domenica 5 febbraio 2012

Democrazia senza potere. A proposito di "Prima e dopo" di Nadia Urbinati (e della crisi del liberalismo)



 
di Damiano Palano

«Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini, in quanto noi siamo più d’esempio ad altri che imitatori. E poiché essa è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia: di fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi privati, a tutti spetta un piano di parità, mentre per quanto riguarda la considerazione pubblica nell’amministrazione dello stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere in un determinato campo, non per la provenienza da una classe sociale ma più che quello che vale» (Tucidide, La guerra del Peloponneso, Rizzoli, Milano, 1985, I, p. 325).
Nel 2003, la Convenzione presieduta da Valery Giscard d’Estaing scelse di utilizzare un piccolo frammento di questo brano della Guerra del Peloponneso per aprire il progetto di Trattato costituzionale per l’Unione Europea. Alcuni anni dopo, i referendum popolari in Francia e Olanda diedero un primo colpo alle ambizioni del Trattato costituzionale, e, nel giro di alcuni mesi, alle difficoltà politiche si aggiunsero i problemi della crisi economica globale, destinati a coinvolgere progressivamente tutti i Paesi del Vecchio continente. Ciò nonostante, i lavori della Convenzione segnarono probabilmente il punto più elevato del progetto di integrazione, perché proprio in quei mesi parve che i leader dei Vecchio continente guardassero con reale convinzione a un salto di qualità, e forse anche a una autentica democratizzazione dell’assetto comunitario. Quelle ambizioni giustificavano dunque la scelta di porre in epigrafe il piccolo frammento sulla democrazia, tratta dall’orazione funebre per i caduti ateniesi che Tucidide attribuì a Pericle. Ma, al di là della scarsa fortuna del progetto elaborato dalla Convenzione, quel riferimento era inopportuno per diversi motivi. Innanzitutto, richiamarsi alla costituzione di Atene era quantomeno inappropriato, nel caso di un testo così macchinoso come quello predisposto dalla Convenzione. In secondo luogo, quel discorso si riferiva a una concezione della democrazia che non aveva sostanzialmente nulla a che vedere né con quella forma di regime che oggi definiamo come ‘democrazia’, né, tanto meno, con l’architettura istituzionale dell’Unione Europea. Ma, soprattutto, quell’elogio della democrazia aveva obiettivi e connotazioni che non possono essere dimenticati, se non al prezzo di cancellare le peculiarità della forma politica di Atene, della sua economica, del suo ruolo internazionale. Ed è invece questo l’aspetto che, negli utilizzi più disinvolti dell’orazione di Pericle, tende a smarrirsi del tutto.
In un intervento recente, apparso sull’«Almanacco del bibliofilo» e anticipato parzialmente su «la Repubblica», Umberto Eco ha sottolineato come le operazioni che trasformano il discorso di Pericle in una celebrazione della democrazia e delle sue più elevate ambizioni rimangano vittime di una serie di insidie tutt’altro che secondarie. Innanzitutto, la concezione che Pericle aveva della democrazia era fortemente connotata in senso ‘populista’, e il suo abile uso della retorica ne era un riflesso evidente. Ma, al di là di questo, Eco osserva come il ritratto della democrazia di Atene, centrato sull’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e sulla possibilità di ciascuno di accedere alle cariche pubbliche, fosse del tutto parziale: «Pericle non menziona il fatto che in quei tempi ad Atene c’erano accanto a 150.000 abitanti, 100.000 schiavi. E non è che fossero solo barbari catturati nel corso di varie guerre, ma anche cittadini ateniesi. Infatti una delle leggi di Solone stabiliva di togliere dalla schiavitù i cittadini diventati servi a causa dei debiti verso i latifondisti. Segno che erano servi anche altri cittadini, caduti in schiavitù per altri motivi» (U. Eco, Pericle il populista. Il suo discorso agli ateniesi come esempio di malafede, in «la Repubblica», 14 gennaio 2012, p. 57). Infine, il discorso di Pericle – che era un’orazione funebre per dei caduti in battaglia – aveva anche un risvolto internazionale: «A che cosa mira questo elogio della democrazia ateniese, idealizzata al massimo? A legittimare l’egemonia ateniese, sugli altri suoi vicini greci e sui popoli stranieri. Pericle dipinge in colori affascinanti il modo di vita di Atene per giustificare il diritto di Atene a imporre il proprio dominio sugli altri popoli dell’Ellade» (ibidem). E, d’altronde, non si può dimenticare che, in un altro passaggio celebre della Guerra del Peloponneso, proprio gli ambasciatori di Atene – la patria della democrazia celebrata da Pericle – impartiscono agli abitanti di Melo la più classica e severa lezione di una Realpolitik, che tende a confondersi con una vera e propria legittimazione del dominio del forte sul debole: «Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è più forte comandi: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini, lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi per primi, ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni della nostra stessa potenza» (Tucidide, La guerra del Peloponneso, cit., II, p. 945)
Gli utilizzi a cui viene piegata l’orazione di Pericle non sono in realtà così sorprendenti. Ma non devono suggerire l’impressione che la lezione dei classici sia del tutto inutile per comprendere la realtà. Al contrario, le pagine di Tucidide, di Platone, di Aristotele rimangono fondamentali anche per chi voglia considerare i problemi della politica contemporanea, così come la riflessione sul potere condotta dai grandi – e talvolta persino dai ‘piccoli’ – pensatori politici dell’età moderna. Naturalmente, benché le questioni cruciali con ci si trova alle prese in ogni società e in ogni periodo siano straordinariamente simili – come quella sul fondamento dell’obbedienza, quella sui vincoli del potere, quella sul rapporto fra la legge e la giustizia – è necessario non perdere mai di vista il quadro in cui ogni specifica riflessione viene formulata. E, soprattutto, è indispensabile non cedere alla tentazione di trasformare i classici in una sorta di super-market del pensiero, dai cui scaffali si può attingere disinvoltamente, prelevando citazioni, formule, idee, ma smarrendo inevitabilmente il senso del quadro complessivo.



Se nel passato recente, Norberto Bobbio è stato forse uno dei più coerenti assertori dell’utilità che la ‘lezione dei classici’ continua ad avere anche di dinanzi ai problemi della politica contemporanea, oggi non è difficile ritrovare la medesima convinzione anche alla base della riflessione e degli interventi di Nadia Urbinati. Docente di Teoria politica alla Columbia University di New York e autrice di numerosi volumi sulla dottrina della democrazia rappresentativa e sul pensiero politico americano (cfr., per esempio, Individualismo democratico. Emerson, Dewey e la cultura politica americana, Donzelli, Roma, 2009; Ai confini della democrazia. Opportunità e rischi dell’universalismo democratico, Donzelli, Roma, 2007; Lo scettro senza il re, Donzelli, Roma, 2009; Democrazia rappresentativa, Donzelli, Roma, 2010), Urbinati utilizza infatti i classici del pensiero politico anche nei suoi interventi giornalistici su «la Repubblica», di cui ora è raccolta un’ampia selezione in Prima e dopo. La brutta china della democrazia italiana, Donzelli, Firenze, 2011). Molti di questi interventi – relativi al periodo compreso fra i primi mesi del 2008 e l’autunno del 2011 – sono dedicati al governo presieduto da Silvio Berlusconi, in cui Urbinati intravede i segni della degenerazione della democrazia italiana. Se un simile motivo non è certo inusuale nel dibattito degli ultimi anni, ciò che invece caratterizza il discorso di Urbinati – e che lo distingue dalle voci che affollano il coro dei critici del governo di centro-destra – è invece l’ampio ricorso ai grandi classici del passato, ai maestri greci, al pilastri del liberalismo, ai cardini del pensiero democratico.
Nell’Introduzione Urbinati chiarisce quali siano i riferimenti teorici principali da cui muove l’analisi della situazione critica della democrazia italiana. «Ispirandosi ai classici del pensiero democratico moderno, da Hans Kelsen a Norbeto Bobbio a Giovanni Sartori», scrive Urbinati, «le mie considerazioni critiche presumono una definizione minima: il diritto dei cittadini di partecipare direttamente o indirettamente alle decisioni collettive attraverso il voto e la formazione delle opinioni e dei processi politici, decisioni che sono prese secondo la regola della maggioranza e, quando si tratti di elezione dei rappresentanti, sono frutto di alternative reali tra le quali scegliere. I diritti di libertà, di espressione della propria opinione politica e di associazione sono fondamentali tanto quanto il diritto di voto individuale e segreto» (ibi, p. IX). Una simile definizione non fornisce però a Urbinati solo un riferimento teorico, ma diventa anche il metro con cui misurare la realtà della democrazia italiana. O, per meglio dire, della ‘degenerazione’ della democrazia, perché la valutazione che formula la docente dalla Columbia University non è certo positiva. Il problema non consiste tanto nel ‘tradimento’ delle grandi ambizioni che i teorici ottocenteschi affidavano alla democrazia, quanto proprio nella sistematica violazione delle regole procedurali del gioco democratico. «Nell’Italia del XXI secolo, siamo messi nella necessità di difendere l’abbiccì della democrazia, non da nemici esterni o da nemici interni che si dichiarano anti-democratici, ma da cittadini e associazioni politiche che competono per il potere e si dichiarano democrati». E, a essere minacciati, sono soprattutto i diritti che pertengono alla formazione dell’opinione.
Ovviamente, anche se l’analisi di Urbinati inquadra in generale la situazione italiana, il suo sguardo – come gli articoli pubblicati nel volume – si concentra in modo specifico sulla maggioranza uscita vincitrice dalle elezioni politiche del 2008: una maggioranza che era già stata al governo nel quinquiennio 2001-2006, ma che ritorna a conquistare l’esecutivo priva del sostegno delle formazioni centriste, e da cui, gradualmente, si distacca anche il gruppo di Futuro e Libertà. Proprio la nuova maggioranza – che, in virtù della sua distribuzione nelle aule parlamentari, sarebbe opportuno definire semplicemente di ‘destra’ (più che di ‘centro-destra’, come invece si usa dire nel dibattito politico e giornalistico per edulcorare quella connotazione destrorsa che risulta ancora inquietante per buona parte della stessa opinione pubblica moderata) – è all’origine, secondo Urbinati, di un’ulteriore deriva verso una democrazia «plebiscitaria» e «populista». «Plebiscitaria perché improntata sulla centralità della politica come teatro, inscenata con una quotidiana sistematicità fino a trasformare i cittadini in una audience passiva che segue, ammira, applaude e ‘tifa’ – una politica della passività e della docilità dei molti, ottenuta per mezzo dell’attivismo mediatico dei pochi» (ibi, p. XI). «Populista perché fondata sulla sostituzione di una ‘parte’ (un partito) al tutto (il popolo sovrano), come il recita il nome stesso scelto per la coalizione (‘Popolo della Libertà’) e perché, senza troppo celate intenzioni, ha messo in atto quella che i liberali chiamano la ‘tirannia della maggioranza’. Inoltre, populista nello stile: per la protervia e la violenza verbale introdotte nella dialettica politica, televisiva e istituzionale, un fatto che ha mutato profondamente il carattere del confronto politico nel nostro paese, mettendo in secondo piano i contenuti e il dialogo ragionato ed esaltando l’invettiva personale e la polemica virulenta e vuota perché più spettacolare» (ibi, pp. XII-XIII). Se la maggioranza composta da Pdl e Lega Nord sembra unificata solo dalla leadership di un magnate della comunicazione, in realtà a rendere coerente quella forza apparentemente magmatica è anche – secondo Urbinati – una ben precisa ideologia: un’ideologia costituita dall’intolleranza contro le ‘minoranze’ e da una componente anti-nazionale e anti-solidaristica; un’ideologia finalizzata a legittimare l’asservimento delle istituzioni pubbliche a interessi privati e a una logica neo-patrimoniale, in cui termini come ‘privato’ e ‘pubblico’ finiscono per perdere il loro significato. In sostanza, la diagnosi di Urbinati è molto più che severa: «dal 2008, l’Italia è stata governata da una democrazia populista e plebiscitaria con una propaganda orchestrata da un centro proprietario-governativo, senza pluralismo dei mezzi di comunicazione televisivi privati e in parte pubblici» (ibi, p. XVII). E la conseguenza è che le basi della democrazia procedurale – ossia della versione meno esigente di democrazia individuata in sede teorica – vengono a mancare: «Procedura è norma e sostanza: l’Italia è un esempio di democrazia violata in maniera grave. La prima e più deleteria violazione è quella del pluralismo delle fonti di informazione, un vulnus della sfera dell’opinione pubblica, che è così trasformata in un affare privato non solo perché un grande proprietario tiene in mano tre reti televisive nazionali e, in maniera diretta o indiretta, alcune testate nazionali, ma anche perché la formazione dell'opinione è un mezzo pubblicitario al servizio della maggioranza. Mentre l’opinione pubblica dovrebbe funzionare non solo da unità del corpo sociale attorno ad alcuni valori condivisi, ma anche come occhio che vede, controlla e critica chi svolge funzioni pubbliche. In Italia, questo potere di sanzione dell’opinione è fortemente menomato. L’opinione è uno strumento usato per rendere docili i cittadini o farne, appunto, una massa di spettatori che segue e approva acriticamente coloro che si sono assunti il compito di agire» (ibi, pp. XVII-XVIII).
È piuttosto scontato che il lettore delle pagine di Urbinati sia destinato a valutare un’analisi così critica non solo sulla base di una vicinanza teorica al modello della «democrazia procedurale» (o alla specifica versione che adotta l’autrice del volume), ma anche – o forse soprattutto – in virtù della maggiore o minore vicinanza alle sue posizioni politiche. E, così, è piuttosto scontato che un certo pubblico allineato alle posizioni del quotidiano «la Repubblica» - su cui d’altronde Urbinati ha pubblicato gli editoriali raccolti in Prima e dopo – tenda a ritrovarsi fedelmente nella negativa valutazione della democrazia italiana e a concordare pienamente con la tesi di un’involuzione in senso prebiscitario e populista. All’opposto, i simpatizzanti del Pdl, o i lettori di quotidiani come «Libero» o «il Giornale», non avranno difficoltà a liquidare le parole di Urbinati come l’ennesimo tentativo di travestire di abiti teorici l’odio nei confronti di un leader giudicato come un grande statista, uno straordinario imprenditore, un formidabile comunicatore, e dunque a rigettare l’analisi di Prima o dopo come paccottiglia ideologica. Ma questa duplicità di atteggiamenti non impedisce certo solo una meditata lettura e una pacata valutazione del libro di Urbinati, perché, di fatto, proprio il costante riemergere di una simile pregiudiziale contrapposizione rende pressoché impossibile sottrarre qualsiasi studio della ‘Seconda Repubblica’ alle deformazioni più o meno consapevolmente determinate dalle appartenenze. Questo effetto presumibilmente ci accompagnerà per parecchio tempo, forse anche dopo che il fondatore di ‘Forza Italia’ avrà concluso la sua avventura terrena. Ma, se si cerca di uscire però dalla trappola dello schema dicotomico che ha dominato il dibattito politico degli ultimi diciotto anni, diventa forse possibile considerare in modo meno impressionistico la prospettiva di Urbinati.
A ben vedere, infatti, benché il ‘clima di contrapposizione’ abbia spesso offuscato la lucidità di molti osservatori, è difficilmente negabile che alcune ‘anomalie’ abbiano influito sulla ‘geografia’ del potere reale in Italia. Ed è difficilmente negabile che sia stato fatto un uso quantomeno disinvolto della carta stampata (come, per esempio, con il famigerato ‘metodo Boffo’) e dell’informazione televisiva, pubblica e privata. Difficilmente, si può attribuire la ‘degenerazione’ della democrazia italiana – se questa espressione ha realmente un senso – ‘soltanto’ a questi fenomeni, ma certo l’esistenza di questa anomalia ha contribuito a ‘legittimare’, in ogni campo, le violazioni di regole, prassi, diritti consolidati. Da questo punto di vista, dunque, si può riconoscere che molti articoli di Urbinati affondano il coltello in una ferita ancora sanguinante, e lo fanno inoltre con il sostegno offerto da un’indiscutibile competenza nel campo del pensiero politico. E, così, anche gli editoriali più ‘militanti’ di Urbinati – soprattutto quelli raccolti nelle sezioni L’antidemocrazia al potere e Dissenso, tolleranza e potere dei media – sono sempre anche delle piccole lezioni, sempre preziose, quantomeno per le sollecitazioni che suggeriscono. Ma, a ben vedere, gli articoli ripubblicati in Prima e dopo non offrono una rappresentazione a senso unico. Perché, per esempio, la studiosa della Columbia non manca di svolgere un’analisi piuttosto critica anche dell’evoluzione politica e culturale della sinistra italiana, accusata di essere «nichilista», «invertebrata», di aver abbandonato qualsiasi visione positiva del conflitto in nome di una esasperata ricerca del compromesso, di aver definitivamente accantonato non solo le ideologie del passato, ma l’esigenza stessa di un’ideologia, intesa come la visione di una società più giusta, capace di mobilitare e di orientare l’azione quotidiana.




Negli editoriali di Urbinati, affiora d’altronde un tema molto importante, che non riguarda solo il caso italiano, ma che senza dubbio può aiutare a inquadrarlo in un contesto più generale, senza negare che qualche ‘anomalia’ esista, eppure senza considerare una simile dinamica come un dato in clamorosa e patente contro-tendenza rispetto a un Occidente rappresentato in termini acriticamente lusinghieri. In diversi interventi, Urbinati si sofferma infatti su ciò che definisce come la «deriva oligarchica» delle democrazie occidentali: una deriva che non contraddistingue certo solo l’Italia, ma che si inscrive in una tendenza ben più generale, e proprio per questo ben più inquietante. In relazione ai primi disordini in Grecia, nel dicembre 2008, evidenzia per esempio come la crisi faccia emergere una crescente frattura fra le istituzioni e i cittadini: «Questa frattura fra il ‘dentro’ e il ‘fuori’, fra lo Stato e la società, è l’aspetto più allarmante che la crisi economica sta mettendo in luce. L’erosione della politica come azione libera di aggregazione delle idee e degli interessi e di controllo del lavoro dei rappresentanti, e la sua trasformazione in una professione che dà lavoro a pochi: questa è una degenerazione molto preoccupante anche perché a essa non c’è purtroppo alcuna risposta immediata che sia anche democratica. […] Il governo democratico può diventare nemico dei suoi cittadini, a dimostrazione dell’esistenza di due società, quella dentro lo Stato e quella fuori; due società che si conoscono sempre meno e interagiscono con sempre più frequenza in maniera conflittuale e violenta. L’erosione delle democrazie in oligarchie elette non rappresenta una soluzione di stabilità, soprattutto in un tempo di crisi economica profonda. Rappresenta semmai un pericolo alla stabilità» (pp. 77-79). Più di recente, in un articolo originariamente pubblicato il 22 novembre 2010, sempre a proposito delle sfide poste dalla crisi globale alla democrazia, Urbinati osserva inoltre come la crescente collusione di potere economico e potere politico – una collusione che subisce un’accelerazione, negli Usa, con la presidenza di Jimmy Carter – suggerisca proprio l’idea di una trasformazione in senso oligarchico dei nostri sistemi politici: «all’aumento della diseguaglianza sociale fa seguito il declino delle opportunità politiche per la grande maggioranza dei cittadini di contare o avere voce. Un indicatore di questa trasformazione oligarchica sta nell’impiego di quantità sempre maggiori di denaro privato sia nelle campagne elettorali sia nella politica ordinaria sia, come sappiamo fin troppo bene, nei sistemi d’informazione: per persuadere i rappresentanti a favorire o ostacolare proposte legislative, e per controllare l’opinione pubblica in modo tale da riuscire a orientare il comportamento elettorale dei molti verso politiche che favoriscono i pochi» (ibi, p. 98). Questa trasformazione non è – come spesso si sostiene – il frutto di un arretramento della politica dinanzi al mercato, bensì, la declinazione di un certo modo di intendere la politica, di cui Urbinati imputa buona parte delle responsabilità intellettuali al «liberalismo conservatore». Un liberalismo di segno ovviamente opposto a quello cui guarda Urbinati, e il cui elemento distintivo consiste nella riduzione dello Stato e della politica a strumenti in grado di servire efficacemente – e con il supporto cruciale della coericizione – un mercato sempre più privo di regole: «Il neo-liberalismo è la politica di oggi. Ma è politica. È comunque un uso del potere dello Stato per attuare piani e progetti che hanno committenti e scopi specifici e razionali. E la sua dottrina è la seguente: tutti i beni che le società producono e dai quali si può estrarre un profitto devono essere lasciati al mercato – se necessario anche la coercizione […]. Ciò che si chiama declino della sovranità degli Stati sembra dunque rassomigliare più a un riassestamento del rapporto tra Stato e sfera economica in una direzione che va verso uno Stato socialmente irrilevante e coercitivamente forte. Lo Stato non scompare, né la sua sovranità si erode, si ridefinisce invece in funzione di un ruolo solo che è essenzialmente quello di gestire l’uso della violenza. Come aveva ben visto Norberto Bobbio, la sfera del diritto penale si espanderà in proporzione diretta al restringimento delle politiche sociali. È lo Stato minimo del quale parlavano liberali antichi come Herbert Spencer o il barone von Hayek; uno Stato al servizio di una società che è libera nella misura in cui è capace di autoregolarsi con minimo dispendio di potere coercitivo, ma il cui potere coercitivo è ben funzionante e arcigno e duro se necessario» (ibi, p. 108).
Prevedibilmente, il liberalismo ‘esigente’ di Urbinati – un liberalismo che si richiama a Bobbio e Kelsen, ma di cui la studiosa nei suoi lavori accademici ha rinvenuto le tracce nell’«individualismo democratico» proprio di una certa cultura politica americana (si veda in particolare Individualismo democratico, cit.), oltre che nella teoria della rappresentanza democratica (Democrazia rappresentativa, cit.) – è destinato a non piacere ai cultori del liberalismo di von Hayek, la cui schiera si è quantomeno infoltita negli ultimi anni, fino a diventare un vero e proprio esercito agguerrito. Agli occhi di un simile liberalismo, la posizione di Urbinati non può infatti non apparire rischiosa, perché, concedendo un po’ troppo alla democrazia (all’eguaglianza, e dunque al compito dello Stato di preservarla), tende a insidiare quel mercato libero in cui riposa la garanzia della libertà individuale e, quindi, della stessa democrazia liberale. Un esempio efficace di questo tipo di critiche è offerto da un recente fascicolo della rivista della Fondazione Nova Spes «Paradoxa», intitolato Quelli che… la democrazia («Paradoxa», 2011, n. 3), in cui vengono presi di mira alcuni dei critici della situazione in cui si trova la democrazia italiana, tra cui, oltre a Bovero, Viroli, Zagrebelsky e altri, la stessa Urbinati (sui meriti e sui limiti di questa operazione mi sono soffermato in Il rischio della critica della critica). In particolare, Daniela Coli, in un intervento non privo di elementi interessanti, accusa Urbinati di considerare la democrazia ‘reale’ sulla base di un’immagine puramente filosofica. Ma, oltre a questo, evidenzia come la traduzione italiana di Representative Democracy (Chicago University Press, 2006) sia emendata dell’introduzione, e questo per Coli sarebbe indice della volontà di ‘depurare’ il testo eliminando un riferimento alla democrazia assembleare degli anni Settanta, originariamente diretto alla passione ‘esotica’ degli intellettuali liberal americani, ma un po’ troppo imbarazzante per il pubblico italiano. Ora, il nuovo fascicolo di «Paradoxa» (2011, n. 4), uscito proprio in questi giorni, pubblica in appendice, oltre a un dibattito fra i critici e alcuni degli autori criticati, anche uno scambio polemico proprio fra Urbinati e Coli. Se Urbinati imputa alla traduzione infelice gran parte dei limiti, Coli rilancia su un piano ancora diverso la sua critica, perché, a suo avviso, la teoria della democrazia rappresentativa di Urbinati sarebbe niente di meno che una surrettizia riproposizione della «democrazia progressiva» di Palmiro Togliatti, e dunque dell’ideologia bifronte che ha partorito una politica riformista, ma anche – come scrive la studiosa – il terrorismo: «La revisione della democrazia rappresentativa proposta qui da Urbinati è la riedizione modernizzata della ‘democrazia progressiva’ di Togliatti. Nel settembre del ’44 Togliatti dichiarò che il Pci abbandonava la prospettiva di ‘fare come in Russia’ e intendeva assumere una funzione dirigente nella costruzione della democrazia italiana. È chiaro che nel settembre ’44, essendo in corso la guerra in Italia, i comunisti non avrebbero potuto diventare alleati degli angloamericani, se avessero dichiarato di avere come modello l’Urss, perché stava per iniziare la guerra fredda. Dopo il ’45, il Pci, pur schierato con l’Urss e il Patto di Varsavia, dichiarò sempre di accettare la democrazia elettorale e, insieme, di ritenerla insufficiente a raggiungere l’obiettivo dell’uguaglianza sociale, fine ritenuto necessario anche da Urbinati perché una democrazia possa definirsi tale. Il Pci dichiarò sempre di considerare la democrazia elettorale insufficiente e di volere realizzare una democrazia, nella quale, come afferma Urbinati nello Scettro senza il re, ‘il potere supremo fosse nelle mani dei nati liberi, i quali sono in maggioranza poveri’ e asserì che l’obiettivo era quindi ‘democratizzare’ la democrazia rappresentativa attraverso il conflitto sociale e politico. Il Pci ebbe una doppia politica e se la provincia di Reggio Emilia ha dato Prodi, il cattolico approdato alla sinistra dopo la fine dell’Urss, il Pci di Reggio Emilia ha prodotto il gruppo di terroristi più importante delle Brigate Rosse. Due facce opposte della teoria della ‘democrazia progressiva’, ripresa con retorica diversa da Nadia Urbinati in Representative Democracy ed eliminata da Democrazia Rappresentativa, perché negli anni ’90 l’impegno principale del Pds e del Pd è stato di rimuovere il Pci dalla sua cultura politica» (N. Urbinati – D. Coli, Botta e risposta, in «Paradoxa», 2011, n. 4, p. 137).
Per quanto la concezione della democrazia proposta da Urbinati possa non essere condivisibile da chiunque, e per quanto la componente normativa nella sua riflessione sia molto marcata, l’argomentazione di Coli appare quantomeno deviata da un eccesso di vigore polemico. Se non altro perché, prima e dopo Togliatti, l’idea che la democrazia debba anche promuovere l’eguaglianza, o quanto impedire che la diseguaglianza cresca a dismisura, è un po’ più diffusa di quanto Coli sembri ritenere, non solo nel Vecchio Continente, ma persino negli Stati Uniti. Ma c’è un altra nota, nel discorso di Coli, che suona piuttosto stonata, e che sembra rivelare, ancora una volta, come le contrapposizioni della ‘Seconda Repubblica’ abbiano inquinato persino i più elevati dibattiti teorici. Ad un certo punto, riprendendo un motivo già sviluppato nel suo precedente intervento, Coli scrive: «Forse se Nadia Urbinati, oltre ai suoi Machiavelli, Rousseau, Kant, Sièyes, Paine, Condorcet & C. leggesse Schumpeter, la sua bestia nera, si renderebbe conto che la democrazia è la formula politica del capitalismo, che non persegue affatto l’eguaglianza sociale, ma la libertà, perché il capitalismo non è mai stazionario e attraverso la scienza cambia continuamente metodi di produzione, forme di organizzazione, fonti di approvviginamento, cerca nuovi mercati e alterna fasi di benessere e fasi di crisi: la disoccupazione è ciclica e non è quindi eliminabile la povertà. Però, anche nelle più drammatiche fasi della distruzione creatrice, perfino il più modesto operaio di Detroit ha un water e una doccia con l’acqua calda che il re Sole si sarebbe sognato» (ibi, p. 139).
Per quanto Coli rimproveri forse correttamente a Urbinati di non confrontarsi con il ‘realismo democratico’, di cui Schumpeter può essere considerato il fondatore, è anche piuttosto evidente che l’utilizzo che fa dell’economista austriaco è piuttosto singolare e quantomeno disinvolto. È difficile dire se ad autorizzare una simile deformazione sia l’eccesso polemico (anche se è molto probabile, dal momento che Coli conosce senz'altro molto bene la riflessione di Schumpeter, che richiama anche in suo interessante intervento sulla Crisi della democrazia americana, apparso sul fascicolo 4/2011 della "Rivista di Politica" diretta da Alessandro Campi, in uscita proprio in questi giorni), ma certo è difficile non risconoscere come il ‘realismo’ dell'economista austricano venga qui piegato e trasformato in una semplice difesa dello status quo, in una pura e semplice legittimazione dell’esistente. A ben vedere, infatti, Schumpeter, benché celebri con strenua convinzione il capitalismo, la distruzione creatrice e il ruolo che gli imprenditori svolgono nel trainare lo sviluppo capitalistico, non afferma mai – come scrive invece Coli, sulla spinta della foga polemica – che «la democrazia è la formula politica del capitalismo». D’altro canto, sarebbe sufficiente la storia per smentirlo, perché di economie capitalistiche sviluppate ma prive di democrazia ne sono esistite – e ne esistono ancora oggi, come tutti sanno – parecchie, e Schumpeter, che ne era ben consapevole, non si sarebbe mai spinto ad affermare una cosa simile. Per imputare a Schumpeter una posizione del genere, bisogna quantomeno trasformarlo in una caricatura di Milton Friedman. Anche perché, a ben vedere, in Capitalism, Socialism and Democracy, il testo in cui svolge la riflessione sulla democrazia competitiva, Schumpeter afferma sicuramente che la concezione ‘classica’ della democrazia è del tutto irrealistica, e che è invece necessario considerare la democrazia solo come un ‘metodo’ per assegnare il potere a leadership fra loro in competizione, ma sostiene anche altro: in primo luogo, che il capitalismo è destinato (molto probabilmente) a tramontare e a lasciare il posto al ‘socialismo’, ossia – secondo la sua concezione - a un’economia sempre più pianificata; che ciò non significa che i paesi occidentali siano condannati ad abbandonare la democrazia e a diventare autoritari; infine, che la democrazia è un solo un ‘metodo’, che può essere compatibile con i più diversi obiettivi, dalla garanzia della proprietà privata, allo sterminio di una minoranza religiosa, dalla tutela della libertà personale al raggiungimento di una maggiore eguaglianza sociale. Naturalmente – si potrebbe obiettare – le previsioni ‘disfattiste’ di Schumpeter non si sono realizzate, e il capitalismo appare ancora in discreta salute, a dispetto dei costi della crisi. Ma ciò non è un buon motivo per utilizzare Schumpeter come se fosse un alter ego di Friedrich von Hayek, e per ‘emendare’ il suo contributo delle componenti che appaiono meno glamour in un mondo intellettuale dalla creatività rinsecchita e dal conformismo elevato a unica regola di condotta. Perché, altrimenti, varrebbe la pena di trasformare la maieutica socratica nell’anticipazione dei quiz di Mike Bongiorno, o Machiavelli nel precursore del ‘catenaccio’.
Forse, se si vuole davvero guardare in profondità la ‘realtà’ della democrazia e delle sue trasformazioni, è necessario riconoscere che la democrazia – quella di ieri, come quella di oggi – ha sempre, quantomeno, due volti. Ha il volto affabile ed enfatico del Pericle dell’orazione funebre, ma anche il volto assai meno rassicurante degli ambasciatori di Atene. Perché ogni democrazia è anche una forma di organizzazione del potere, che non può aggirare – ma semmai solo ‘addomesticare’, entro limiti ben definiti – le ‘regolarità’ della politica. Solo osservandola con un’ottica effettivamente ‘realistica’, possiamo riconoscere che ogni democrazia si basa su un equilibrio di forze, del tutto provvisorio, come ogni artificio umano. E che questo equilibrio di forze, nelle democrazie che abbiamo di fronte, non può che riflettere anche – se non soprattutto – le trasformazioni del capitalismo. Anche per questo, Vittorio Parsi, chiudendo il dibattito di «Paradoxa», attira l’attenzione su due fenomeni cruciali: «uno squilibrio di forze gigantesco tra democrazia e mercato, con il conseguente, radicale svuotamento dei diritti politici che, a mio avviso, è assai più grave e radicale dello svuotamento dei diritti sociali, di cui per lo più si parla; la tendenza ad estendere enormemente l’ambito in cui pretendiamo di legiferare, nonostante la consapevolezza sempre più acuta dei limiti procedurali» (p. 133). Proprio questi nodi ci pongono di fronte a una dinamica che forse non è proprio una ‘crisi’ della democrazia – perché fra qualche decennio potremmo addirittura chiamare ‘democrazia’ una forma di regime simile a quelle immaginate da Philip Dick, o a considerare pilastri della vita democratica organizzazioni come la Spectre dei film di James Bond – ma che comunque cambiano i rapporti di potere, rendendo del tutto inadeguato il sistema di pesi e contrappesi elaborato dal costituzionalismo.
Per capire tutti questi mutamenti, bisognerebbe ricominciare a studiare seriamente il capitalismo, magari riprendendo Marx, Weber, Schumpeter, e lasciando perdere le storielle di Hayek e Friedman, che ormai – e l’hanno capito ormai quasi tutti – sembrano davvero troppo simili alle favole che i nonni raccontano (o raccontavano) la sera ai nipotini, per farli addormentare sereni e per metterli in guardia contro i rischi che corrono i monelli. Ma, forse, dovremmo prendere atto che, per capire le trasformazioni che stiamo vivendo, il liberalismo – tanto il liberalismo ‘progressivo’, cui sembra guardare Urbinati, quanto il liberalismo ‘conservatore’ contro cui rivolge le sue critiche - serve davvero a poco.

Damiano Palano


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Questo testo è ora raccolto in La dissolvenza democratica. Cronache nella crisi, un e-book che raccoglie alcuni posti apparsi sul maelstrom.

Il libro è disponibile anche in formato cartaceo.



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