martedì 27 febbraio 2018

Il demone di Tronti. Alcune annotazioni a margine di un'antologia di scritti curata da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M.H. Mascat





Esce in questi giorni Il demone della politica (Il Mulino, pp. 656, euro 46.00), una corposa antologia, curata da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M.H. Mascat, che raccoglie alcuni dei lavori più importanti stesi da Mario Tronti dal 1958 al 2015. Il volume forse non consentirà di sciogliere davvero l’«enigma» di Tronti, o di rispondere alle tante domande che nelle sue opere vengono poste. Ma, riproponendo testi ormai per molti versi ‘classici’ e pagine dimenticate, offre la possibilità di rileggere le innovazioni, le svolte, i ripensamenti di una delle voci più originali del panorama teorico del Novecento italiano.

In occasione dell’uscita del Demone della politica, martedì 6 marzo 2018 (ore 21.00), alla Casa della Cultura di Milano (Via Borgogna 3), Mario Tronti e Massimo Cacciari si confronteranno sui nodi di un percorso teorico e politico che ha attraversato l’Italia degli ultimi sessant’anni.



di Damiano Palano

«Chi vuole fare politica in generale, e soprattutto chi vuole esercitare la politica come professione […] entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro a ogni violenza. […] Chi aspira alla salvezza della propria anima e alla salvezza di altre anime non le ricerca sul terreno della politica, che si pone un compito del tutto diverso e tale da poter essere risolto soltanto con la violenza. Il genio o il demone della politica e il dio dell’amore, anche il dio cristiano nella sua forma ecclesiastica, vivono in un intimo contrasto, che in ogni momento può trasformarsi in un conflitto insanabile». Sfogliando le seicentocinquanta pagine del Demone della politica la corposa antologia, curata da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M.H. Mascat, che raccoglie alcuni dei lavori più importanti stesi da Mario Tronti dal 1958 al 2015 (Il Mulino, pp. 656, euro 46.00) – è quasi inevitabile tornare alle parole che Max Weber pronunciò nella sua celebre conferenza del gennaio 1919. Perché non c’è dubbio che il «demone della politica» sia costantemente presente in ogni pagina di Mario Tronti, dai suoi primi scritti apparentemente teorici fino ai lavori più recenti, pur dominati dalla disillusione e persino da una forma di «disperazione teorica». Non c’è infatti nessuna pagina di Tronti in cui la motivazione e gli obiettivi non siano – più o meno scopertamente – politici. Anche se la politica cui pensa Tronti è una «grande politica» che non ha nulla a che fare con il querulo battibecco che – nella quotidianità delle nostre democrazie d’inizio millennio – siamo soliti chiamare (fin troppo generosamente) «politica».
Anche di recente Tronti ha d’altronde rifiutato l’etichetta di «intellettuale», preferendo definire se stesso – più che come un pensatore politico – come un «politico pensante». La logica del suo percorso può essere in effetti considerata – ma probabilmente non è così eccezionale, almeno per ciò che concerne la filosofia politica – come l’esatto inverso rispetto a quella indicata nell’undicesima tesi su Feuerbach. «I filosofi hanno solo diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo», aveva scritto il giovane Marx. Per Tronti la scelta della riflessione teorica è invece in larga parte proprio la conseguenza dell’impossibilità politica della trasformazione. E se ne può trovare probabilmente una conferma rileggendo i suoi testi, che i curatori del Demone della politica organizzano in quattro sezioni, corrispondenti a quattro fasi di pensiero distinte: «Il punto di vista (1958-1967)», «Il politico e il movimento operaio (1968-1984)», «Realismo e trascendenza (1985-1998)», «Pensare il Novecento» (1999-2015). Si può forse discutere sulle scansioni individuate dai curatori, ma la periodizzazione che propongono rimane comunque la più calzante, anche perché consente di cogliere come la riflessione trontiana scaturisca – di volta in volta – da differenti istanze ‘politiche’, che sono dapprima la critica della linea del Pci (seppur da una posizione che non è mai davvero esterna) e il tentativo di ridefinirne dall’interno la strategia politica, e che poi diventano invece la ricerca di un varco nella crisi del socialismo reale capace di ricondurre a una nuova trascendenza politica.
L’interpretazione della logica del percorso di Tronti è al centro da molti anni di discussioni intense, in cui il peso di Operai e capitale finisce quasi sempre col risultare teoricamente e politicamente soverchiante. Da decenni, chi rimprovera a Tronti il ruolo di «padre dell’operaismo italiano» considera infatti tutta la sua intera riflessione segnata da questo stigma indelebile e dalle conseguenze che ne sono derivate. Mentre chi si erge a custode della purezza del paradigma, non può perdonare il ‘tradimento’ teorico da parte del ‘fondatore’. Un simile dibattito – per quanto ripetitivo – è intellettualmente più che legittimo. Ma in questo modo si finisce inevitabilmente col rifiutare di confrontarsi davvero con Tronti, chiudendo ogni interpretazione all’interno di uno schema predefinito e risalente per molti versi al principio degli anni Settanta. Lo scopo dell’antologia è invece – come scrivono i curatori nell’Introduzione – «rileggere la traiettoria intellettuale di Tronti, dalla fine degli anni ’50 fino ai giorni nostri, restituendo profondità storica ai diversi passaggi che la scandiscono e rendendo nuovamente disponibili scritti quasi mai ripubblicati e quindi scarsamente fruibili». E l’ambizione è dunque «di offrire un’immagine quanto più completa possibile dell’itinerario dell’autore, segnalandone continuità e discontinuità, senza per questo pretendere una coerenza assoluta della traiettoria trontiana o, inversamente, sviluppare una critica serrata di ogni suo passaggio». La convinzione di Cavalleri, Filippini e Mascat è infatti che «lo ‘sguardo lungo’ sull’intero percorso sia condizione imprescindibile per valutarlo criticamente».
Il Demone della politica – ospitato nella collana «XX Secolo», diretta da Alberto De Bernardi e Carlo Galli – potrebbe riaprire la discussione su Tronti, o rimettere in circolazione le sue tesi più scomode, come quasi mezzo secolo fa avvenne per la celebre silloge di scritti schimittiani Le categorie del ‘politico’, curata da Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera. Anche per questo, ognuno si può accostare al volume dalla propria prospettiva, seguendo il filo di pensiero che ritiene più proficuo e stimolante.  Ma forse un modo per tornare oggi, con occhi diversi da quelli del passato, a leggere Tronti – e dunque lo stesso ‘giovane Tronti’ – può consistere nel ripartire dai suoi approdi più recenti, che sono anche approdi fortemente autocritici.
In una conferenza del giugno 2015, Tronti evocava alcuni appunti di Musil, nei quali l’autore dell’Uomo senza qualità parlava del progresso come di qualcosa di molto simile a sogno. «Tu sogni di stare a cavallo, il cavallo cammina, perché la bestia non si ferma mai. E allora il sogno diventa un incubo. Il Progresso ha senso solo se ha una fine. Se non ha una fine e, aggiungo io, se non gli dai una fine, diventa privo di senso. Per andare dove? Per fare che cosa? La vecchia domanda vuole una nuova risposta» (M. Tronti, In nuove terre, per antiche strade, Lectio tenuta in occasione dell’assemblea annuale del Centro di Riforma dello Stato, 11 giugno 2015). Proprio contestando l’immagine di quel progresso senza fine, destinato a tramutarsi in un incubo, Tronti rivendicava per sé la formula di «rivoluzionario conservatore»: una formula che era certamente una provocazione per respingere la qualifica di «riformista democratico», ma che era anche una vera dichiarazione programmatica, capace di riassumere un atteggiamento verso il mondo e, soprattutto, la logica del passaggio dalla critica di società alla critica di civiltà che segna il tratto più recente del percorso trontiano.




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