domenica 21 dicembre 2014

Il Novecento di Mario Tronti. Una conversazione con Carlo Formenti, Franco Milanesi, Damiano Palano




Questo testo è la trascrizione del dibattito svoltosi presso la Casa della Cultura di Milano il 20 novembre 2014, in occasione della presentazione del libro di Franco Milanesi, Nel Novecento. Storia, teoria, politica nel pensiero di Mario Tronti (Mimesis, Milano, 2014). 
Il testo è stato pubblicato su Tsym Magazine.


Carlo Formenti, giornalista, scrittore e ricercatore universitario, si occupa da più di trent’anni di nuove tecnologie, organizzazione del lavoro e movimenti politici. Tra i suoi libri, La fine del valore d’uso. Riproduzione, informazione, controllo (Feltrinelli, Milano, 1980); Prometeo e Hermes. Colpa e origine nell’immaginario tardo moderno (Liguori, Napoli, 1986); Incantati dalla Rete. Immaginari, utopie e conflitti nell’epoca di Internet (Cortina, Milano, 2000); Mercanti di futuro. Utopia e crisi della Net Economy (Einaudi, Torino, 2002); Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media (Cortina, Milano, 2008); Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro (Egea, Milano, 2011); Utopie letali. Contro l’ideologia postmoderna (Jaca Book, Milano, 2013); Magia bianca Magia nera. Equador: la guerra fra culture come guerra di classe (Jaca Book, Milano, 2014).


Franco Milanesi, dottore di ricerca in Studi politici, ha scritto su riviste come «Paradigmi», «Religioni e Società», «Historia Magistra», «Zapruder», oltre che sul quotidiano «Liberazione. Tra i suoi libri, sono da ricordare Dietro la lavagna (Giraldi, Bologna, 2008), Militanti. Un’antropologia politica del Novecento (Punto rosso, Milano, 2010), e Ribelli e borghesi. Nazionalboscevismo e Rivoluzione conservatrice. 1914-1933 (Aracne, Milano, 2011).

Damiano Palano si occupa di teoria politica e delle trasformazioni delle democrazie occidentali. Tra i suoi libri più recenti, Geometrie del potere. Materiali per la storia della scienza politica in Italia (Vita e Pensiero, Milano, 2005); I bagliori del crepuscolo. Teoria e critica al termine del Novecento (Aracne, Roma, 2009); Fino alla fine del mondo. Saggi sul ‘politico’ nella rivoluzione spaziale contemporanea (Liguori, Napoli, 2010); La democrazia e il nemico. Saggi per una teoria realistica (Mimesis, Milano, 2012); Partito (Il Mulino, Bologna, 2013); La democrazia senza qualità. Le «promesse non mantenute» della teoria democratica (Mimesis, Milano, in corso di stampa).


Damiano Palano: Il testo di Franco Milanesi, al quale è dedicata la nostra discussione, ha il merito di inquadrare fin dal titolo la centralità del Novecento nell’esperienza e nel pensiero di Tronti, un’esperienza e un pensiero strettamente legati al grande laboratorio del XX secolo e le cui radici affondano, in particolare, nel passaggio cruciale degli anni Venti e Trenta. Al dibattito partecipa naturalmente l’autore del volume, Franco Milanesi, che da sempre affianca la passione politica a un lavoro di riflessione teorica e che in particolare, in alcuni suoi lavori, si è rivolto all’«antropologia» della militanza novecentesca. Il secondo protagonista della nostra discussione è Carlo Formenti, uno studioso molto noto per le sue ricerche sulle implicazioni sociali della rivoluzione digitale (e sugli immaginari cresciuti attorno alle nuove tecnologie). Formenti ha alle spalle un percorso ricco di esperienze eterogenee. Arriva dalla militanza sindacale, nei primi anni Ottanta è stato redattore di «Alfabeta» e in seguito ha lavorato per molti anni al «Corriere della Sera». Senza abbandonare l’attività giornalistica, nell’ultimo quindicennio si è dedicato con maggiore intensità alla ricerca e all’insegnamento, all’Università del Salento. All’interno di un itinerario tanto eterogeneo, è comunque possibile ravvisare una forte coerenza, quantomeno nei temi che Formenti ha collocato al centro della sua riflessione. A partire da La crisi del valore d’uso. Riproduzione, informazione, controllo, un testo pubblicato nel 1980 presso l’editore Feltrinelli (negli «Opuscoli marxisti» diretti in quegli anni da Pier Aldo Rovatti), si possono infatti riconoscere tutti i grandi nodi che tornano quasi costantemente nella ricerca di Formenti: l’interesse per il ruolo delle nuove tecnologie e per l’impatto che esse producono sull’organizzazione del lavoro, un dialogo critico con le diverse posizioni del postmodernismo filosofico e la costante domanda sulle nuove forme di azione politica. Non di meno, fin da queste prime pagine, che segnano in qualche modo l’avvio della riflessione teorica di Formenti, si sviluppa un ininterrotto dialogo critico (spesso anzi polemico) con le tesi e gli esponenti dell’«operaismo» italiano, e in special modo con le posizioni di quello che, negli anni seguenti, diventerà il «post-operaismo». Tanto nei suoi lavori degli anni Ottanta, quanto nei suoi scritti più recenti, Formenti non cessa infatti mai di coltivare questo confronto, un confronto spesso aspro che però non giunge a trasformarsi in una totale liquidazione. Probabilmente perché – almeno a mio avviso – Formenti continua a condividere alcuni dei principi teorici della tradizione operaista. E, d’altronde, è proprio in virtù dell’interesse immutato per il filone operaista che Formenti conserva sempre una grande attenzione anche per la produzione teorica di Mario Tronti. 
Venendo all’oggetto principale del nostro dibattito, è innanzitutto opportuno osservare che accostarsi al pensiero di Tronti – come fa Milanesi nel suo libro – è difficile per molti motivi. Innanzitutto, e in questo caso di tratta di un rilievo quasi scontato, sia perché è difficile dare una valutazione complessiva di una personalità politica che svolge ancora un ruolo attivo, sia perché, si potrebbe osservare, non si può ancora avere quella distanza critica dall’oggetto di studio necessaria per fornire una valutazione meditata. In secondo luogo – e in questo caso il rilievo è probabilmente molto più fondato – perché il suo percorso teorico può apparire, in alcuni passaggi, piuttosto criptico, persino ermetico, e soprattutto perché teoria e pratica politica sembrano collocarsi nella sua esperienza spesso su piani differenti, al punto da far apparire il ‘Tronti politico’ in contraddizione con il ‘Tronti teorico’. Tronti ha persino teorizzato la necessità di conservare sempre una relazione problematica fra teoria e pratica, esplicitando in termini quasi programmatici l’esigenza di affiancare l’uno all’altro il «pensare estremo» e l’«agire accorto». E non è difficile ritrovare più di una conferma di questa convinzione nelle scelte compiute da Tronti negli ultimi anni. 
Nonostante nel 2006, al momento della conclusione dell’insegnamento universitario, avesse annunciato il proprio ritiro dalla scena pubblica, Tronti non ha affatto ammainato la bandiera dell’impegno intellettuale e politico. Anzi, proprio da quel momento è tornato a partecipare al dibattito pubblico con un’intensità e un’energia che non aveva più mostrato dagli anni Settanta. In particolare, dal suo nuovo ruolo di Presidente del Centro per la Riforma dello Stato, si è impegnato in una battaglia per l’affermazione della centralità del lavoro: una battaglia culturale ma anche politica, nel senso che Tronti ha indicato proprio nel lavoro il riferimento ineludibile per qualsiasi progetto politico di sinistra, e anche per questo ha in più occasioni assunto una posizione critica nei confronti del Partito Democratico (e in special modo nei confronti del Pd che emergeva dalla segreteria di Walter Veltroni). 
Questo impegno ha alimentato persino l’impressione di un ritorno alle posizioni degli anni Sessanta, o quantomeno l’idea di una proposta per alcuni versi «neo-operaista», sia sotto il profilo teorico (e in questo senso sono significativi alcuni degli ultimi testi: Non si può accettare, Ediesse, Roma, 2009; Dall’estremo possibile, Ediesse, Roma, 2011; Per la critica del presente, Ediesse, Roma, 2013), sia sotto un profilo più strettamente politico, come per esempio con il sostegno alla lotta degli operai della Fiat contro le ristrutturazioni aziendali (l’episodio teorico più rilevante di questa fase è probabilmente il testo Berlinguer a Pomigliano, compreso nel volume Nuova Panda schiavi in mano. La strategia Fiat di distruzione della forza operaia, Derive Approdi, Roma, 2011). Ciò nonostante Tronti, in vista delle elezioni politiche del febbraio 2013, ha accettato la proposta di candidatura al Senato nelle liste del Pd avanzatagli dall’allora segretario Pierluigi Bersani. E se già in quell’occasione la posizione di Tronti appariva quantomeno eterodossa rispetto alla linea del partito, oggi la situazione appare addirittura paradossale, perché Tronti si trova a sedere in Senato tra le fila di un partito molto lontano dalle stesse posizioni bersaniane (e, per molti versi, molto distante anche da qualsiasi residuo riferimento alla sinistra novecentesca). 
Ma la tensione fra teoria e pratica non affiora certo solo negli ultimi anni. Tronti è infatti l’iniziatore di una tradizione, l’«operaismo» italiano, da cui si distacca piuttosto presto e con la quale mantiene da allora un rapporto problematico. Se infatti il Tronti di «Classe operaia» può essere considerato come l’ispiratore di buona parte delle sinistra radicale italiana degli anni Settanta, di fatto si tratta di esperienze politiche da cui il teorico romano rimane sempre distante, e nei confronti delle quali non nasconde anzi una certa ostilità, più che una semplice diffidenza. Probabilmente non esiste però una vera e propria contraddizione fra il Tronti ‘radicale’ degli anni Sessanta e il Tronti ‘realista’ degli anni Settanta, fra l’autore di Operai e capitale e il teorico che ritorna nel Pci per orientarne dall’interno le scelte. A ben guardare, già negli scritti di «Classe operaia» c’è infatti una marcata centralità della politica, una centralità che invece è in gran parte estranea all’operaismo successivo. E proprio per ricostruire questa dimensione spesso sottovalutata della riflessione di Tronti il libro di Franco Milanesi è particolarmente utile. 
Milanesi ricostruisce infatti l’intero percorso di Tronti, partendo dagli anni Cinquanta e dal confronto con la tradizione gramsciana e giungendo fino ai giorni nostri, senza dunque conferire una piena centralità alla fase operaista. Quella che Milanesi compie in questo modo è senza dubbio una scelta molto originale, che differenzia il suo libro da molti altri lavori di ricostruzione del pensiero trontiano. Proprio la fase ‘giovanile’ della riflessione di Tronti – quella in senso proprio ‘operaista’ – è stata infatti oggetto di molte indagini già a partire dagli anni Settanta, e ancora oggi è al centro di un grande interesse soprattutto all’estero, tanto che, da questo punto di vista, è quantomeno significativo che uno dei migliori lavori dedicati alla storia dell’operaismo italiano sia stato scritto da uno studioso australiano come Steve Wright (L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Edizioni Alegre, Roma, 2008). Mentre Wright si concentra però in modo pressoché esclusivo sulla fase propriamente ‘operaista’ di Tronti, e dunque sulla «rivoluzione copernicana» compiuta nelle pagine di  Operai e capitale, nel testo di Milanesi sembra invece di leggere, almeno fra le righe, una sorta di diffidenza di Tronti verso quella stagione: una diffidenza che nasce dalla convinzione che l’operaismo ‘puro’ degli anni Sessanta, salti il passaggio politico dell’organizzazione, e dunque il problema cruciale dell’autonomia (o delle autonomie) del politico, ossia il grande enigma alla cui soluzione Tronti lavora incessantemente dalla fine degli anni Sessanta.
Ripercorrendo le sequenze dell’itinerario teorico trontiano – dalle prime prove giovanili all’operaismo degli anni Sessanta, dal rientro nel Pci alla riflessione degli anni Settanta, per finire con gli scritti dell’ultimo ventennio – non è certo casuale che Milanesi torni a evidenziare in più occasioni proprio la centralità dell’enigma del politico, quell’enigma a cui lo stesso Tronti non darà mai una definitiva soluzione. Tanto che lo scritto che doveva portare a una sorta di sintesi l’intera riflessione trontiana sul politico – un testo più volte promesso e annunciato, dal titolo evocativo Per la critica della democrazia politica – non ha mai visto la luce. Naturalmente ci sono molte ragioni che spiegano quest’opera mancata, che molti dei più attenti e appassionati estimatori di Tronti hanno atteso inutilmente. Ma Milanesi cerca di trovare nell’opera del teorico romano quelle tracce che possano consentire di ricostruire (o quantomeno di intuire) il mosaico di quell’opera mai scritta, e forse anche le tracce capaci di indirizzare «oltre» la crisi della politica. Certo, in questo caso, il compito di Milanesi non è facile, perché il Tronti degli ultimi anni adotta un linguaggio spesso allusivo, tutt’altro che agevole da decifrare; un linguaggio sbilanciato verso i temi della spiritualità, in cui emerge una marcata volontà di recuperare una dimensione spirituale, ma nelle cui formule non è sempre così facile riconoscere le implicazioni più o meno direttamente politiche. E naturalmente Milanesi non può evitare di indagare altri due grandi motivi che attraversano la riflessione trontiana degli ultimi vent’anni. Innanzitutto la curvatura ‘antropologica’ che senza dubbio imprime alla ricerca di Tronti una direzione molto differente – o almeno apparentemente differente – da quella seguita negli anni Cinquanta e Sessanta. E in secondo luogo, il rapporto costante ma problematico che Tronti intrattiene con il pensiero della differenza sessuale. Un rapporto in cui inizialmente il pensatore romano investe molto, perché sembra ritrovare nel pensiero della differenza una nuova declinazione della parzialità, del punto di vista di parte, su cui poter fondare un rinnovato sguardo critico nei confronti del presente. Ma il credito che in passato Tronti concedeva al pensiero della differenza è stato negli ultimi anni sensibilmente ridimensionato. Su questo punto mi pare infatti sia intervenuta una vera e propria autocritica, dal momento che in più occasioni Tronti ha affermato che il pensiero femminile non è stato in grado di confrontarsi realmente con la politica, ossia – per dirla in termini un po’ brutali – con il problema dei rapporti di potere e con la prospettiva di una loro effettiva modificazione.
Evidentemente i temi che il libro di Franco Milanesi suggerisce sono molti, e difficilmente riusciremo a svilupparli tutti in questo nostro dialogo. Ma vorrei iniziare sollecitando Carlo Formenti su un punto che in qualche modo ha a che vedere con il recupero che ha compiuto negli ultimi suoi lavori. In particolare in Utopie letali ha mosso una nuova critica alla tradizione operaista, una critica che in questo caso rappresenta in parte un’innovazione rispetto al proprio consolidato atteggiamento nei confronti di questo paradigma teorico. In sostanza Formenti rimprovera oggi all’operaismo (e soprattutto al post-operaismo) di avere eluso il problema della politica e dell’organizzazione, salvo poi risolverlo con scorciatoie politiciste. Ed è proprio qui che Formenti torna – anche in modo sorprendente – a rivalutare la riflessione trontiana sull’«autonomia del politico», non tanto per i suoi effettivi risultati, quanto per il tentativo di affrontare le specificità di questo terreno e per articolare una domanda che però rimane ancora oggi senza risposta. Ed è proprio a partire da questo punto che vorrei chiedere a Formenti cosa resta a suo avviso di quella vecchia riflessione intorno all’«autonomia del politico», e quale sia oggi l’autonomia che dobbiamo cercare al livello politico.


Carlo Formenti: La questione è difficile. Personalmente spero che Tronti non scriva un’opera “definitiva” sull’autonomia del politico, perché penso che potrebbero essere più feconde proprio le sue riflessioni enigmatiche e allusive, dal momento che qui non si tratta di definire il concetto di autonomia del politico bensì di ragionare attorno alle stesse condizioni di esistenza del politico, che mi pare la domanda di fondo che Tronti si sta ponendo in questa sua fase “malinconica” e “nostalgica”, tipica della tradizione del Novecento. Con questo testo Milanesi colma una mancanza, nella misura in cui, ripercorrendo l’intera produzione teorica di Tronti, fa la storia sia dell’evoluzione della teoria marxista in Italia sia del movimento operaio con tutti i suoi complessi passaggi. 
Una storia che mi tocca da vicino, in quanto esponente di quell’operaismo di seconda generazione (penso ad autori come Bifo, Marazzi e altri) che ha scelto una direzione opposta a quella imboccata da Tronti. Nel passaggio tra  la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta non conoscevo l’operaismo, in quanto ero prossimo ai gruppi “filocinesi”. Il mio incontro con i “Quaderni rossi” è legato a un episodio particolare, che riflette il clima di quegli anni: rubai – gesto che consideravo come un mio diritto alla conoscenza, non avendo i soldi per acquistarlo – un cofanetto che conteneva le ristampe anastatiche di tutti i numeri della rivista. La lettura di quella raccolta fu per me folgorante. Da lì arrivai alla lettura di Operai e capitale, alla “rivoluzione copernicana” trontiana che cambiò radicalmente il mio panorama di riferimento teorico. Prima concepivo la polemica con il Pci in termini rozzamente ideologici, mentre l’adesione al paradigma operaista, di cui Tronti era espressione fondativa, mi fornì strumenti teorici forti alla critica dell’ortodossia marxista “made in Italy”, allora incarnata dal catalogo di editori come Einaudi ed Editori Riuniti. 
Il pensiero di Tronti conteneva tre punti qualificanti: 1) la critica radicale dell’interpretazione nazional-popolare del pensiero di Gramsci e dunque del togliattismo - interpretazione che conduceva alla perdita del punto di vista della parzialità operaia, del punto di vista di classe, sacrificato in nome del “bene comune” (Tronti giustamente diceva che questo non era marxismo); 2) Tronti offriva una lettura particolare del ruolo dello Stato borghese, che non era più lo Stato del laissez-faire, lo Stato comitato d’affari della borghesia che garantiva soltanto le condizioni per l’accumulazione, per lasciare poi campo libero alla spontaneità del mercato, ma interveniva ora direttamente all’interno della regolazione dell’economia, era costruzione antropologica (Foucault direbbe ‘biopolitica’) delle condizioni di riproduzione della classe operaia come elemento subordinato al capitale; 3) infine addebitava alla sinistra tradizionale - e questa, per me che lavoravo nel sindacato, era un’accusa centrale - l’incapacità di riconoscere le modificazioni che erano avvenute nell’organizzazione del lavoro e quindi nella  «composizione di classe» (concetto che ritengo centrale e fondativo di tutto il pensiero operaista e che rappresenta, forse, la sua unica, vera eredità). Composizione di classe: cioè il rapporto tra la trasformazione del lavoro e i livelli di coscienza e le pratiche di lotta della classe. 
Un altro punto centrale era l’affermazione  dell’immediata politicità del lavoro vivo; si diceva: è finita la distinzione tra lotta politica ed economica perché l’operaio massa esprime comportamenti che sono direttamente politici, per cui l’organizzazione politica diviene una funzione interna alla soggettività operaia e il suo compito non è più quello di portare dall’esterno della classe la coscienza politica, non più avanguardie professionali, ma quadri capaci di organizzare sul piano tattico le lotte. A coronamento del tutto l’idea – poi parzialmente autocriticata da Tronti – che la classe operaia subordina a sé lo sviluppo del capitale e non viceversa. Sono le lotte operaie che guidano, che “prendono a calci nel sedere” il capitale obbligandolo a fare innovazione tecnologica, a svilupparsi, a organizzarsi. Non ci sarebbe il capitalismo come forza innovativa senza la pressione delle lotte operaie. Questo è un paradigma forte, comune a tutta l’area operaista, anche ai teorici che hanno poi preso le distanze da Tronti. E questa è anche, dal mio punto di vista, la “palla al piede” che impedisce alle teorie neo e post operaiste di cogliere appieno la realtà contemporanea. Quel paradigma era infatti irreversibilmente connesso a una ben precisa contingenza storica, alla composizione di classe che aveva al proprio centro l’operaio massa, mentre è stato elevato a un principio generale metastorico, in base al quale la classe operaia determina sempre lo sviluppo del capitale. Questo dogma è stato in parte superato da Tronti, mentre l’altra componente operaista, quella che fa capo a Negri, continua, attraverso l’idea della moltitudine, a iscrivere il rapporto conflittuale capitale/lavoro in questa cornice.
Il passaggio decisivo – ben descritto da Milanesi – fu la rottura di “Classe operaia” nei confronti della tradizione dei “Quaderni Rossi”. Se avessi avuto qualche anno di più e avessi vissuto la prima fase dell’operismo, allora mi sarei forse schierato con Panzieri e con il suo discorso, dell’operaismo, più ancorato all’analisi empirica della composizione  di classe, dell’organizzazione di fabbrica, delle condizioni di lavoro e dell’esperienza operaia. Panzieri, interpretando correttamente il senso di quella prima fase di riflusso, voleva puntare sullo studio e sulla preparazione delle energie per un successivo rilancio delle lotte. Al contrario, Tronti e Negri scommisero sul rafforzamento e sul radicamento dell’organizzazione politica nelle fabbriche. La successiva rottura fra Tronti e Negri si è consumata in modo progressivo e, a io parere, non è tanto legata alla scelta di Tronti di rientrare nel Pci. Questo era più un dissidio sulla tattica politica. Del resto allora anche Negri era ancora “leninista” (basta rileggere le sue 33 lezioni su Lenin); la differenza consiste nel fatto che Tronti si apprestava a spingersi molto più avanti in questa direzione,  ad avviare la sua riflessione sull’autonomia del politico. Tronti comincia a ragionare su Machiavelli, Hobbes e su Lenin come altra faccia della medaglia di Schmitt (il quale citava non  a caso Lenin fra le fonti della sua riflessione sulla politica come confine amico/nemico). 
È su questo punto che io mi ritrovo oggi  più vicino a Tronti che a Negri: Tronti aveva visto ciò che a Negri è sempre sfuggito, aveva colto un limite radicale di tutta la teoria marxista. Se si resta nel paradigma definito dal Capitale (ma anche dai Grundrisse, checché ne pensi Negri) la classe operaia resta necessariamente solo forza lavoro, funzione subordinata del capitale. Finelli lo dice bene in un libro recente in cui scrive che l’ultimo Marx si era definitivamente sganciato da Hegel, non lasciando più alcuno spazio al rovesciamento dialettico. Finché c’è internità c’è subordinazione, la classe operaia resta antropologicamente consustanziale al capitale. Qui Tronti, come tutti gli altri operaisti,  si scontrano con il vero limite della loro teoria, cioè con il fatto che non è vero che è sempre la classe operaia a determinare lo sviluppo capitalistico, come dimostrano gli ultimi trent’anni la guerra di classe dall’alto del capitale ha letteralmente fatto a pezzi la soggettività operaia. Ecco perché, anche in Tronti, il problema dell’autonomia del politico si pone oggi in modo completamente nuovo rispetto. Ed ecco perché, nell’ultimo Tronti, troviamo tracce del pensiero apocalittico di Benjamin, di Bloch: la politica come irruzione della trascendenza, la politica come rottura e discontinuità assoluta. Resta però una contraddizione che è comune sia a Tronti che a Negri, vale a dire l’impossibilità di sciogliere il nodo delle coppie oppositive dentro/contro, dentro/fuori. Finché si resta nell’ambito di una visione immanentista, classe operaia e capitale sono “uno”. Ma allora non esiste possibilità di uscita dal capitale. Il fuori è il politico, ma Negri non lo vede e Tronti  non è mai riuscito a tematizzarlo compiutamente. 
Quel che trovo invece geniale è il Tronti critico dei movimenti. Sulle aporie  del ’68 ha colto punti veri, come quello dello slittamento dalle pulsioni libertarie alla liberazione degli spiriti animali del neocapitalismo (anche se, a mio parere, ha sottovalutato l’elemento della rivolta studentesca contro le esigenze strutturali del capitale, allora impegnato a piegare l’università  alle esigenze di costruzione di una forza lavoro tecnico-impiegatizia). Sono invece totalmente d’accordo con la sua critica delle categorie di operaio sociale e moltitudine, nelle quali vede un’espressione delle dispersione sociale e non della soggettivazione, pseudo soggetti permeabili alle narrazioni del nemico di classe. Resta l’interrogativo sollevato dalla sua visione della fine del Novecento come fine del politico, come suo definitivo tramonto. Questo significa che è tramontato l’unico «fuori» che in qualche modo avrebbe potuto costruire un’alternativa al capitale? Scrive Milanesi: «Nel momento in cui il movimento operaio, sconfitto dall’avversario sul campo, interiorizzasse la democrazia borghese come valore, cioè ne dichiarasse la necessità, si consumerebbe definitivamente ogni possibilità di alternativa (…) la classe che si era emancipata dal popolo, torna a essere parte di una massa uni-formata nell’orizzonte chiuso del totalitarismo postnovecentesco». Il libro di Milanesi, ma anche Palano nella sua recensione a Milanesi, sembrano cogliere alcuni timidi tentativi di reinventare la possibilità della politica. Ma tali tentativi sembrano restare confinati nella cornice di una sorta di “seduzione teologica”. 
Cosa ci resta oggi, in conclusione, del suo pensiero?  Per Milanesi la sua eredità più feconda si condensa in tre aspetti: un pensiero parziale, un pensiero che non vuole produrre altro pensiero ma azione, infine l’antiriformismo. Ma come conciliare questa eredità con la scelta politica di stare nel Pd? Io penso che questa contraddizione si spieghi con due critiche che sono state  fatte a Tronti (ma che, a mio parere, valgono anche per Negri nella misura in cui rappresentano due facce della stessa medaglia). La prima critica è quella mossa da Panzieri, che rimproverava a entrambi, al momento della rottura di “Classe operaia”, una tensione verso la filosofia delle storia che li portava a sopravvalutare il grado di politicizzazione della classe operaia, enfatizzandone il grado di autonomia e autorganizzazione, riducendo il capitalismo a una specie di superfetazione ideologica che vive solo per autosuggestione (in Negri questa visione è condotta fino all’esasperazione: il capitale, nella trilogia Impero, Moltitudine, Comune, è un fantasma che aleggia sopra le moltitudini, le quali, nel momento in cui si organizzeranno e si sveglieranno lo faranno svanire).
L’altra critica, più radicale, è quella di Esposito. Il conflitto tra operai e capitale è quello tra due unità di uno stesso intero, creando così una cattiva infinità che sposta incessantemente in avanti la soluzione del conflitto. Se non si torna a pensare il fuori, ma solo la lotta di classe in termini di immanenza (come del resto la pensa lo stesso Marx) non si esce dal capitale. Marx descrive il capitale come nessun altro sa fare e più di qualsiasi economista ci fa oggi capire la crisi. Ma quel che manca è il Marx rivoluzionario, perché le analisi sul 18 brumaio, sulla Comune, ma sono analisi storiche, descrittive in cui non c’è una riflessione sulle condizioni di superamento della società capitalista. Manca una visione del superamento del capitalismo perché manca l’autonomia del politico. Per superare l’impasse occorre sciogliere questo nodo metafisico della pura immanenza che inibisce la possibilità di un salto. Occorre ritrovare un «fuori».


Franco Milanesi: Vorrei porre innanzi tutto la questione del tema dell’autonomia del politico attorno al quale si sviluppa l’intero dispositivo teorico trontiano. Questa tesi, a mio parere, è presente sottotraccia fin dagli scritti dei «Quaderni rossi», dunque nella fase operaista. Pensare che l’agire di classe sia già di per sé politicità significa osservare il conflitto operaio in tutta la sua potenzialità politica. Certo, Tronti si rende conto, già a metà degli anni Sessanta, che questo passaggio sul terreno strettamente politico non si è concretizzato. Che la “rivoluzione copernicana” ha avuto di sicuro una funzione mobilitante ma che la forza espressa nello scontro di classe non si è risolta in potere fuori dal luogo della produzione, cioè pienamente in politica. Da questo punto in avanti, l’autonomia del politico è interpretata in senso più strettamente leninista: è il partito che porta coscienza alla classe e può dare consapevolezza di progetto e non solo di condizione. Il partito, moderno principe, è la politica novecentesca “per eccellenza” ed è si connette pertanto con l’intero arco problematico dello Stato.
Da questo punto di vista bisogna “imparare” dalla politica borghese che, dice Tronti, nasce prima del capitalismo che si sviluppa grazie all’azione politica borghese. Dai dazi agli eserciti, dalla polizia alla cultura di massa è una raffinata strategia che coniuga controllo, azione sul sistema economico complessivo e penetrazione dell’immaginario borghese dentro il corpo sociale. La società civile diviene così, compiutamente, l’hegeliana  bürgerliche Gesellschaft, società borghese. 
La critica all’immanentismo trontiano – il “contro” sta tutto “dentro” il sistema - da parte di Esposito coglie il cuore del problema ma è proprio questo piano tutto immanente del capitale che Tronti mette in discussione lungo ipotesi di fuoriuscita e di trascendenza. Consapevole della difficoltà del compito, senza le “illusioni” di Toni Negri, il quale descrive efficacemente la nuova composizione tecnica del tecnocapitalismo, ma enfatizza la composizione politica antagonista del cosiddetto lavoro cognitivo. In Tronti non c’è un disegno organico di alterità, ma troviamo tentativi, ipotesi di alterità radicale e in tal senso credo vada interpretata anche la funzione dell’organizzazione e del partito. È tramontato il partito di classe nella sua classica forma novecentesca: dirigenti, politici professionisti, popolo, strategia. È finita quella storia, ma è necessario continuare a pensare il significato di un’eredità. Anche la dimensione del religioso, a questo punto, rappresenta uno scarto rispetto al piano dell’immanenza capitalistica poiché l’homo religiosus è alterità rispetto all’homo oeconomicus e al profilo dell’individualismo proprietario. Tutti questi recenti tentativi sono percorsi da un acuto senso del tragico (Tronti, in tal senso, mi sembra prossimo al pensiero di Sergio Quinzio) da cui, forse, dipende quella vena malinconica che si coglie nell’intervista a Gnoli pubblicata da “la Repubblica”. Resta il fatto che Tronti “prova ancora” e io credo che nel Pd bersaniano egli abbia voluto vedere un’espressione della politica capace di raccogliere, in parte, l’eredità novecentesca, un’organizzazione non personalizzata, una possibilità di dare forma e potenza al conflitto. Indubbiamente si possono cogliere motivi di tensione tra un pensiero che continua a produrre idee di conflitto e strategie alternative e l’azione nel Pd. Ma va anche sottolineato un tratto esistenziale, quasi antropologico, l’incapacità da parte di Tronti, di “stare fuori” dall’azione politica poiché il pensiero politico, egli afferrma, non può che essere un pensare per l’agire. 
Infine vorrei rilevare l’efficacia di alcune sue espressioni nel loro carattere icastico: il punto di vista parziale sul tutto, la rivoluzione copernicana, il grande e piccolo Novecento, la democrazia borghese che sconfigge la classe operaia, l’Urss come storia reale del potere operaio (poi interamente liquidata dal senso comune borghese come “stalinismo”), la critica ai movimenti. È un pensiero spiazzante, che ti obbliga a ricollocarti e affrontare criticamente le grandi questioni del Novecento. Certo, del ’68 dà un’immagine parziale, poiché se è vero che quel movimento ha fornito forze di ricambio del potere, non credo possa essere del tutto ricondotto in questa dimensione. Analogamente, quando si interroga sui motivi della vittoria di Obama, vi vede innanzi tutto l’affermazione del grande capitale che ha sostenuto il ricambio presidenziale versando milioni di dollari per la campagna elettorale. Fatto certo significativo, ma che andrebbe letto senza tralasciare la dimensione simbolica di questa elezione.
Le affermazioni di Tronti, le sue letture degli eventi politici, non sono comunque mai “provocazioni”, ma dislocazioni del pensiero. Voglio insomma sottolinearne la vitalità e l’attualità anche se resta irrisolta la questione del rapporto immanenza/trascendenza. Un problema, del resto, per tutte le voci politiche anticapitaliste. Infine, sulla questione del religioso. Tronti è molto attento al conflitto ma anche, machiavellicamente, all’ordine. Conflitto ma non meno Stato, masse ma anche partito, antropologia cristiana ma anche Chiesa, cioè organizzazione in grado di tenere assieme, lungo un arco secolare, strategia, popolo, ceto dirigente. 
Cosa utilizzare in questa indefinita fase di transizione del bagaglio trontiano? Molto, poiché proprio le sue recenti espressioni - alle volte frammentate, accennate, allusive - spingono a ripensare ancora l’intera dorsale teorica del politico.


Palano: A questo punto vorrei tornare su alcuni dei nodi che segnalavo all’inizio, se non altro per chiarire che non intendo contrapporre l’uno all’altro il Tronti politico e il Tronti teorico. Quando si fa politica si compiono inevitabilmente degli errori. Certo, da uomo del Novecento Tronti vede il partito come vera forma dell’organizzazione politica, e ciò comporta anche l’accettazione della disciplina di partito. Ma non è questo l’aspetto che mi preme sottolineare. È stato detto – e Milanesi lo mette bene in evidenza nel libro – che negli ultimi anni emerge nella riflessione di Tronti una dimensione antropologica prima assente. A mio parere questa preoccupazione è già presente nei primi scritti, perché mi sembra davvero di poter riconoscere anche nei lavori giovanili l’incubo che la società dei consumi, dominata dall’uomo massa, elimini qualsiasi conflittualità, e anche quella operaia. A questa sorta di incubo ricorrente, che attraversa l’intera opera di Tronti, egli dà risposte diverse. Negli anni Sessanta, nel pieno della stagione operaista, vede nella fabbrica e nella cooperazione produttiva una risposta, un antidoto formidabile alla ‘massificazione’. Poi però riconosce l’insufficienza di questo livello conflittuale e segnala allora la necessità di un passaggio politico, proprio nel momento in cui si avvia la riflessione sull’autonomia del politico. Poi negli anni Novanta emerge la problematica della trascendenza, dunque del teologico-politico e della sfera della spiritualità. La trascendenza, il teologico-politico, la spiritualità vanno pensate nella prospettiva della produzione di un’identità trascendente, ossia di qualcosa capace di tenere assieme gli individui al di là della relazione materiale ed economica. In queste tre fasi nelle riflessioni di Tronti c’è sempre il partito, ma si tratta evidentemente di un partito che, ogni volta, si presenta con un volto ben differente: negli anni Sessanta è un ‘partito tattica’, poi negli anni Settanta diventa un partito ‘gestore’ della trasformazione sociale, e infine assume i contorni di un partito che dovrebbe ricostruire un’identità e una cultura. Quest’ultima è a mio avviso una visione gramsciana più che operaista, e credo in effetti che la riflessione condotta da Tronti negli ultimi anni abbia molto in comune con il Gramsci dei Quaderni. La critica ai movimenti e al ’68 è d’altronde quella di avere recepito l’individualismo della società consumista, che fa sì che nei movimenti si proiettino richieste di tipo individuale. Il problema che suggerisce la riflessione di Tronti è dunque per molti versi questa: oggi che funzione può avere il partito, anche al di fuori di quello che è stato nel Novecento? Può essere ancora un intellettuale collettivo? E questa è, evidentemente, una domanda molto ambiziosa, ma che riguarda tutti noi. 



Formenti: Sto rileggendo il classico di E.P. Thompson The Making of the English Working Class. Dire che oggi la situazione delle classi lavoratrici è neo-ottocentesca non è una metafora. Certo, le condizioni delle classi subordinate non sono le stesse in termini di miseria o supersfruttamento (ma in Cina, vi si avvicinano). Rispetto alle analisi di Marx ed Engels, Thompson valorizza molto i fattori politico culturali che hanno contribuito alla nascita dell’identità e della coscienza di classe. Per esempio, Thompson fa vedere come abbia svolto un ruolo determinante in questo senso la tradizione del giacobinismo inglese, allorché l’Inghilterra fu vicina a replicare l’esempio della Rivoluzione francese, una possibilità neutralizzata dalle guerre napoleoniche, quando in nome del patriottismo antifrancese furono fatte passare leggi durissime contro le posizioni giacobine sostenute da un proletariato di tipo più artigianale che operaio. Una tradizione che nei decenni successivi  fu tenuta in vita da migliaia di lavoratori che leggevano Tom Paine e le opere dei socialisti utopisti (molti dei quali parteciparono anche ai moti luddisti). C’è poi stato il ruolo importante svolto dalle sette ereticali e delle loro visioni apocalittiche (quelle che ritroviamo nelle opere di Blake). Si è trattato insomma di una costruzione ideologica e non soltanto del riflesso delle spaventose condizioni materiali imposte dall’accumulazione primitiva. 
Tutto ciò ci fa capire che la politica proletaria è nata prima dei partiti socialisti e comunisti, così come quella borghese era nata prima del capitalismo realizzato. Può ripetersi qualcosa di simile ora che – dopo la fine parallela dei partiti rivoluzionari e socialdemocratici - viviamo in un mondo compiutamente postdemocratico? Io credo che qualche barlume di speranza venga dall’America Latina. Non tanto i regimi populisti “di sinistra” ma dall’emergere di una nuova composizione politica di classe che ci impone di andare oltre  l’idea tradizionale di classe operaia. Penso per esempio, ai movimenti degli indigeni in Equador, Bolivia e altri Paesi. Sono indios campesinos che non hanno niente a che fare con la classe operaia, ma sono antropologicamente portatori di una forma di religiosità, di un’idea di comunità, di un rapporto con la natura e l’ambiente che esercitano una forte influenza politica sui movimenti sudamericani. Penso, in particolare, alla Bolivia di Evo Morales, dove è in atto un  processo che, per certi aspetti, evoca il discorso gramsciano sul farsi partito e sul farsi stato. Il MAS di Evo Morales è un partito diverso da quelli della tradizione occidentale novecentesca: è una federazione di soggetti e movimenti, sindacati indigeni, movimenti urbani e contadini, di una pluralità di soggetti che sta plasmando dall’interno le istituzioni mentre letteralmente le occupa. Questa esperienza è stata criticata da destra e da sinistra in quanto rappresenterebbe una visione “corporativa” delle istituzioni. Ma è proprio questa concezione della politica come mediazione permanente tra gli interessi di diversi strati di classe, unificati  dal rapporto di inimicizia con le vecchie élites rovesciate  dalla rivoluzione bolivariana, che mi pare interessante. Non credo vada assunta come un modello, ma penso che contribuisca a un allargamento della prospettiva in cui diviene possibile immaginare un altro futuro. 
E ricavo altri motivi di ottimismo dalle lotte della nuova classe operaia cinese descritte nei lavori di una sociologa di Hong Kong che si chiama Pung Ngai (Ferruccio Gambino che ha avuto modo di visitare recentemente la città di Shenzhen, e di incontrare alcuni giovani quadri sindacali, dice di avere respirato  il clima delle riunioni dei "Quaderni Rossi" nei primi anni Sessanta). La storia non si ripete ma ripropone costellazioni di significato e di rapporti di forza che seguono una linea a spirale. Forse non c’è più speranza per l’Europa, forse qui si è veramente consumata la fine del politico, ma forse possiamo guardare con maggiore fiducia al resto del mondo. La teoria operaista è stata un importante strumento di lotta, non ha prodotto verità assolute, valide in qualsiasi contesto storico. Se cambia la contingenza si deve cambiare paradigma. Su questo Lenin era geniale. La teoria politica non è una scienza esatta, ha senso finché produce lotta, coscienza, progettualità politica. Poi bisogna costruire altro.






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