venerdì 12 aprile 2013

La sinistra nel labirinto della rivoluzione globale. Alcune annotazioni a partire da «Sinistra» di Carlo Galli 1/2


di Damiano Palano

Questa recensione è apparsa (in una versione più breve) sul sito dell'Istituto di Politica

Quasi vent’anni fa, la campagna elettorale del 1994 precipitò l’Italia, nell’arco di pochi mesi, dall’entusiasmo forcaiolo dei giorni di Tangentopoli al clima di un infuocato conflitto ideologico, che rinfocolava odi a lungo rimasti sommersi, e di cui molti non sospettavano neppure lontanamente la residua forza. Se gli anni Ottanta erano stati dipinti come una stagione di ‘rinascita’ della democrazia dopo il periodo oscuro del terrorismo, con la scomparsa della Democrazia Cristiana e del partito di Craxi molti dei fantasmi del passato riemersero vigorosamente, conquistando il centro del proscenio. Di fronte all’ipotesi di una vittoria elettorale dei «Progressisti» si formò nell’arco di poche settimane un blocco eterogeneo che univa sotto un’unica bandiera gli eredi del Movimento Sociale, la Lega Nord e una nuova formazione, ancora misteriosa (e per molti inquietante), creata a tempo di record da Silvio Berlusconi. Nonostante entrambi gli schieramenti puntassero su un immagine di efficienza tecnocratica lontana dai tradizionali richiami all’appartenenza politica degli elettori, la campagna elettorale che precedette l’appuntamento del 27 marzo 1994 divenne forse una delle più ideologiche della storia repubblicana, e molti osservatori rilevarono paradossali analogie con le elezioni del 18 aprile 1948. All’acceso furore anticomunista sbandierato da Berlusconi, rispondevano gli allarmi lanciati da un vasto fronte di politici e intellettuali sul possibile avvento di un ‘nuovo fascismo’. E benché gli eredi principali del Pci e del Msi avessero dichiarato esplicitamente la loro rottura con il passato, nella realtà continuarono a lungo ad accusarsi reciprocamente di non aver compiuto una sincera e completa autocritica per le rispettive colpe.
Proprio in quei giorni usciva nelle librerie italiane un volumetto di Norberto Bobbio, Destra e sinistra, l’ennesimo della sua sterminata produzione. Nonostante non fosse né il prodotto migliore del filosofo torinese, né un lavoro particolarmente originale, Destra e sinistra divenne, in modo del tutto inaspettato, un vero e proprio best seller, conquistando per settimane il vertice delle classifiche di vendita. Il messaggio del libro era piuttosto chiaro, e lo stile didattico, insieme alla concisione dell’esposizione, lo rendeva appetibile a un vasto pubblico, solitamente disinteressato alle questioni di teoria politica. In sintesi, il discorso di Bobbio consisteva nel considerare l’opposizione destra-sinistra come una particolare espressione della dicotomica dell’universo politico. Più in particolare, sosteneva che l’idea «secondo cui la distinzione fra sinistra e destra corrisponde alla differenza fra egualitarismo e inegualitarismo», che quindi essa «si risolve in ultima istanza nella differenza di percezione e di valutazione di ciò che rende gli uomini eguali o diseguali». Per alcuni aspetti, l’operazione di Bobbio rischiava di apparire semplicistica, quantomeno perché collocava in un vuoto di determinazione storica una dicotomia concettuale elementare, che, in questo modo, invece di spiegare differenze e peculiarità, finiva con l’appiattire e confondere tutto. Forse anche per la struttura così elementare della sua proposta, Destra e sinistra divenne una vera e propria bandiera per i «Progressisti» italiani, allora alla disperata ricerca di un fondamento teorico. Rinnegato il loro passato per aspirare alla conquista dell’elettorato moderato, i nuovi leader della sinistra si aggrapparono in effetti a simboli del tutto a-ideologici e tranquillizzanti, come l’immagine di un arcobaleno o la fotografia di un neonato, oltre che a un concetto sbiadito come quello di «progresso». In questo quadro, il volumetto di Bobbio, travalicando i confini della letteratura scientifica, si tramutò in una sorta di piccolo manifesto politico per gran parte di quel «popolo della sinistra» che – orfano del marxismo, del socialismo e dei tradizionali riferimenti ideologici – aveva trovato in una singolare sintesi di furore antiberlusconiano e memoria antifascista la temporanea conferma della propria identità. 
A vent’anni di distanza, nei giorni di una campagna elettorale che forse non chiude la ‘Seconda Repubblica’, ma che ne certifica quantomeno lo stato di agonia, Carlo Galli torna sul quesito dell’identità della sinistra, tentando in particolare di comprendere quale sia il cuore più autentico di quel modo di vedere la realtà, e di quella modalità dell’appartenenza politica, cui è stato assegnato il nome di «sinistra». Sebbene l’uscita del volume, nuovo episodio di una lunga ricerca intellettuale, sia andata a coincidere con il momento più infuocato di una campagna che ha visto Galli schierato tra le fila del Partito Democratico, sarebbe ingeneroso – oltre che improprio – considerare Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia (Mondadori, Milano, 2013, pp. 165, euro 17.50) come un manifesto elettorale, o come un istant-book. Pur accostandosi all’odierna situazione italiana, il libro di Galli sviluppa infatti un ragionamento molto più ampio, che si interroga sui grandi mutamenti della politica globale, sulla sconfitta della sinistra novecentesca e sulla possibilità di dare ancora un significato a un termine che pare sempre più offuscato, se non addirittura inutilizzabile. 
Dal punto di vista teorico, l’analisi di Galli si lega alle tesi già sviluppate in Perché ancora destra e sinistra (Laterza, Roma – Bari, 2010). In quel pamphlet, Galli sosteneva che la distinzione fra destra e sinistra non deve essere ricercata nei contenuti di questi concetti, bensì nelle modalità in cui le sfide poste dalla storia vengono di volta in affrontate. La distinzione fra destra e sinistra, una distinzione che rompe l’unità del campo politico, è dunque una conseguenza della modernità, e del costante oscillare della modernità fra contingenza e necessità. E anche per questo – sosteneva Galli in quel volumetto – la dicotomia destra/ sinistra non può essere superata neppure nell’«età oltremoderna», sebbene i contenuti assegnati a una e all’altra parte non possano che modificarsi rispetto al passato, perché cambiano le modalità di intendere i soggetti, le loro energie, la loro progettualità. Al termine di quel volume, Galli scriveva infatti: «Il passaggio al postmoderno (ossia al globale) trasfigura […] sia la destra sia la sinistra, e fa perdere loro le tradizionali identità e forme politiche; ma – benché entrambe traggano dall’origine della modernità la loro ragion d’essere – non le rende obsolete come categorie della politica. E il passato non passa perché destra e sinistra siano acquisizioni permanenti, ma (solo) perché la moderna duplicità strutturale della politica, in sospeso fra anomia naturale e norma implicita nelle soggettività, ha sì perduto soggetti, forme e orizzonti ma non è sostituita da alcun terreno solido, da alcuna nuova Giustizia o da un suo equivalente funzionale che funga da metro, da misura, per nuove categorie della politica, e neppure da un nuovo fronte polemico capace di determinare un nuovo orizzonte di senso politico. Permane insomma la duplicità originaria del Moderno, anche se non le sue architettura politiche e istituzionali. […] Così, benché il mondo sia mutato, benché i problemi cambino e le soluzioni manchino, se la politica resta strutturalmente indeterminata, se le lenti categoriali restano queste – ovvero se la soggettività come fine in sé può essere, almeno nel discorso politico, ancora discriminante –, allora destre e sinistre continueranno a determinare lo spazio politico» (C. Galli, Perché ancora destra e sinistra, cit., pp. 77-78).
A distanza di qualche anno, Galli riprende il discorso, senza modificare naturalmente la chiave interpretativa generale, ma interrogandosi più specificamente su come possa oggi essere ridefinita la «sinistra», dinanzi al mutare dei soggetti e al tramonto delle progettualità novecentesche. Un aspetto cruciale del percorso di Galli consiste nella convinzione che la filosofia moderna offra una chiave essenziale per comprendere davvero la storia e la politica, e che dunque i significati mutevoli della sinistra possano essere compresi come riflessi del modo in cui – con strumenti filosofici differenti – viene raffigurato il rapporto fra la Parte e il Tutto. Come scrive infatti Galli: «‘sinistra’ è il nome di una Parte, di un settore della società e di uno schieramento ideale; ed è anche il nome di una direzione, di un orientamento che questa Parte, con l’azione politica, vuol dare al Tutto, all’ordine politico. Parte e Tutto si implicano l’una nell’altro. C’è l’una perché c’è l’altro. Come questa Parte venga individuata, in quale relazione stia col Tutto, come e a quali fini lo voglia trasformare, e con quali strumenti politico-istituzionali, sono questioni che si spiegano col risalire alle principali tradizioni filosofiche della modernità» (p. 13). Queste tradizioni sono per Galli principalmente il razionalismo, la tradizione dialettica, il pensiero negativo. Per il razionalismo – che da Hobbes e Locke arriva a Kant e a John Stuart Mill – «la parte è il singolo soggetto, che lotta per affermare i propri diritti contro le forze della tradizione, contro gli autoritarismi», e dunque la sinistra è «il luogo dei partiti progressisti, che progettano di allargare a tutti il godimento reale dei diritti, per realizzare l’uguaglianza democratica» (pp. 13-14). Per il pensiero dialettico, e in special modo nella tradizione marxista, la sinistra coincide invece con «lo spazio della classe operaia e del suo partito, all’interno di un Tutto, il capitalismo, che è conoscibile solo dalla Parte» (p. 14). Infine, agli occhi del pensiero negativo – che si muove fra Nietzsche, Heidegger, Derrida e Foucault, ma che influisce in profondità anche sulle altre tradizioni – «le Parti non si percepiscono all’interno di un Tutto, e anzi vi si sottraggono», tanto che la ‘sinistra’ in senso proprio non esiste: «esiste semmai il conflitto fra Parti diverse, che in linea di principio si equivalgono: le opzioni di valore a favore dell’una o dell’altra non sono razionali. La politica, qui, può essere narrazione o decisione, decostruzione critica o volontà di potenza, evento o mito, espressività o conflittualità; certo non progresso né rivoluzione» (p. 14).
Dal punto di vista politico, ognuno dei tre modi di rappresentare il rapporto fra la Parte e il Tutto produce conseguenze diverse, e soprattutto indirizza verso risposte differenti alle concrete sfide della storia. In questo senso, Galli individua nella storia del Novecento quatto grandi rivoluzioni, che scandiscono il «secolo lungo»: il comunismo, il fascismo, lo Stato sociale, il neoliberismo. «Queste quattro rivoluzioni, queste diverse forme di organizzazione delle cose umane», scrive Galli, «nascono da precise condizioni materiali, da rapporti di produzione, da livelli di tecnologia, da posizioni e da proiezioni di potenza interne e internazionali; ma trovano spiegazione e comprensione (e, in parte, autocomprensione ideologica) anche come momenti della concorrenza fra razionalismo, pensiero dialettico e pensiero negativo per attuare l’obiettivo del Moderno: per costruire la politica secondo la misura dell’uomo, cioè secondo la razionalità, la dignità, i diritti di ogni singolo – per individuare un’altra misura, oltre il soggetto» (p. 38). Naturalmente, nella ricostruzione di Galli è scontato che siano soprattutto le due ultime rivoluzioni ad avere un ruolo, perché è proprio in queste due tappe che si delinea la disgregazione politica e simbolica della sinistra contemporanea. E, soprattutto, perché è la globalizzazione neoliberista a scardinare le fondamenta della sinistra novecentesca. In particolare, lo Stato sociale è considerato da Galli nei termini di un compromesso fra capitale e lavoro, in cui socialdemocrazie e democrazia liberale vengono a convergere sull’idea che sia possibile conquistare «un equilibrio fra popolo e capitalismo»: «Un equilibrio di questo genere non si produce spontaneamente: è possibile in quanto è realizzato dalla politica, cioè dallo Stato che si rende garante dell’incontro fra capitale e lavoro; al primo lo Stato democratico mette a disposizione lo spazio politico interno come mercato nazionale (e apre spazi internazionali, come il Mec nel 1957); ai lavoratori dà l’inclusione, reale e non formale, nella vita associata con qualche chance per tutti (per molti, in realtà) di accedere, grazie alle politiche pubbliche (finanziate col prelievo fiscale), ai beni primari della salute, del lavoro, dell’istruzione. In questa rivoluzione nasce quella che abitualmente si intende per democrazia, che ai tempi della guerra fredda è stata la principale arma contro il modello sovietico, il vanto dell’Occidente, il compimento della parabola dello Stato moderno, la sua seconda vita dopo la crisi del liberalismo e dopo la notte totalitaria: il riformismo democratico, le riforme dall’alto, sulla base di istanze sociali (sia del capitale sia del lavoro) filtrate e gestite dal ceto politico e dai suoi tecnici» (p. 45).
La rivoluzione dello Stato sociale, e il compromesso fra capitale e lavoro, si basavano peraltro su una serie di presupposti economici, politici e sociali. E proprio il progressivo sgretolamento di tali presupposti ha preparato il terreno alla quarta rivoluzione, la rivoluzione neoliberista, di cui Galli riconosce le prime tracce nella svolta conservatrice di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan. Una svolta che non si limita a modificare la logica delle politiche keynesiane, ma che riscrive lo stesso rapporto fra le Parti e il Tutto. Per Friedrich von Hayek, scrive per esempio Galli: «il Tutto, ciò che è universale – appunto l’uguaglianza, la giustizia sociale, il bene comune, l’interesse generale, e le istituzioni che li perseguono, come lo Stato sociale e i socialismi in tutte le loro forme -, è una fallacia logica, psicologica e linguistica, e in politica è l’equivalente della dittatura; solo nel particolare, nella Parte, sta la libertà; solo nella libera interazione delle Parti c’è la possibilità dell’armonia e dell’equilibrio» (p. 49). Ma, al di là della specifica proposta teorica di Hayek, il neoliberismo si riflette, nella vulgata più popolare, soprattutto in un individualismo utilitaristico privo di limiti, che auspica l’espulsione della politica dalle cose umane. Un’espulsione della politica che è in realtà solo apparente, perché il neoliberalismo può realizzare la propria rivoluzione solo grazie a una dura lotta politica, e solo mediante un’inversione della logica operativa delle istituzioni politiche. «Insomma, la quarta rivoluzione del XX secolo consiste nel rilancio di una politica dinamica contro l’ordine statico del welfare, in un’introduzione di rischio, di conflitto, di insicurezza e di disuguaglianza – in varie forme – della società. Se le istituzioni politiche sono il tentativo di ridurre a zero il rischio – lo Stato moderno è un’impresa di sicurezza all’interno, e di rischio calcolato all’esterno – lo Stato sociale, che è il punto d’arrivo di questa tendenza, subisce, nella quarta rivoluzione, un vero smantellamento: starve the beast, affamare la bestia il grande Leviatano, è la parola d’ordine. Il welfare è ormai dipinto come occasione di potere per burocrati e politici di professione – autentici parassiti sociali – e come assistenzialismo immorale, ingiusto finanziamento di deboli, incapaci, fannulloni; semmai, è dall’arricchimento dei migliori che può derivare, per ‘sgocciolamento’ (il trickle down) un aumento del benessere delle masse» (p. 52). Ed è ovviamente la quarta rivoluzione novecentesca a determinare una crisi radicale per la sinistra novecentesca, o quantomeno per quella sinistra che aveva trovato il proprio fondamento nella democrazia post-bellica, nel compromesso fra capitale e lavoro, nella costruzione dello Stato sociale, nei grandi partiti di massa come mediatori e rappresentanti delle più differenti istanze sociali. Ma il risultato principale di questa quarta rivoluzione, agli occhi di Galli, è addirittura la distruzione di qualsiasi universale, o meglio la costruzione di «un mondo senza universale»: «Una società che si fonda sulla mobilitazione, e quindi sulla destrutturazione dello Stato (della sua stabilità, della sicurezza che ne proviene), e che al tempo stesso è anche, paradossalmente, la distruzione della Parte – dell’individuo – che dovrebbe esserne il centro, l’attore, il promotore. Il trionfo dell’avidità non è solo potenza ma anche debolezza, non è solo pienezza ma anche vuoto, non è solo ricchezza ma anche e soprattutto debito, non è esplosione di desiderio e di Vita ma precarizzazione e mortificazione della vita. La società del rischio distrugge il Tutto razionale e formale, e al tempo stesso mette a reprentaglio la Parte attraverso l’espropriazione dei mondi vitali in un’economia politica che sottomette tutta la vita al valore, al profitto, e che la espelle al contempo come priva di valore» (p. 63).
È all’interno di questo quadro interpretativo che Galli colloca la propria analisi della sinistra italiana, e in particolare della storia (e dell’eredità) del Pci. In questo senso, Galli riprende la vecchia tesi della «doppiezza» di Togliatti e del Partito comunista, ma ne modifica in larga parte il senso. La scelta del Pci del dopoguerra di conservare l’ambizione dell’«oltrepassamento» del capitalismo e, al tempo stesso, di trasformarsi in un partito saldamente incardinato nella dinamica di una democrazia liberale è intesa infatti da Galli come «una doppiezza strategica» che «non è malafede, ma che deriva dal cuore del pensiero dialettico (particolarmente se interpretato come storicismo), ossia dall’idea che il ritmo della storia e della politica è evolutivo, e che in ogni posizione (anche nella democrazia) è contenuto un elemento di contraddizione che la rende instabile, che le impedisce di essere la figura ‘ultima’ della storia, che anzi la mobilita verso il proprio oltrepassamento» (p. 69). Ma, forzando sullo stesso schema dialettico, il Pci si pone addirittura, più che come istanza di Parte, come «asse portante del Tutto – dello Stato democratico –, come cardine della democrazia repubblicana», oltre che come una forza che «ha scommesso sulla propria capacità di essere, rispetto a quel Tutto, anche la Parte capace di spostare avanti l’orizzonte della democrazia verso l’orizzonte del socialismo, pur accettando la democrazia come lo spazio che per intanto determina l’azione politica reale» (p. 70). Naturalmente, l’obiettivo del socialismo diventa a poco a poco un «mito», un «sogno», ma ciò non toglie – secondo Galli – che proprio questo riferimento consenta alla «doppiezza» di declinarsi in modo originale: per un verso, come rivendicazione del carattere di Parte, e, per l’altro, come trasformazione in «pilastro dello Stato e della democrazia», in «una forza capace di stare costruttivamente e progressivamente nella società proprio perché crede nella democrazia del presente e al contempo nel socialismo del mondo che verrà» (p. 72). 
Il riflesso più evidente della «doppiezza» del Pci è naturalmente il ruolo di governo assunto nelle amministrazioni locali della ‘zona rossa’. Le amministrazioni emiliane erano infatti, già nella lettura che ne diede Togliatti nella famosa conferenza del 1946 Ceto medio ed Emilia rossa, la prefigurazione di «una società che avrebbe dovuto essere un modello per la nazione», il modello di «quel ‘patto fra produttori’ che era il lato economico della ‘democrazia progressiva’» (p. 73), e che consisteva in sostanza nella capacità di assecondare il capitalismo, lo sviluppo locale, le istanze imprenditoriali, gli interessi dei ceti medi, garantendo al tempo stesso la diffusione di una solida struttura di welfare locale, buona amministrazione, sostegno ai ceti subalterni. Come scrive Galli a questo proposito: «la ‘differenza emiliana’ è consistita nel tentativo di assorbire le contraddizioni sociali attraverso l’inclusione democratica per via amministrativa. L’obiettivo era l’edificazione di una società progressiva ma prevedibile e pacificata, in cui le tensioni fossero gestibili e controllabili. Alla base c’era un dogma culturale e politico: tutto è gestibile, con il dialogo (col Pci da posizioni di forza, s’intende). La ricerca del consenso ha assunto di conseguenza il ruolo di una chiave universale: tutto si può fare con il consenso» (p. 77).
La forza della «doppiezza» del Pci inizia però ad esaurirsi già in corrispondenza con il momento di massima avanzata elettorale, in occasione delle consultazioni amministrative del 15 giugno 1975 e delle politiche del 20 giugno 1976. È in questo momento che, secondo Galli, «il Pci perde proprio l’energia delle Parti, poiché, mentre allarga la propria base elettorale, pezzi di società si allontanano dal partito e gli si lanciano contro», e perché in questo modo «perde anche la scommessa strategica di farsi Tutto non solo in quanto difensore dello Stato ma anche in quanto ammesso al governo» (p. 85). Naturalmente, Galli pensa al Settantasette bolognese, che per la prima volta vede un consistente movimento giovanile scagliarsi contro il Pci e contro la città vetrina della buona amministrazione comunista, ma pensa anche al terrorismo, le cui vicende vengono a calare il sipario sulla «fase espansiva della democrazia italiana» (p. 88). Da allora, e in particolare dopo la conclusione della parentesi del ‘compromesso storico’, il Pci appare sempre più disorientato, incapace di reagire alla nuova ondata che travolge l’Occidente e, di lì a pochi anni, il mondo intero. Negli anni Ottanta, il Pci si rinchiude in una «politica di denuncia» e appare sempre più come un «partito di fordisti spaesati fra gli yuppies» (p. 93). E anche la ‘svolta della Bolognina’, con tutte le successive (più o meno memorabili) svolte, non avrebbe modificato sostanzialmente il quadro di un disorientamento generale, declinato di volta in volta in una sorta di occasionalismo politico, in grado forse di afferrare le parole d’ordine del momento, ma del tutto incapace di formulare un progetto e di ridefinire un’identità. Ma, in questo caso, non si tratta solo di una storia italiana. Perché opportunamente Galli considera la Seconda Repubblica italiana come la declinazione locale di quella quarta rivoluzione novecentesca che modifica completamente il quadro in cui si era mossa la sinistra post-bellica. E sebbene il «comunismo» del Pci, in special modo quello delle amministrazioni ‘rosse’, avesse ben poco da spartire con l’Unione Sovietica, la sinistra italiana non poteva certo sottrarsi all’impatto di una travolgente ondata globale. «Il punto», scrive Galli, «è che la rivoluzione fa male a chi non la fa; e la quarta rivoluzione la sinistra l’ha subita» (p. 97).
Dinanzi a un simile scenario, Galli cerca di capire quale significato la parola «sinistra» possa ancora avere, quale compito le forze di sinistra debbano assumere, e soprattutto quante sinistre effettivamente – e credibilmente – si trovino oggi sul campo della battaglia politica. E in questo senso, nella foresta di filoni e movimenti che si richiamano alle differenti declinazioni della sinistra, Galli scorge soprattutto «una spaccatura profonda fra le due sinistre», ossia fra una sinistra riformista, cui viene imputato «di praticare un’ideologica superficialità, di non affrontare le contraddizioni di fondo del neoliberalismo e dello Stato moderno», e una sinistra radicale, accusata invece «di velleitarismo, di infantilismo, di mancanza di realismo, di estremismo inconcludente e controproducente» (p. 111). È ovviamente non solo una frattura fra due diverse sinistre, ma anche una lacerazione – ormai all’apparenza insanabile – fra il movimento e l’istituzione, due momenti che ancora fino agli anni Settanta parevano legati da una relazione dialettica. Una lacerazione che invece – ed è questa la proposta forse principale sotto il profilo politico del discorso di Galli – andrebbe ricomposta all’interno di una nuova dialettica. 
In effetti, per Galli «il pensare in termini di aut aut fra le due sinistre è un prodotto dell’epoca neoliberale», «una semplificazione in fondo conservatrice, che si adagia, sulla natura stessa del neo-liberismo» (p. 113). Ripensare la sinistra, nelle prospettiva di una «quinta rivoluzione», oltre quelle novecentesche, significa invece tentare di ricomporre la netta separazione che oppone le due sinistre. «Ora, non si dice che la sinistra debba essere il soggetto di una rivoluzione nel senso tradizionale», ma, «anche se la quinta rivoluzione – la prima, in realtà, del XXI secolo – non vorrà darsi questo nome, la sinistra oggi ha oggettivamente il compito di andare oltre un programma di redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta» (pp. 113-114). In altre parole, secondo Galli, si tratta di «bloccare gli aspetti distruttivi del capitalismo, cioè di uscire dal paradigma neoliberale, di cambiare il volto del capitalismo e il suo rapporto con la politica» (p. 114). Un obiettivo che, per molti versi, si configura come un nuovo New Deal, anche se è naturalmente impossibile replicare le misure istituzionali di quella stagione. In altre parole, si tratta «della sfida di operare una neutralizzazione attiva delle contraddizioni delle due sinistre e insieme delle contraddizioni del neoliberismo: di non permettere che questi conflitti si manifestino in forma distruttiva e di riportarli dalla società alle istituzioni politiche» (p. 115). E, infine, di porre in atto «un progetto di neutralizzazione attiva come ripoliticizzazione delle istituzioni, come nuova centralità politica della dimensione pubblica sostenuta da un forte consenso popolare, da un rapporto dei partiti con i movimenti: non tutti […] e in ogni caso non per blandirli ma per decifrarne le ragioni e per intercettarne l’energia, per quanto è possibile» (p. 115).
Per Galli, la vera decisione che la sinistra deve affrontare non consiste in una scelta fra i diversi aut aut che le vengono poste. È piuttosto la scelta «fra la logica degli aut aut, da una parte, e, dall’altra, la logica della Parte concreta, del ripartire dalle Parti, e cioè dai partiti e dai movimenti, da quanti vogliono prendere parte, partecipare, e al tempo stesso evitare la sterile parcellizzazione, il narcisismo particolaristico, il risentito ripiegamento sulla propria parte» (p. 119). E ripartire dalle Parti, dalla Parte concreta, significa soprattutto ripartire dal lavoro, in cui Galli ritrova l’unico possibile pilastro tanto per la sinistra di domani, quanto per un nuovo, ancora ipotetico New Deal: «Il lavoro», scrive infatti proprio nelle pagine finali, «è la Parte che consente di comprendere le dinamiche del Tutto; perché l’inizio materiale ed esistenziale della progettazione della vita; perché, nonostante il neoliberaismo abbia fatto di ciò un dogma, non è un fatto privato, perché è l’inizio della vita individuale e sociale per una grande parte delle donne e degli uomini; una Parte che è venuto il momento riconosca se stessa appunto come Parte, come soggettività che del resto è stata da sempre individuata come tale dal neoliberismo, che da sempre le ha dichiarato guerra. […] Il lavoro è la Parte da cui iniziare la politica perché il lavoro si colloca là dove il potere ha origine: nel sistema economico» (p. 134). La sinistra di domani che si delinea – come orizzonte progettuale possibile – al termine del volume è allora una sinistra che attinge a tutte le tre grandi tradizioni della filosofia politica moderna, ma che riconosce al lavoro una centralità al tempo stesso etica e politica. E l’idea di fondo è infatti proprio «che il lavoro è il limite immanente del capitale, altrimenti illimitato», «che c’è forma solo se c’è limite», «che c’è forma umana solo se c’è limite umano». E, come conclude Galli, «che quindi è nel lavoro che prendono forma se non una soggettività politica forte – difficile, nell’attuale frammentazione delle esperienze lavorative – almeno le energie e le speranze per alleanze tattiche di medio periodo, rivolte a ricivilizzare la società» (p. 160).

Segue...

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Damiano Palano

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