lunedì 15 febbraio 2016

Il sorteggio salverà la democrazia? "Contro le elezioni" di David van Reybrouck




di Damiano Palano

Una battuta di spirito attribuita a Clement Attlee dice che la democrazia è il governo attraverso la discussione, ma che il governo può effettivamente attuarsi solo se a un certo punto si riesce a far smettere le persone di parlare. Al di là del sarcasmo, la frase di Attlee coglie la tensione strutturale tra la partecipazione e la decisione che caratterizza la forma democratica, e che per molti versi ne garantisce la vitalità. Secondo molti osservatori dei nostri sistemi politici proprio la relazione tra questi due elementi sembra oggi entrare in crisi. Per un verso, molti segnali testimoniano la crescita della sfiducia dei cittadini non tanto verso la forma democratica, quanto verso la classe politica, i suoi leader e i partiti. Per l’altro, gli strumenti a disposizione dei governi sembrano sempre più inadeguati a controllare e regolare i flussi di un mondo globalizzato. Se più o meno tutti gli studiosi sono concordi nel rilevare i sintomi del «disagio» delle nostre democrazie, le opinioni sono però molte diverse a proposito del riconoscimento delle cause profonde del processo. E naturalmente sono abissalmente distanti soprattutto le soluzioni proposte per rivitalizzare le istituzioni democratiche. 
In questo fitto dibattito si inserisce anche Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico (Feltrinelli, pp. 158, euro 14.00), un pamphlet del saggista e poeta belga David van Reybrouck, già noto in Italia per il reportage Congo (Feltrinelli). La tesi di van Reybrouck è in fondo molto semplice (e probabilmente semplicistica). Secondo la sua lettura, la «sindrome da stanchezza democratica» è causata principalmente dal fatto che la democrazia rappresentativa odierna si basa esclusivamente sulle elezioni. «Abbiamo ridotto la democrazia a una democrazia rappresentativa e la democrazia rappresentativa a delle elezioni», scrive per esempio l’intellettuale belga. Se fino a qualche decennio fa le elezioni erano il «combustibile fossile della politica», ora la situazione sembra infatti almeno parzialmente cambiata. In primo luogo, la logica della ‘campagna permanente’ induce i leader politici a pensare alle prossime elezioni, più che all’efficacia della propria attività di governo. Inoltre, la legittimità degli attori politici – esposti costantemente sotto la luce dei riflettori – tende a diventare sempre più fragile. E così una democrazia che si basi ‘soltanto’ sulle elezioni rischia di diventare, al tempo stesso, meno efficiente e meno legittima. 
L’aspetto più controverso del pamphlet di van Reybrouck consiste però nella proposta di reintrodurre il sorteggio come criterio per selezionare i rappresentanti politici. A differenza di quanto facciamo oggi, nell’Atene democratica del V secolo a.C., l’elezione era considerata uno strumento quasi inevitabilmente oligarchico. Al contrario, l’estrazione a sorte dei magistrati era concepita come lo strumento in grado di consentire la legittimità e l’efficacia degli organi politici: perché garantiva una reale rappresentanza della base sociale, perché impediva la concentrazione del potere in gruppi ristretti, e perché rendeva possibile la partecipazione dei cittadini all’esercizio del potere. E sono questi stessi elementi che dovrebbero indurre anche oggi a reintrodurre il metodo del sorteggio. Non tanto per sostituire integralmente gli organi rappresentativi eletti, quanto per affiancarli con consigli di rappresentanti estratti a sorte, come è per esempio avvenuto in alcune sperimentazioni di democrazia deliberativa condotte (non sempre con successo) in Canada, Irlanda, Islanda e Olanda.
Nel pamphlet non è certo difficile riconoscere ben più di qualche semplificazione. Quando ritrova nell’Atene del V e IV secolo il modello di una democrazia basata sul sorteggio, van Reybrouck sottovaluta per esempio il fatto che in fondo conosciamo molto poco di come effettivamente avvenissero le operazioni di sorteggio. Inoltre, quando ricostruisce la genesi della democrazia rappresentativa, trascura quasi del tutto il fatto che le radici istituzionali e dottrinarie del sistema rappresentativo-elettivo affondano nella storia inglese (e non solo dunque nella costituzione americana e nella Francia rivoluzionaria). Ma nel discorso dell’intellettuale c’è un problema forse più rilevante. Il ragionamento prende infatti le mosse dal rapporto problematico tra legittimità ed efficacia dell’attività di governo. In altri termini, la crescente sfiducia dei cittadini nei confronti della classe politica si combina con la percezione della sempre più evidente incapacità dei governi nazionali di controllare e regolare i flussi di un mondo globalizzato. Ma van Reybrouck sembra aggirare completamente questo aspetto, riconducendo la mancata efficienza della democrazia solo alla classe politica e dunque ai tentativi di quest’ultima di preservare margini di potere, a scapito dell’effettiva capacità di governo. Non si tratta certo di un motivo sconosciuto in Italia, perché van Reybrouck – in questo davvero influenzato dal contesto politico belga – non fa altro che rispolverare la vecchia polemica contro il «proporzionalismo», che renderebbe strutturalmente fragili e incapaci di decidere i governi di coalizione. Scrive per esempio: «Ogni sorta di mali, più o meno definiti, indica che diventa sempre più difficile esercitare una gestione attiva. I parlamentari impiegano a volta una quindicina d’anni a votare una legge. I governi fanno sempre più fatica a formarsi, sono spesso meno stabili e, alla fine del loro mandato, sono puniti sempre più severamente dagli elettori. Le elezioni, cui partecipano sempre meno cittadini, costituiscono sempre più spesso un ostacolo all’efficienza». L'analisi di van Reybrouck non è singolare solo perché pare sottovalutare il peso che avuto negli ultimi trent’anni la ‘presidenzializzazione’ in molti paesi europei, ma anche perché dimentica come l’autonomia della classe politica sia stato uno strumento che ha consentito storicamente di limitare, o comunque contrastare, l’autonomia della burocrazia: un’autonomia che oggi non ha più il volto che aveva un secolo fa, ma che si presenta nella forma dei vincoli ‘tecnici’ all’azione di governo, e in particolare – nel Vecchio continente – sotto le spoglie del fatale «vincolo esterno». Ed è proprio la presenza di uno stabile apparato burocratico che modifica radicalmente la prospettiva con cui gli ‘antichi’ guardavano al sorteggio: ad Atene quasi tutte le cariche venivano assegnate per sorteggio e per periodi limitati di tempo, perché di fatto non esisteva una ‘macchina’ amministrativa deputata alla gestione degli affari comuni e formata da personale stipendiato. Ma ovviamente questa non può più essere la nostra prospettiva, ed è davvero ingenuo pensare che quei vincoli ‘tecnici’ che neppure organi legittimati dalla procedura elettorale riescono a rimuovere (o aggirare), possano essere superati virtuosamente da organi sorteggiati. D’altronde, è evidente che il sorteggio non può fare molto per risolvere gli enormi problemi ‘strutturali’ – come la ‘crisi fiscale’ dello Stato o l’invecchiamento della popolazione – che i sistemi occidentali si troveranno ad affrontare nei prossimi anni. E se proprio questa ‘dimenticanza’ rende quantomeno surreale la proposta di van Reybrouck, c’è un'altra dimensione problematica che sembra del tutto sfuggire alla sua attenzione. Non è infatti neppure detto che i rappresentanti estratti a sorte siano davvero immuni dalle pressioni cui sono soggetti i rappresentanti eletti. E non è dunque affatto scontato che, per il solo fatto di non puntare a un nuovo mandato, debbano rivelarsi davvero più ‘liberi’, meno soggetti all’influenza dei media e impermeabili ai mutevoli umori dell’opinione pubblica.

Damiano Palano

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