lunedì 24 luglio 2017

Quell’abuso di retorica che erode il valore delle parole e uccide la democrazia. Un libro di Mark Thompson sulla "fine del dibattito pubblico"



 di Damiano Palano

Questa recensione al volume di M. Thompson, La fine del dibattito pubblico, (Feltrinelli, Milano, 2017), è apparsa su  «Avvenire» il 5 luglio 2017.

In un famoso saggio apparso nel 1946 George Orwell sostenne che il caos politico che regnava allora nel Vecchio continente (e nel Regno Unito) non era solo la conseguenza delle difficoltà economiche e sociali. La vera causa, sosteneva lo scrittore, era la decadenza del linguaggio, che, per quanto originariamente favorita dal contesto, aveva col tempo contribuito ad aggravare ulteriormente la situazione. Dal momento che i politici dovevano difendere cose indifendibili, come la dominazione coloniale, le deportazioni o l’utilizzo delle armi atomiche, il loro linguaggio doveva fare ricorso a eufemismi, ad argomentazioni fallaci ed espressioni fumose come «pacificazione», «trasferimento di popolazione», «eliminazione di elementi inaffidabili». «Questa fraseologia», osservava, «è necessaria se si vuole nominare le cose senza evocarne un’immagine mentale». Ma le conseguenze rischiavano di diventare disastrose e di aprire il varco a quella «Neolingua» totalitaria di cui Orwell avrebbe fornito una formidabile esemplificazione nelle pagine di 1984.


 Leggendo La fine del dibattito pubblico di Mark Thompson (Feltrinelli, pp. 429, euro 22.00), è difficile non cogliere un’eco lontana del vecchio saggio di Orwell. Perché anche il giornalista britannico – in passato direttore generale della Bbc e oggi amministratore delegato del «New York Times» - tende a riconoscere nella trasformazione del linguaggio politico una delle principali cause della crisi che investe tutte le democrazie occidentali. Benché non sottovaluti il ruolo giocato dalla frammentazione politica, dall’ascesa del populismo, dall’apatia di molti cittadini e dal declino dell’impegno civico, Thompson ritiene infatti che al cuore dei problemi stia proprio la «crisi del linguaggio politico». Naturalmente la diffidenza nei confronti degli usi demagogici della retorica ha una storia lunga almeno duemilacinquecento anni. E Thompson è consapevole di riformulare critiche tutt’altro che inedite. A suo avviso una serie di trasformazioni – di cui è stato personalmente testimone, come giornalista impegnato sulle due sponde dell’Atlantico per più di tre decenni – ha però progressivamente modificato il quadro.
A partire dagli anni Ottanta, per rispondere alla sfiducia con cui gli elettori guardavano ormai alla classe politica, nuovi leader iniziarono a utilizzare strategie retoriche inedite e più aggressive. Contemporaneamente, i sound bites – i frammenti dei discorsi dei politici riportati nei notiziari – si accorciavano bruscamente a qualche decina di secondi. E anche i tempi di confezionamento delle notizie si riducevano notevolmente, specie dopo la nascita di canali all-news come Cnn, favorendo inevitabilmente superficialità, distorsioni ed errori. Per far fronte al nuovo contesto, i politici ricorsero senza troppe remore ad affermazioni esagerate e irresponsabili, presentate invariabilmente come ‘dati di fatto’. E ogni spin doctor divenne sempre più abile a prevedere le ricadute di un’affermazione o di una battuta di spirito in una campagna ormai di fatto permanente. Tutte queste tendenze secondo Thompson hanno progressivamente rotto ogni equilibrio tra logos, ethos e pathos. Ma, soprattutto, hanno lentamente eroso le stesse condizioni che rendono possibile il dibattito pubblico, ossia la fiducia nella buona fede dei politici e nel valore delle loro parole. Familiarizzati all’idea che la politica non sia altro che uno spettacolo mediatico, i cittadini occidentali guardano infatti ai loro leader con la sensazione che si tratti di attori in grado di recitare battute in cui non credono, o persino di simulare un’artefatta autenticità, con il solo obiettivo di ottenere consensi elettorali. Le basi su cui si regge la democrazia diventano così sempre più fragili non per gli effetti nefasti di una «Neolingua», ma perché l’abuso della retorica, consumata da un interminabile spettacolo politico, ha dissolto il significato condiviso delle parole.
Certo, come ricorda Thompson nelle pagine conclusive, è possibile tornare indietro. Ma il contesto in cui si svolge il confronto politico tende a offrire ben pochi spazi a una discussione non piegata alle logiche della campagna permanente. E sembra davvero difficile uscire dal circolo vizioso di esagerazioni retoriche e cinismo. 

Damiano Palano

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