lunedì 15 aprile 2013

La mutazione genetica dell’euroscetticismo. Il Vecchio continente sul piano inclinato


di Damiano Palano

Questo articolo è apparso sul sito dell'Istituto di Politica

Alla fine degli anni Trenta, proprio mentre si preparava lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Edward H. Carr dava alle stampe The Twenty Years’ Crisis, uno dei suoi libri più famosi, ma anche più polemici. In quel lavoro, divenuto nel corso dei decenni un vero e proprio classico, Carr illustrava quali dovessero essere le basi di un’analisi ‘realista’ della politica internazionale. In questo senso, si richiamava direttamente al maestro del realismo politico, al Machiavelli del Principe, di cui Carr riprendeva alcune idee. Ma, soprattutto, rivolgeva un attacco spietato a tutte le convinzioni – del tutto “utopistiche” – che avevano dominato il dibattito nei primi decenni del Novecento, che dopo la fine del primo conflitto mondiale avevano indirizzato verso la costruzione della Società delle Nazioni. In particolare, secondo Carr, il progetto della Società delle Nazione si reggeva sull’idea che la guerra potesse essere scongiurata semplicemente confidando nella forza della ragione, ossia nel carattere ‘pacifista’ dell’opinione pubblica mondiale. Ma tutta l’impalcatura dottrinaria della Società ginevrina si posava, per lo studioso britannico, sulla premessa del tutto irrealistica che esistesse un interesse comune a tutta la comunità internazionale. La dottrina dell’«armonia degli interessi», un’estensione al campo della politica internazionale del principio liberale del laissez-faire, secondo Carr nasceva infatti da una distorsione di fondo, che spingeva a trascurare «la spiacevole realtà che esiste una fondamentale divergenza di interessi fra gli Stati che desiderano mantenere lo status quo e quelli che desiderano sovvertirlo» (E.H. Carr, Utopia e realtà, Rubbettino, 2009, p. 80). In altre parole, la dottrina dell’armonia degli interessi finiva col trascurare il ‘dettaglio’ che gli Stati avevano interessi e rivendicazioni divergenti. E per questo, come tutte le teorie relative alla morale sociale, quella dottrina doveva essere considerata come «il prodotto di un gruppo dominante, che si identifica con la comunità nel suo complesso e che possiede strumenti negati ai gruppi subordinati o agli individui per imporre la propria visione del mondo alla collettività» (ibi, p. 113). Un gruppo di paesi che, agli occhi di Carr, coincideva naturalmente con i popoli di lingua anglosassone, impegnati a difendere lo status quo dinanzi a potenziali sfidanti.
Il ragionamento di Carr non era naturalmente privo di limiti. D’altronde, se dalle pagine dello studioso britannico emergeva nitidamente la critica rivolta all’“idealismo” e all’assenza di realismo che avevano influenzato la Società delle Nazioni e la politica postbellica, non era affatto chiaro in cosa consistesse la pars costruens del suo discorso. E, soprattutto, non era affatto chiaro se, o in che misura, la proposta di Carr si distanziasse dalla linea dell’appeasement con la Germania. Ma forse è proprio per l’accostamento fra la più affilata critica realista e l’incapacità di suggerire una linea politica effettivamente alternativa che le classiche pagine di Carr sembrano parlarci del nostro quotidiano. Perché, per un verso, anche noi siamo oggi in grado di cogliere tutte le premesse ‘idealiste’, l’irrealismo, l’ingenuità e la superficialità con cui venne disegnata l’attuale Unione Europea, e con cui soprattutto venne incardinata sul perno della moneta unica. Mentre per l’altro, proprio come lo storico britannico estimatore di Machiavelli, ci troviamo disarmati dinanzi al compito di indicare strade alternative, che non vadano a coincidere con le più sinistre proposte antieuropeiste e antidemocratiche.
Una conferma del vicolo cieco in cui sembra destinata a incamminarsi la critica della moneta unica non proviene soltanto dall’ambigua traiettoria del Movimento 5 Stelle, una forza politica che deve il proprio successo proprio all’attacco rivolto alla ‘tecnocrazia’ europea e alle politiche di austerità, ma che non sembra neppure in grado elaborare un’ipotesi alternativa che non coincida con il più classico ‘euro-scetticismo’. Una conferma ancora più significativa si ritrova nella produzione pubblicistica che va arricchendosi in questi mesi, e che si indirizza – in termini sempre più energici, quasi impensabili alcuni anni fa – contro la moneta unica, perché il suo discorso appare molto simile a quello che Carr svolgeva nel suo The Twenty Years’ Crisis. Al centro di questa letteratura, non sempre sbilanciata sul versante della più immediata polemica politica, non stanno semplicemente i classici motivi della retorica ‘euroscettica’, come l’enfasi sulle identità nazionali, sul potere dell’eurocrazia, o sulle lobby massoniche che regnerebbero incontrastate nei palazzi di Bruxelles. Al cuore delle critiche odierne sta infatti un’analisi delle conseguenze prodotte dall’Euro e della divaricazione fra Stati ‘forti’ e Stati ‘deboli’, fra ‘vincitori’ e ‘perdenti’, che la moneta unica avrebbe determinato. In altre parole, l’argomentazione principale è che l’Unione Europea abbia innescato un processo esattamente opposto a quello che di prefiggeva: nonostante l’Ue avesse tra i propri obiettivi di lungo periodo la costruzione di un vero popolo europeo, le premesse dell’europeismo degli anni Ottanta e Novanta hanno avuto come risultato l’esatto contrario. Non solo si è infatti consegnato all’economia (alla moneta unica) il compito di preparare una autentica unificazione, ma si è anche coltivata la convinzione che tale processo potesse garantire nel modo migliore l’interesse comune di tutti gli Stati europei. E, cioè, che l’unificazione monetaria avesse ricadute positive per tutti i membri dell’Eurozona.
Oggi, i critici non hanno certo grandi difficoltà a mettere in luce come le cose siano andate diversamente, e che i paesi del Nord, tra cui soprattutto la Germania, siano usciti ‘vincitori’, mentre i paesi del Sud – la Grecia, l’Italia, la Spagna, il Portogallo, ma in parte persino la Francia – siano i ‘perdenti’, e abbiano cioè peggiorato la situazione di partenza. E proprio questa percezione – indubbiamente suffragata da alcuni dati empirici – innescherà probabilmente una sorta di mutazione genetica dell’euroscetticismo. La contrapposizione fra un centro e una periferia – fra una Germania ‘vittoriosa’ e un Sud ‘sconfitto’ – è destinata infatti a diventare la dicotomia chiave della politica europea dei prossimi anni. Che all’origine della situazione odierna siano solo le responsabilità dei tecnocrati europeisti, o anche – come è in realtà scontato – le classi politiche nazionali conta ormai poco. Ciò che conta davvero è che la camicia di Nesso in cui risulta avviluppata l’Unione Europea – un vincolo da cui, come è noto, gli ingeneri della moneta unica neppure immaginarono una via d’uscita, nella convinzione che la ‘costrizione’ avrebbe reso più salda la disciplina degli Stati membri – diventerà presumibilmente, a meno di sostanziali revisioni, sempre più soffocante nei prossimi anni. E che la retorica della lotta contro il ‘nuovo imperialismo’ tedesco rischia di diventare tanto forte da ridefinire completamente il quadro della competizione politica.
Quando Carr affrontava la crisi dei vent’anni, non si poneva il problema di capire quale fosse la parte del torto e chi, fra i vari contendenti, avesse ragione. D’altronde, uno dei fondamenti dell’analisi realista di Carr era rappresentato dalla convinzione che non ci fosse una ‘naturale’ armonia degli interessi, e che dunque la divergenza fra gli interessi degli Stati fosse in qualche modo inevitabile. Il problema era piuttosto che l’ordine postbellico, delineato dalle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale, era stato costruito nella convinzione che fosse possibile superare definitivamente le contrapposizioni, oltrepassare gli egoismi della politica di potenza e dunque perseguire l’interesse comune dell’intera comunità internazionale. Ma, dietro le parole d’ordine della legalità internazionale, del primato della giustizia e della sovranità dell’opinione pubblica, si nascondeva soltanto la difesa dello status quo (e dunque la difesa del primato britannico). Le riparazioni di guerra imposte alla Germania di Weimar alle potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale furono l’esempio più nitido di questa logica. Al tavolo della pace, Londra e Parigi poterono infatti condannare Berlino per la ‘colpa’ della guerra, anche se in tal modo introducevano un elemento quantomeno innovativo nel diritto internazionale, e dunque furono in grado – non senza qualche ragione storica – di infliggere ai tedeschi una ‘legittima’ sanzione. Ma proprio questo elemento, insieme alle altre misure evidentemente punitive nei confronti della Germania, contribuì a rendere instabile un ordine che, peraltro, risultava estremamente debole anche per molti altri motivi. La questione del debito tedesco divenne infatti il motivo centrale della politica europea, coprendo le responsabilità delle classi politiche nazionali e spingendo verso una nuova tragedia.
 Oggi la Germania non è più la ‘perdente’, ma la principale potenza europea. Una potenza che ‘legittimamente’ reclama che i paesi più ‘deboli’ dell’Europa rispettino quegli accordi che hanno liberamente sottoscritto per entrare nell’area della moneta unica. Al tempo stesso, diventa sempre più evidente che anche il Trattato di Maastricht e il progetto di unificazione monetaria sono fondati su basi altrettanto irrealistiche di quelle che reggevano la Società delle Nazioni, quantomeno perché si limitavano a immaginare che la moneta unica avrebbe arrecato un vantaggio all’intera Europa, trascurando sostanzialmente la possibilità che potessero aggravarsi gli squilibri fra economie forti ed economie deboli, fra centro e periferia. Per questo, è in fondo irrilevante chiedersi oggi quale sia la parte del ‘torto’, e da quale parte stia la ragione. Il punto è che, poggiando su basi fragili, l’unione monetaria non può che allontanare fra loro i paesi membri dell’Ue. In altre parole, il progetto dell’unificazione monetaria, invece di contribuire alla costruzione di un ‘popolo europeo’ (magari ‘forzando’ le opinioni pubbliche nazionali, ‘costringendole’ con l’urgenza a misure ‘inevitabili’), sta producendo – e produrrà sempre più nel corso dei prossimi anni – nuove lacerazioni. Lacerazioni che, come sempre avviene, finiranno col rinfocolare vecchi sospetti, antiche rivalità e odi che consideravano del tutto sepolti. Qualcosa di simile sta avvenendo d’altronde in Grecia, dove l’ormai lontano ricordo della resistenza anti-nazista viene paradossalmente ad alimentare il risentimento anti-tedesco. Ma si tratta probabilmente solo della prima manifestazione di un processo che rischia di non rimanere circoscritto entro i confini greci. La questione del debito dei paesi del Sud è infatti destinata a diventare il nodo attorno a cui si coaguleranno, per un verso, il risentimento di opinioni pubbliche che si sentiranno sconfitte dalla ‘politica di potenza’ tedesca, e, per l’altro, la crescente diffidenza verso paesi accusati di voler scaricare il peso della loro irresponsabilità sulle spalle del Nord laborioso e disciplinato. E, così, il Vecchio continente continuerà a camminare sulla superficie scivolosa di un piano inclinato, in cui diventerà sempre più difficile mantenere l’equilibrio.

Naturalmente, si potrà obiettare, la storia non si ripete mai nello stesso modo, e, soprattutto, la guerra – una guerra paragonabile a quelle che il Vecchio continente ha vissuto nel corso del Novecento – è ormai una possibilità impraticabile, tanto più nella vecchia Europa, percorsa da mille fili di amicizia, da relazioni commerciali consolidate, da interessi culturali comuni, e così via. Inoltre – si può ancora osservare più che legittimamente – le crisi hanno spesso spinto i membri della costruzione europea ad affrontare i problemi rafforzando l’integrazione, e così avverrà anche nei prossimi mesi, magari dopo il settembre 2013, perché, dopo le elezioni che si svolgeranno in Germania, i governanti tedeschi saranno disposti a concedere molto ai paesi del Sud, e forse accetteranno persino di sobbarcarsi il peso del debito pubblico di Italia e Spagna. E poi, si potrebbe infine aggiungere, la Banca Centrale Europea rappresenta un fattore di garanzia, perché con i suoi interventi è riuscita ad arginare l’ondata speculativa dell’ultimo anno, scavalcando anche le resistenze dei singoli Stati nazionali.
Ognuna di queste osservazioni è del tutto sensata, e può servire a temperare le argomentazioni che invece tendono al pessimismo. Anche perché, cresciuti in un clima di pace, di sicurezza, di crescita economica, viviamo in un mondo ‘post-storico’ che ci fa percepire la guerra – e soprattutto la guerra in Europa, la guerra nelle nostre città – come qualcosa di completamente irreale, come un’ipotesi inverosimile persino per le più ardite simulazioni fantapolitiche. Ma simili argomentazioni, se certo ci possono indurre a rimuovere gli scenari più inquietanti, non sono certo sufficienti a mutare il cupo pessimismo in un fondato ottimismo. Se non altro perché è difficile dimenticare che tutte le promesse dell’unificazione monetaria, tutte le rappresentazioni di un futuro idilliaco fatte intravedere dalle élite europee per giustificare mille ‘sacrifici’, si sono puntualmente rivelate del tutto illusorie.

Damiano Palano

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