martedì 7 luglio 2015

L’interminabile costruzione della democrazia. Un libro di Emilio Raffaele Papa


di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Emilio Raffaele Papa, Che cos’è la democrazia? (Rubbettino, pp. 122, euro 12.00), è apparsa sul sito dell'Istituto di Politica.

Sono trascorsi poco più di trent’anni dalla pubblicazione del celebre articolo in cui Norberto Bobbio, interrogandosi sul futuro dei nostri sistemi politici, segnalava come le grandi promesse della teoria democratica non fossero state mantenute, se non in minima parte. In quell’intervento il filosofo torinese si soffermava in particolare su sei «promesse non mantenute», che coinvolgevano l’azione dei gruppi, l’effettiva indipendenza dei rappresentanti, il ruolo delle oligarchie, ma anche l’eliminazione del «potere invisibile», la promozione delle condizioni democratiche al di fuori della sfera specificamente politica e la costruzione di una cultura politica responsabile. Ed era proprio riconoscendo il peso di alcune queste promesse, rimaste senza risposta, che Bobbio prendeva atto della grande distanza che ancora esisteva «tra gli ideali democratici e la democrazia reale» (N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1995, p. 8). Negli ultimi anni, e in particolare nel quarto di secolo seguito alla fine della Guerra fredda, la discussione sulle «promesse non mantenute» si è notevolmente infittita, perché molti studiosi hanno ravvisato segnali di «crisi», di «disagio» o persino di «declino» nello stato attuale delle istituzioni democratiche. E non è neppure mancato chi – come per esempio Jacques Rancière o, in modo diverso, Colin Crouch – ha sostenuto che i nostri sistemi politici sono già avviati ‘oltre’ la democrazia, e cioè verso un assetto ‘post-democratico’ in cui di fatto il popolo viene spogliato di qualsiasi potere reale, a tutto vantaggio di esigue minoranze. In questo dibattito, affollato e in continua estensione, si era inserito alcuni anni fa un volume di Emilio Raffaele Papa, L’altra faccia della democrazia. Per una democrazia della sorveglianza (Piero Lacaita, Manduria, 2012), nel quale – con lo stile raffinato di un libello settecentesco e il ricorso a classici lontani e vicini del pensiero politico – veniva proposta un’originale visione della «crisi» della democrazia, che partiva delle origini della forma democratica per seguire poi i fili del suo sviluppo storico fino ai giorni nostri. 
Nelle ultime pagine di quel saggio, Papa si interrogava su «una democrazia che renda ‘possibile il proprio futuro’», e non casualmente tornava ad affrontare molti dei nodi evidenziati da Bobbio. E, dopo avere considerato le insidie che provengono oggi dalle nuove tecnologie, dall’uso (e dall’abuso) dei sondaggi di opinione, dall’antipolitica e dalla seduzione esercitata dal potere dei capi carismatici, Papa scriveva: «La democrazia potrà essere difesa nel XXI secolo, riaffermando il valore dei suoi istituti strategici della sorveglianza; e conservando gli uomini nella fruizione del valore della libera critica, nel coraggio delle loro opinioni. “L’opinione”, scriveva Cesare Beccaria, “è forse il solo grande cemento della società”. Vive della sua stessa libertà di esistere: nella difesa della autonomia intellettuale, contro ogni tentativo di nullificarla in forme di massificazione delle intelligenze ed in miti del benessere conseguibile al di fuori della effettiva partecipazione di ognuno» (pp. 139-140).
A qualche anno di distanza, nel suo recente Che cos’è la democrazia? (Rubbettino, pp. 122, euro 12.00), Emilio Raffaele Papa riprende e sviluppa questa convinzione, da un angolo visuale in parte differente, ma sempre conservando la prospettiva dei tempi lunghi della storia del pensiero e dell’evoluzione (problematica) delle istituzioni politiche. La grande domanda che orienta il libro – prima ancora che l’interrogativo sintetizzato nel titolo – riguarda proprio la «crisi» delle democrazie contemporanee, o meglio l’incapacità dei nostri sistemi di realizzare pienamente quegli ideali che appaiono cristallizzati nella parola «democrazia». E il ragionamento di Papa parte da quanto due secoli e mezzo fa segnalava Jean-Jacques Rousseau, quando scriveva che, «volendo prendere il termine nella sua più rigorosa accezione, una vera democrazia non è mai esistita e non esisterà mai», perché si tratta di un regime «adatto agli dei e non agli uomini». In realtà, sottolinea Papa, l’obiezione di Rousseau riguardava la democrazia véritable, ossia un’idea assoluta della democrazia, ma non coinvolgeva quei metodi grazie ai quali era possibile ‘tradurre’ l’idea, almeno in parte, in una pratica politica. Ed è invece per questo che il pensiero del filosofo ginevrino riesce ancora a fornire una chiave di lettura importante per comprendere come i «principi che configurano le autentiche istituzioni democratiche, […] dopo la sua Roma repubblicana, siano stati mutilati nel corso storico, o senz’altro ignorati, o soltanto proclamati nella consapevolezza di non poterli o non volerli realizzare» (p. 14). Le origini della «crisi» odierna della democrazia vanno infatti ricondotte, secondo Papa, ai modi con cui, di fatto, i principi democratici sono stati abbandonati, annullando «le forme di partecipazione popolare nei loro contenuti autentici» e riducendo «il funzionamento degli apparati istituzionali strategici del regime democratico, al di fuori di un’adeguata sorveglianza e di un dovuto controllo nella loro azione operativa» (p. 14). In sostanza, le istituzioni del controllo e della sorveglianza del potere – istituzioni che Papa ritiene costitutive della democrazia, e che furono elaborate prima nel mondo greco e in seguito ripensate nella Roma repubblicana – invece di essere aggiornate e adeguate al progresso tecnico sono state di fatto abbandonate, minando così la stessa efficacia della partecipazione popolare.
Nella sua ricostruzione, che è in questo senso davvero originale, Papa ritorna infatti, come elemento chiave, proprio all’«altra faccia della democrazia», ossia al «potere negativo della sovranità popolare». La democrazia nacque infatti, per un verso, con la riforma di Clistene, con l’ampliamento del diritto di voto, ma, per un altro, soprattutto a Roma, con l’istituzione del tribunato della plebe. E si trattava del «potere non di fare, ma di impedire» (p. 17). Nel corso dei secoli, il potere negativo cadde nell’oblio, conoscendo un’effimera fortuna solo alla fine del Settecento, nel corso della Rivoluzione francese. Ma è proprio il potere negativo – che naturalmente affianca quello positivo di decidere – a qualificare secondo Papa la dinamica democratica. Nei sistemi politici contemporanei, del potere negativo esistono però solo labili tracce. Naturalmente, qualcosa resta nel procedimento elettorale, ma Papa sottolinea come la realtà spesso tenda a confermare la sarcastica formula di Antoine de Rivarol, che alla fine del Settecento scriveva: «Ecco due verità che non si devono mai separare in questo mondo: 1. che la sovranità risiede nel popolo; 2. che il popolo non deve mai esercitarla». Gli istituti della democrazia diretta – la petizione, il referendum, l’iniziativa legislativa popolare, ma anche la difesa civica (che ha avuto in Italia una breve storia) – non hanno mai ottenuto un reale rafforzamento, e spesso il loro peso effettivo è quasi insignificante. E una simile carenza non può che risultare ancora più rilevante in un quadro, come quello italiano, contrassegnato dall’adozione di una legge elettorale (la legge Calderoli) che di fatto proponeva al cittadino liste bloccate, senza possibilità di esprimere alcuna preferenza.
Nonostante tutti i segnali negativi che presenta il ‘caso italiano’, Papa non è però del tutto pessimista, e rileva anzi i segni di un mutamento nell’atteggiamento degli italiani nei confronti della politica: «le critiche si fanno più consapevoli e vengono motivate non soltanto dalla rabbia e dal nichilismo dell’antipolitica, ma altresì da un desiderio di controllo, di intervento, di partecipazione crescente. La gente riprende ad affollare le piazze, non soltanto per amore di spettacolo, garantito sui palchi da… specialisti ad hoc. La gente sente la mancanza di una propria attendibile rappresentanza ove le cose contano, avverte la frustrazione di essere fuori da tutto un mondo che ignora e che la ignora, inizia a riconoscere di aver sempre accettato risultati già decisi da un… non interloquibile potere» (p. 107). Ma, al di là della valutazione fornita sulle vicende italiane, la lettura fornita da Papa invita soprattutto a puntare lo sguardo su un aspetto spesso trascurato nelle indagini sulla «crisi» della democrazia, ossia proprio sul sostanziale venire meno di quella faccia meno visibile delle dinamiche democratiche, ma altrettanto cruciale, che è il «potere negativo». La tesi di Papa potrebbe sembrare sotto questo profilo in latente contrasto con l’idea formulata per esempio da Pierre Rosanvallon, secondo cui una parte rilevante delle difficoltà che vivono i nostri sistemi politici deve essere attribuita alla dilatazione della «contro-democrazia», ossia alla progressiva estensione di quei «contro-poteri» che sorvegliano l’operato di chi detiene le cariche pubbliche, erodendo la fiducia nel loro operato e persino la ‘sacralità’ del loro ruolo. Probabilmente – ma la questione andrebbe meditata con maggiore attenzione – tra le due posizioni non c’è però una vera contraddizione: per molti versi, la «contro-democrazia» - che Rosanvallon trova soprattutto nel ruolo esercitato dall’informazione e della magistratura – viene di fatto a occupare uno spazio che è vuoto, dal momento che nelle nostre democrazie non esistono istituzioni che davvero diano voce politica al «potere negativo». Così la «contro-democrazia», almeno per come la intende Rosanvallon, esercita un ruolo di controllo privo di sostanziali responsabilità politiche, e anche per questo non può assumere realmente il profilo di una sorta di nuovo «tribunato della plebe», né può contribuire a istituire una relazione dialettica fra potere negativo e potere positivo.

Benché insista sul ruolo centrale del potere negativo, Papa è ben lontano dal pensare che possano esistere modelli istituzionali – più o meno realizzabili – capaci di corrispondere finalmente alle tante promesse degli ideali democratici. Le sue considerazioni muovono d’altronde dalla consapevolezza che il lavoro democratico – e cioè il lavoro di adeguamento delle istituzioni agli ideali – sia una fatica interminabile. Il compito stesso della democrazia è anzi, secondo le parole di Papa, proprio quello di «continuare a spiegare le cose per quel che sono e che sono divenute e scoprire ogni giorno le nuove facce dei diritti e dei doveri in una realtà che cambia, rinnovando gli antichi rimedi nel contesto di uno stesso valore della libertà» (p. 120). Ed è in fondo proprio alla luce di una simile consapevolezza che Papa racchiude il significato della propria indagine intorno al passato, al presente e al futuro della democrazia in una preziosa formula di Cornelius Castoriadis, richiamata all’inizio del volume. Una formula che in qualche modo costituisce la risposta alla domanda suggerita nel titolo del volume, e che vale sempre la pena tenere a mente, per sottrarsi alla ricorrente tentazione di ‘chiudere’ la democrazia nella gabbia di una definizione ‘solo’ descrittiva: «La democrazia non appare in alcun suo momento uno stato di cose, ma senz’altro un processo storico, in virtù del quale certe comunità si autoistituiscono in modo più o meno esplicito come comunità di cittadini liberi: soltanto questo processo interessa: il processo della democrazia, il quale non è mai in alcun suo momento una costituzione data una volta per tutte».

Damiano Palano

lunedì 6 luglio 2015

Malinconico autunno in un’estate torrida. “La corsa verso il nulla” di Giovanni Sartori



di Lola Sermonti

“Maelstrom” ospita una recensione di Lola Sermonti al recente volume di Giovanni Sartori, La corsa verso il nulla (Mondadori, euro 15.00). Con un’ironia dissacrante, seppur mai davvero irrispettosa, lo scritto di Lola Sermonti, apparso originariamente sulla newsletter di “Mompracem”tocca alcuni nervi scoperti della riflessione del novantunenne politologo italiano che già in diverse occasioni sono stati al centro dell’attenzione di “Maelstrom”.

Nei pomeriggi delle afose giornate estive, quando la canicola diventa soffocante, capita spesso di imbattersi in sagome malinconiche che di solito – forse perché si confondono nella calca, forse per altri motivi – si sottraggono ai nostri sguardi. Sono le sagome di anziani che vagano senza meta per le strade delle nostre città, con ai piedi le ciabatte da camera e addosso solo il pigiama o la vestaglia. Non si tratta di poveri o di senzatetto, perché l’abbigliamento e la pulizia fanno sospettare piuttosto che siano riusciti a sfuggire per qualche ora all’abituale vigilanza familiare. Ma da qualunque luogo provengano, procedono arrancando, con lo sguardo puntato verso un obiettivo immaginario nascosto dietro l’orizzonte. E senza rivolgersi a nessuno in particolare, urlano – o sussurrano con la voce che rimane loro – improperi talvolta irripetibili. I loro bersagli quasi sempre si confondono, accomunati in una trama di complicità per loro inoppugnabili. Si tratta talvolta dello Stato, talvolta di ben precisi leader politici del passato (su cui si concentrano con particolare accanimento), quasi sempre di qualche loro familiare. Ma a ognuno di questi nemici, con un livore rassegnato ma implacabile, vengono imputati delitti infamanti, tanto più gravi perché, almeno da ciò che ci pare di decifrare da alcune frasi sconnesse, si tratta di colpe destinate a precipitarci tutti nel baratro.
È molto difficile per il lettore del nuovo volumetto di Giovanni Sartori, La corsa verso il nulla. Dieci lezioni sulla nostra società in pericolo (Mondadori, pp. 105, euro 15.00), sottrarsi allo stesso disagio che ci coglie nel momento in cui ci imbattiamo in questi malinconici abitatori delle nostre estati cittadine. Perché è davvero difficile non ritrovare nelle righe dell’ormai novantunenne politologo italiano quelle stesse fissazioni, che – ingigantite dalla paranoia senile fino a diventare mostruose – ci inducono a sorridere di quei poveri anziani che vagano senza meta, talvolta trascinando con sé pesanti valige o qualche altro improbabile fardello.
Nel volume non si trova nulla di nuovo rispetto alla precedente riflessione dello studioso italiano, perché le «dieci lezioni» per molti versi si limitano a riepilogare i motivi polemici indirizzati contro alcuni dei nemici storici di Sartori, e cioè la Chiesa cattolica, il marxismo, l’Islam, l’immigrazione (spesso legati fra loro da un’intima fratellanza). Il lettore più disponibile può naturalmente anche trovare alcune intuizioni interessanti nel centinaio di pagine della Corsa verso il nulla, ma una certa sguaiataggine nelle argomentazioni non può che far affiorare quella stessa sensazione di disagio che ci coglie quando iniziamo a sospettare che lo sguardo fisso del nostro interlocutore sia in realtà diretto verso un invisibile nemico immaginario. E forse questo sentore si avverte già dalla nota che Sartori pone a sigillo del suo lavoro: «Questo piccolo libro è uno zibaldone ispirato dal mio atavico spirito di contraddizione. Tutti mi dicono: in estate nessuno più legge cose serie, guardano seni e donne nude, e sono travolti da valanghe di cure di bellezza (oltre che di terapie per mali che i più non hanno mai sentito nominare). Io, a giugno, mi ero già seccato di queste cose e allora mi sono chiesto: ma è proprio vero che in estate il libro serio non lo vuole nessuno? Per saperlo bisogna provare. Alla peggio, resterò invenduto» (p. 103). Ma anche nel resto del volume non mancano passi in cui l’argomentazione appare quantomeno poco lucida. Per esempio, nella ‘lezione’ principale, Sartori afferma che la politica «è stata una forza a discrezione del più potente (del momento) finché non è stata inventata la liberal-democrazia» (p. 13), che la liberal-democrazia è un prodotto del pensiero astratto e che la televisione, proprio perché distrugge il pensiero astratto, rischia di distruggere anche la liberal-democrazia (dimenticando per lo meno di notare, fra le tante cose, che più o meno tutta la civiltà occidentale è figlia del pensiero astratto, e che dunque sono figli del pensiero astratto tanto la liberal-democrazia, quanto il regime nazionalsocialista tedesco e l’Unione Sovietica). In altri casi la polemica sembra sfociare nell’ossessione paranoica, come quando osserva: «Crollato il mito comunista e, con esso, il mondo sovietico, la sinistra si è buttata sul ‘globalismo’. Così (in allegra compagna con la truffa dei derivati e di un’economia produttiva) si è data alla spesa sfrenata. Oggi una buona metà degli Stati europei non ha più un soldo ed è indebitata oltre il lecito. Per restare all’Italia – che, dopo la Grecia, è lo Stato europeo più indebitato e con una terrificante disoccupazione giovanile – chi paga, chi può pagare? Secondo me, il ‘grande ricco’ che più ci fa spendere, visto che caldeggia un’immigrazione pressoché illimitata, è la Chiesa cattolica» (p. 86). Non mancano neppure intuizioni che Cesare Lombroso avrebbe considerato come tratti distintivi del ‘mattoide’, come quando per esempio Sartori, fornendo indicazioni decisive per la gestione dell’ordine pubblico, scrive: «in occasione dell’apertura dell’Expo di Milano, il 1° maggio 2015, i black bloc hanno devastato pressoché a piacimento. Tirando le somme, all’ospedale sono finiti più agenti di polizia che dimostranti. Angelino Alfano, ministro degli Interni, era contento: ‘Abbiamo evitato’ ha esclamato trionfante ‘il morto di Genova’. Bravo. Eppure, per ridurre al minimo la violenza basterebbe un semplicissimo provvedimento: i caschi sono consentiti solo a chi ha con sé la motocicletta. Altrimenti no. Altrimenti i nostri eroi dello sfascio devono essere subito fermati e schedati. Non importa se il giorno dopo vengono rilasciati. Ormai sarà facile neutralizzarli. E se ci saranno bernoccoli sulle teste di qualcuno, saranno degli ‘sfasciatutto’» (p. 73). Infine, il lettore si trova anche a vivere una sorta di amarcord quando Sartori – nel capitolo più strutturato (probabilmente tenuto nel cassetto per decenni e rispolverato per rimpinzare il magro volumetto) – si impegna in una tirata contro il marxismo, arrivando persino a inveire, con un inevitabile effetto di spiazzante, contro i «nostri gruppuscoli rivoluzionari»: gruppuscoli che – scrive il politologo parlando al presente, ma rivolgendosi evidentemente alla formazioni che popolavano l’Italia mezzo secolo fa – «hanno in mente una sola idea, che non è altro che una fissazione sbagliata: l’idea che un mondo nuovo purificato dal male zampillerà, misteriosamente e miracolosamente, dalla creatività della violenza» (p. 31).
 Anche solo sfogliando il volumetto di Sartori (o magari imbattendosi nella fotografia riportata sulla quarta di copertina, che ritrae il Nostro intento a scrutare una palla di cristallo), non si può non essere sfiorati dal sospetto che tutta l’operazione sia volta sfruttare l’immagine dello studioso, anche a rischio di trasformarlo in una caricatura. E questo stesso sospetto ritorna ogni volta che il professore viene interrogato da qualche giornalista sui fatti del mondo, come è avvenuto alcuni giorni fa, quando un cronista del «Fatto quotidiano» ha raccolto alcune sue esternazioni. Esternazioni in cui, per esempio, Sartori definisce Obama come un politico da quattro soldi perché non frequentò i suoi corsi alla Columbia, Renzi come una sorta di manigoldo perché qualche anno fa estorse una fotografia insieme al politologo senza però presentarsi, e Papa Bergoglio come un furbacchione affetto dalla tara genetica di essere figlio di italiani emigrati in Argentina.
Dinanzi a espressioni del genere è inevitabile sorridere malignamente, proprio come quando si sorride di fronte al vecchietto che, in ciabatte e canottiera, inveisce contro le malefatte del Papa, o di Palmiro Togliatti, o di Luca Cordero di Montezemolo, o della nuora che vuole rubargli i risparmi di una vita. Ma un attimo dopo, non possiamo commiserare le sventure di quel povero vecchietto, immaginando con un certo sgomento che un giorno – un giorno in fondo neppure troppo lontano – al posto di quel vecchio farneticante che impreca contro la nuora, il Papa e il declino della civiltà, potremmo esserci proprio noi.
Dopo aver voltato l’ultima pagina della Corsa verso il nulla, a chi ricorda il vecchio polemista – certo spesso sgradevole, ma sempre ammirevole per la propria foga – fatalmente rimane in bocca un gusto amarognolo. E il lettore, già soffocato nella morsa della canicola, non può evitare di pensare alla caducità delle cose umane con un velo di tristezza e più di un’ombra di malinconia. Almeno fino a quando un altro giornalista, in una calda giornata d’estate, non si avvicinerà al professore col microfono accesso, e gli chiederà, per l’ennesima volta: «Allora, professore, ce la racconta ancora quella di Obama? E quella del Papa argentino? Oppure, ancora meglio, com’è che cominciava quella storia della democrazia?»


Lola Sermonti

giovedì 2 luglio 2015

L’intreccio della democrazia europea. Un testo da "Dialoghi carmelitani"




Questo testo è apparso su "Dialoghi carmelitani" nel marzo 2015.

di Damiano Palano

Alla conclusione dei propri lavori, nel 2003, la Convenzione istituita per predisporre il progetto di una Costituzione per l’Europa decise di anteporre al testo definitivo una breve epigrafe, in cui veniva citato un passo della Guerra del Peloponneso di Tucidide. Quel frammento, tratto dalla famosa orazione in cui Pericle celebrava i primi ateniesi caduti in battaglia, recitava: «La nostra Costituzione […] si chiama democrazia perché il potere non è nelle mani dei pochi, ma dei più». Benché la citazione riflettesse l’ambizione della Convenzione di ritrovare nella storia europea un filo lungo più di duemila e quattrocento anni – che dalla democrazia di Atene giungeva fino all’esperimento politico dell’Unione europea – quella scelta doveva scontarsi con una consistente serie di obiezioni. Dal punto di vista filologico, qualcuno ricordò l’abissale distanza che separava la politeia greca dalla «costituzione» degli Stati di diritto contemporanei, mentre altri sottolinearono l’ambiguità del riferimento ai «più», cui ad Atene era affidato il potere. Ma soprattutto, applicato all’Unione europea, il riferimento al discorso in cui Tucidide celebrava la democrazia ateniese doveva suonare solo come un auspicio ottimistico.
Negli ultimi anni, le critiche di scarsa democraticità indirizzate alle istituzioni europee si sono diffuse presso le opinioni pubbliche di quasi tutti i paesi membri, e gli attacchi indirizzati contro la «tecnocrazia» di Bruxelles sono diventati quasi un luogo comune, non solo tra le forze politiche più chiaramente ‘euroscettiche’. In realtà non si tratta di accuse nuove, perché è ormai da più di vent’anni che il nodo del cosiddetto «deficit democratico» è al centro delle discussioni accademiche. Ma la crisi degli ultimi anni – una crisi in cui si sovrappongono processi non solo europei, ma che è strettamente connessa alla gestione delle conseguenze dell’unificazione monetaria – ha portato alla luce una serie di elementi critici nel funzionamento del processo decisionale dell’Ue. E anche se certo non si può ritenere che l’«eurocrazia» non abbia alcuna responsabilità nelle modalità in cui è maturata ed esplosa la crisi, è comunque necessario riconoscere che molte delle difficoltà che oggi sperimenta l’Ue – sul versante del ‘deficit democratico’ e su quello del ‘deficit di capacità di governo’ – sono una conseguenza del modo con cui l’Unione europea si realizzata.
I primi passi del processo di integrazione risalgono ai primi anni Cinquanta del secolo scorso, con l’istituzione della Ceca, nel 1951, e in seguito con i Trattati di Parigi, che nel 1958 istituiscono la Cee e l’Euratom. L’obiettivo degli accordi conclusi dai paesi fondatori (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) è soprattutto eliminare – grazie allo strumento economico – le basi più profonde delle rivalità che avevano condotto alla tragedia dei due conflitti mondiali. Un ulteriore passo, che si allinea a questa filosofia, è anche l’avvio della Politica agricola comune, ma la Comunità inizia anche gradualmente a estendersi, accogliendo dal 1973 la Danimarca, l’Irlanda e il Regno Unito, dal 1981 la Grecia e dal 1986 il Portogallo e la Spagna. Proprio allora viene avviato l’ambizioso Atto Unico Europeo, che prelude all’ingresso in una nuova fase del processo di integrazione e che culmina, nel 1993, nell’entrata in vigore del Trattato di Maastricht e nella trasformazione della Cee in Unione Europea. In seguito al crollo del Muro di Berlino, il numero dei membri si accresce notevolmente (fino ad arrivare agli attuali 28 membri). Ma forse ancora più rilevante – per le implicazioni sulla vita dei cittadini europei – è l’introduzione della moneta unica, nel 2002.
Nel corso di questo lungo processo, anche le istituzioni dell’Ue si sono accresciute e hanno acquistato alcune delle caratteristiche proprie di uno Stato democratico (come in particolare un Parlamento eletto direttamente dai cittadini). Ciò nonostante, anche dopo le riforme introdotte dal Trattato di Lisbona (entrato in vigore nel 2009), la struttura dell’Unione può essere considerata come un ‘ibrido’, un assetto che presenta caratteristiche proprie tanto di un’organizzazione internazionale, quanto di una vera e propria unione federale. Il potere esecutivo è condiviso infatti dalla Commissione europea, formata da membri provenienti dai diversi Stati, e dal Consiglio dell’Unione, composto dai ministri dei governi nazionali. Il potere legislativo è suddiviso tra lo stesso Consiglio e il Parlamento (che però, per alcune materie, deve essere solo consultato). Ma a rendere ancora più complessa la struttura dell’Ue, e a determinare i principali problemi di efficacia, sono anche i criteri decisionali. Il Consiglio, e cioè la componente ‘intergovenativa’ dell’Ue, è stato a lungo – e in parte rimane anche oggi – simile a una conferenza diplomatica, nella quale ogni decisione viene raggiunta all’unanimità e in cui ogni Stato conserva un decisivo potere di veto. Da questo punto di vista, il Trattato di Lisbona ha esteso il principio di una maggioranza ‘rafforzata’ per un numero consistente di materie. Ma i criteri della maggioranza qualificata, che peraltro entreranno pienamente in vigore solo nel 2017, sono complessi e difficilmente decifrabili da parte dell’opinione pubblica. E per questo nell’assetto dell’Ue convivono ancora due diverse logiche di legittimazione: per un verso, ci sono tracce di una legittimazione ‘verticale’ di alcune istituzioni (soprattutto del Parlamento); per l’altro, rimane ben visibile una legittimazione ‘orizzontale’, per cui sono i governi degli Stati membri a legittimarsi reciprocamente (come avviene nelle conferenze diplomatiche).
Un’architettura così complessa non è semplicemente un risultato della scarsa democraticità dell’«eurocrazia», ma è il risultato della difficoltà di costruire una democrazia europea, in presenza di quasi trenta Stati membri (fra loro molto diversi quanto a peso demografico). Ed è paradossalmente questo stesso ‘intreccio democratico’ a rendere tanto difficile imboccare quella via della ‘solidarietà’ che il filosofo tedesco Jürgen Habermas ha negli ultimi anni raccomandato, rivolgendosi in particolare ai propri concittadini. Come ha scritto in questo senso il sociologo Claus Offe, «ciò che si dovrebbe fare, e su cui tutti sono d’accordo ‘in linea di principio’ (ossia una mutualizzazione del debito su larga scala e a lungo termine, che porterebbe a massicce misure redistributive sia tra gli stati membri sia tra le classi sociali), non può essere ‘venduto’ agli elettori degli stati membri che finora sono stati meno colpiti dalla crisi rispetto a quelli della periferia». Allo stesso tempo, «occorrerebbe una spinta rapida e sostenuta alla competitività dei paesi periferici, un adeguamento del loro costo del lavoro (inteso come rapporto tra salari reali e produttività del lavoro) che porterebbe al raggiungimento di un relativo equilibrio commerciale e a livelli sostenibili dei deficit di bilancio», ma ciò è «impossibile da realizzare senza compromettere irreparabilmente i sistemi politici democratici di questi paesi». In sostanza, dunque, le misure ‘solidaristiche’, che potrebbero consentire di superare le difficoltà economiche odierne, sono impraticabili dal punto di vista politico, perché sono destinate a scontrarsi sia al Nord sia al Sud con opposizioni invalicabili. Un simile stallo è per molti versi la conseguenza dell’assenza di un demos europeo, di un un’identità condivisa europea, perché solo un «noi» capace di dare un reale sostegno politico a decisioni inevitabilmente difficili potrebbe di consentire di superare le paure e le diffidenze nutrite dagli elettorati nazionali. Ma è proprio per l’assenza di un simile sostegno politico che l’Ue rischia di rimanere bloccata. Ed è soprattutto per questo motivo che la via d’uscita dalla ‘trappola’ in cui si trova il Vecchio continente sembra destinata a diventare sempre più stretta.

Damiano Palano