mercoledì 26 ottobre 2011

Verso il default. Il fallimento dei Piigs non sarà una catastrofe: il “Contagio” di Loretta Napoleoni




di Damiano Palano

«Il pubblico? Il pubblico non ci pensa, digerisce soltanto. Tutto quello che noi, prima, abbiamo premasticato, preruminato, per lui. […] Dove credevi di essere capitato? Questo è il tempio dell’opinione pubblica, non è mica un posto perbene. Vedi, in fondo noi facciamo molto per il progresso. Non sembra, ma è così. Prepariamo l’affondamento del genere umano nell’idiozia. Un futuro senza pensiero. Senza idee nuove. Il nirvana, supercultura, super concentrata. Dormire, bere, mangiare e fare all’amore. E quattrini. Fare all’amore, mangiare, bere e dormire. E quattrini» (Sergio Donati, Sepolcro di carta, Mondadori, Milano, 1956, p. 48).
Più di mezzo secolo fa, in quello che rimane forse uno dei primi ‘gialli all’italiana’, era già molto chiaro, almeno per il grande Sergio Donati, quali vette di cinismo potesse toccare il mondo dell’informazione. Da allora, ovviamente, non si può dire che la situazione sia migliorata. E la prova non va ricercata tanto – o soltanto – nella marea di pettegolezzi, scandali e immondizia che popola le pagine di quotidiani, settimanali e rotocalchi popolari. La testimonianza più evidente del decadimento del mondo dell’informazione va individuata piuttosto nel profilo del dibattito ‘alto’, nelle letture proposte dagli ‘esperti’, o nelle solenni sentenze somministrate ogni giorno da legioni di opinionisti.
Naturalmente – e fortunatamente – i fiumi di inchiostro che scorrono sui nostri giornali sono quasi senza eccezioni destinati a essere dimenticati nel giro di qualche ora, così come tutti quegli editoriali, di volta in volta definiti ‘autorevoli’, ‘fondamentali’, ‘chiarificatori’, condannati a non lasciare alcuna traccia. Ai fini di una fenomenologia dell’informazione contemporanea sarebbe invece opportuno classificare sistematicamente editoriali, interviste, interventi televisivi e radiofonici di alcuni tra i principali ‘esperti’ che, in Italia o nel mondo, si esercitano ogni giorno a stilare diagnosi – ovviamente ‘impietose’ – e a dettare ricette, prevedibilmente centrate su drastiche ‘terapie d’urto’ (cui fortunatamente nessuno dà veramente retta).
Come è noto, la schiera degli esperti beneficia soprattutto del prezioso apporto dei cultori delle scienze economiche, che – in Italia, come altrove – detengono infatti un ruolo quasi egemonico nell’indirizzare il dibattito pubblico, nel censurare decisioni politiche, nell’indicare ricette, oltre che nella difficile arte della ‘previsione’. Quale sia l’esatta dose in cui nei pareri dei più noti esperti economici si combinino presunzione, arroganza e inettitudine è una questione su cui molti critici discutono da tempo. E, per quanto gli attacchi ricevuti negli ultimi tempi da questo eterogeneo gruppo professionale appaiano (e siano) probabilmente ingenerosi, una simile ostilità è ampiamente giustificata dalla scarsa lucidità mostrata dai più noti editorialisti economici.
In un libro di un paio di anni fa, Marco Cobianchi (Bluff. Perché gli economisti non hanno previsto la crisi e continuano a non capirci niente, Orme, Milano, 2009), ha raccolto alcuni degli editoriali apparsi nei mesi precedenti l’esplosione della crisi globale. Come noto, solo pochi osservatori avevano effettivamente previsto la crisi dei mutui americani, anche se alcuni economisti avevano chiaramente messo in luce le dimensioni assunte dalle attività finanziarie e i rischi cui una simile bolle esponeva. Ma, tra questi, ovviamente non si collocava nessuna della firme economiche che campeggiano sulle prime pagine dei nostri quotidiani. Per esempio, Alberto Alesina, commentatore del «Sole 24 Ore», docente nella prestigiosa Università di Harvard e paladino di un radicale liberismo economico, scriveva nell’agosto del 2007, quando la crisi dei mutui subprime aveva già iniziato a emergere: «Non ci sarà nessuna crisi del 1929 come dice Tremonti: quella in atto è una correzione come ce ne sono state tante altre, e le Banche centrali stanno reagendo in maniera appropriata. Inoltre, anche se non è possibile prevederne l’andamento giorno per giorno, i mercati quando scendono, scendono in fretta, perciò non mi stupirei se fossimo già vicini alla fine della caduta. No, non vedo in arrivo lo scoppio di una bolla come quella della New Economy. I mercati hanno i loro alti e bassi, le pause sono fisiologiche. Ultimamente si era esagerato in po’ a prestare denaro grazie a tassi d’interesse troppo bassi, ora è in atto una forte correzione, tutto qui» («La Stampa», 20 agosto 2007). E circa un mese dopo ribadiva: «Finora non è accaduto nulla di catastrofico, né a mio parere accadrà. È straordinariamente difficile prevedere quali saranno le conseguenze sulla crescita dell’instabilità dei mercati finanziari. Nessuno sa bene cosa succederà nei prossimi mesi. Quasi sicuramente nulla di disastroso» («Sole 24 Ore», 27 settembre 2007). Francesco Giavazzi, vero e proprio maître à penser del liberismo italiano, si manteneva sulla stessa linea di Alesina, in collaborazione col quale ha d’altronde firmato diversi best-seller sulla necessità per l’Italia di liberalizzare e di fare piazza pulita di caste e corporazioni che immobilizzano l’economia: «La crisi del mercato ipotecario americano è seria, ma difficilmente si trasformerà in una crisi finanziaria generalizzata. Nel mondo l’economia continua a crescere rapidamente. La crescita consente agli investitori di assorbire le perdite ed evita che il contagio si diffonda» («Corriere della Sera», 4 agosto 2007). Nei mesi in cui la crisi muoveva i primi passi, anche un altro autorevole commentatore economico del «Sole 24 Ore» non fece mancare al coro la propria voce, scrivendo, nell’agosto del 2007: «Nelle prossime settimane, una volta superata l’emergenza, si potranno valutare anche le conseguenze reali di questa crisi» («Il Sole 24 Ore»). E diversi mesi dopo, contrastando le fosche previsioni di alcuni analisti (tra cui soprattutto Nouriel Roubini), replicava il medesimo motivo: «Io non sono pessimista come Roubini né per gli Usa né per l’Europa e tantomeno per l’Italia. Grazie al dollaro debole, come sempre fanno, gli Stati Uniti stanno esportando un po’ dei loro problemi. Per questo, la loro recessioni non sarà così grave. Di questa situazione tuttavia, per forza di cose, l’Europa ne risente. Ma anch’essa sta spalmando i contraccolpi della crisi americana in tutto il mondo. L’Italia, a sua volta, eredita questi scompensi e dovrà tirare un po’ la cinghia. Si sentono tanti allarmi, tanti bla-bla. Ma se i nostri fondamentali sono buoni – e sono buoni – che importa se per un anno, questo, ci sarà crescita zero? Ripeto: io non sono pessimista. Al massimo, vorrà dire che noi tutti soffriremo un po’ di più» («la Repubblica», 29 febbraio 2008).
È naturalmente difficile capire per quale motivo esperti così stimati e autorevoli abbiano sbagliato in modo così clamoroso, non su un piccolo dettaglio, ma su uno degli eventi economici più importanti degli ultimi centocinquanta anni, e non a distanza di decenni, ma solo di alcuni mesi (o poche settimane). Le spiegazioni che sono state fornite chiamano in causa la deriva ‘tecnicista’ della scienza economica, che si affiderebbe ormai soltanto a modelli matematici, ripetitivi, senza contatto con la realtà dei processi economici, e perciò incapaci di prevedere l’irrompere sulla scena del ‘cigno nero’, ossia dell’evento imprevisto – e imprevedibile – che muta la direzione della storia. In questo modo, forse, si finisce con l’investire un immenso campo disciplinare di tutte colpe, e probabilmente vengono coinvolti in questa critica anche economisti seri e responsabili. Ma, soprattutto, si finisce col pensare che davvero quelle previsioni, così solennemente pronunciate dagli esperti citati, abbiano alle spalle una meditata riflessione, e non siano invece l’esito di convinzioni ideologiche – sempre quelle, a ben vedere – declinate, semplificate, deformate, stiracchiate fino al punto da poter diventare un abito buono per ogni stagione e per ogni situazione. D’altro canto, più ancora delle previsioni clamorosamente smentite, appaiono formidabili – nell’esemplificazione di una presunzione esaltata da una protervia nichilista – le giustificazioni elaborate all’esplosione della crisi. E addirittura proverbiale è diventata quella proposta sulle pagine della «Repubblica» da Tito Boeri e Luigi Guiso, a proposito della crisi dei mutui subrime negli Usa: «Tre fattori contribuiscono alle difficoltà dei mercati finanziari indotte dai (temuti) defaults sui muti subprime negli Stati Uniti: i) la bassa alfabetizzazione finanziaria delle famiglie; ii) l’innovazione finanziaria insista nella massiccia cartolarizzazione di attività illiquide e iii) la politica dei bassi tassi d’interesse seguita dalla Fed dal 2001 al 2003» («la Repubblica», 22 agosto 2007).
Se i clamorosi errori di valutazione accumulati negli ultimi anni rimangono un mistero, gli storici di domani probabilmente non si chiederanno perché gli economisti non abbiano previsto l’irrompere della crisi, bensì perché il mondo occidentale abbia riconosciuto (e continui ancora oggi a riconoscere) un prestigio sociale tanto elevato a osservatori le cui capacità divinatorie si sono rivelate così drammaticamente e palesemente inferiori a quelle di tanti cartomanti da trivio. Ma, prese nel loro complesso, queste posizioni confermano almeno due cose: in primo luogo, il carattere ‘ideologico’ che la scienza economica – come ogni scienza sociale – porta inscritto nel proprio codice genetico, nell’utilizzo di categorie che – come avviene per concetti all’apparenza più evanescenti, come ‘democrazia’, ‘politica’, ‘Stato’, ‘nazione’, ecc. – ‘incorporano’ un determinato assetto delle relazioni di potere; in secondo luogo, il fatto che da questa distorsione ‘originaria’ scaturiscono una serie di errori fondamentali e una lettura del tutto deformata della realtà contemporanea delle nostre economie (come, per esempio, l’idea che sia effettivamente possibile scindere l’economia reale dall’economia finanziaria, e che, dunque, sia davvero utile guardare ai «fondamentali», come se fossero qualcosa che non ha nulla a che vedere con l’economia finanziaria).
La risposta al quesito sui motivi che stanno alla base degli sconcertanti abbagli di molti osservatori non è, a ben vedere, così misteriosa. Nella logica dell’informazione, gli esperti non servono effettivamente a ‘comprendere’, ma solo a proporre qualcosa di ‘premasticato’ e ‘preruminato’, se non addirittura soltanto a riempire con qualche commento e qualche provocazione uno spazio altrimenti destinato a restare bianco. Nelle loro acrobazie, non fanno che esercitarsi sul filo di quelle convenzioni che – come ha sostenuto Francois Orléan (vedi in particolare i contributi raccolti in Dall’euforia al panico. Pensare la crisi finanziaria e altri saggi, a cura di Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli, Ombre corte, Verona, 2010) – sono il vero metro che gli operatori finanziari adottano per orientarsi. E il pubblico, in questo gioco delle parti, sembra condannato a ‘digerire’ tutto, e a procedere spedito – come scriveva Donati – verso «l’affondamento del genere umano nell’idiozia».
Anche in questi giorni, gli editoriali di osservatori, economisti ed esperti finanziari non fanno che girare attorno all’orlo di un pozzo che non viene mai nominato, se non per escludere l’eventualità che ci si possa cadere, o per agitare questa possibilità come formidabile arma di ricatto politico. Ma, nonostante tutte le rassicurazioni, è ormai chiaro che l’eventualità di una fuoriuscita dall’euro da parte dei cosiddetti Piigs è assai più probabile che la loro permanenza, così come la prospettiva del default da parte di Grecia, Italia (e forse Spagna) appare molto più realistica – e opportuna – di improbabili ‘riforme strutturali’, in grado, al tempo stesso, di tagliare la spesa pubblica, aumentare le tasse e far ripartire l’economia. Ovviamente, di tutto questo trapela ben poco sulle pagine dei nostri quotidiani, e il rischio dei prossimi mesi sarà quello di imporre a Italia e Spagna sacrifici drammatici, ma del tutto inutili, come quelli che sono stati imposti ai cittadini greci nell’ultimo anno. E con prevedibile puntualità, gli esperti non faranno mancare l’indicazione di ricette per tornare a crescere (un esempio si può trovare sul «Corriere della Sera» del 24 ottobre 2001, dove Alesina e Giavazzi, proprio quelli che non avevano previsto nulla della crisi finanziaria in arrivo nel 2008, stilano addirittura un decalogo di riforme in grado di ‘rilanciare’ l’economia italiana).
In questo mare di omertoso silenzio e di furore ideologico, il nuovo pamphlet di Loretta Napoleoni, Il contagio, benché fornisca una visione un po’ troppo apologetica degli indignados (e un po’ troppo indulgente nell’appoggiare l’inclinazione ‘impolitica’ di questa protesta), ha almeno il merito di fornire una onesta analisi dell’attuale crisi europea. La tesi di fondo di Napoleoni è che le rivolte della ‘Primavera araba’ sono destinate a contagiare anche la sponda settentrionale del Mediterraneo, e che le popolazioni di Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e forse della Francia si troveranno a combattere una pacifica rivolta contro élite corrotte e incapaci, la cui miopia ha condotto alla situazione attuale. In questo senso, Napoleoni considera gli indignados della Puerta del Sol come un’anticipazione dei movimenti che, nei prossimi mesi, costringeranno le leadership europee ad abbandonare il campo a nuove leve e, soprattutto, ad adottare nuove linee di intervento in campo economico. Forse Napoleoni sottovaluta le attitudini trasformistiche della classe politica mediterranea, ma il punto è che secondo l’economista – come scrive nel Prologo, scopertamente apocalittico – siamo alla vigilia di un mutamento radicale, forse persino ai primi passi di una rivoluzione pacifica:

«Un virus micidiale aleggia sul Mediterraneo. Dal Nordafrica viaggia verso l’Europa, apparentemente inarrestabile. A maggior rischio è la parte più giovane della società civile, ma anche i meno giovani possono infettarsi.  È la peste democratica. La pandemia rivoluzionaria minaccia persino l’America, il cuore dell’Impero occidentale globalizzato. È lo spauracchio di tutti, ma proprio tutti i politici del mondo: il contagio. Per questo virus infatti non esistono anticorpi né antibiotici, è un’infezione atipica, nuova frutto della confluenza di due epidemie: la crisi del debito sovrano e quella di istituzioni politiche ormai fuori tempo e fuori uso. La prima fiacca la ricchezza, ovvero il sistema immunitario dei Paesi, la seconda ne attacca gli organi di governo. Se non contrastato, il contagio potrebbe distruggere a Nord gli agonizzanti sistemi democratici europei con la stessa forza e determinazione con la quale a Sud si fa strage delle dittature arabe. La domanda è: sarebbe un male?» (ibi, p. 13).

L’analisi di Napoleoni sviluppa l’analogia fra le rivolte della ‘Primavera araba’, che si sono indirizzate contro oligarchie corrotte, e le prossime rivolte dell’indignazione, che in Europa stanno iniziando a mettere sotto accusa le leadership del Vecchio continente. Ma il focus della sua rilettura si rivolge soprattutto sulle origini (e sui probabili sviluppi) della crisi dell’euro. E l’inizio è individuato proprio nel fatale passaggio dei primi anni Novanta, quando si pongono le basi della moneta unica. L’entrata nell’euro viene considerata come un’opportunità positiva per Paesi ricchi e scarsamente indebitati come Germania e Francia, perché una moneta ‘debole’ (più debole del vecchio marco) può rendere più competitive le esportazioni dei loro prodotti (e infatti la Germania è oggi il secondo esportatore mondiale dopo il colosso cinese). A Paesi come l’Italia, l’adozione della moneta unica può invece consentire di accedere al mercato dei capitali in modo più agevole, ossia a tassi di interesse più bassi (dal momento che con l’euro non saranno più possibili svalutazioni delle monete nazionali). Per rispettare i parametri fissati dal Trattato di Maastricht, tutti i governi impongono una disciplina ai loro conti. Ma – come si scoprirà diversi anni dopo – spesso questa apparente disciplina nasconde una realtà ben diversa, anche perché non viene neppure intaccata la spirale di corruzione, evasione fiscale e gestione clientelare della spesa pubblica. Il caso italiano da questo punto di vista è emblematico: nel periodo dal 1993 al 2000, la spesa pubblica diminuisce in termini reali del 5,14%, ma nel periodo successivo – dal 2001 al 2008 (e cioè prima della crisi) – torna a crescere del 20% (cfr. pp. 57-58). Naturalmente, questo può stupire chi ha creduto che le riforme dell’amministrazione pubblica, le privatizzazioni, le esternalizzazioni, la riforma del titolo V, l’equiparazione dei pubblici dipendenti a quelli privati, le misure efficientistiche potessero produrre realmente una razionalizzazione della spesa dello Stato. Ma non stupisce affatto chi ha visto, nelle misure della pretesa ‘razionalizzazione’, una realtà opposta: perché si sono semplicemente aumentati i margini di discrezionalità della classe politica, si sono creati centri di spesa totalmente fuori controllo e si sono ‘legalizzati’ i legami clientelari, col risultato paradossale che a uscire rafforzata da un ventennio di ‘riforme’ e ‘liberalizzazioni’ (vere o solo proclamate) è stata soltanto quella ‘casta’ pletorica e parassitaria verso cui si indirizza – ormai quasi in modo unanime – il disprezzo dei cittadini italiani.
La crescita della spesa pubblica segue peraltro, dopo il 1993, sentieri spesso occulti. Come ormai è risaputo, la Grecia opera sulla propria contabilità una serie di operazioni finalizzate a mascherare l’effettivo superamento della soglia del 3% del Pil fissato dal Trattato di Maastricht, e altri Paesi fanno sostanzialmente la stessa cosa. Oltre a questo meccanismo, i governi nazionali riescono ad evitare il controllo sulla spesa mediante i cosiddetti currency-swaps, un tipo di derivati che nascondono un prestito trasformando un debito presente in una passività futura. Inoltre, enti locali e regioni accedono alla ‘cartolarizzazione del debito’, senza che simili operazioni vengano inserite nella contabilità nazionale. Questo meccanismo – che è stato adottato da tutti i Piigs – è il motivo principale per cui, come scrive Napoleoni, le dimensioni reali del debito greco rimangono sostanzialmente sconosciute:

«Il debito greco come quello degli altri Piigs è ingestibile soprattutto perché […] nessuno ne conosce le dimensioni reali. E vale la pena di elencare i futuri atti di questa moderna tragedia greca. Ufficialmente, ad agosto del 2011, Atene deve ripagare 6 miliardi di euro, che non ha e che l’Unione europea le ha anticipato. Nel 2012, poi, ci sono altri 14,4 miliardi da restituire entro marzo, 8 entro il 18 maggio e ulteriori 7 ad agosto, per un totale di quasi 30 miliardi di euro. Quante nuove scadenze compariranno nel corso del tempo? Da dove arriveranno tutti questi soldi se il Paese è a crescita negativa e non ha più accesso al mercato del credito? La risposta è il cosiddetto Piano Marshall europeo. Trentacinque miliardi di euro!» (ibi, p. 67).

Il punto chiave del pamphlet di Napoleoni consiste però nelle strategie di uscita da questa situazione. In sostanza, si tratta di una crisi simile a quella in cui si trovò l’Argentina nel 2001, anche perché alcune delle cause sono analoghe. Anche l’Argentina aveva infatti agganciato la propria moneta al dollaro, privandosi così della possibilità di svalutare, ma evitando il rischio dell’inflazione. Inoltre, il Paese latino-americano aveva adottato una serie di riforme strutturali, come la privatizzazione delle pensioni. Per alcuni anni, gli effetti furono positivi, ma, dopo la crisi asiatica, l’impennata degli acquisti delle obbligazioni argentine fece esplodere la bolla speculativa, mentre la crisi economica brasiliana inflisse il colpo di grazia, determinando un rallentamento della crescita e, dunque, la difficoltà da parte dello Stato di onorare il debito. L’economia argentina si disgregò nel giro di poche settimane, e la situazione politica divenne ingovernabile. A questo punto, la bancarotta argentina innescò un’inversione di marcia, e, dopo un periodo di difficoltà, il Paese adottò una formula fondata su inflazione e crescita (e dunque una formula completamente diversa da quella prescritta dal Fmi). Ed è proprio questa la strada che Napoleoni – pur con le inevitabili differenze – ritiene debba essere imboccata dai Piigs.
In effetti, oggi le economie dei Piigs si trovano stretti in una tenaglia: per rispondere alle richieste della Bce e dei Paesi ‘forti’, i Piigs dovrebbero adottare riforme ‘draconiane’, volte ad aumentare l’imposizione fiscale e a tagliare la spesa pubblica (riducendo il personale delle pubbliche amministrazione o tagliando i salari); queste misure avrebbero però effetti depressivi su una crescita peraltro già estremamente esile, e così la riduzione degli introiti fiscali aggraverebbe ulteriormente lo stato dei conti pubblici. Ma, ovviamente, il vero scopo di queste misure non consisterebbe tanto negli effetti reali sui conti pubblici, quanto negli effetti ‘psicologici’. Effetti che consistono nell’introduzione di ‘privatizzazioni’ e ‘liberalizzazioni’, oltre che  nella ‘rassicurazione’ (temporanea) dei mercati. 
Se la soluzione per Napoleoni non passa per il taglio della spesa pubblica, non può che passare invece dalla svalutazione. Ma una simile soluzione richiederebbe ovviamente l’uscita – almeno temporanea – dei Piigs dall’area dell’euro e, soprattutto, la dichiarazione della propria insolvenza. La prospettiva della bancarotta dello Stato viene presentata in termini catastrofici in modo quasi unanime. E, in effetti, ripensando al fallimento della Germania di Weimar – rievocato da Adam Fergusson, in Quando la moneta muore, Neri Pozza, 2011, preceduto peraltro da una prefazione della stessa Napoleoni – è chiaro che il default può comportare elevatissimi costi sociali (anche se è bene ricordare che il caso tedesco nasceva da una condizione opposta di sistematico ricorso alla svalutazione e di inflazione totalmente fuori controllo). Napoleoni – esaminando il caso dell’Argentina e dell’Islanda – punta invece a mostrare come l’ipotesi del default non sia né apocalittica, né necessariamente disastrosa per la popolazione. Sono da questo punto di vista da leggere con attenzione i passaggi conclusivi del pamplhet:

«Le esperienze dell’Argentina e dell’Islanda ci insegnano che un default pilotato attuisce l’impatto negativo sull’economia nazionale. Se si riesce a garantire il debito interno l’economia non precipita nell’abisso. Per farlo, un Paese come l’Italia deve trovare circa 800.000 miliardi, un po’ più della metà del debito pubblico, quella fetta insomma che hanno sottoscritto banche e cittadini. L’unico modo è una tassa secca, una tantum sul patrimonio. E dato che l’un per cento della popolazione detiene il 45 per cento della ricchezza, è già chiaro chi dovrà pagare.
Diverso è il discorso per il debito pubblico nelle mani degli operatori esteri, con i quali bisognerà negoziare una ristrutturazione. E qui entra in gioco l’effetto domino. Dato che una grossa fetta è stata acquistata dalle banche francesi e tedesche, saranno queste a incassare il colpo. Se anche il resto dei Paesi Piigs scegliesse la strada del default pilotato, allora sicuramente una buona parte di queste banche rischierebbe il fallimento.  Dunque è possibile che il default pilotato dei Paesi deficitari trascini nella stessa melma anche quelli ricchi.  Ciò che Germania e Francia vogliono evitare a tutti i costi» (ibi, p. 169).

Naturalmente, Napoleoni è ben consapevole delle difficoltà che uno scenario del genere presenta, perché la svalutazione rischierebbe di alimentare le tensioni fra gli Stati dell’Ue, e perché una decisione di questo tipo avrebbe conseguenze dirompenti a livello politico. Ma, con ogni probabilità, è proprio questo lo scenario verso cui l’Ue si muoverà nelle prossime settimane.
Dinanzi alle ricette che vedono nella ‘liberalizzazione’ la panacea capace di risolvere la crisi, sarebbe forse opportuno ricordare che la costante flessibilizzazione del mercato del lavoro, l’aumento degli orari di lavoro, la ‘rivoluzione tecnologica’ degli anni Novanta e l’ascesa del modello Walmart non hanno condotto negli Stati Uniti a un rilancio sostanziale e continuativo della crescita, e che la strutturale ‘finanziarizzazione’ nasce proprio da questa strisciante e perdurante crisi di profittabilità, così come scaturisce da questo contesto anche la vertiginosa crescita fatta registrare dal debito pubblico americano negli ultimi anni. 
Oggi bisogna forse riconoscere – come sostiene persuasivamente Napoleoni – che la prospettiva del default (di un default pilotato) è probabilmente inevitabile.  Che si tratta di una prospettiva che certo imporrà molti costi, a livello interno e a livello internazionale, e che avrà ricadute imprevedibili per lo stesso futuro dell’Unione Europea. Ma che, in ogni caso, una simile soluzione comporterà sacrifici molto meno gravi di quelli che sarebbero richiesti da un ormai sempre più improbabile salvataggio dell’euro, e che colpirebbero in modo drammatico – e duraturo – le giovani generazioni, il profilo industriale dell’Italia e l’insieme dei ‘beni comuni’. Forse è meglio iniziare a pensarci seriamente, con realismo e senza infingimenti. Per evitare di seguire la Grecia su un sentieri di drammatici sacrifici, che non condurranno ad alcun risultato.


Damiano Palano



Questo testo è ora raccolto in La dissolvenza democratica. Cronache nella crisi, un e-book che raccoglie alcuni posti apparsi sul maelstrom.

Il libro è disponibile anche in formato cartaceo.




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