lunedì 3 ottobre 2011

Il rischio di una critica della critica. «Quelli che… la democrazia» in un fascicolo di «Paradoxa»



di Damiano Palano


«La democrazia è una merce come un’altra. Per quanto sofisticato e complesso, resta sempre un prodotto dell’uomo. Come le derrate alimentari. Come le armi. Come il petrolio. Si può comprarla, come ha fatto il tuo miliardario ridens, si può venderla, si può distruggerla e si può esportarla. Nel mondo globalizzato l’unica democrazia possibile è quella che può essere esportata anche ai paesi che non l’hanno mai conosciuta. […] Una democrazia di guerra. Una democrazia senza troppe garanzie, capace di adattarsi alle necessità del mercato globale. Che favorisca il libero movimento dei capitali e si attrezzi a contenere in ciascun paese le inevitabili conseguenze dei disequilibri che ne derivano» (B. Morchio, Bacci Pagano. Una storia da carrugi, Fratelli Frilli, 2005, p. 253).
Non è troppo sorprendente ritrovare una descrizione tanto disincantata della democrazia fra le pagine di un romanzo di genere, sia pure firmato da un cultore piuttosto raffinato del noir italiano come Bruno Morchio. Non è troppo sorprendente perché, spentesi le speranze di quella sorta di belle époque seguita alla dissoluzione dell’impero sovietico, l’idea che la democrazia stia attraversando una ‘crisi’, che la priva dei fondamenti valoriali e che intacca le stesse procedure liberali, è diventata ormai quasi un luogo comune. In Italia, la convinzione che la democrazia sia in ‘crisi’ è stata però declinata in una direzione specifica, perché molti osservatori hanno preso a considerare la ‘Seconda Repubblica’ come l’ennesima variante della vecchia ‘anomalia italiana’. E molti si sono così persuasi che la nuova stagione della politica italiana, avviatasi con le lezioni del 1994, sia segnata da una tara genetica: una tara destinata ad alterare in profondità il tessuto democratico della società e le dinamiche istituzionali, costituita ovviamente dalla presenza, a capo di una delle due coalizioni (nonché del principale partito politico), di un grande imprenditore della comunicazione, il «miliardario ridens» cui con ogni probabilità allude il personaggio del romanzo di Morchio. Negli ultimi anni è emerso allora un vero e proprio genere letterario dedicato alla decadenza del costume, al declino delle istituzioni politiche e, più in generale, alla discesa della politica – e soprattutto dei suoi vertici più elevati – verso l’abisso. Ogni mese, i tavoli delle librerie si arricchiscono di nuovi titoli, che si articolano in sotto-filoni fortunati, come quello diretto alla denuncia di una classe politica corrotta, inaugurato dal best-seller La casta di Antonio Stella e Sergio Rizzo, o come quello dedicato alla ricostruzione dei retroscena più retrivi della politica-spettacolo, di cui sono esempi emblematici libri come La suburra di Filippo Ceccarelli e il 'giallo' Le cene eleganti di Piero Colaprico. Accanto a questi testi di taglio giornalistico, non sono mancate analisi sulla deriva personalistica della politica italiana – come quelle offerte dal Partito personale di Mauro Calise, dal Superleader di Francesco Boni, dal Corpo del capo di Marco Belpoliti – o sulla trasformazione dell’immaginario politico, di cui costituiscono esempi differenti Politica pop di Gianpietro Mazzoleni e Anna Sfardini e un testo come L’egemonia sottoculturale di Massimiliano Panarari, ricco di intuizioni e capace di indagare le radici (anche politiche) più profonde del trash contemporaneo. Ma un posto forse ancor più significativo è occupato da una produzione pamphlettistica di taglio elevato e teoricamente avvertito, cui di recente hanno dato il loro contributo, fra gli altri, Luigi Ferrajoli (Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana, Laterza, Roma – Bari, 2011), Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky (La felicità della democrazia. Un dialogo, Laterza, Roma – Bari, 2011), Nadia Urbinati (Liberi e uguali. Contro l’ideologia individualista, Laterza, Roma – Bari, 2011) e Maurizio Viroli (La libertà dei servi, Laterza, Roma, Bari, 2011), per non citare che alcuni tra gli autori più noti.
Per quanto le conseguenze dell’«anomalia» siano piuttosto evidenti - e sebbene i segnali di allarme siano più che giustificati dal decadimento dello spirito pubblico, dal ricostituirsi di circuiti di corruzione tutt’altro che colpiti dalle inchieste di ‘Tangentopoli’, dalla concentrazione del potere mediatico, e da tutti quegli altri fenomeni che contrassegnano l’odierno panorama politico italiano – è però probabile che questo specifico angolo visuale offra una prospettiva limitata per considerare le trasformazioni della democrazia. E, così, è comprensibile che la ‘critica della democrazia’ contemporanea – definita, di volta in volta, come populista, plebiscitaria, autoritaria – possa generare una sorta di ‘critica della critica’, come quella che viene proposta da un recente fascicolo di «Paradoxa», curato da Dino Cofrancesco e dedicato a un esame non certo simpatetico delle letture formulate, negli ultimi anni, da Michelangelo Bovero, Luciano Canfora, Paul Ginsborg, Massimo L. Salvadori, Nadia Urbinati, Maurizio Viroli e Gustavo Zagrebelsky (cfr. Quelli che… la democrazia, «Paradoxa», 2011, n. 2).
Nell’aprire il fascicolo, Cofrancesco avverte che le motivazioni – teoriche, ma evidentemente anche politiche – alla base di una simile operazione scaturiscono dalla necessità di contrastare una sorta di ‘pensiero unico’, che identifica la democrazia con una concezione specifica: una concezione che privilegia i ‘diritti sociali’, e che ritiene che una semplice ‘democrazia formale’ sia del tutto insufficiente. In questo modo, scrive Cofrancesco, «la political culture oggi egemone in Italia non riesce più a comprendere che, in una società aperta e rispettosa delle ‘visioni del mondo’ di tutti i cittadini, nella cassaforte dei ‘diritti costituzionali’, dovrebbero riporsi soltanto quelli che trovano tutti d’accordo – i diritti civili e i diritti politici» (Perché un fascicolo su «Quelli che… la democrazia», in «Paradoxa», 2011, n. 2, p. 17). E, per questo, quegli intellettuali che non si rassegnano all’esistenza di visioni che non considerano i diritti sociali come fondamentali, «vorrebbero ostracizzare (idealmente, beninteso) dalla polis quella parte numerosa del popolo portata a credere che i valori politici (i ‘diritti’ da lui sopra enunciati) siano talora inconciliabili e che, proprio per questo, dovrebbero essere le urne a decidere quali far passare, di volta in volta, in secondo piano» (ibidem). La conseguenza di una simile visione – sempre secondo il ragionamento di Cofrancesco – è un attacco all’«uomo della strada», dipinto come una massa gregaria, dominata da leader capaci di manipolare le menti più semplici, di strumentalizzare ai propri fini i peggiori istintti acquisitivi, gli eterni egoismi di un popolo inetto, la ricorrente tendenza degli italiani a curare il ‘particulare’ senza riguardo alcuno per la causa comune. Ma, «dietro le frasi altisonanti, le prefigurazioni di esaltanti cosmopoli giudiziarie, c’è solo il pugno nello stomaco dell’uomo della strada – l’eterno qualunquista, bestia nera di tutta l’intellighentsia passata e presente» (ibidem). E, così, i critici sottoposti al vaglio critico di «Paradoxa», pur articolando proposte specifiche, «teorizzano un’idea di ‘democrazia’ in cui c’è spazio per ogni sorta di ‘diversità’ – sociale, etnica, di genere, ‘culturale’ – tranne quelle ‘politica’ nel senso forte del termine, se per ‘diversità politica’ si intende, per fare un esempio significativo, che, nel contesto italiano, non ci si riconosce in una costituzione che non si limita a regolare il traffico sociale, ma prescrive agli automobilisti in quale direzione debbono andare per essere buoni cittadini» (ibi, p. 18).

Non è certo difficile scorgere nell’impianto del fascicolo curato da Cofrancesco un intento politico piuttosto scoperto, ma ciò non significa che i diversi contributi alla ‘critica della critica’ non presentino più di qualche motivo di interesse. Per esempio, si può concordare con Mario Quaranta, quando mette in luce le debolezze dell’analisi della globalizzazione al fondo (o margine) del discorso sulla «democrazia che non c’è» di Paul Ginsborg (La democrazia nell’analisi di Paul Ginsborgibi, pp. 40-55), o con Maurizio Griffo, quando intravede nel severo giudizio di Maurizio Viroli sullo spirito servile degli italiani di oggi non solo un «estremo pessimismo», ma anche una condanna moralistica che rifiuta di comprendere le motivazioni di un cambiamento politico, sociale, culturale (Inclinazione alla servitù o difficoltà a metabolizzare il cambiamento? A proposito di una tesi di Viroliibi, pp. 82-93). E si possono anche condividere alcuni dei rilievi che Tarcisio Amato indirizza alla ‘storia dell’ideologia democratica’ svolta da Canfora (Luciano Canfora e la democraziaibi, pp. 29-39), anche se – a ben vedere – il discorso in questo caso fuoriesce un po’ dal tema oggetto del fascicolo, quantomeno perché la polemica condotta dal grande antichista – una polemica peraltro ricca di spunti – si pone su un piano storico ben più generale (in cui l’«anomalia italiana» è in fondo piuttosto marginale). Nel suo intervento, Daniele Rolando riesce inoltre a mettere in rilievo le ‘forzature’ che spingono Salvadori a intravedere nelle democrazie odierne dei regimi a «legittimazione popolare passiva» delle «quasi-democrazie» (Daniele Rolando, Il paradosso di Salvadori: democrazie senza democraziaibi, pp. 56-69). E altrettanto interessanti sono anche gli articoli di Daniela Coli e di Alberto Giordano. Le dense pagine di Coli su Nadia Urbinati, hanno in particolare il merito di evidenziare i limiti di una proposta teorica che critica le derive della democrazia odierna sulla base di un’immagine puramente ‘filosofica’ della democrazia ideale, senza dunque confrontarsi con la realtà dei processi storici, delle trasformazioni economiche, dei mutamenti internazionali.  «Viene da chiedersi» - scrive Coli al termine del suo contributo, formulando un’osservazione che vale in generale per un certo modo di fare filosofia politica consolidatosi a partire dagli anni Ottanta – «se non sia più serio conoscere i filosofi nel loro contesto, abbandonando la pretesa platonica del filosofo-re e non sia più utile riservare alla politica l’analisi empirica fondata sulla ricerca storica, l’economia e la sociologia come hanno fatto elitisti come Schumpeter, la bestia nera di Nadia Urbinati» (Nadia Urbinati. «Lost in translation»ibi, pp. 70-81). Giordano esamina invece Contro il governo dei peggiori. Una grammatica della democrazia (Laterza, Roma – Bari, 2000) di Michelangelo Bovero, uno tra i principali allievi di Norberto Bobbio. Nella riflessione di Bovero, viene certo rinvenuto l’influsso del maestro, ma sono colte anche le tracce di una diversione rispetto alla linea indicata dall’autore di Politica e cultura, almeno a proposito del rapporto fra il principio della libertà economica e i diritti civili, politici e sociali (La «grammatica della democrazia» di Michelangelo Boveroibi, pp. 19-27). In verità, però, sebbene Giordano tenda a discostarsi dalla visione senz’altro positiva della Costituzione italiana, e nonostante sottolinei come la tendenza contemporanea alla kakistocrazia (una perversa combinazione di tutte le forme degenerate di governo di cui parlavano i classici: tirannide, oligarchia, demagogia) non sia eslcusiva del ‘caso italiano’, la critica indirizzata a Bovero rimane piuttosto sfumata. Anzi, Giordano concorda in fondo con Bovero, quando scrive che «senza la rinascita di una vigile opinione pubblica, e del senso di indipendenza che essa suscita negli individui, è davvero vano sperare di riaccendere la fiammella di quello spirito democratico che costituisce – ce lo hanno insegnato i classici – il più sicuro baluardo contro il risorgere di qualsiasi forma di tirannia» (ibi, p. 28).
Se tutti questi contributi alla ‘critica della critica’ colgono senza dubbio dei nervi scoperti, gli obiettivi – culturali e politici – dell’operazione tentata da «Paradoxa» con il questo fascicolo si delineano in modo particolarmente chiaro dall’articolo dedicato da Confrancesco a Zagrebelsky. In questo caso, infatti, il giudizio è molto più severo che negli altri saggi, perché Cofrancesco ritrova nella polemica politica svolta da Zagrebelsky non soltanto l’eredità dell’azionismo, che già aveva indirizzato la riflessione di Bobbio (si vedano a questo proposito i motivi esposti in D. Cofrancesco, Gramsciazionismo e dintorni, Lugro di Cosenza, 2001), ma anche un’ulteriore modificazione di quell’impianto originario. Una modificazione che incide sullo stesso profilo della battaglia intellettuale: per Bobbio il chiarimento concettuale, un lavoro in cui riversò gran parte delle proprie energie intellettuali, era un’operazione preliminare che serviva anche ad allestire un campo di confronto e dibattito con gli avversari politici; per Zagrebelsky – questa è almeno la tesi di Confrancesco – gli stessi concetti sono armi della polemica, nel senso che la stessa costruzione degli strumenti concettuali è finalizzata ad escludere una determinata parte politica come ‘indegna’ e costitutivamente anti-democratica. In altre parole, se Bobbio rimane «in cattedra» anche negli interventi giornalistici, Zagrebelsky – secondo Confrancesco – anche quando si produce nell’analisi specialistica non cessa di esercitare la propria propaganda: «una propaganda, beninteso, legittima […] ma che come tutte le propagande che si rispettino è portata a scambiare l’opinione di uno schieramento ideologico con le tavole della legge dettate all’umanità errante dall’imperativo categorico» (Gustavo Zagrebelsky. Il Maestro (di democrazia) di color che sanno…, ibi, p. 94). Ma l’attacco di Confrancesco non si limita a rilevare un uso improprio dei concetti da parte di Zagrebelsky, perché sostiene che il pensiero del giurista si configuri come anti-liberalismo fondato su quattro pilastri: «a. un pluralismo solo di facciata; b. una concezione della democrazia sostanziale portata a delegittimare una democrazia soltanto formale e a ignorarne le buone ragioni; c. l’abbattimento dei confini tra politica, etica e diritto; d. l’imposizione di un ‘pensiero unico’ antifascista, che pone forti vincoli alla libertà di ricerca» (ibi, pp. 94-95). 
La responsabilità principale che Cofrancesco imputa a Zagrebelsky è, così, la trasformazione di una visione specifica della democrazia – quella che considera l’uguaglianza sociale come un presupposto e un obiettivo del regime democratico – nell’unica concezione legittima. «La novità della teorica giuridico-politica di Zagrebelsky», scrive, «consiste nella giuridizzazione della ‘rivoluzione democratica’: la tesi che senza uguaglianza la democrazia è un regime non è più la bandiera della rivolta, dei repubblicani risorgimentali desiderosi di abbattere gli staterelli autoritari e assolutistici della penisola e non meno avversi pure alle carte octroyées del 1848, ma, legalizzata e legittimata, è divenuta l’anima della Costituzione italiana» (ibi, p. 99). Per effetto di questa trasformazione, «la divisione tra fautori della democrazia formale e della democrazia sostanziale non ha più senso», perché «l’ideologia del regime repubblicano antifascista esclude, infatti, ogni altra filosofia della cittadinanza e dello Stato, che nella democrazia veda ‘il sistema politico degli uomini così come sono, non così come dovrebbero essere» (ibidem). La realizzazione della democrazia –come viene intesa da Zagrebelsky, ma anche da Ferrajoli – si inscrive così, secondo la lettura polemica di Cofrancesco, nella linea di un progresso sostanzialmente inevitabile, col risultato che tutti quanti sostengono una visione differente vengono a configurarsi come alfieri della reazione, più che semplicemente della conservazione:

«A volerne individuare la natura più profonda, l’idea di democrazia, che hanno in mente Zagrebelsky e i filosofi del diritto e della politica che in lui si riconoscono, è quella di una locomotiva, senza freni e senza marcia indietro, che corre sui binari del progresso dei popoli: il macchinista può, tutt’al più decelerare – di qui il riconoscimento della funzione talora utile svolta dai riformisti e dai ‘moderati’ – ma non deve mai dimenticare che ‘chi si ferma è perduto’ e che ‘indietro non si torna’. Ne deriva, implicitamente, una delegittimazione sostanziale della destra e del pensiero conservatore: i cittadini sono tenuti a partecipare per innovare, per ‘andare avanti’, per arricchire il catalogo di diritti ma qualora intendessero ritornare su certe decisioni: alleggerire, ad es., il carico di prestazioni sociali dello Stato o proporre l’abolizione di certe festività (come il 25 aprile) troverebbero la strada sbarrata dalle ‘norme primarie’ non del legittimo e diverso volere del Parlamento» (ibi, pp. 99-100).

Mentre rappresenta la Costituzione italiana come il più saldo argine a una ‘autentica’ democrazia, e mentre la ritiene ovviamente non modificabile, se non al prezzo di rinunciare in modo sostanziale alla democrazia, Zagrebelsky non farebbe però che declinare, in un senso specifico, i presupposti di fondo del pensiero azionista. Sulla scorta di questo impianto – sostiene Cofrancesco – le prospettive e i valori differenti, che puntano a una modificazione del quadro costituzionale, vengono semplicemente intesi come anti-democratici, come una minaccia alla stabilità e allo spirito di un’autentica democrazia. Ma il risultato di questa operazione – conclude – non può che distorcere la dinamica di una società realmente democratica e liberale:

«segnarli sulla lavagna dei buoni e dei cattivi significa ignorare i contrasti reali e drammatici che animano il dibattito pubblico sui valori. La censura del pensiero è sempre pessima ma lo è soprattutto nella condizione di incertezza in cui ci troviamo. Mai come oggi, la libertà di ricerca dev’essere riconosciuta in maniera incondizionata, guardandosi dall’attribuire il dissenso a ottusità reazionaria o a biechi, inconfessabili, interessi di classe o di ceto. Dispiace dirlo, ma i tempi di Norberto Bobbio sono finiti. I produttori di analisi concettuali, storiche e sociologiche che, gettando viva la luce sui fatti e sulle loro motivazioni, finiscono per essere utili non solo alla propria pars ma anche a quella avversaria, sono ormai una razza in via di estinzione. Siamo entrati nell’epoca dei profeti che vogliono infiammare gli animi ma non aprire le menti a una visione realistica e pacata del mondo nel quale ci è toccato di vivere» (ibi, pp. 109-110).

Per quanto la critica sviluppata da Confrancesco sia evidentemente animata da uno spirito polemico che va al di là del semplice livello teorico, sarebbe difficile sostenere che i rilievi che indirizza a Zagrebelsky – o quantomeno molti di questi rilievi – siano privi di fondamento. E, in particolare, sarebbe semplicistico liquidare l’attacco contro l’azionismo come il riflesso di un’avversione politica, perché il pensiero azionista ha davvero lasciato un’eredità pesante, su cui non si è probabilmente ragionato a sufficienza. Non tanto perché l’azionismo abbia generato uno schema ‘manicheo’ di interpretazione della lotta politica, quanto perché ha consolidato una lettura della storia d’Italia in cui le divisioni politiche fra destra e sinistra si sovrappongono linearmente alla contrapposizione fra ‘tradizione’ e ‘modernità’, o, meglio, fra ‘reazione’ e ‘progresso’. Ma, se in questo modo si possono effettivamente squalificare gli avversari politici come fautori di una reazione anti-storica, si perdono però, inevitabilmente, intrecci ben più complessi, che attraversano per esempio il campo liberale o lo stesso regime fascista. E, soprattutto, si finisce col deformare – in modo non secondario – la storia d’Italia.
Più in generale, e al di là dunque della specifica polemica rivolta all’azionismo da Confrancesco, Quelli che… la democrazia riesce a puntare l’indice su una serie di pregiudizi prospettici, che limitano notevolmente il potenziale di molte analisi sulla ‘crisi’ della democrazia. Effettivamente, come mostra Coli, Nadia Urbinati rischia spesso di confondere i reali regimi liberaldemocratici con la democrazia ideale di cui i filosofi hanno tracciato i contorni, con modalità peraltro spesso tutt’altro che coerenti, e perciò è inevitabile che la sua celebrazione di una democrazia partecipativa ed egualitaria non possa che apparire come una perorazione venata da forti tratti moralistici e del tutto disinteressata delle dinamiche reali del potere, dei rapporti fra economia e politica, delle dinamiche internazionali, dei conflitti sociali (ho cercato di mettere in luce alcuni di questi limiti in Quale ethos per la democrazia? I limiti dell’individualismo democratico, in «Notizie di Politeia», 2011, n. 102, pp. 27-38). Ma a un risultato non troppo diverso arriva anche Zagrebelsky, sebbene il percorso sia spesso più problematico di quanto Cofrancesco sia incline a mostrare. Per quanto il giurista sia infatti ben consapevole della complessità dei percorsi democratici, e delle concezioni della democrazia, il suo discorso appare sovente imboccare una deriva ‘moralistica’ nel momento in cui – come avviene per esempio nel recente dialogo con Ezio Mauro – tende a trascurare l’insieme dei processi storici, politici, economici, che costituiscono la cornice dello sviluppo delle democrazie occidentali, e che incidono sulla loro presente trasformazione (cfr. La democrazia dei buoni sentimenti). Un discorso invece piuttosto differente potrebbe essere svolto per analisi come quella condotta da Luigi Ferrajoli (per esempio in La crisi della democrazia italiana, cit.), ma non tanto perché non vengano colti molti dei fenomeni degenerativi che colpiscono oggi il sistema politico italiano e che vanno a inficiare l’equilibrio e la distinzione fra i poteri, quanto perché vengono implicitamente assegnati alla «democrazia costituzionale» (e, dunque, ai principi e ai vincoli previsti dalla Costituzioni del ’48) un valore e una forza che non può evidentemente conservare, in presenza di una profonda, duratura, dirompente trasformazione del quadro politico e delle forze sociali, senza che intervenga un supporto effettivamente ‘politico’ (cfr. L’ombra di Cesare. La crisi della democrazia italiana nell’analisi di Luigi Ferrajoli).
Se tutti questi limiti sono evidenziati dal fascicolo di «Paradoxa», e se dunque gli autori dei contributi di Quelli che… la democrazia hanno buon gioco nel portare alla luce i pregiudizi moralistici di quanto sostengono che la democrazia italiana sia in crisi, è chiaro però che anche un’operazione del genere ha delle controindicazioni. Per quanto la critici dei critici sia in parte motivata, in sostanza, non si può certo negare che qualcosa nelle nostre democrazie – nelle democrazie occidentali, e nella democrazia italiana – non stia cambiando realmente (e non sia cambiato negli ultimi decenni). In altre parole, per quanto la prospettiva dei critici sia spesso deformata moralisticamente, per quanto l’analisi che essi propongono sia insufficiente, per quanto i loro pregiudizi politici conducano talvolta a confondere con l’effetto con la causa, ciò non può indurre a un sereno ottimismo sulle sorti delle nostre democrazie. Perché – col rischio di eccedere sul versante di un pessimismo apocalittico – le liberal-democrazie occidentali appaiono davvero sul piano inclinato dell’era «post-americana», perché il declino egemonico statunitense (per quanto lento o fulminante possa essere) non potrà non avere conseguenze sulla fisionomia dei nostri sistemi politici e delle nostre società, e perché lo spostamento dei poli geo-economici al di fuori dell’Occidente (o del suo cuore) non potrà non indurre più di qualche lieve modificazione sugli assetti più consolidati. Ciò non significa ovviamente che il destino sia già scritto, e che i nostri nipoti guarderanno alla liberal-democrazia come a un relitto di un’età irrimediabilmente trascorsa, ma significa soltanto che non si può negare che le trasformazioni in atto incideranno sulla nostra concezione della democrazia e sulla realtà dei nostri sistemi politici. E un problema ulteriore – forse secondario, ma non del tutto irrilevante – è che ci troviamo per molti versi privi di strumenti teorici capaci di comprendere questo mutamento ‘nelle’ democrazie, per il semplice motivo che la teoria della democrazia elaborata negli ultimi sessant’anni, a dispetto degli abiti realistici che ha ostentato, si è spesso risolta in una (esplicita o implicita) celebrazione della democrazia esistente, dipinta – secondo le parole di Francis Fukuyama – come il punto di arrivo dell’evoluzione ideologica del genere umano. Non è allora casuale, che molte delle letture della ‘crisi’ debbano apparire come segnate dalla nostalgia moralistica per una democrazia che non esiste più (e che forse non è mai davvero esistita). Ma se i critici delle derive personaliste, patrimonialiste e populiste cedono al moralismo o alla nostalgia per i perduti ‘costumi dei padri’, ciò non vuol dire che delle trasformazioni non ci siano effettivamente, e che di queste trasformazioni non debbano essere comprese le motivazioni profonde e ricostruite le traiettorie. O che, addirittura, le più deleterie derive della politica contemporanea debbano essere legittimate o celebrate come normali dinamiche di una democrazia liberale.
Il titolo del fascicolo di «Paradoxa», Quelli che… la democrazia, riprende il titolo di una vecchia canzone di Enzo Jannacci, che negli ultimi anni ha registrato un tardivo successo. Pochi ricordano, che quella canzone fu inserita da Lina Wertmüller nella colonna originale di uno dei suoi film più famosi, Pasqualino Settebellezze, la storia di un viscido guappo napoletano, opportunista, sfruttattore di donne, che, con mille sordidi sotterfugi e squallide furbizie, riesce a scampare ogni pericolo, persino in un campo di concentramento nazista, per ritrovarsi alla fine in un’Italia in cui ogni dignità è perduta e in cui il commercio di se stessi è diventata la prassi.

Forse, lo sguardo con cui Zagrebelsky osserva la democrazia italiana è distorto, e forse i suoi giudizi sono orientati da una preconcetta ostilità nei confronti degli avversari politici. Ma lo ‘smascheramento’ del moralismo non può implicare una negazione la realtà. Se non al prezzo – molto più caro di quanto possa apparire – di appiattire ogni modello teorico e ogni solenne proclamazione di valore sulla legittimazione di una condizione di fatto. E di trasformare la squallida figura di Pasqualino Settebellezze nel nobile simbolo di una matura democrazia liberale.

Damiano Palano

Questo testo è ora raccolto in La dissolvenza democratica. Cronache nella crisi, un e-book che raccoglie alcuni posti apparsi sul maelstrom.

Il libro è disponibile anche in formato cartaceo.







Damiano Palano

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