lunedì 21 novembre 2011

Il nuovo odio per la democrazia. Uguaglianza, politica e biopolitica (a proposito di Jacques Rancière) 3/4



di Damiano Palano

segue da
Il nuovo odio per la democrazia 1/4
Il nuovo odio per la democrazia 2/4



3. Politica come democrazia

La riflessione dedicata da Rancière all’«odio per la democrazia» si inserisce all’interno del fitto dibattito sulle ‘trasformazioni’ della democrazia, o, meglio, sull’avvento della «post-democrazia» contemporanea, che, secondo Colin Crouch, per esempio, rappresenta il polo verso cui si stanno gradualmente – ma incessantemente – spostando i sistemi politici occidentali: un polo in cui le forme e i presupposti di fondo della democrazia liberale (le elezioni, i diritti di associazione e le libertà di espressione del pensiero) sono mantenuti, ma nel quale però viene delineandosi una sorta di «nuova classe dominante, politica ed economica», detentrice non solo di ricchezza e potere, ma anche di un ruolo politico privilegiato (C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma – Bari, 2003). Al tempo stesso, il suo volume si innesta, più in generale, nella discussione sulla tesi della (presunta) «fine della politica». Nel corso degli ultimi due decenni, questa tesi – che ha peraltro alle spalle una tradizione piuttosto consolidata - è stata infatti declinata in molte direzioni, che, per esempio, hanno presentato, la «fine della politica» come corollario della «fine della Storia», come sviluppo della vecchia tesi della «fine delle ideologie», come effetto delle dinamiche di globalizzazione e della vittoria del mercato, ma anche come portato del tramonto della classe operaia novecentesca, delle capacità regolative dello Stato o della stessa implosione della politica moderna. Inevitabilmente, l’idea della «fine della politica» è stata accompagnata anche da critiche severe, che, per esempio, ne hanno messo in questione i presupposti fatalistici, comuni d’altronde a gran parte delle analisi svolte sulla globalizzazione, o il fondamento sostanzialmente ideologico, volto a rimuovere – e a spostare in una sfera non politica – la realtà dei conflitti emergenti. Ed, evidentemente, la riflessione di Rancière sull’«odio per la democrazia» si colloca proprio all’interno di questo filone critico, che mette in luce la ‘depoliticizzazione’ dei sistemi politici occidentali, la formazione di nuove oligarchie e la rimozione del conflitto dalla dinamica politica. Ciò che caratterizza il contributo di Rancière è però il suo impianto teorico, e cioè proprio la peculiare associazione genetica fra democrazia e politica che alimenta la sua critica.
Proprio quella singolare associazione, all’apparenza disinvolta, è in realtà il risultato di un percorso affascinante, che ha condotto Rancière a rileggere le origini della filosofia politica occidentale e a ripensare il fondamento contraddittorio del fenomeno politico. Allievo di Louis Althusser, Rancière partecipò negli anni Sessanta alla stesura di Lire le Capitale, ma fu anche tra i primi a delineare una decisa critica dei presupposti teorici del marxismo strutturalista francese. A partire dagli anni Ottanta, ha iniziato a volgere la propria attenzione alla storia della filosofia politica, pubblicando testi come La Nuit des prolétaires (Fayard, Paris, 1981), Le philosophe et ses pauvres (Fayard, Paris, 1983), Le Maître ignorant (Fayard, Paris, 1987 ; trad. it. Il maestro ignorante, Mimesis, Milano, 2008), Les Noms de l’histoire (Seuil, Paris, 1992; trad. it. Le parole della storia, Il Saggiatore, Milano, 1994), Traversées du nihilisme (Osiris, Paris, 1993), Aux bords du politique (La Fabrique, Paris, 1998), Mallarmé o la politica della sirena (Clueb, Bologna, 2000, Id.), Les scènes de peuple (Hourlieu, Lyon, 2003), La favola cinematografica (Ets, Bologna, 2006), ma, soprattutto, proponendo una riflessione di cui La Mésentente. Politique et Philosophie, (Galiliée, Paris, 1995 ; trad. it. Il disaccordo. Politica e filosofia, Meltemi, Roma, 2007) è il risultato principale.
Come ha notato Beatrice Magni nella presentazione alla traduzione italiana di La Mésentente, il sentiero seguito da Rancière mostra alcune analogie con quello di Hannah Arendt, perché anche lo studioso francese rifiuta l’espressione «filosofia politica». A differenza dell’autrice di Vita activa, però, Rancière si muove su un piano differente, «sottolineando il paradosso di una filosofia che, nel momento stesso in cui ‘va affermando a gran voce il suo ritorno e un rinnovato vigore’, cade nell’oblio del suo oggetto medesimo: progetto della filosofia, dopo il trauma platonico conseguente alla morte di Socrate, sarebbe quello di espellere da sé, appunto, la mésentente rappresentata dalla politica, ‘oggetto’ ormai impuro e scandaloso, da tenere, quindi al di fuori dello spazio filosofico» (B. Magni, Pensare la politica sotto il regno della divisione: l’itinerario eretico di Jacques Rancière, in J. Rancière, Il disaccordo, cit., pp. 7-15, specie p. 9). La polemica di Rancière nei confronti della «filosofia politica» non è d’altro canto rivolta soltanto al passato, perché proprio le pagine iniziali del Disaccordo si indirizzano criticamente verso il «ritorno» della filosofia politica, un ritorno che coincide con la scomparsa del suo stesso oggetto. Nel momento in cui la filosofia ritrova «i luoghi propri della deliberazione e della decisione sul bene comune, le assemblee in cui si discute e si legifera, le sfere dello Stato in cui si decide, le giurisdizioni supreme atte a verificare la conformità delle deliberazioni e delle decisioni alle leggi fondamentali della comunità», si assiste a un processo paradossale, per cui, «in questi stessi luoghi, va diffondendosi l’opinione disincantata che c’è poco da deliberare, che le decisioni si impongono da sé, e che il ruolo specifico della politica si traduce quindi soltanto in un adattamento puntuale alle esigenze del mercato mondiale e nell’equa ripartizione dei profitti e dei costi di tale adattamento» (J. Rancière, Il disaccordo, cit., p. 18). Ma è proprio da questo paradosso – in cui si incontrano e divergono filosofia e politica – che Rancière prende le mosse per una rilettura delle origini della filosofia politica occidentale.
Sulla scorta della propria visione della politica, Ranciére rifiuta ovviamente l’equivalenza fra democrazia e rappresentanza. La democrazia rappresentativa contemporanea – osserva – è solo un’evoluzione del sistema rappresentativo inizialmente fondato sul privilegio delle élite, ed è solo una forma di funzionamento dello Stato. Al contrario, «democrazia significa appunto che le forme giuridico-statali non si fondano mai su un’unica logica» (ibi, p. 66). Ciò non implica, però, che la democrazia sia indifferente alle forme istituzionali:

«Vuol dire che il potere del popolo è sempre al di qua o al di là di esse. Al di qua, perché quelle forme non possono funzionare senza riferirsi in ultima analisi a quel potere degli incompetenti che fonda e nega il potere dei competenti, a quella uguaglianza che è necessaria al funzionamento stesso della macchina della disuguaglianza. Al di là, perché le forme che inscrivono questo potere sono continuamente riassorbite, attraverso il gioco della macchina di governo, nella logica ‘naturale’ dei requisiti per governare, nella logica cioè dell’indistinzione fra pubblico e privato» (ibi, p. 67).

Nel discorso di Ranciére, il venir meno di un ordine naturale innesca un conflitto permanente fra la logica della polizia e la logica della politica. All’interno della sfera pubblica, sono cioè destinate a scontrarsi due logiche antitetiche: da un lato, la logica della polizia tende a restringere la sfera pubblica e a fondare la legittimità del rapporto di comando (poggiando sulla ‘competenza’, o su altri elementi), mentre la logica della politica – agendo dal basso – non può che mettere in questione proprio quel confine che punta a escludere l’individuo ‘qualunque’ fuori dalla sfera pubblica. Per questo motivo, politica e democrazia vengono a essere in fondo la stessa cosa. Entrambe coincidono, infatti, con il potere ‘disordinante’ del demos, che è in grado di mettere in discussione la legittimità dell’esclusione e di imporre l’allargamento della sfera pubblica, la sfera di ciò che può essere discusso. Mentre la logica della polizia «privatizza continuamente l’universale, lo riconduce continuamente a una ripartizione del potere fra nascita, ricchezza e ‘competenza’», la logica della politica (e della democrazia) risiede nell’«azione di soggetti che, lavorando sull’intervallo fra le identità, riconfigurano le distribuzioni del pubblico e del privato, dell’universale e del particolare» (ibi, p. 75). Come scrive Rancière:

«La democrazia, allora, ben lungi dall’essere la forma di vita degli individui votati alla propria felicità privata, è il processo di lotta contro questa privatizzazione, il progresso di allargamento di quella sfera. Allargare la sfera pubblica non significa – come sostiene il discorso che si dice liberale – richiedere lo sconfinamento crescente dello stato nella società. Significa lottare contro quella ripartizione fra pubblico e privato che assicura il duplice dominio dell’oligarchia nello stato e nella società» (p. 68).

In altre parole, come Rancière osserva in Politica della letteratura, la democrazia non coincide né con una forma di regime politico, né con il risultato di un’azione politica volta a eguagliare le condizioni sociali dei cittadini, bensì con la stessa dinamica – resa possibile, a sua volta, dall’eguaglianza degli individui – che rompe un ordine simbolico, e dunque anche un ordine politico costituito:

«La democrazia, infatti, non determina di per sé alcun regime espressivo particolare. Essa infrange invero qualsiasi logica determinata di rapporto tra l’espressione e il suo contenuto. Il principio della democrazia non è il livellamento – reale o presunto – delle condizioni sociali. Non è una condizione sociale, bensì una rottura simbolica: la rottura di un ordine determinato di relazioni tra i corpi e le parole, tra i modi di parlare, i modi di fare, i modi di essere» (J. Rancière, Politica della letteratura, in Id., Politica della letteratura, Sellerio, Palermo, 2010, p. 21).

Se la democrazia scaturisce dal fatto dell’eguaglianza, e se coincide con la politica, contrapposta alla polizia, l’autentica trasformazione che coinvolge oggi i regimi politici occidentali è allora – e non può essere diversamente – una sorta di de-politicizzazione. La post-democrazia, dunque, non deve essere intesa nei termini in cui ne parla Crouch, ossia come una forma di regime in cui rimangono in vigore le forme della democrazia liberale, ma in cui il popolo, la sua partecipazione e le sue organizzazioni (partitiche e sindacali) abbandonano la scena. O, meglio, anche per Rancière sono ben visibili questi elementi, perché osserva, per esempio, che, di fatto, «viviamo in uno stato di diritto oligarchico, cioè in uno stato in cui il potere dell’oligarchia è limitato dal duplice riconoscimento della sovranità popolare e delle libertà individuali» (J. Rancière, L’odio per la democrazia, cit., p. 89). Il punto, però, non è tanto questo, quanto l’affermazione di una cultura del consenso che esclude non solo il conflitto, ma anche il dissenso radicale. Già alla metà degli anni Novanta, nella Mésentente, Rancière definiva questa condizione come una «postdemocrazia», un termine con cui indicava il paradosso in virtù del quale vige, «sotto il nome di democrazia, la pratica consensuale di annullamento delle forme dell’agire democratico» (J. Rancière, Il disaccordo, cit., p. 115). In sostanza, la «postdemocrazia» è quella specifica forma di organizzazione politica segnata da «un ragionevole accordo di individui e gruppi sociali, i quali avrebbero compreso che la conoscenza del possibile e la discussione tra pari rappresentano, per ogni parte, un modo di ottenere il risultato ottimale – e preferibile al conflitto – che l’oggettività contingente dei dati permette di sperare» (ibidem). In questo quadro istituzionale, scriveva Rancière, era rimossa la stessa possibilità del conflitto, ossia la radice della politica:

«La post-democrazia è la pratica governamentale e la legittimazione concettuale di una democrazia del post demos, una democrazia che ha eliminato l’apparenza, il resoconto e il conflitto del popolo, ed è dunque riducibile al solo gioco dei dispositivi statali e delle mediazioni tra energie e interessi sociali. La post-democrazia non è una democrazia che ha trovato nel gioco delle energie sociali la verità delle forme istituzionali. È una modalità di identificazione, tra i dispositivi istituzionali e la disposizione tra parti e parti della società, capace di far scomparire il soggetto e l’agire tipici della democrazia. Si identifica con la pratica e la riflessione intorno a un completo adeguamento tra le forme dello Stato e lo stato delle relazioni sociali (ibidem)». 

La post-democrazia è dunque, per Rancière, soprattutto una ‘depolitizzazione’, che punta a escludere la possibilità che il demos venga a mettere in discussione la ‘ripartizione costituita del sensibile’, o a mutare i confini tra pubblico e privato. Un aspetto cruciale della post-democrazia è allora quella «cultura del consenso che ripudia gli antichi conflitti, abituando a oggettivare senza passione i problemi che a corto e a lungo termine le società incontrano, a chiedere soluzioni agli esperti e a discuterle con i rappresentanti qualificati dei grandi interessi sociali» (J. Rancière, L’odio per la democrazia, cit., p. 91). Ma, quando allude alla ‘depolicitizzazione’ del dibattito pubblico, Rancière non può che pensare al ruolo che un determinato sapere ‘tecnico’ – quello dell’economia – ha conquistato:

«La lunga degenerazione e l’improvviso crollo del sistema sovietico, come pure l’indebolimento delle lotte sociali e dei movimenti di emancipazione, hanno permesso l’insediamento di una visione dominante che è il frutto della logica del sistema oligarchico. Secondo questa visione c’è un’unica realtà, che non ci lascia la scelta di interpretare e ci chiede soltanto risposte adeguate e sempre uguali, quali che siano le nostre opinioni e le nostre aspirazioni. Questa realtà si chiama economia: in altri termini, l’illimitato del potere e della ricchezza. Si è visto come sia difficile che questo illimitato fornisca il principio del governo. Ma, se solo si riesce a dividere in due il problema, allora lo si può risolvere, e questa soluzione può dare al governo oligarchico quella scienza regia che finora ha cercato invano. Se, infatti, si presuppone l’illimitazione del movimento della ricchezza come la realtà imprescindibile del nostro mondo e del suo futuro, spetta ai governi, desiderosi di gestione realista del presente e di previsione ardita del futuro, eliminare il freno che gli ostacoli esistenti all’interno degli stati nazionali oppongono al suo libero sviluppo. Viceversa, però, poiché non ha limiti e non si occupa della sorte particolare di questa o quella popolazione, di questa o quella frazione di popolazione sul territorio di questo o quello stato, spetta ai governi di questi stati limitarlo, sottomettendo l’incontrollabile e ubiquitaria potenza della ricchezza agli interessi della popolazione» (ibi, pp. 93-94).

Naturalmente, il punto non sta tanto – almeno in questo caso – nella lettura delle trasformazioni economiche proposta da Rancière, quanto nel fatto che il filosofo francese coglie, proprio nello spazio definito tra l’eliminazione dei limiti nazionali all’espansione del capitale e la necessità di sottomettere questa espansione alle esigenze nazionali, i contorni di una nuova scienza di governo che esclude del tutto il popolo. In sostanza, la nuova «scienza regia» definisce gli obiettivi che governi (di destra o sinistra) sono tenuti a perseguire, mentre al popolo non è assegnato alcun ruolo significativo, perché lo stesso equilibrio instabile fra popolo e governo, tra tensione popolare ed esigenze di governabilità, che ancora contrassegnava i sistemi politici occidentali fino agli anni Settanta, viene definitivamente meno. «L’alleanza oligarchica della ricchezza e della scienza esige oggi tutto il potere ed esclude che il popolo possa ancora dividersi, moltiplicarsi» (ibi, p. 95). Anche se – e Rancière lo sottolinea – le tracce del ‘dissenso’ tornano puntualmente a riaffiorare in tutti quei sintomi cui vengono dati, di volta in volta, i nomi di ‘antipolitica’, disaffezione, contestazione, populismo. In modo diverso, tutti questi fenomeni non fanno che riproporre proprio la critica della «scienza regia», e dunque non fanno che mettere in questione la ‘misura’ stessa sulla base della quale le scelte pubbliche vengono compiute e giustificate. Ma è anche per questo che la disaffezione – come nel celebre caso della bocciatura del referendum francese sulla Costituzione europea – viene imputata all’«ignoranza», all’assenza di «fede» nella scienza regia. Ed è così per sfuggire ai rischi di una critica iconoclasta della «fede», che i governi - assecondando la loro naturale «compulsione a sbarazzarsi del potere e della politica» - spostano progressivamente i centri da cui promanano le decisioni a un livello sovra-nazionale:

«Dichiarandosi semplici gestori delle ricadute locali e della necessità storica mondiale, i nostri governi si industriano a eliminare il supplemento democratico. Inventando istituzioni sovra-statali, che non sono stati a loro volta e che quindi non sono responsabili di fronte a nessun popolo, i nostri governi realizzano il fine immanente alla loro stessa pratica: depoliticizzare le questioni politiche, sistemarle in luoghi che non lasciano spazio all’invenzione democratica di luoghi polemici. Così gli stati e i loro esperti possono intendersela tranquillamente fra loro» (ibi, p. 98).

Quando allora, in nome dei precetti della «scienza regia», tecnici e responsabili di governo condannano come ‘populiste’ quelle posizioni che mettono in discussione il carattere inevitabile delle decisioni politiche, mostrano quello che davvero sta al fondo del nuovo «odio per la democrazia». L’accusa di populismo, infatti, «consente di interpretare ogni movimento che lotta contro la depoliticizzazione condotta in nome della necessità storica come la manifestazione di una frazione retrograda della popolazione o di un’ideologia sorpassata» (ibi, p. 104). E, secondo una logica del tutto coerente, mentre attaccano l’insaziabile voracità dell’homo democraticus, finiscono con l’assegnare proprio al cittadino, alla sua ignoranza, al suo egoismo, le responsabilità del trionfo del regno della merce. Nella sua nuova declinazione, l’«odio per la democrazia», nel momento stesso in cui espelle la politica, trasforma la democrazia nell’«eufemismo per indicare un sistema di dominio che non si vuole più chiamare con suo nome» e nel «nome del soggetto diabolico che viene al posto di quel nome cancellato», ossia in un «soggetto composito in cui sono equiparati l’individuo che subisce questo sistema di dominio e quello che lo denuncia» (ibi, p. 107). E, allora, congiungendo questi elementi, il nuovo «odio per la democrazia», non diversamente in fondo dal vecchio, ma con accenti inediti, può scagliarsi contro una figura insaziabile di consumatore di merci e spettacolo:

«È con i loro tratti combinati che la polemica disegna il ritratto-robot del democratico: giovane e imbecille consumatore di popcorn, di reality-show, di safe sex, di servizi sanitari, di diritto alla differenza e di illusioni anticapitalistiche o no global. In lui gli accusatori trovano ciò di cui hanno bisogno: il colpevole assoluto di un male irrimediabile. Non un piccolo colpevole, ma un grande colpevole che non soltanto è la causa dell’impero del mercato, a cui chi accusa si adegua, ma anche della rovina della civiltà e dell’umanità» (ibi, p. 107).

Nella logica che sostiene l’«odio della democrazia», diventa anche necessario rileggere la stessa dinamica storica che conduce alla democratizzazione, o quantomeno al trionfo del regime liberademocratico. E, in questo senso, secondo Rancière, la rivoluzione che taglia in due la storia europea diventa lo sterminio degli ebrei perpetrato dal regime nazionalsocialista nel corso della Seconda guerra mondiale. Ma, confrontandosi con le tesi provocatorie esposte da Jean-Claude Milner (Les penchants criminels de l’Europe démocratique, Lagrasse, Verdier, 2003), Rancière sostiene anche che, per dar corpo effettivamente a questa tesi, è necessario rileggere lo stesso sterminio degli ebrei, sottraendone la responsabilità al nazionalsocialismo. «L’ideologia nazista non è una causa adeguata» (J. Rancière, L’odio per la democrazia, cit., p. 109), perché si tratta soltanto di un’ideologia ‘reattiva’, mentre la vera responsabilità va assegnata a quella medesima logica che sostiene la democrazia, e che sta al fondo della psicologia volubile e insaziabile dell’homo democraticus: la soppressione del «governo pastorale», la fine del regime della filiazione, la soppressione delle differenze ‘naturali’, l’abbattimento delle gerarchie. In questa lettura – argomenta allora il filosofo – «il nazismo finisce così per diventare la mano invisibile che lavora per il trionfo dell’umanità democratica, sbarazzandola del suo nemico intimo», sbarazzandola cioè del «popolo fedele alla legge delle filiazione» (ibidem).
Ciò nonostante, l’«odio per la democrazia», a dispetto persino del suo successo, non può risolvere la «condizione paradossale della politica», non può cioè offrire una legittimazione così solida da compensare quello che – secondo Rancière – rimane il carattere ineliminabile della politica, la sua «assenza di legittimità ultima». Sebbene possa presentare la «scienza regia» come un insieme di saperi del tutto neutrali e superiori rispetto ai contenuti delle decisioni che il popolo può assumere, e nonostante possa coltivare la «fede» nell’insieme di dogmi che caratterizzano questa «scienza regia», in realtà l’«odio per democrazia» non può eliminare la potenza disordinante della democrazia. Non può, cioè, eliminare la facoltà – specificamente politica – di mettere in questione l’ordine simbolico esistente, perché si tratta di una facoltà inscritta nell’eguaglianza degli esseri umani, nella loro possibilità di nominare la ‘diseguaglianza’. E, in questo senso, l’antidoto all’«odio per la democrazia» è, ancora una volta, la stessa democrazia. Ma non certo, com’è ovvio, la realtà del regime democratico. Bensì «l’azione che strappa continuamente ai governi oligarchici il monopolio della vita pubblica e alla ricchezza l’onnipotenza sulle vite», «la potenza che deve, oggi più che mai, battersi contro la confusione di quei poteri in un’unica legge di dominio» (ibi, p. 115).

(continua)
Damiano Palano



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