di Damiano Palano
segue da La sinistra nel labirinto della rivoluzione globale. Alcune annotazioni a partire da «Sinistra» di Carlo Galli 1/2
Questa recensione è apparsa (in una versione più breve) sul sito dell'Istituto di politica
Il caotico dibattito che ha scandito la campagna elettorale non ha comprensibilmente consegnato lo spazio che meritava all’analisi di Galli. Piegata sulla quotidianità, e spesso sui suoi risvolti più miserabili, la discussione non poteva certo affrontare con la dovuta serietà un ragionamento che, evidentemente, si colloca sui tempi lunghi e si proietta verso l’orizzonte dei prossimi decenni. Tra le voci che più da vicino si sono confrontate con le tesi di Sinistra, spicca però quella di Antonio Negri, che pur riconoscendo i meriti di un solido sforzo intellettuale, ha intravisto nel libro di Galli i contorni di un progetto nostalgico. In altre parole, Negri scorge nell’operazione di Galli il tentativo di resuscitare la vecchia doppiezza di Togliatti, ossia la capacità di rappresentare le classi subalterne e di esercitare, al tempo stesso, una funzione riformista nella gestione del governo (non più locale ma nazionale). In questo senso, il disegno di Galli sarebbe tutto incentrato su una ridiscussione del ruolo del Partito Democratico, che sarebbe invitato a porre fine alla frattura fra le ‘due sinistre’, fra i movimenti e l’istituzione-partito. In realtà, osserva però Negri, tutta questa operazione si fonda su un presupposto sbagliato, e cioè sull’idea che sia oggi ancora possibile quel «patto fra produttori» che il ‘modello emiliano’ realizzò concretamente fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, ma che si è ormai in larga parte dissolto. «Da troppo tempo non c’è più. È ancora possibile? Galli lo promette a nome della sinistra. Ma può esserci in una società dove il lavoro precario è ormai consolidato in una diseguaglianza di redditi enorme – questa sì, progressiva – bene, è immaginabile una simile ricostruzione, una seconda primavera della ‘differenza emiliana’? Ecco una bella utopia nostalgica, preteso programma progressivo, in effetti regressivo, da realizzare attraverso la vittoria elettorale della sinistra» (A. Negri, Vana ricerca del buon governo, in «il Manifesto», 2 febbraio 2013, pp. 10-11).
Una critica tanto severa prende le mosse dalla convinzione che il libro di Galli debba essere considerato come una sorta di manifesto elettorale del Pd bersaniano, perché – sebbene in modo un po’ evanescente – l’idea di ‘esportare’ a livello nazionale il ‘modello emiliano’ (insieme con il ‘patto fra produttori’ che lo ha storicamente contrassegnato) rappresenta davvero la cifra caratterizzante del progetto politico dell’attuale segretario democratico. Ma, a ben vedere, il saggio si Galli non può essere considerato né come un manifesto elettorale, né tanto meno come un tentativo di legittimare l’attuale fisionomia del Pd. Forse può essere inteso come il frutto di un impegno politico all’interno del Partito Democratico, o persino come l’episodio di una battaglia – condotta con le affilate armi della riflessione filosofica – diretta a spingere questo partito verso una certa direzione, e farlo magari diventare una sorta di ‘partito del lavoro’. E, in questo senso, l’impegno politico di Galli all’interno del Pd si inscrive proprio all’interno di una visione progettuale alta, che considera praticabile la via di un «New New Deal», ossia non solo di un rovesciamento dei rapporti di forza, ma soprattutto della costruzione di un nuovo quadro istituzionale in grado di ‘regolare’ i conflitti. «Questo non vuol dire riproporre un impianto socialdemocratico di stampo statualistico gigantesco», ha precisato Galli, ma piuttosto «cercare di ottenere i medesimi risultati che allora si ottennero: e questi furono, sono e dovranno essere in futuro, che la politica non stia più al comando del potere economico e del potere finanziario, ma si ponga invece, come minimo, come contropotere, come un potere concorrente rispetto ai primi due» (C. Galli – M. Revelli, New Deal cerca partito, in «Micromega», 2/2013, p. 96).
Naturalmente è scontato che si possano nutrire riserve sulle effettive possibilità del Pd odierno di avviare e sostenere il nuovo New Deal che Galli auspica, così come ci si può chiedere se davvero il Pd abbia la capacità di porsi in termini conflittuali – e non magari di semplice contiguità – rispetto ai ‘poteri forti’. E proprio simili perplessità sono per esempio sollevate da Marco Revelli, nel corso di una conversazione con Galli ospitata su «Micromega», quando sottolinea che il Partito Democratico non è stato immune dalla grande trasformazione che ha investito la politica e la società negli ultimi vent’anni: «Un partito come il Pd», dice infatti Revelli, «è un partito che non sta né fuori né contro i poteri forti; al contrario, ne è profondamente attraversato, condizionato e, in alcune sue componenti, si identifica con essi. Il sistema degli affari è diventato una componente fortissima della vita politica all’interno stesso dei partiti. Man mano che si affievoliscano la fiducia e la capacità di mobilitazione basate su un’identità collettiva, su un’adesione identitaria, si faceva più stretto il rapporto tra politica e denaro. Il costo della politica è progressivamente aumentato e ha assunto dimensioni scandalose, ma è il costo con cui le organizzazioni politiche si pagano la fedeltà dei propri seguaci e costruiscono la propria immagine» (ibi, p. 100).
All’indomani delle elezioni, molte delle polemiche che hanno scandito l’approssimarsi della consultazione si sono dissolte, il quadro che ci si attendeva – o che, quantomeno, si attendevano i più pessimisti – non solo si è puntualmente materializzato, ma si è materializzato con i contorni per molti versi ancora più cupi di una situazione di ingovernabilità pressoché ingestibile. Ma è forse in questo nuovo scenario che il ragionamento di Galli diventa ancora più interessante e lucido nel riconoscimento del passaggio di fase che stiamo attraversando. Non certo perché sia facile realizzare un nuovo New Deal. In un’economia dominata dai flussi finanziari, e in un mondo in cui il fronte ‘lavoro’ appare frammentato, scomposto, persino difficile da riconoscere, e forse impossibile da ricondurre sotto le insegne di qualsiasi organizzazione politica e sindacale presente e futura, diventa infatti molto complicato anche solo pensare – prima ancora che costruire – un equilibrato assetto istituzionale paragonabile al vecchio New Deal rooseveltiano.
Se i contorni di questo ‘nuovo compromesso’ rimangono ancora difficili da decifrare, il ragionamento di Galli riesce però a fornire una chiave di lettura del tutto adeguata per comprendere i rischi cui la sinistra si troverà esposta nei prossimi anni, rischi che la situazione italiana sembra già oggi palesare. Come sostiene Galli, la sinistra non solo è stata sconfitta radicalmente dalla quarta rivoluzione novecentesca, dalla rivoluzione globale, ma si è rivelata finora in larga parte incapace di rispondere a quella sfida. Per molti versi, è rimasta imprigionata nella gabbia della rivoluzione dello Stato sociale, una rivoluzione che certo ha scandito una fase importante nell’avvio del compromesso democratico post-bellico, ma le cui basi sono state travolte dalla trasformazione degli ultimi tre decenni. Il punto non consiste naturalmente nella rinuncia alla difesa dello Stato sociale, o ai diritti e ai principi che lo hanno contrassegnato. Ma consiste piuttosto nella dimensione in cui vengono ricercati gli strumenti per difendere questi diritti e questi principi. A dispetto della marcia compiuta dal processo di integrazione europea, e nonostante le principali misure di politica economica vengano ormai decise al livello europeo, la sinistra è sostanzialmente rimasta inchiodata alla sua dimensione nazionale, senza che quei labili raggruppamenti europei abbiano conquistato una rilevanza poco più che simbolica, e senza che i convegni che periodicamente coinvolgono i rappresentanti dei diversi partiti europei si dimostrino poco più che convention mediatiche. Naturalmente non si tratta di un problema che investa solo le forze di sinistra, ma il ritardo appare più evidente proprio su questo versante, perché emerge in modo particolarmente marcato il contrasto con la tradizione internazionalista del movimento operaio, il quale, già negli ultimi decenni dell’Ottocento, quando non esistevano comunicazioni telefoniche, collegamenti aerei o Internet, riuscì a organizzare mobilitazioni che coinvolsero simultaneamente milioni di lavoratori nei vari continenti. E, benché si tratti evidentemente di esempi non riproducibili nella realtà contemporanea, al confronto con quei lontani episodi non può che apparire quasi sconcertante l’assoluta incapacità dell’odierna sinistra europea, e degli stessi sindacati, di organizzare iniziative che vadano al di là dei confini nazionali, e che riescano – anche solo all’interno del perimetro dell’Ue – a guadagnare un ruolo poco più che simbolico.
A ben vedere, simili difficoltà non tradiscono soltanto un ritardo organizzativo, o una carenza di leadership, ma palesano soprattutto la difficoltà teorica (e ideologica) di uscire da quei confini entro cui, nella stagione aurea dello sviluppo europeo, si sono potuti incardinare le strutture del welfare e un impianto di salvaguardia dei diritti individuali. Ma questi confini tendono oggi a diventare le sbarre di una gabbia da cui diventa sempre più difficile evadere. E, dall’interno di questa gabbia, le uniche opzioni rimangono due. Da un lato, consegnare le briglie del comando all’Ue, ossia sposarne la vocazione tecnocratica, limitandosi a una funzione di legittimazione di scelte più o meno efficaci. Dall’altro, impugnare la bandiera della sovranità nazionale perduta, adottare la causa di una difesa ‘nazionalista’ e dunque – sotto il profilo economico – imboccare la strada di una politica protezionista, ambiguamente stretta fra un ‘sovranismo’ orgoglioso e tentazioni xenofobe.
Che questo scenario non si proietti in un futuro molto lontano, ma ci parli già dell’oggi, diventa evidente, guardando al risultato uscito dalle urne il 25 febbraio. Certo è vero che è finita la stagione delle «due sinistre», perché la vecchia «sinistra radicale» – con la sconfitta della malriuscita operazione elettorale di Rivoluzione civile e la sostanziale irrilevanza di Sinistra Ecologia e Libertà – appare davvero uscita di scena, probabilmente in modo irrimediabile. Ma il risultato non è affatto un compattamento dell’unica sinistra rimasta sulla scena, perché quest’ultima risulta anzi indebolita, insidiata, persino scalzata da una forza come il Movimento 5 Stelle. Una forza indecifrabile, in cui si può vedere qualsiasi cosa e che si può interpretare in mille modi. Ma la cui fortuna, imprevedibile anche solo dodici mesi fa, è probabilmente solo il primo frutto della grande crisi che stiamo attraversando. Una crisi economica, sociale e politica che trascina con sé, insieme all’edificio europeo, una sinistra incapace di raccogliere la sfida di quella che Galli chiama la «quarta rivoluzione» novecentesca. Perché per molti versi – nonostante il ‘populismo’ di Grillo e il profilo del M5S rimangano ancora del tutto enigmatici, e aperti a mille possibili evoluzioni – il risultato delle elezioni di febbraio prefigura molto probabilmente la sagoma che assumeranno le rivolte dei prossimi anni, quantomeno nei paesi meridionali dell’Ue. Rivolte che effettivamente si collocano al di là di ciò che abbiamo finora chiamano ‘sinistra’ e ‘destra’, e che finiranno forse col dare un nuovo significato a questi termini. Ma in cui non è affatto escluso che ad avere la meglio siano proprio le tentazioni protezioniste, o persino xenofobe, semplicemente perché si tratta della soluzione all’apparenza più immediata. Con il rischio inevitabile che il Vecchio continente si incanali in una spirale di ritorsioni e chiusure. E dunque verso una crisi del processo di integrazione di cui non è neppure possibile immaginare le conseguenze di medio e lungo periodo.
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