All’indomani della comparsa del movimento spagnolo
degli indignados, molti osservatori
segnalarono le ingenuità e le debolezze politiche di un fenomeno che appariva
solo come l’ulteriore manifestazione di un generale sentimento anti-politico e
come l’ennesimo riflesso di un’ostilità nei confronti della «casta», in fondo
priva di qualsiasi progettualità. Dopo quattro anni dalla data simbolica del 15
maggio 2011 - il giorno che gli spagnoli indicano con la sigla 15-M e in cui il
movimento degli indignados prese
possesso della Puerta del Sol madrilena – le cose sono naturalmente molto
cambiate, sia negli assetti interni all’Unione europea, sia negli equilibri
politici tra gli «europeisti» e quelle formazioni che, un po’ per pigrizia,
continuano a essere catalogate sotto la voce «populismo» (o «neo-populismo»). E
fra i nuovi e più originali protagonisti del nuovo scenario un posto di primo
piano è naturalmente occupato da Podemos: un partito che – pur non essendone in
senso proprio una filiazione – ha trovato nel 15-M le proprie radici e che, per
molti versi, costituisce la variante più originale di un ‘populismo di
sinistra’. A rendere particolarmente interessante la vicenda di Podemos è però
la stessa genesi di questa formazione, che, per quanto possa essere intesa come
uno sviluppo ‘politico’ degli indignados,
può essere anche interpretata come il risultato di un esperimento – ancora in
fase interlocutoria, ma per ora comunque riuscito – realizzato da un ristretto
gruppo di intellettuali, alcuni dei quali giovani accademici dell’Università
Complutense di Madrid, con alle spalle esperienze più o meno durature nella
sinistra radicale.

Azione comunicativa

Naturalmente è ancora molto
prematuro valutare se l’operazione tentata da Podemos sia destinata a
incontrare un duraturo successo oppure se la sua ascesa si rivelerà soltanto
una fuggevole meteora. Ma è indubbio che – pur con tutte le sue ambiguità –
l’esperimento di Podemos segna quantomeno l’esigenza di confrontarsi con quel
«potere istituzionale» che i movimenti sociali negli ultimi trent’anni hanno
per molti versi considerato come un terreno strutturalmente ‘nemico’, e persino
con la parola «partito», divenuta persino impronunciabile per generazioni
alfabetizzate alla koiné antipolitica
del XXI secolo. In qualche misura, il riconoscimento cui giunge oggi Iglesias
può essere considerato anche come l’esito di una probabilmente meditata
riflessione autocritica. Iglesias proviene infatti da una lunga militanza – che
certo non rinnega, e neppure nasconde – tra le fila di quella sinistra radicale
‘movimentista’ che, a cavallo tra i due secoli, dopo il crollo dell’Unione
Sovietica il fallimento del socialismo di Stato, fece propria la formula di
John Holloway, secondo cui era necessario, oltre che possibile, «cambiare il
mondo senza prendere il potere». Quando oggi invoca invece la necessità di
confrontarsi con il «potere istituzionale», e dunque di ‘conquistarlo’,
Iglesias riconosce in qualche modo i limiti della sua militanza giovanile. E in
questo mutamento politico non è peraltro difficile scorgere il riflesso di una
sostanziale revisione condotta sul piano teorico.
Nell’itinerario di
formazione di Iglesias, si possono riconoscere le forti presenze del pensiero
radicale italiano, in particolare del post-operaismo fissato nelle opere di
Michael Hardt e Antonio Negri. Iglesias si distacca però progressivamente da
questo impianto originario. Un fattore che influisce sulla ridefinizione
linguistica e simbolica compiuta da Podemos è probabilmente costituito dalle
esperienze di Rafael Correa in Equador, di Evo Morales in Bolivia e di Hugo
Chavez in Venezuela, e d’altronde, proprio attorno ai finanziamenti ricevuti da
alcuni dei fondatori dell’organizzazione da parte del governo venezuelano sono
nate alcune delle prime difficoltà(sul popuslimo di Correa, è da vedere per
esempio il volume di C. Formenti, Magia bianca e magia nera. Ecuador: la guerra fra
culture come guerra di classe, Jaca Book, Milano, 2014). Ma, in questa operazione
(al tempo stesso teorica e politica), hanno giocato un ruolo di mediazione
importante la teoria di Ernesto Laclau e la ridefinizione del populismo
compiuta dallo studioso argentino. Così è quasi inevitabile riconoscere uno
scarto fra le posizioni sostenute oggi da Iglesias, per esempio nel suo Democrazia anno zero. Il manifesto politico del leader di Podemos
(Alegre, Roma, 2015, euro 15.00), e l’impostazione che emerge nel suo libro più
importante, Disobbedienti. Dal Chiapas a
Madrid (Bompiani, pp. 303, euro 18.00), frutto non solo dell’esperienza di
militante, ma anche di un decennio di studi dedicati ai movimenti di critica
alla globalizzazione neoliberista.
Laboratorio italiano

La prolungata frequentazione
dell’Italia da parte di Iglesias trapelava d’altronde anche dai riferimenti
teorici (in realtà piuttosto parchi) di Disobbedienti,
tra cui non poteva mancare Empire di
Michael Hardt e Antonio Negri. E non era così affatto sorprendente che il
giovane ricercatore spagnolo utilizzasse l’espressione «potere costituente» per
indicare il filo conduttore legava i movimenti italiani al 15M. Come scriveva
lo stesso Iglesias nell’introduzione al volume, l’obiettivo che si proponeva
consisteva nell’analizzare «l’impatto di una serie di tecniche di azione
collettiva comunicativa nate in Italia e il tentativo, da parte di un gruppo di
giovani militanti del Movimiento de Resistencia Global de Madrid, di adattarle
alla propria realtà e di configurarle come strumento per l’azione politica e la
comunicazione» (p. 19). L’indagine sui legami che stingevano queste due
esperienze era però collocata nel quadro di una prospettiva più ambiziosa, che
puntava a ricostruire la genesi di un movimento che superava la dimensione
nazionale, ossia – come scriveva Iglesias - «di un attore politico
postnazionale, molteplice ed eterogeneo, partendo dall’analisi delle forme di
azione collettiva di alcuni collettivi disobbedienti italiani e madrileni, in
scenari europei tra il 2000 e il 2004» (p. 23).
Se buona parte del volume
era dedicata a un periodo compreso tra il 1999 e il 2004 – ossia, dalla
contestazione del vertice di Seattle fino alle mobilitazioni madrilene del 2003
e alle dimostrazioni seguite agli attentati dell’11 marzo 2004 (dimostrazioni
che accompagnarono la sconfitta clamorosa di Aznar alle elezioni di alcuni
giorni dopo) – Iglesias concludeva però l’analisi di Disobbedienti guardando agli indignados
comparsi sulla scena nel marzo 2011, e soprattutto rilevando una linea di
continuità tra le proteste contro la guerra in Iraq e le nuove mobilitazioni:
«Ciò che abbiamo visto negli ultimi mesi in Spagna con il movimento 15M è
praticamente la creazione della politica costituente (come alternativa a quella
rappresentativa), concretizzata nelle pratiche di disobbedienza. Per quella
generazione di giovani attivisti era necessario reinventare le forme e i
simboli della politica e la Disobbedienza italiana fu un esperimento in quel
senso. […] I Disobbedienti scoprirono un meccanismo politico di produzione di
un senso in accordo con questi tempi dominati dalle tecnologie della
comunicazione. Furono capaci di creare simboli (cruciali nelle narrative di
tutti i movimenti sociali che hanno dimostrato successo) e che, nel bene o nel
male, si sono dimostrati storicamente indispensabili al successo dell’azione
collettiva» (p. 276). In questa valutazione, è facile intravedere, seppur solo
in filigrana, le tracce di un mutamento non secondario intervenuto
nell’impianto teorico di Iglesias, che evidentemente oggi non è più – e che
forse non era già più neppure nel momento in cui Disobbedienti usciva – quello ereditato dal ‘post-operaismo’
italiano. A ben guardare, infatti, anche termini come «moltitudine» o «potere
costituente», che pure compaiono nelle pagine di Disobbedienti, possono essere considerati più come l’effetto della
sedimentazione di una stagione politica per molti versi conclusa, che come il
segnale di un’eredità teorica rivendicata.
Nonostante Iglesias abbia riconosciuto in più occasioni il debito maturato nei confronti del post-operaismo italiano e dello stesso Negri (cui peraltro Iglesias ha di recente dedicato una lunga intervista, all’interno di un suo programma televisivo), i suoi riferimenti sembrano oggi altri, e cioè teorici come Perry Anderson, Immanuel Wallerstein e soprattutto Gramsci, o, meglio, il pensiero di Gramsci riletto (e certo semplificato) da Ernesto Laclau. E un simile riorientamento non è affatto secondario, perché, per molti versi, viene a rovesciare una delle tesi cruciali della riflessione ‘post-operaista’. Da almeno quarant’anni (e cioè da quando era impegnato in una battaglia teorico-politica contro il Pci di Berlinguer e la sua ipotesi del «compresso storico»), Negri infatti sostiene che la «società civile» è scomparsa. E con questo intende dire che è scomparso quel terreno ‘relativamente autonomo’ di mediazione (politica e culturale) in cui Gramsci aveva situato la lotta per la conquista dell’«egemonia»: quello stesso terreno, dunque, in cui la social-democrazia aveva storicamente cercato i margini per un’azione riformatrice, e in cui il Pci degli anni Settanta aveva puntato a trovare le condizioni per una riforma generale della società italiana. «Nel nostro tempo», si legge d’altronde in Impero, «la società civile non è più un adeguato terreno di mediazione tra il capitale e la sovranità» (M. Hardt – A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano, 2002, p. 306). E proprio in questo senso Hardt e Negri scrivevano, ormai quindici anni fa: «Le rappresentazioni del politico come una sfera autonoma in grado di organizzare il consenso e come luogo di mediazione dei conflitti tra le forze sociali oggi non hanno più molto senso. Il consenso viene determinato assai più efficacemente da fattori economici, come gli equilibri delle bilance commerciali e la speculazione sui valori dei titoli. Il controllo su questi movimenti non è più nelle mani delle forze politiche a cui viene tradizionalmente attribuita la sovranità, e il consenso non è più il prodotto dei processi politici, bensì di altri mezzi. Il governo e la politica stanno per essere completamente integrati nel sistema del comando globale. I controlli vengono ormai articolati attraverso una serie di corpi e funzioni internazionali. E questo vale anche per le tecniche della mediazione politica, le quali operano applicando le categorie della mediazione burocratica e della sociologia manageriale e non agiscono più in base alle tradizionali coordinate politiche della mediazione dei conflitti e della composizione degli antagonismi di classe. Non è tanto la politica che scompare, quanto piuttosto qualsiasi nozione della sua autonomia» (ibi, p. 288).
Nonostante Iglesias abbia riconosciuto in più occasioni il debito maturato nei confronti del post-operaismo italiano e dello stesso Negri (cui peraltro Iglesias ha di recente dedicato una lunga intervista, all’interno di un suo programma televisivo), i suoi riferimenti sembrano oggi altri, e cioè teorici come Perry Anderson, Immanuel Wallerstein e soprattutto Gramsci, o, meglio, il pensiero di Gramsci riletto (e certo semplificato) da Ernesto Laclau. E un simile riorientamento non è affatto secondario, perché, per molti versi, viene a rovesciare una delle tesi cruciali della riflessione ‘post-operaista’. Da almeno quarant’anni (e cioè da quando era impegnato in una battaglia teorico-politica contro il Pci di Berlinguer e la sua ipotesi del «compresso storico»), Negri infatti sostiene che la «società civile» è scomparsa. E con questo intende dire che è scomparso quel terreno ‘relativamente autonomo’ di mediazione (politica e culturale) in cui Gramsci aveva situato la lotta per la conquista dell’«egemonia»: quello stesso terreno, dunque, in cui la social-democrazia aveva storicamente cercato i margini per un’azione riformatrice, e in cui il Pci degli anni Settanta aveva puntato a trovare le condizioni per una riforma generale della società italiana. «Nel nostro tempo», si legge d’altronde in Impero, «la società civile non è più un adeguato terreno di mediazione tra il capitale e la sovranità» (M. Hardt – A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano, 2002, p. 306). E proprio in questo senso Hardt e Negri scrivevano, ormai quindici anni fa: «Le rappresentazioni del politico come una sfera autonoma in grado di organizzare il consenso e come luogo di mediazione dei conflitti tra le forze sociali oggi non hanno più molto senso. Il consenso viene determinato assai più efficacemente da fattori economici, come gli equilibri delle bilance commerciali e la speculazione sui valori dei titoli. Il controllo su questi movimenti non è più nelle mani delle forze politiche a cui viene tradizionalmente attribuita la sovranità, e il consenso non è più il prodotto dei processi politici, bensì di altri mezzi. Il governo e la politica stanno per essere completamente integrati nel sistema del comando globale. I controlli vengono ormai articolati attraverso una serie di corpi e funzioni internazionali. E questo vale anche per le tecniche della mediazione politica, le quali operano applicando le categorie della mediazione burocratica e della sociologia manageriale e non agiscono più in base alle tradizionali coordinate politiche della mediazione dei conflitti e della composizione degli antagonismi di classe. Non è tanto la politica che scompare, quanto piuttosto qualsiasi nozione della sua autonomia» (ibi, p. 288).
Il discorso articolato da
Iglesias – come, in generale, dagli intellettuali che hanno dato vita a Podemos
– non si limita a discostarsi da quello che Hardt e Negri svolgevano in Impero, ma ne contesta proprio il punto
fondamentale, ossia l’idea che il terreno della mediazione politica non sia più
centrale. E proprio in questo senso Iglesias si volge oggi all’«egemonia» di
Gramsci, rivisitata da Laclau. Sulla scorta di Laclau, Iglesias presenta
infatti Podemos come una forma di «populismo» di sinistra, ossia come
un’esperienza politica diretta a conquistare un’«egemonia» che si colloca
prevalentemente sul piano simbolico e comunicativo. Nel suo Democrazia anno zero, Iglesias scrive
per esempio che «Gramsci aveva compreso che il potere delle classi dominanti
non solo viene esercitato tramite strumenti coercitivi, m anche tramite
strumenti culturali come il controllo del sistema educativo, della religione e
dei mezzi di comunicazione e che, quindi, la cultura, è un terreno cruciale
della lotta politica» (Democrazia anno
zero, cit., p. 60). E proprio in questo senso aggiunge: «Il grande
dispositivo mediatico del nostro tempo […] è la televisione», perché proprio
quest’ultima «modella la nostra sensibilità estetica, le nostre opinioni
politiche, condiziona il nostro svago e intrattenimento, ci ‘insegna’ il
significato delle parole, ci dice (quasi sempre in maniera più implicita che
esplicita) che la parola antisistema ha una connotazione quasi ‘criminale’ e
che la parola ‘mercato’ non ha niente a che fare con i colpi dello Stato» (pp. 60-61).
I segnali di questa svolta
‘comunicativa’ erano d’altronde già evidenti quando nel 2011 Iglesias
licenziava Disobbedienti (e forse
anche una stagione della propria militanza politica). Il merito che già allora
Iglesias riconosceva alla «Disobbedienza italiana» era infatti solo un merito
‘estetico’, un merito che consisteva cioè nell’aver sviluppato tecniche
comunicative efficaci. E in questo il ragionamento di Iglesias era già davvero
‘laclausiano’: le identità collettive (nazionali, etniche, popolari), osservava
infatti, sono necessarie per l’azione politica, ma «buona parte dei fondamenti
di tali identità sono miti» che non resisterebbero a un serio esame storico; e
proprio in questa direzione, il vero merito della «Disobbedienza italiana» è di
essere stata in grado «di ricreare e ridefinire miti per agire dove c’è il
potere, al di là dello stato» (p. 277). «Pochi gruppi», prosegue Iglesias, «hanno
compreso così bene le chiavi dell’azione nella società dello spettacolo come i
Disobbedienti», e di questa esperienza vengono così valorizzati «il
rinnovamento estetico e simbolico espresso nelle […] forme di azione e nei […]
discorsi», oltre he «il rinnovamento nella produzione delle narrative», «una
condizione di possibilità per i movimenti antagonisti del presente» (P.
Iglesias Turrión, Disobbedienti,
cit., p. 277).
In questo stesso senso,
nell’epilogo al volume di Iglesias, Iñigo Errejón Galván – forse l’esponente di
Podemos che più si è impegnato nella costruzione di una riflessione teorica –
viene a configurare esplicitamente il movimento degli indignados come l’esempio di una lotta «egemonica», ossia di un
conflitto che, recependo le indicazioni ‘stilistiche’ (e non teoriche) della
«Disobbedienza italiana», ha puntato costruire nuove identità politiche e nuove
linee di divisione: «Il 15M deve gran
parte della sua forza al fatto di avere generato un’identità politica nuova,
che spariglia gli allineamenti esistenti e ha la capacità di articolare
simpatie e solidarietà relativamente trasversali. […] A partire
dall’identificazione di casi particolari che illustrano un problema collettivo,
il movimento è in grado di politicizzare le carenze concrete e, fino a ora,
vissute individualmente. Poi però traccia, a partire da quelle, una frontiera
che è tanto più forte di quello che si pretende, e può presentarsi come non
ideologica: la grande maggioranza, sempre più condannata alla precarietà e
privata di cittadinanza politica da una piccola casta corrotta e inefficace che
sacrifica i diritti collettivi e la sovranità popolare ai ricatti dei mercati»
(Errejón Galván, La disobbedienza come
gesto per una politica audace, ibi,
p. 285). La logica che Errejón descrive è esattamente quella che, secondo
Laclau, caratterizza la nascita di un «populismo», ossia di un movimento
politico che nasce a partire dalla ‘costruzione’ simbolica di un «popolo»
(contrapposto ai suoi nemici). E così il movimento degli indignados può essere raffigurato come un soggetto che prende forma
nel momento in cui inizia a condurre la propria battaglia per la conquista
dell’«egemonia»: «Il 15M», scrive infatti Errejón, «combatte così,
fondamentalmente, una battaglia che Gramsci aveva denominato ‘guerra di posizione’:
la disputa per rompere l’aura di naturalità che circonda l’ordine esistente, le
sue istituzioni e i risultati, disarticolare l’ampio blocco che unisce
governati e governatori [sic], e
costruisce una ‘volontà di scissione’ di questi ultimi, un noi con capacità destituente e costituente, di nominarsi ed,
eventualmente, governarsi» (p. 286).
Naturalmente il futuro
prossimo di Podemos non dipenderà tanto dalla coerenza dei propri presupposti
teorici, quanto dall’abilità comunicativa dei suoi leader, e da questo punto di
vista è difficile non riconoscere lo straordinario talento di Pablo Iglesias,
un leader davvero capace di ‘bucare lo schermo’, oltre che di cogliere i rischi
che provengono dall’attaccamento alle identità settarie proprie di molti esponenti
della nuova formazione politica (rischi che stanno affiorando soprattutto in
relazione all’impegno amministrativo dei nuovi sindaci di Madrid e Barcellona,
che non sono in realtà espressione di Podemos, ma di una coalizione più ampia).
Ma forse non è improbabile che Iglesias debba tornare a riesaminare nuovamente
– come politico, prima che come teorico – la vecchia questione della fine della
«società civile» (e dell’autonomia della sfera della mediazione), una questione
che, in seguito alla svolta ‘comunicativa’ dal ‘post-operaismo’ a Gramsci, è
stata più ‘rimossa’ che realmente superata. Perché se Iglesias e Podemos hanno
un merito, questo consiste nell’aver collocato nuovamente al centro la ricerca
di un’«autonomia del politico», e cioè di una sfera di autonomia ‘simbolica’
della politica, nella quale si formano le identità collettive e in cui si
condensa la ‘materia prima’ di ogni conflitto. L’aver riconosciuto questa
«autonomia» - sulla scorta di Gramsci, ma soprattutto di Laclau – non può però
autorizzare a ‘liquidare’ il nodo dell’«autonomia» dello Stato, e cioè il nodo
dell’autonomia (reale o potenziale) delle istituzioni statali tanto dalle
dinamiche ‘economiche’ del capitalismo contemporaneo, quanto dai meccanismi
‘politici’ sovranazionali ed europei. Ed è d’altronde proprio in relazione a
queste due dimensioni che sarà possibile capire quali siano davvero le risorse
che l’«egemonia» conquistata sul terreno simbolico potrà far pesare sulla
realtà materiale dei rapporti di forza. Perché solo dinanzi alla prova del
potere ‘materiale’ sarà possibile capire se la «guerra di posizione» di cui
parlano Iglesias e Errejón rimarrà confinata al palcoscenico della politica
spettacolo, o sarà invece capace di influire su quella trama di vincoli e
poteri in cui è racchiusa la vita individuale di ogni singolo cittadino. E se
l’«egemonia» che Podemos punta a conquistare non sia in realtà altro che uno storytelling radicale.
Damiano Palano
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