degli intermediari: che sono per esempio i librai per l’editoria, i giornali (e i giornalisti) per il mondo dell’informazione, i conduttori televisivi per i talk-show, e ovviamente i funzionari di partito (e gli stessi partiti) per l’ambito politico. A questa grande trasformazione, si lega però un ulteriore complesso di processi: «La fine delle immagini del mondo porta con sé anche la fine delle grandi narrazioni, vale a dire di quelle ideologie politiche che si sono scontrate nel secolo scorso. Destra e sinistra, liberali e socialisti, conservatori e progressisti, sono ormai categorie obsolete, prodotti archeologici come i partiti che ad esse continuano ad ispirarsi. Calvi che si contendono un pettine» (p. 76). Il Movimento 5 Stelle, continua Becchi, non è che l’espressione più evidente di una simile transizione alla nuova stagione ‘aerea’, e rappresenta il caso più riuscito di una serie di movimenti che, in tutto il mondo, hanno contestato le classi politiche al potere. E l’idea che accomuna tutte queste esperienze è proprio il superamento dell’intermediazione offerta dai partiti: «Ogni cittadino, infatti, grazie alla rete potrà esprimersi direttamente su molte questioni e le decisioni prese coinvolgere molti e non solo pochi eletti. Internet restituisce ai cittadini una nuova centralità nei rapporti con lo Stato superando l’intermediazione dei partiti, per certi versi offre una possibilità per rivitalizzarsi al parlamento stesso, quella di tornare ad essere un organo centrale per le decisioni politiche» (p. 80). Ciò non significa che, secondo Becchi, la democrazia liberale sia destinata a tramontare, perché, più semplicemente, le nuove tecnologie andranno a integrare e a rivitalizzare i meccanismi istituzionali della rappresentanza. E, dunque, anche la sfida del M5S dovrebbe essere interpretata in questa chiave: «Oggi i cittadini votano, più o meno fideisticamente, per un partito. Sono i partiti che pensano per loro. Da qui nasce l’apatia e il distacco dalla politica. Se vogliamo vincerla non c’è che un mezzo: restituire la politica ai cittadini, liberandola dalla intermediazione dei partiti. Le nuove possibilità introdotte da internet oggi lo consentono. Nelle agorà virtuali già si discutono i problemi senza seguire ciecamente quello che ha detto questo o quel partito. Nascerà una nuova democrazia senza partiti, e una nuova politica dialogante e discorsiva, al posto di quella conflittuale e autoreferenziale che conosciamo. Alla politica ‘muscolare’ dei partiti, subentrerà quella ‘molecolare’ dei movimenti. Non abbiamo bisogno di una politica ‘migliore’, ma forse di qualcosa di meglio della politica, di come sino ad oggi è stata pensata» (p. 82).
È piuttosto comprensibile che simile toni – e soprattutto l’aspirazione a «qualcosa di meglio della politica» – debbano risultare quantomeno segnati da una vena utopistica, e che per questo possano apparire indigesti a quanti, seguendo la lezione machiavelliana, preferiscono attenersi alla «realtà effettuale della cosa». Le armi della polemica vengono d’altronde impugnate esplicitamente da Dino Cofrancesco, il quale, nel proprio attacco ai «dottor Stranamore della e-democracy», attinge al patrimonio del pensiero liberale. La visione della rete suggerita dai teorici della e-democracy, secondo Cofrancesco, «salda fascismo e populismo, minoranze audaci e seguiti di massa, concentra potere e decisioni politiche nelle mani dei suoi ‘amministratori delegati’ e dei suoi principali azionisti ma in nome del popolo sovrano che, dopo aver chinato la testa per secoli, trova nel suo cyberspazio i suoi Robin Hood» (p. 22). Ovviamente, si tratta però di una visione distorta, che combina lo stile politico «fascista» con un «sessantottismo plebeo […] non condizionato da complicazioni intellettualistiche». E, così, quello espresso dagli ideologi della rete appare a Cofrancesco una sorta di «nichilismo con tratti Lumpenproletariat», perché «il popolo della rete, quando non è, in qualche modo, messo in forma dalle vecchie agenzie di potere e d’influenza, lungi dall’apparire come espressione dei ‘nuovi tempi’, sembra piuttosto il ‘volgo disperso che nome non ha’, il corteo dei derelitti, degli umiliati e offesi, che il pope Gapon guida davanti al Palazzo d’Inverno» (p. 33). Ma, in tal modo, la presunta alternativa alla democrazia dei partiti non può non tradire, secondo Cofrancesco, il vero compito della democrazia: «Il compito della democrazia (nella sua accezione liberale, beninteso)», osserva infatti, «non è quello di far parlare tutti, in quanto titolari di diritti politici e, quindi, detentori del millesimo di sovranità che a loro riconosce la Costituzione, bensì quello di ‘far accettare’ la ‘complessità’ come caratteristica ineludibile del legno storto dell’umanità. La ‘scuola della democrazia’ ha come riferimento la grande lezione dello scetticismo occidentale (da Montaigne a Hume): deve dar conto dei ‘dilemmi politici’, che attraversano le comunità, definibili come vie diverse (e non sempre conciliabili, per questo sono ‘dilemmi’) per venire incontro ai vari bisogni degli individui e dei gruppi sociali e soprattutto deve insegnare a prendere in seria considerazione il grado di compatibilità tra le varie proposte di riforme iscritte nei programmi del governo e delle opposizioni. […] Senza il riflesso condizionato del vaglio delle compatibilità, il popolo della rete – pur sempre una minoranza, non dimentichiamolo – si trasforma in una disordinata assemblea telematica in cui ognuno protesta contro qualcun altro e manifesta a favore degli obiettivi più disparati, senza minimamente accertarsi se si possono realizzare congiuntamente e senza darsi alcun pensiero di come si vivrà quando saranno stati raggiunti» (p. 25). 
Quantomeno ragionevoli, le obiezioni di Cofrancesco fanno però anche affiorare alcuni dubbi. Quella di cui parla Cofrancesco è infatti – come egli stesso specifica – una ben precisa visione della democrazia, la visione fornita dal pensiero liberale, e non certo l’autentica dottrina democratica. E si tratta di un punto sostanziale, semplicemente perché una ‘autentica dottrina democratica’ non esiste, e perché nel nostro futuro – come già è avvenuto nel passato – continueranno a contrapporsi visioni opposte e persino inconciliabili della democrazia. D’altronde, non si può neppure dimenticare che quelle osservazioni che Cofrancesco muove all’immaginario della e-democracy non fanno che ricalcare proprio le critiche che tutti i grandi filosofi politici occidentali hanno indirizzato alla democrazia, raffigurata quasi invariabilmente come il regno dell’opinione, dei desideri fuggevoli, dei più abili demagoghi. E non si può nemmeno dimenticare come molti pensatori liberali, oltre a formulare severi giudizi sulla democrazia, siano stati spesso piuttosto parchi nel riconoscere a tutti gli esseri umani quei diritti che noi oggi consideriamo come fondamentali per ogni democrazia (e basti pensare all’atteggiamento nei confronti della schiavitù o dei diritti politici delle donne). Ciò non significa naturalmente che quei pensatori liberali che Cofrancesco annovera tra i padri della democrazia non debbano essere riconosciuti come tali, ma significa piuttosto che il soggetto della democrazia (il popolo) e il contenuto del suo potere non possono essere fissati in una sagoma cristallizzata, perché sono sempre il risultato di quanto avviene dentro un sistema politico e – non dimentichiamolo – al suo esterno.
La critica di Cofrancesco al ragionamento di Becchi, se riesce senza dubbio a mettere in luce la latente vena ‘nichilista’ della democrazia elettronica, non riesce però a evidenziarne il vero limite. Per molti versi, è invece possibile ravvisare un tratto comune fra il discorso di Cofrancesco e quello di Becchi. A ben vedere, il modo di accostarsi al problema della democrazia non è molto diverso nei due casi. Da un lato, Becchi guarda infatti alla democrazia pensando soprattutto alla possibilità di decidere direttamente, senza intermediazioni, da parte dei cittadini, e in questo senso la rete sembra offrire le condizioni ‘tecniche’ per una partecipazione più attiva, diretta e persino continua al processo decisionale, consentendo soprattutto un superamento dell’intermediazione garantita dai partiti politici e da un ceto politico professionalizzato. Dall’altro, Cofrancesco – se certo non può che discostarsi dalla celebrazione del cyber-assemblearismo pronunciata da Becchi – considera invece la democrazia come la possibilità (e anche il dovere) di scegliere fra alternative, e dunque ritiene che sia sempre specifico compito della democrazia «prendere in seria considerazione il grado di compatibilità tra le varie proposte di riforme iscritte nei programmi del governo e delle opposizioni». Per questo, non può che appellarsi alla responsabilità di quei rappresentanti eletti che – commisurando ipotesi alternative, i loro costi e i benefici che da ciascuna di esse si attendono, oltre che la loro vicinanza o lontananza da determinati valori – compiono effettivamente delle scelte. Il punto è che in entrambi i casi la ‘democrazia’ coincide con un modo (più o meno istituzionalizzato) di produrre delle decisioni: Becchi assegna il diritto di decidere tendenzialmente a tutti i cittadini, e persino a coloro che sono privi di qualsiasi carica e di qualsiasi ruolo politico; Cofrancesco invece, nel solco del pensiero liberale, affida questo compito ai rappresentanti designati, che naturalmente saranno poi chiamati a rispondere del loro operato e delle loro decisioni dinanzi al corpo elettorale. In entrambe le visioni, ciò che rimane del tutto in ombra sono però le questioni su cui si può effettivamente decidere. E non tanto perché esistano dei vincoli imposti dalle Costituzioni, quanto perché esistono dei limiti oltre i quali le democrazie non possono realisticamente decidere, per il semplice fatto che gli strumenti che hanno a disposizione non sono sufficienti. 
Il punto è infatti che, per comprendere davvero le trasformazioni della democrazia, è necessario guardare non solo ai meccanismi istituzionali e alle procedure, che certo qualificano la democrazia, ma anche alla realtà dei poteri presenti nella società, all’assetto delle relazioni economiche e, soprattutto, alla presenza di soggetti, gruppi e coalizioni dotati di una capacità di interdizione o di intimidazione. Innanzitutto, perché ciò che noi chiamiamo ‘democrazia’ rimane un’articolazione specifica dello Stato nazionale, le cui funzioni dipendono, oltre che dai conflitti interni, dalle trasformazioni del sistema politico ed economico internazionale. E in secondo luogo, perché la democrazia è anche – se non esclusivamente – un assetto reso possibile da rapporti di forza politici, che inducono a un ‘compromesso’, a un ‘armistizio’. Ciò significa in altre parole considerare la democrazia non come il punto di massimo sviluppo di una tradizione intellettuale, bensì come l’esito incerto e instabile di un equilibrio storico tra forze opposte. Ciò era vero per la democrazia ateniese, ma anche per le istituzioni rappresentative britanniche, le quali profilarono la nostra democrazia proprio in quanto furono il risultato del compromesso scaturito da due rivoluzioni, e perché riuscirono a trasformarsi nel luogo in cui potevano contendere interessi reali, radicati nella società e tendenzialmente capaci di esprimere a lungo un potere reale. Ma, naturalmente, tutto ciò è vero per la democrazia che abbiamo conosciuto nel Novecento. Una democrazia che si è davvero basata, almeno sino alla metà degli anni Settanta, su un «armistizio democratico», secondo l’espressione di Alfio Mastropaolo.
Becchi ha forse ragione quando sostiene che siamo di fronte a una nuova «rivoluzione spaziale», ma sarebbe quantomeno ingenuo ritenere che essa porti con sé – soltanto – la democrazia elettronica. La rivoluzione spaziale, oltre a modificare la nostra percezione dello spazio, modifica infatti in profondità le modalità stesse di esercizio potere, anche se non lo dissolve. Ciò che dissolve è semmai la base su cui si fondava il potere dei soggetti politici del XX secolo, di cui i partiti di massa erano l’esemplificazione più ovvia. Proprio su questo punto ragionamenti come quelli di Becchi e Cofrancesco non possono però che risultare elusivi. Concentrandosi sulla democrazia come mera decisione, sui soggetti che sono legittimati a decidere, sulle procedure da adottare per scegliere fra diverse opzioni, si smarriscono infatti del tutto le domande cruciali sulle trasformazioni del potere, sulle modificazioni dell’economica mondiale, e infine su quali siano i soggetti capaci realmente di siglare un nuovo compromesso democratico. Ed è invece proprio quest’ultima la domanda che ci dovremo davvero porre nei prossimi anni, se vorremo pensare in termini realistici al futuro delle nostre democrazie. E se vorremo evitare le due tentazioni speculari di considerare la democrazia solo come la forma istituzionale che si occupa dell’amministrazione dell’esistente, o di affidare alla democrazia un elenco di desideri destinati a rimanere un catalogo di illusioni.

Damiano Palano

domenica 24 novembre 2013

Un dibattito su "Partito" a Torino, martedì 26 novembre 2013, ore 16.30 (Campus Luigi Einaudi, Sala lauree rossa, Lungo Dora Siena 100)



Martedì 26 novembre 2013 alle ore 16.30, presso il Campus Luigi Einaudi di Torino, Sala lauree rossa (Lungo Dora Siena 100), 
si svolgerà un dibattito intorno al volume di Damiano Palano, Partito (Il Mulino).

Al dibattito, oltre all'autore, parteciperanno Silvano Belligni e Guido Bodrato.
La discussione sarà introdotta e coordinata da Luca Ozzano. 

mercoledì 20 novembre 2013

"Partito" a Pinerolo. Un dibattito con Franco Milanesi alla libreria "Volare", giovedì 21 novembre, ore 18.00

 
 
Alla libreria VOLARE di Pinerolo
GIOVEDI’ 21 NOVEMBRE ore 18
FRANCO MILANESI dialogherà con DAMIANO PALANO autore del volume Partito (Il Mulino, 2013).

 Più che mai attuale, ritorna l’idea di Partito, diventato nel ’900 grande organizzazione di massa e fondamenta dello Stato sia nei regimi autoritari sia nelle democrazie parlamentari e, nella fase attuale, criticato aspramente e accusato di inefficienza e corruzione.

venerdì 15 novembre 2013

Lo Stato sociale ucciso dalle tasse? "Tempo guadagnato" di Wolfgang Streeck



di Damiano Palano 

Questa recensione di W. Streeck,Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico (Feltrinelli, pp. 270, euro 25.00), è apparsa su "Avvenire" del 13 novembre 2013.

Negli anni Settanta l’instabilità economica e politica che investiva le società occidentali indusse molti studiosi a riflettere sulle cause della crisi. Alcuni osservatori, come per esempio Samuel Huntington, sottolinearono il peso dei fattori politici, tra cui la crescita di domande ‘eccessive’ da parte della società. Una seconda interpretazione – sviluppata soprattutto dagli epigoni della Scuola di Francoforte – si soffermò invece sulle ‘contraddizioni strutturali’ dell’economia mista postbellica. Tali contraddizioni portavano alla luce il contrasto fra la logica dell’intervento statale e la logica dell'accumulazione del capitale. Ma, oltre a generare una ‘crisi di legittimità’, implicavano l’esplosione della ‘crisi fiscale’ dello Stato. In sostanza, le necessità del capitalismo avanzato avevano condotto a una progressiva espansione della spesa pubblica e a un contestuale incremento dell’imposizione fiscale. Ma proprio l’aumento della tassazione finiva col mettere a rischio la sopravvivenza di un’economia di mercato. 
Da allora lo scenario è quasi completamente mutato, ma non è affatto casuale che Wolfgang Streeck, nel suo Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico (Feltrinelli, pp. 270, euro 25.00), torni alle interpretazioni di allora. Nato da una serie di lezioni su Adorno tenute all’Istituto di ricerche sociali di Francoforte, il saggio ritrova infatti in quelle teorie uno strumento per interpretare il presente, e in particolare la condizione del Vecchio continente. La tesi principale di Streeck è che la crisi odierna non sia nata nel 2008, ma abbia radici profonde, che affondano proprio negli anni Settanta. In sostanza, la ‘crisi fiscale’ non sarebbe mai davvero finita, e le diverse soluzioni adottate dalle democrazie avanzate avrebbero soltanto dilazionato l’esplosione della crisi. Negli anni Settanta alla crisi di legittimazione si rispose infatti mettendo mano alla leva monetaria, ottenendo così aumenti salariali, ma provocando anche un notevole incremento dell’inflazione e dunque nuovi problemi. Dall’inizio degli anni Ottanta, la stabilizzazione monetaria implicò invece l’avvio di una nuova fase, segnata dall’indebitamento pubblico, che si prolungò fino al 1993, quando ebbe inizio la fase dell’indebitamento privato. Ognuna di queste soluzioni, sostiene Streeck, ha funzionato, ma solo per un periodo di tempo piuttosto limitato. Si trattava infatti solo di rimedi capaci di ‘guadagnare tempo’, in attesa che i ritmi di crescita tornassero ai livelli degli anni Cinquanta e Sessanta. Questa attesa, però, si sarebbe rivelata del tutto illusoria. E Streeck prevede che le cose non siano destinate a cambiare neppure nei prossimi decenni. 
Molti dei neo-marxisti degli anni Settanta ritenevano che la ‘crisi fiscale’ dello Stato preludesse alla crisi generale del capitalismo, ma Streeck non compie lo stesso errore. A suo avviso in gioco non è infatti la sopravvivenza dell’economia capitalistica, ma piuttosto la convivenza fra democrazia e capitalismo che ha contrassegnato i sistemi politici occidentali negli ultimi settant’anni. Ed è proprio a questo proposito che il sociologo si volge criticamente verso l’Europa. Perché secondo Streeck – e il suo giudizio è quantomeno severo – l’unificazione monetaria è stata un fallimento. E perché l’unica possibilità per uscire da una crisi al tempo stesso politica ed economica passa da un ritorno alle monete nazionali, seppure ancorate a un sistema monetario flessibile.
Le conclusioni di Streeck hanno sollevato in Germania obiezioni piuttosto energiche, e in particolare Jürgen Habermas – il più celebre degli eredi della Scuola di Francoforte – ha replicato che la soluzione ai problemi dell’Ue non è tornare alla sovranità degli Stati, ma procedere ulteriormente sul terreno dell’integrazione politica e verso una decisa democratizzazione delle istituzioni europee. Ma naturalmente anche questa soluzione non è così agevole da realizzare, soprattutto in una fase costantemente segnata dall’emergenza. Anche per questo la contrapposizione che emerge dalla discussione fra Streeck e Habermas – una contrapposizione che peraltro ridisegna le più consolidate geometrie politiche – è destinata ad accompagnarci a lungo. Perché è davvero molto probabile che la politica del Vecchio continente si giocherà nei prossimi anni proprio attorno alla nuova frattura tra ‘europeisti’ e ‘sovranisti’.

Damiano Palano