sabato 12 dicembre 2015

La democrazia indignata di Juan Carlos Monedero. Sul "Corso urgente di politica per gente decente"





di Damiano Palano

Nel novembre 1917, mentre in Europa infuriava la guerra e aveva già iniziato a soffiare il vento della rivoluzione, Max Weber fissò nella celebre conferenza Wissenschaft als Beruf alcune delle riflessioni maturate nel corso di una intensa carriera scientifica, destinata a concludersi prematuramente di lì a pochi mesi. Ai giovani del Freistudentischer Bund di Monaco, che aveva invitato lo studioso al ciclo di conferenze, Weber, mentre illustrava la propria visione del metodo «scientifico», giungeva a toccare lo spinoso tema dei rapporto fra politica e ricerca nel campo delle scienze sociali. E da questo punto di vista ammoniva tanto gli studenti quanti i suoi colleghi a tenere ben distinto il piano della riflessione scientifica da quello della battaglia politica: «la polemica non si addice all’aula di lezione. Non vi si addice da parte degli studenti. […] Ma non vi si addice neppure da parte del docente: non si addice proprio quando questi si occupa di politica dal punto di vista scientifico, e allora meno che mai. Infatti la presa di posizione politica pratica e l’analisi scientifica di formazioni politiche e di partiti sono due cose differenti. Quando uno parla della democrazia in una riunione popolare, non fa alcun mistero della propria posizione personale: anzi, prendere partito in modo chiaramente riconoscibile è il suo dannato dovere, ciò a cui è tenuto. Le parole di cui si serve non sono allora strumenti di analisi scientifica, bensì strumenti di competizione politica nei confronti della presa di posizione altrui. Esse non sono un vomere per dissodare il terreno del pensiero contemplativo, bensì spade contro gli avversari, mezzi di lotta. Ma in una lezione o in un’aula sarebbe sacrilegio usare la parola in questa maniera» (M. Weber, La scienza come professione, in Id., La scienza come professione – La politica come professione, Mondadori, Milano, 2006, p. 31).
Distinguere il piano dell’analisi scientifica da quello della battaglia politica non è in realtà sempre così semplice come Weber sembrava pensare. E d’altronde proprio nelle riflessioni dei più convinti alfieri dell’«avalutatività» delle scienze sociali si celano spesso distorsioni ideologiche macroscopiche. Ma naturalmente non è alla concezione della ricerca scientifica delineata da Weber che tende a guardare Juan Carlos Monedero, politologo dell’Università Complutense di Madrid e tra i fondatori di Podemos (dal quale si è dimesso per il dissenso su una linea politica eccessivamente ‘verticistica’ e ‘mediatica’). Il suo libro Corso urgente di politica per gente decente (Feltrinelli, pp. 222, euro 16.00) è infatti una sorta di ‘manuale’ di introduzione alla politica, da cui però l’impegno politico – e in particolare l’impegno a difendere una parte politica specifica – viene rivendicato quasi in ogni pagina. Se una simile compenetrazione tra i due piani che Weber richiedeva rimanessero rigorosamente distinti, rende per molti quasi ‘sacrilega’ l’operazione di Monedero, in realtà il libro merita invece di essere letto, anche per apprezzare l’abilità – anche retorica – con cui il politologo spagnolo si confronta con tutti i temi chiave che di solito sono al centro dei corsi introduttivi di scienza politica e teoria politica, e che però sono connessi alle concrete problematiche della società contemporanea. 
A dispetto del ruolo che Monedero ha assunto negli ultimi anni, sarebbe però sbagliato considerare il Corso urgente come un ‘manifesto teorico’, o come l’enunciazione della visione politica di Podemos, e non solo per la precoce fuoriuscita dello studioso madrileno da questa formazione. Il libro è infatti apparso nella sua prima edizione nel 2013, e la sua stesura è dunque precedente alla fondazione di quello che è diventato nel breve spazio di due anni uno dei protagonisti della politica spagnola. Inoltre, anche se il Corso urgente certo riflette in modo evidente il clima creatosi dopo il 15 marzo 2011 (il giorno in cui gli indignados spagnoli si accamparono alla Puerta del Sol di Madrid), questa sorta di manuale - o di «antimanuale», come lo definisce l’autore – condensa una serie di studi, considerazioni e anche battute di spirito che Monedero deve aver sperimentato e collaudato in un ventennio di insegnamento. E, anzi, l’effetto di questa sedimentazione talvolta rischia persino di inficiare la stessa logica delle argomentazioni (perché le citazioni da film, romanzi, canzoni tendono a essere persino compulsivamente affastellate l’una accanto all’altra).
Il nodo da cui prende le mosse Monedero, e che chiarisce il senso stesso del Corso urgente, è chiarito fin dalle prime pagine, e riguarda lo stato delle nostre democrazie: «Oggi la democrazia sembra universale, ma in realtà è stata svuotata di ogni contenuto. Si riduce al voto, e la politica sembra un gioco di attori ingaggiati per recitare male una parte e sorbirsi le nostre critiche. Crediamo che la democrazia si giochi tutta nelle leggi elettorali, nel diritto di voto, nel contenuto delle costituzioni, nella stesura di una normativa. Ma non è così. La migliore legge elettorale, la migliore costituzione, l’inclusione politica assoluta di tutte le persone che vivono in un territorio non valgono niente, se non c’è la volontà di ripartire equamente i diritti e i dover della vita condivisa. La migliore delle leggi non  serve a niente, se i cittadini accettano di governare se stessi con i principi dell’efficienza e della concorrenza. Confondiamo la democrazia con lo spettacolo della democrazia. Di fatto l’unica cosa reale è proprio lo spettacolo. Se non hai una parte nel programma non esisti. Per esistere nella democrazia, dei interpretare un ruolo e pronunciare qualche battuta. E comparire in televisione. È l’unica cosa che conta» (p. 22). Un simile quadro della democrazia occidentale costituisce in qualche modo il presupposto di una discussione in cui Monedero tocca tutti i punti chiave di un’introduzione alla politica, dalle classiche domande su cosa sia la politica, se quest’ultima abbia un’«essenza», e se la politica scaturisca dalle caratteristiche (immutabili) degli esseri umani. Nel libro, insieme a tutto ciò che ci si può aspettare da un «anti-manuale» scritto da un politologo di estrema sinistra (comprese le battute vagamente fruste e l’anti-clericalismo di maniera), si trova una variante della vecchia teoria della democrazia partecipativa, e cioè una visione della democrazia che assegna ai movimenti e alla partecipazione un ruolo essenziale, se non centrale, per conservare la vitalità di partiti e istituzioni. Ma nel testo ci sono comunque alcuni punti interessanti, che denotano comunque lo sforzo di confrontarsi con i grandi temi della teoria politica.
Forse l’elemento più interessante del libro di Monedero è costituito dall’impegno a discutere del nodo della natura umana. Anzi, a questo proposito Monedero scrive che riflettere sulla natura umana è addirittura necessario per pensare la politica, e per contrastare una specifica immagine della politica. «Abbiamo smesso di interrogarci sulla natura umana solo nel momento in cui si è imposta l’idea che l’uomo è lupo per l’altro uomo, come affermò Hobbes riprendendo Plauto» (p. 51), nota per esempio. E, in effetti, l’obiettivo del suo ragionamento è, da questo punto di vista, portare alla luce l’ambivalenza della «natura umana», ossia contrastare l’idea secondo cui l’essere umano sarebbe ‘naturalmente’ egoista e non predisposto alla cooperazione. Monedero tenta così di mostrare, anche attingendo alle ricerche etologiche, che l’essere umano ha una «fibra morale» innata, che è cioè portato all’altruismo, alla solidarietà e all’empatia, e non, dunque, solo all’egoismo, alla sfiducia, all’indifferenza. E questo conduce dunque a riconoscere l’ambivalenza dell’essere umano: «anche la dualità fa parte della nostra evoluzione. L’angelo (auspicato da Rousseau) e il demone (evocato da Hobbes) fanno parte della nostra natura. Tuttavia l’attuale diffusione di Homo sapiens sapiens sul pianeta non è merito di chi si è limitato a sopravvivere, ma di chi ha cooperato. L’empatia, la reciprocità e la solidarietà sono le chiavi della vita di quell’animale particolare che è l’uomo, capace di riflettere su se stesso. Fanno parte della nostra natura. Tocca alle istituzioni trasformarle in modelli si comportamento» (p. 53). Ma, se «l’uomo è incline alla cooperazione», in realtà – sostiene Monedero – esistono ambiti sociali che incoraggiano il depredatore che abita dentro di noi», e in particolare «il modello neoliberalista, senza spingerci tanto lontano, trasforma la società in un campo di battaglia di tutti contro tutti» (pp. 61-62). 
Il tentativo di ancorare l’analisi sulla politica a solide basi antropologiche naturalmente non prelude a un determinismo che riduca lo spazio della dimensione culturale. Anche Monedero subisce anzi il fascino di quella svolta ‘estetica’ della riflessione sul ‘politico’ che – grazie soprattutto alla mediazione di Ernesto Laclau – ha esercitato un influsso determinante sull’elaborazione dottrinaria dei dirigenti di Podemos (in particolare sul leader carismatico Pablo Iglesias Turrión e su Iñigo Errejón Galván). E proprio in questa direzione riconosce il peso che hanno le «narrazioni» e i concetti, non solo nell’indurre all’azione o all’obbedienza, ma anche a incorniciare la realtà dentro schemi interpretativi tutt’altro che neutrali. «Nominare è tradire», ricorda infatti Monedero, nel senso che, «quando nomina, l’uomo lascia necessariamente alcune cose fuori cal verbo, pone l’accento su altre, si concentra su un aspetto specifico e non su un altro, con il tempo gli si incollano addosso sfumature, contesti, significati, usi e abusi», tanto che così «interpreta la realtà e poi la fissa in habitus che ostacolano l’emancipazione» (pp. 76-77). «I nomi sono argine ma anche prigione», scrive dunque Monedero, riprendendo in fondo la stessa logica che informava la vecchia frase con cui Carl Schmitt invitava a riconoscere che tutti i concetti politici sono sempre concetti polemici. D’altronde il politologo madrileno non sfugge alla necessità di confrontarsi con il pensiero del giurista tedesco, e anzi sostiene che sia necessario distinguere le sue convinzioni politiche dal «realismo delle sue analisi» (p. 92). Monedero non può infatti non essere affascinato dall’idea che la politica nasca dall’esperienza del conflitto, e che essa sia in fondo ineliminabile proprio perché il conflitto è una componente irriducibile dell’esperienza umana. «Ciò che definisce la politica», scrive infatti Monedero, «è il conflitto potenziale (e le deviazioni dell’obbedienza)», e riconoscere questo dato «non significa mirare al disordine costante, ma comprendere che, finché ci saranno disuguaglianze, la tensione politica sarà sempre viva nei gruppi umani» (p. 92). 
Il fatto che Monedero evochi la disuguaglianza come fattore che determina il conflitto è senza dubbio la spia di un pensiero che tende a imputare la politica, più che alle caratteristiche della «natura umana», alle condizioni economico-sociali. E, d’altro canto, Monedero si spinge a definire il conflitto (che deve essere riconosciuto e non negato) come la base del progresso sociale: «L’essenza della politica», scrive per esempio, «è la probabilità dell’obbedienza, l’assunto per cui il conflitto è sempre presente perché la società è in perenne evoluzione. Non si può mai considerare finita la politica. Di conseguenza, non si potrebbe mai considerare finita la democrazia, e lo stesso vale per il socialismo. È il conflitto a mettere in moto le società. Il conflitto è un equilibrio instabile di essere umani che vivono nel tempo, e quindi invecchiano e perdono le energie a mano a mano che si avvicinano alla morte. Il conflitto esisterà finché esisteranno esseri umani che pensano di meritare certe cose ma ancora non le possiedono. Il conflitto è qui per restare, con la sua minaccia e la sua promessa di redenzione. I due volti del Giano politico» (pp. 95-96).
La concezione conflittualista articolata da Monedero è ovviamente finalizzata a una celebrazione della «politicizzazione» (e a una critica contestuale della «spoliticizzazione»), perché lo studioso spagnolo considera «una società politicizzata» come una società attenta, e invece una società «spoliticizzata» come una società in cui gli individui sono ripiegati sulla dimensione privata. Perché, nonostante sia ben consapevole che non si può schiacciare interamente la dimensione individuale su quella collettiva, per Monedero la politica è però soprattutto appartenenza a un gruppo, con tutto ciò che l’appartenenza a un gruppo implica. «Siamo individui, ma sopravviviamo solo in gruppo», così «la politica può essere descritta come l’ambito sociale legato alla definizione e all’articolazione di traguardi collettivi che è obbligatorio raggiungere», e dunque «è politico ciò che colpisce la collettività in modo imperativo» (p. 98).
La celebrazione della dimensione conflittuale della politica è finalizzata a un’analisi della condizione delle democrazie occidentali contemporanee. Monedero non dimentica di muovere una severa critica alla «scienza politica egemonica», che ha proceduto a ‘svuotare’ la democrazia della sua sostanza: «in altre parole, esistendo modi diversi di intendere la democrazia – mero processo decisionale, forma di livellamento sociale, assunzione di corresponsabilità, accordo fra le élite –, si è preferito adottare la definizione minima», una definizione «per cui la democrazia non è più un campo di battaglia e il suo obiettivo non è più ridurre le disuguaglianze» (p. 99). Monedero si riferisce ovviamente a quel filone della riflessione politologica che Peter Bachrach definì, negli anni Sessanta, come «elitismo democratico», ossia quel filone che riduce la democrazia a una procedura elettorale, dimenticando la dimensione partecipativa e l’impegno a garantire un’effettiva uguaglianza. «In realtà gli studiosi, dall’accademia, contribuivano solo a cancellare il dibattito sulla qualità della democrazia» (p. 102), scrive Monedero, ma naturalmente la sua attenzione non può non rivolgersi alla revisione ‘neo-liberale’ della teoria democratica, che trova un vero e proprio pilastro nel rapporto alla Trilateral della metà degli anni Settanta sulla Crisi della democrazia. A questo proposito, Monedero trova inadeguata e persino fuorviante la formula «postdemocrazia», proposta fra l’altro da Colin Crouch. «In genere», osserva per esempio, «la critica alla ‘postdemocrazia’ si limita alla richiesta di un capitalismo dal volto umano, un altro ossimoro della nostra epoca», mentre, «al di là dello sguardo nostalgico verso un passato idealizzato, la manifestazione più autentica e cruda del vuoto della democrazia si ha nella persistenza o nell’aumento delle disuguaglianze, nell’aggravarsi della frattura tra Nord e Sud, nella devastazione ambientale, nella disoccupazione e nella precarietà del lavoro, nel permanere di ‘zone brune’ dove lo stato non interviene e dove la violenza urbana e contro le donne è la regola, nell’oligopolio dei mezzi di comunicazione, nell’assenza di riforme agrarie, nell’esclusione, nella femminilizzazione della povertà, nell’aumento delle risorse destinate alla repressione e nella scelta della guerra per la risoluzione dei conflitti» (p. 191). Mentre la riflessione sulla «postdemocrazia» tende dunque a guardare nostalgicamente al passato, Monedero – indossando naturalmente gli abiti dell’intellettuale impegnato politicamente, e accantonando quelli dell’analista – indica nella «democrazia indignata», e cioè nella spinta dei movimenti, la strada principale che può consentire di «reinventare la democrazia e lo stato» (p. 192). «Non c’è errore più grande che pretendere di tornare a un passato abbellito solo dalla prospettiva dell’attuale indigenza delle nostre democrazie» (p. 192). Ma, se Monedero esalta i movimenti (e in particolare le diverse forme assunte a livello globale dagli indignados), non trascura di considerare i rischi di un’azione che si limiti alla dimensione del movimento. «Per il movimento indignato il rischio principale», nota anzi, «è quello di farsi prendere dalla malinconia» (p. 196). E soprattutto (ma non bisogna dimenticare che sono parole del 2013), osserva: «per non essere solo fumo purificatore, il movimento deve affrontare anche l’ora della verità del potere politico», perché «senza leader, senza programma, senza ossatura, il rischio di scomparire nel riflusso c’è sempre» (p. 206). D’altronde, non manca  neppure di notare che «nessuno sa quando l’indignazione riuscirà a trasformarsi in un nuovo senso comune per costruire una politica decente» (p. 211).
In un passaggio del libro Monedero ricorda un episodio della sua carriera di docente. «Qualche anno fa», scrive, «chiesi ai miei studenti di scienze politiche qual era l’ultimo libro di politica che avevano letto, e una ragazza disse: Il piccolo principe di Machiavelli» (p. 197). La gaffe della studentessa diventa del discorso di Monedero una formula per descrivere – combinando Saint’Exupéry con Machiavelli – la miscela di ingenuità e buon senso propria del movimento degli indignados. Ma forse questa miscela può anche essere riconosciuta nell’«anti-manuale» di Monedero, in cui – accanto a molte considerazioni acute e tutt’altro che banali – si trovano alcune ingenuità che finiscono con l’indebolire il discorso sulla politica. Forse l’ingenuità più evidente riguarda proprio l’esame delle ideologie politiche e la discussione su ciò che caratterizzerebbe, rispettivamente, la destra, la sinistra e il centro. Inserendosi nello sterminato dibattito sulla distinzione tra destra e sinistra, Monedero propone una soluzione piuttosto semplicistica. Se vent’anni fa (con un’operazione per molti versi discutibile) Bobbio riconduceva la dicotomia destra-sinistra a quella tra libertà e uguaglianza, Monedero compie una forzatura ulteriore, e quantomeno grossolana. Perché, se per un verso riconosce la difficoltà di attribuire alla «sinistra» un preciso patrimonio ideologico, dall’altro scrive che «una persona si colloca a destra quando il suo modo di vivere è egoista» (p. 106). Evidentemente le cose sono invece più complicate. Innanzitutto, perché – nonostante possa essere confortante per un cittadino di «sinistra» collocarsi su un versante eticamente virtuoso – la prospettiva ‘egoista’ che Monedero attribuisce alla «destra» in realtà è specifica solo di una componente del liberalismo (e neppure di tutto il liberalismo): ed è sufficiente pensare, sotto questo profilo, a tutte le diverse forme di nazionalismo, che spesso possono essere collocate a destra, ma che non si fanno certo portatrici di un ‘egoismo’ individualistico, se non altro perché possono chiedere ai cittadini di andare in guerra e di rischiare la vita per difendere la patria. Ma il ragionamento di Monedero appare su questo punto discutibile per un motivo più generale, che ha a che vedere con un carattere per molti versi addirittura costitutivo delle identità politiche. Proprio perché la politica – come lo stesso Monedero riconosce – ha a che vedere non tanto con gli individui, quanto con i gruppi di individui, è indispensabile riconoscere che ciascun gruppo ha sempre, nella propria struttura, una componente ‘egoistica’ e una ‘altruistica’. Detto molto semplicemente, ciascun gruppo, per potere esistere come tale, deve sempre mettere in atto qualche forma di ‘egoismo’, nel senso che deve fissare una barriera (anche solo identitaria) fra i suoi membri e tutti quanti invece stanno fuori. Ma, al tempo stesso, ogni gruppo presenta sempre una componente ‘altruistica’, anche se l’altruismo tende a valere solo tra i membri. Una simile ambivalenza sta d’altronde alla base del rapporto costantemente problematico tra la morale privata e la morale politica, ossia di quel rapporto in virtù del quale determinate azioni, che giudicheremmo immorali se commesse da individui, diventano invece legittime, e anzi encomiabili, se commesse da gruppi politici o da Stati. È forse proprio per la consapevolezza di questa insolubile ambivalenza – un’ambivalenza che è peraltro strettamente connessa alla relazione originaria, misteriosa e inquietante fra politica e violenza – che Max Weber invitava gli scienziati sociali ad astenersi dal tentare qualsiasi valutazione ‘scientifica’ dei valori. Ed era in fondo per questo stesso motivo che, concludendo la celebre conferenza sulla Politica come professione, con parole che in questo caso non hanno perso dopo un secolo nulla del loro prezioso valore, metteva in guardia gli aspiranti politici dalle insidie che li attendevano in un mondo di demoni: «Chi vuole fare politica in generale, e soprattutto chi vuole esercitare la politica come professione, deve essere consapevole di quei paradossi etici e della propria responsabilità per ciò che a lui stesso può accadere sotto la loro pressione. […] egli entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro a ogni violenza. […] Chi aspira alla salvezza della propria anima e alla salvezza di altre anime non le ricerca sul terreno della politica, che si pone un compito del tutto diverso e tale da poter essere risolto soltanto con la violenza. Il genio o il demone della politica e il dio dell’amore, anche il dio cristiano nella sua forma ecclesiastica, vivono in un intimo contrasto, che in ogni momento può trasformarsi in un conflitto insanabile» (M. Weber, La politica come professione, in Id., La scienza come professione – La politica come professione, cit., pp. 129-130).

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